Archivio del Tag ‘milizie’
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Piano Usa: guerra, per rovesciare Maduro (e frenare la Cina)
A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.A fornire gli elementi di questa analisi geopolitica è il giovane Giacomo Gabellini, redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. Gabellini è autore di diversi volumi, in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali è “Eurocrack”, sul disastro politico-economico e strategico dell’Europa, uscito nel 2015 per Anteo Edizioni. Sul sito di Arianna Editrice, ora Gabellini inquadra le grandi manovre del fronte statunitense per accelerare il collasso del regime di Maduro. «La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò – premette Gabellini – rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile, rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011». Un’analogia che emerge anche dal pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation, fino al recente embargo finanziario, al congelamento dei beni venezuelani in territorio Usa e al declassamento del debito di Caracas.Nel momento in cui il governo venezuelano ha cercato di difendersi svincolando la propria economia dal dollaro attraverso la creazione del “petro”, criptovaluta ancorata alle ricchezze minerarie ed energetiche, l’amministrazione Trump ha reagito vietando qualsiasi transazione nella nuova moneta all’interno degli Stati Uniti ed estendendo le sanzioni al settore dell’oro, minerale di cui il Venezuela è particolarmente ricco. «Una mossa, quest’ultima, che ha impedito al Venezuela di ricevere certificazioni straniere sulla qualità del proprio metallo prezioso, con conseguente interruzione o forte limitazione dei rapporti commerciali con le imprese operanti nel settore aurifero venezuelano». Simultaneamente, aggiunge Gabellini, Trump ha imposto pesanti sanzioni contro otto magistrati del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), con lo scopo di colpire quegli apparati istituzionali venezuelani ritenuti colpevoli di aver bloccato la proposta di intervento militare contro l’esecutivo, avanzata dal Parlamento controllato dall’opposizione. «In precedenza, una delegazione senatoriale Usa aveva sondato il terreno con il presidente colombiano Manuel Santos, maggiore alleato degli Usa in America Latina, per lanciare un’operazione militare congiunta atta a «permettere alla Colombia di difendersi dalle provocazioni venezuelane».Proprio in Colombia, ricorda Gabellini, staziona il più corposo contingente militare di cui gli Stati Uniti dispongano in tutto il continente. E accanto ai soldati americani operano le formazioni paramilitari di estrema destra vicine all’ex presidente Alvaro Uribe, «resesi responsabili di innumerevoli scorribande in territorio venezuelano». In quest’ambito rientrano anche operazioni sotto falsa bandiera: «In passato, alcuni miliziani colombiani erano stati arrestati dalle forze dell’ordine di Caracas con indosso divise della polizia venezuelana». Circostanze, osserva Gabellini, che rendono il ruolo svolto dalla Colombia nella crisi venezuelana «molto simile a quello esercitato dalla Turchia rispetto al conflitto siriano». Il presidente colombiano Manuel Santos ha infatti fornito «supporto attivo alle frange paramilitari annidate nella giungla colombiana in funzione anti-bolivariana». Sono le stesse milizie che, scrive l’analista, nella scorsa primavera presero d’assalto una stazione della polizia venezuelana al confine con la Colombia, «al fine di assumere il controllo di alcune aree strategicamente fondamentali per condurre operazioni di sabotaggio verso le regioni più interne».Ma le analogie con la crisi siriana non finiscono qui: già nel 2002, le forze venezuelane di opposizione tentarono un colpo di Stato contro Hugo Chavez, nel corso del quale «cecchini mai identificati aprirono il fuoco tanto sui civili quanto sulle forze di polizia, con lo scopo di invelenire il clima e destabilizzare l’ordine pubblico». Stesso schema in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010. Poi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria nel 2011, e in Ucraina nel 2014. «Tutte manovre finalizzate al cambio di regime, dietro le quali si è intravista in controluce la longa manus degli Stati Uniti». In molte di esse, il clima preparatorio era stato predisposto tramite l’infiltrazione di Ong «riconducibili a George Soros o direttamente al Dipartimento di Stato», le quali «allacciarono contatti con partiti di opposizione e gruppi organizzati». Sotto questo aspetto, aggiunge Gabellini, il caso del Venezuela appare paradigmatico, se anche una fonte insospettabile come “The Independent” è arrivata a riconoscere che «oltre ad appoggiare le forze che arrestarono Chavez nel 2002, gli Usa hanno inviato centinaia di migliaia di dollari ai suoi avversari attraverso la National Endowment for Democracy».Le manovre di Washington però non si limitano a questo, rivela Gabellini: lo conferma un documento di 11 pagine firmato già nel 2018 dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del SouthCom (Southern Command), in cui si dichiara apertamente che gli Usa «hanno già predisposto un piano operativo finalizzato al rovesciamento del presidente Nicolas Maduro». Un’analisi spietata: la tenuta della “dittatura chavista” è ormai minata da problemi interni, a partire dalla scarsità di cibo e dalla caduta dei proventi petroliferi, oltre che dalla corruzione dilagante. Ma il problema, per l’ammiraglio Tidd è che le forze d’opposizione «che combattono per la democrazia e il ripristino di livelli di vita accettabili per la popolazione» cioè gli uomini di Juan Guaidò, «non sono in grado di porre fine all’incubo in cui il paese è sprofondato». Motivo? Gli oppositori di Mauduro, secondo l’ammiraglio, scontano tra le loro fila il peso di «una corruzione comparabile a quella dei loro nemici». Corruzione che «impedisce loro di prendere le decisioni necessarie a ribaltare la situazione».Ecco perché, se questo è lo scenario, non resta che «l’entrata in scena negli Sati Uniti», sottolinea Gabellini, «per “recuperare” il Venezuela e reinserirlo nel novero dei paesi latino-americani alleati di Washington». Un club in cui hanno appena fatto ritorno nazioni di grande rilevanza, dall’Argentina del neoliberista Mauricio Macrì al Brasile del parafascista Jair Bolsonaro. Per far cadere anche il Venezuela, prosegue Gabellini, secondo il documento di Tidd, occorre «indebolire le strutture politiche su cui si basa il movimento “bolivariano” collegandole al narcotraffico», nientemeno. Poi bisognerebbe “lavorare ai fianchi” il regime di Maduro per favorire la diserzione dei tecnici più qualificati, alienandogli così il favore della borghesia di lingua spagnola, la stessa su cui fecero perno gli Usa durante il tentato golpe contro Chavez del 2002. Per Tidd, si tratta di agire «fomentando discordia e insoddisfazione popolare, minando l’ordine pubblico, lavorando per aggravare la penuria di cibo, esacerbando le divisioni interne alla struttura di potere chavista», nonché ovviamente «screditando il presidente Maduro, presentandolo come un leader incapace, degradato al grado di fantoccio di Cuba». Attenzione: è necessario anche «provocare vittime, stando attenti a far ricadere la responsabilità sul governo», e inoltre «ingigantire agli occhi del mondo le proporzioni della crisi in atto».L’ammiraglio Tidd raccomanda di far ulteriormente esplodere l’inflazione attraverso nuove sanzioni, così da incoraggiare una fuga di capitali dal paese, scoraggiare eventuali investitori stranieri e far colare a picco la quotazione della moneta nazionale. Occorre inoltre avvalersi di «tutte le competenze acquisite dagli Usa in materia di guerra psicologica», per orchestrare una campagna di disinformazione mirata a screditare le iniziative finalizzate all’integrazione continentale – quali l’Alba e il Petrocaribe – promosse da Caracas nel corso degli ultimi anni. «Tutto il necessario, insomma – scrive Gabellini – per scatenare lo sdegno della popolazione e indirizzarlo contro le autorità, secondo uno schema già palesatosi con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e anche nello stesso Venezuela». Come già nel 2002, si suggerisce di mettere in crisi il rapporto di fedeltà che lega le forze armate al governo. Come agire? Utilizzando «gli alleati interni», incoraggiandoli a «organizzare manifestazioni e fomentare disordini e insicurezza, mediante saccheggi, furti, attentati e sequestro di mezzi di trasporto, in modo da mettere a repentaglio la sicurezza dei paesi limitrofi».Dal punto di vista statunitense, continua Gabellini, esacerbare le tensioni tra il Venezuela e i suoi vicini rappresentava un fattore determinante a garantire il conseguimento del “regime change”, nel caso in cui la rivolta interna fomentata dall’estero non si rivelasse sufficiente a scalzare Maduro dal potere. Nel documento si sottolinea infatti l’importanza di approfittare del crescente attivismo dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che sta rapidamente colmando la voragine apertasi con la cessazione delle attività da parte delle Farc. Altra pedina menzionata cinicamente da Tidd: i narcos del Cartello del Golfo, utili per alimentare la tensione lungo il confine con la Colombia, «così da provocare incidenti con le forze di sicurezza schierate lungo il confine venezuelano». Occorrerebbe inoltre favorire «la moltiplicazione delle incursioni armate da parte di gruppi paramilitari», i cui ranghi dovrebbero essere rinfoltiti attraverso «reclutamenti presso i campi che ospitano i rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander», vaste aree abitate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora intendono rientrare nel loro paese.Il tutto, con l’obiettivo finale di «gettare le basi per il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio agli ufficiali venezuelani» eventualmente disertori. Fondamentale, a questo riguardo, risulta ingraziarsi «il supporto e la cooperazione delle autorità dei paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana)», ma anche organizzare l’approvvigionamento delle truppe e l’appoggio logistico, di concerto con Panama. E quindi: dislocare «aerei da combattimento, elicotteri e blindati», oltre a installare «centri d’intelligence destinati ad ospitare anche unità militari specializzate nell’ambito della logistica». Per dare una parvenza di legalità all’intervento, si suggerisce di ottenere l’avallo dell’Organizzazione degli Stati Americani e di adoperarsi affinché si stabilisca una «unità di intenti da parte di Brasile, Argentina, Colombia e Panama», paesi «la cui posizione geografica e la cui collaudata capacità ad operare in scenari non convenzionali come la giungla assumono un’importanza capitale». La dimensione internazionale dell’operazione «verrà rafforzata dalla presenza di forze speciali Usa, che andranno ad affiancarsi alle unità da combattimento degli Stati summenzionati». È bene, a questo proposito, «far sì che le operazioni scattino prima che il dittatore abbia il tempo di consolidare il proprio consenso e il controllo sullo scacchiere interno».Tutto ciò, osserva Gabellini, si inscrive alla perfezione nel disegno strategico dell’amministrazione Trump, «che ambisce in tutta evidenza a riportare saldamente l’America Latina nella sfera egemonica statunitense attraverso l’appoggio a tutta una serie di clientes locali». Tra questi Lenin Moreno (Ecuador), Enrique Peña Neto (Messico) e Luis Almagro (Uruguay), oltre ai già citati Macrì e Bolsonaro. Attori continentali «con i quali concordare il ripristino di una sorta di nuova Operazione Condor rivisitata e corretta». Affidando le redini del potere nei vari Stati dell’America Latina a questi nuovi e ben più concilianti interlocutori, aggiunge Gabellini, Washington «prevede di realizzare un’integrazione economica su scala continentale, concepita appositamente per contrastare la penetrazione cinese». Ecco il punto: negli ultimi anni, osserva l’analista, la Cina ha infatti investito qualcosa come 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua. Sarebbe in grado di rivaleggiare con quello di Panama, controllato dagli Stati Uniti. Pechino ha inoltre messo in cantiere una ferrovia per collegare Pacifico e Atlantico attraverso Brasile e Perù.Un anno fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha presenziato al vertice annuale della Communiy of Latin American and Caribbean States tenutosi a Santiago del Cile, per estendere ai 33 Stati membri l’invito a partecipare al progetto della Belt and Road Initiative, con lo scopo di «costruire collegamenti attraverso il continente, farli convergere verso le coste affacciate sul Pacifico e agganciarli ai porti locali da cui si diramano le linee di rifornimento marittimo verso la costa cinese». Una sorta di “Via della Seta Pacifica”. Nessuna competizione geopolitica, aveva sostenuto Wang Yi: «Il progetto è conforme al principio di raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione». Ma gli Stati Uniti non sono dello stesso avviso. Dal canto suo, l’ammiraglio Tidd ha ricordato a una commissione del Senato che la Cina ha già investito 500 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo dell’America Latina, e ha in programma di mettere sul piatto altri 250 miliardi entro il 2030. Tidd ha inoltre aggiunto che «la più grande sfida strategica posta dalla Cina in questa regione non è ancora una sfida militare: è una sfida di tipo economico, che potrebbe richiedere un nuovo approccio da parte nostra, che ci permetta di affrontare efficacemente gli sforzi coordinati della Cina nelle Americhe».La raccomandazione di Tidd, accolta con entusiasmo da Trump, secondo Gabellini era quindi quella di rispolverare e riadattare alle esigenze del momento la cara, vecchia Dottrina Monroe, che all’epoca in cui fu enunciata (1823) contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza europea. «Oggi, a differenza di allora, si tratta di sbarrare alla Cina la porte dell’America Latina, attraverso il collegamento di quest’ultima alla comunità economica nordamericana costituita pochi mesi fa con la radicale ristrutturazione del Nafta». In questo senso, conclude l’analista, «lo scatenamento del caos in Venezuela si configura come una tappa cruciale in vista della “risistemazione” definitiva dell’America Latina». In altre parole: il governo Maduro sembra avere le ore contate. Si trova nei guai anche per gravi errori nella sua gestione della politica economica. Ma il giorno che cadesse, non sarà per un moto spontaneo del popolo venezuelano ridotto all’esasperazione: i piani sono pronti – e non da oggi – per tornare a far sventolare la bandiera americana sul paese dove crebbe, a furor di popolo, il sogno indipendentista di Hugo Chavez.A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.
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Maduro o Guaidò, cioè peste o colera: guerra civile in vista
Come era prevedibile e previsto, la crisi venezuelana è arrivata al punto di precipitazione e siamo ad un passo da una sanguinosissima guerra civile. Le responsabilità maggiori sono senza dubbio quelle di Maduro: quando uno dei massimi produttori mondiali di petrolio è alla fame, ma quella vera, dove non si mangia, dove la mortalità infantile è cresciuta in 5 anni del 30%, dove non si trovano medicinali e un salario mensile basta a comprare 2 chili di farina, non ci sono dubbi di sorta: la responsabilità è del governo che ha fatto una politica economica da dementi. All’inizio c’è l’errore storico di Chavez: aver dimensionato un welfare sostenibile solo con il barile di petrolio a 90-100 dollari. Non venne speso nulla dei profitti sia per rinnovare ed aggiornare gli impianti e meno ancora per avviare altre produzioni che potessero compensare il ribasso del petrolio, esportazione pressoché unica del paese, salvo modestissime entrate garantite da Rum e cioccolata. Pochissimo tempo dopo venne il prevedibile crollo del prezzo del petrolio che, già a quota 65, costringeva ad emettere sempre nuove quote di debito pubblico, e il debito costa. Altro errore storico di Chavez fu la sottovalutazione di fenomeni come la corruzione e il contrabbando, che minavano il paese. Ma furono errori che probabilmente lui, persona fondamentalmente onesta e di fede democratica, avrebbe cercato di correggere, facendo leva sul suo carisma e non certo mandando l’esercito in piazza a sparare sulla gente.Ma la prosecuzione su questa strada, dopo la sua morte, fu un crimine. E le scelte economiche di Maduro (a cominciare dal delirante accordo sottoscritto con le banche americane per il rinnovo dei titoli di debito che ha svenduto le esportazioni petrolifere, e a proseguire con la demenziale politica monetaria che ha superato di slancio il precedente di Weimar) hanno peggiorato drammaticamente la situazione. Maduro è un incapace privo del benché minimo carisma, di nessuna tempra morale e interessato solo al mantenimento del potere, per il quale non ha esitato a far sparare sul suo popolo. Di fatto, man mano, la base vera del suo potere sono stati esercito e polizia, entrambi corrottissimi e in stretti rapporti d’affari con il contrabbando. Questo non vuol dire che il regime non abbia un suo consenso: ci sono i beneficiati, poi i seguaci ideologicamente fedeli al chavismo e incapaci di vedere i guasti del governo e il sostanziale tradimento dell’eredità di Chavez. E poi, ovviamente la malavita, i contrabbandieri e i corrotti del partito e dell’amministrazione. E su questa base, e con una buona dose di brogli, Maduro è riuscito a mantenersi al potere, non arretrando neppure di fronte al colpo di Stato segnato dalla cosiddetta riforma costituzionale che ha abbattuto la Costituzione bolivariana voluta da Chavez.Maduro è indifendibile perché è un piccolo dittatorello latinoamericano, un incapace alla testa di una banda di corrotti e di delinquenti che, al bisogno, sono pronti a fare da squadristi. Dunque nessun rimpianto per una sua augurabile caduta. Il guaio è che l’alternativa è rappresentata da questo giovanotto di belle speranze che è Guaidò. Del personaggio sappiamo poco e l’aspetto e l’eloquio ce lo presentano come il fratello meno intelligente di Macron, che a sua volta è il fratello meno intelligente di Renzi. Ma, detto questo, non ci vuole molto a capire che è la marionetta dietro cui ci sono gli Usa. Washington ha sempre riservato uno speciale odio al Venezuela sin dai tempi di Chavez, e ora aspira a due cose: la caduta dell’ultima roccaforte di sinistra del continente meridionale (salvo Uruguay e Bolivia) e la privatizzazione dei pozzi petroliferi del paese (e indovinate chi li acquisterebbe…). Quindi, Guaidò non è affatto una alternativa desiderabile. Occorrerebbe un governo di transizione affidato né a Guaidò né tantomeno a Maduro, capace di raffreddare il clima, consentire la riorganizzazione del sistema politico del paese con una sinistra non madurista e una destra nazionale non serva degli Usa, per far fronte alle urgenze alimentari e sanitarie del paese con un adeguato piano di aiuti internazionali, e poi andare a votare entro un anno o un anno e mezzo. E magari la mediazione potrebbe essere svolta dalla Chiesa che, sin qui, è il soggetto che si è comportato con maggior equilibrio nel paese.Beninteso: Maduro dovrebbe andare in esilio e farsi dimenticare. Ma, se questa potrebbe essere la soluzione più auspicabile, non è il caso di farsi illusioni e, di fatto, le alternative più probabili sono due: il passaggio dei militari armi e bagagli dalla parte di Guaidò (i corrotti non sono difficili da convincere, se gli si garantisce di poter continuare nei loro traffici) oppure una guerra civile fra le milizie maduriste e l’esercito da una parte e le milizie dell’opposizione debitamente armate, magari con l’appoggio di una forza multinazionale di “interposizione” fatta da brasiliani, colombiani e altri sudamericani. E in questo caso, chiunque vinca, dobbiamo sapere che seguirà uno spaventoso bagno di sangue. Poco male se questo significasse la fucilazione di Maduro e dei suoi gerarchi (che il tiranno sia fucilato è cosa piuttosto comune, e tutto sommato positiva); il guaio è che il massacro si estenderebbe alla base dei perdenti, di qualunque schieramento si tratti. E’ triste dirlo, ma temo che le speranze di una soluzione diversa siano ridotte al lumicino.(Aldo Giannuli, “Maduro o Guaidò? Come scegliere fra peste e colera, ma ormai la guerra civile è alle porte”, dal blog di Giannuli del 5 febbraio 2019).Come era prevedibile e previsto, la crisi venezuelana è arrivata al punto di precipitazione e siamo ad un passo da una sanguinosissima guerra civile. Le responsabilità maggiori sono senza dubbio quelle di Maduro: quando uno dei massimi produttori mondiali di petrolio è alla fame, ma quella vera, dove non si mangia, dove la mortalità infantile è cresciuta in 5 anni del 30%, dove non si trovano medicinali e un salario mensile basta a comprare 2 chili di farina, non ci sono dubbi di sorta: la responsabilità è del governo che ha fatto una politica economica da dementi. All’inizio c’è l’errore storico di Chavez: aver dimensionato un welfare sostenibile solo con il barile di petrolio a 90-100 dollari. Non venne speso nulla dei profitti sia per rinnovare ed aggiornare gli impianti e meno ancora per avviare altre produzioni che potessero compensare il ribasso del petrolio, esportazione pressoché unica del paese, salvo modestissime entrate garantite da Rum e cioccolata. Pochissimo tempo dopo venne il prevedibile crollo del prezzo del petrolio che, già a quota 65, costringeva ad emettere sempre nuove quote di debito pubblico, e il debito costa. Altro errore storico di Chavez fu la sottovalutazione di fenomeni come la corruzione e il contrabbando, che minavano il paese. Ma furono errori che probabilmente lui, persona fondamentalmente onesta e di fede democratica, avrebbe cercato di correggere, facendo leva sul suo carisma e non certo mandando l’esercito in piazza a sparare sulla gente.
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Tutte le altre stragi, senza nessuna Giornata della Memoria
E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».Il genocidio africano prosegue nel ‘900 «per opera di fantocci dell’Occidente e delle multinazionali che controllano i territori delle risorse minerarie attraverso l’intervento del protettorato franco-statunitense del Ruanda e l’uso di milizie tribali». Ma l’Italia non è da meno, ricorda Grimaldi: «Mussolini, nella guerra d’Etiopia, fa uccidere da Graziani e Badoglio 280mila abissini, 5 milioni di buoi, 7 milioni di ovini, 1 milione di cavalli, 700mila cammelli». Vengono bruciate 2.000 chiese e distrutte 525.000 case e capanne. L’Italia perde 4.350 militari, coscritti o volontari. Per «colonizzare il Sud Tirolo» e assicurare all’Italia Trento e Trieste, «che l’Austria è pronta a cedere se l’Italia non dovesse entrare in guerra», il potere industriale e bancario italiano «commissiona al governo Salandra e al re Vittorio Emanuele III l’ingresso in guerra». Nel primo conflitto mondiale «cadono 600mila italiani, perlopiù contadini e operai, molti fucilati dai propri ufficiali». Di fatto, annota Grimaldi, «scompare una generazione». Poi c’è la pagina nera della decolonizzazione del Nordafrica, cui la Francia si oppone strenuamente all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: «Nella guerra d’Algeria il regime colonialista francese rinchiude 3 milioni di algerini in campi di concentramento, della tortura e dello stupro».Il bilancio della carneficina algerina è terrificante: «Un milione di algerini, su 10 milioni scarsi di abitanti, viene ucciso». Grimaldi calcola che un altro milione di persone, composto da «tedeschi antinazisti», fosse stato ucciso dal regime di Hitler tra il 1933 e il 1940. Aggiunge: «Vogliamo parlare di Palestina 1945-2019?». Di tutte le stragi divenute croniche, quella ai danni dei palestinesi è la più “invisibile”, sui media che celebrano il ricordo della Shoah. L’argomento resta controverso: se da una parte si contesta il fatto che la memoria sia “obbligatoria” solo per l’ecatombe di Auschwitz, dall’altro vale ricordare che soltanto lo sterminio nazista degli ebrei sia stato così meticolosamente progettato e realizzato, e per motivi dichiaratamente “razziali”: tutte le altre stragi, sostengono gli storici, hanno avuto motivazioni diverse, più tristemente “convenzionali” (geopolitica, imperialismo, economia, nazionalismo). Solo nel caso del nazismo, si sottolinea, il motore del genocidio fu l’odio, alimentato dal fanatismo ideologico della “purezza razziale”. A Grimaldi non basta: lo indigna il fatto che non si celebri nessuna “giornata della memoria” per tutte gli altri abissi di abominio. «Ci fermiamo qui – conclude – con un pensiero al bambino che, oggi, ogni 3 secondi muore di fame e malattia nel mondo per il modo di gestire l’umanità da parte dell’Occidente (il primo servizio su questo infanticidio planetario del capitalismo lo feci nel 1992 per il Tg3)».E’ possibile celebrare la Giornata della Memoria per ricordare, tra tutti i genocidi della storia recente, solo quello nazista ai danni degli ebrei? Se lo domanda implicitamente un ex giornalista della Rai come Fulvio Grimaldi, nell’elencare – il 27 gennaio, sulla sua pagina Facebook – moltissime altre pagine atroci che hanno costellato il Novecento. «Il maresciallo Rodolfo Graziani massacra la Libia, occupata e seviziata dal 1911, e uccide seicentomila libici, tra civili e partigiani della resistenza, un terzo della popolazione», e poi «brucia centinaia di villaggi, bombarda centri abitati e carovane, avvelena i pozzi, impicca centinaia di libici, tra cui l’ottantenne leader della Resistenza, Omar al Mukhtar». Gli Stati Uniti, dal 1945 ad oggi, «iniziando con l’invasione della Corea e poi del Vietnam e poi proseguendo con la storica media di una guerra d’aggressione all’anno, con colpi di Stato, guerre civili innescate ad arte, sanzioni genocide», di fatto «uccidono 50 milioni di persone nel mondo». Nel solo Vietnam sono uccisi 3 milioni di civili, mentre gli effetti del napalm e dell’agente Orange continuano a far nascere e morire decine di migliaia di bambini deformi. Dagli Usa all’Europa: «Re Leopoldo del Belgio, occupante colonialista del Congo, provoca la morte di 20 milioni di congolesi».
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Senza Catalogna, la Spagna crolla: rischio bagno di sangue
Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.A differenza dei Paesi Baschi, «che hanno smesso di combattere solo dopo aver ottenuto l’indipendenza economica grazie a 35 anni di guerra», Barcellona quell’indipendenza se la può sognare, scrive l’analista di “Scenari Economici”, ricordando che ad aprire la vertenza fu José Maria Aznar, «che per governare si mise in coalizione coi catalani dovendo concedere l’indipendenza culturale, la lingua e il decentramento amministrativo, ma non quello economico». Poi i catalani «non servirono più», e rimasero in un angolo fino al 2006, quando il nuovo premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero, «con un mix di idealismo progressista unito al solito calcolo politico», fece nuove concessioni alla Catalogna. Ma attenzione: lo fece «in periodi di vacche grassissime». Per legge e con approvazione parlamentare, Zapatero concesse a Barcellona «anche l’indipendenza economica a termine, un po’ come accaduto in Italia con l’Alto Adige». Tradotto: i catalani potevano «tenersi la maggior parte delle tasse pagate nella regione». All’epoca, ricorda Jesus de Colon, «l’economia spagnola scoppiava di salute, dunque i calcoli dicevano che la baracca sarebbe rimasta in piedi comunque».Poi è arrivata la tremenda crisi finanziaria mondiale, e nel 2010 la Corte Costituzionale ha annullato l’autonomia fiscale catalana: «Se non l’avesse fatto la Spagna sarebbe fallita», scrive “Scenari Economici”. Da quel momento «l’irredentismo catalano iniziò a decollare», per ragioni «squisitamente economiche». Ovvero: la Catalogna oggi vuole tornare a tenere per sé le proprie tasse, a maggior ragione dopo la crisi dei mutui sub-prime, per uscire dalla quale «Madrid ha obbligato tutti i lavoratori spagnoli a tirare la cinghia». E ora, visto che a Barcellona e dintorni i turisti affluiscono in massa, in una situazione che ha «costi europei ma stipendi spagnoli», la conclusione è quella che sta andando in scena: la ribellione. Secondo Jesus de Colon, le possibili soluzioni sono tre: Madrid si “suicida” finanziariamente lasciando le tasse a Barcellona, oppure ottiene in cambio importanti sgravi dall’Unione Europa, o più probabilmente – terza ipotesi – annulla l’autonomia catalana proedecendo con la più brutale repressione del separatismo. La prima ipotesi è pura fantascienza: senza i soldi di Barcellona, tutti gli spagnoli sarebbero costretti a ridurre ulteriormente il già declinante tenore di vita. Ma anche il Piano-B sarebbe poco realistico, perché incoraggerebbe altre disgregazioni in Europa.Anche se l’Ue permettesse a Madrid ulteriori sforamenti di bilancio, non ci sarebbe più una situazione di equilibrio: i conti spagnoli non starebbero più in piedi come prima dell’ipotetica indipendenza catalana, «soprattutto in presenza di un eventuale neo-paese vicinale, appunto la Catalogna indipendente, che inevitabilmente si svilupperebbe molto di più della madrepatria». E in tal caso, aggiunge Jesus de Colon, anche l’Italia e la Grecia potrebbero accampare ulteriori pretetese di flessibilità nel bilancio, sulla falsariga della flessibilità spagnola. Di consegenza, l’analista considera di gran lunga più probabile la terza ipotesi – la repressione – vista «l’impossibilità materiale di Madrid di concedere i soldi (e il benessere) che i catalani di fatto pretendono». Per Madrid sarà inevitabile «soddisfare gli istinti “idealistici” castigliani», ovvero «i principi poco mediabili ereditati dal franchismo», con il mantenimento dello status quo: la Spagna unita. «In tal caso inevitabilmente ci sarà repressione». La misura della violenza? «Dipenderà dalla volontà di Barcellona di accettare la sconfitta: che dovrà essere piena». Il problema, chiosa l’analista, «sta nel fatto che un popolo, quando annusa la libertà e soprattutto quando gli viene fatto ben capire che è nel suo interesse, non viene mai veramente sconfitto: a meno di usare la forza bruta o di trucidarlo».Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.
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Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama
La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forze Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
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Perso l’Isis, gli Usa puntano sui curdi per restare in Siria
Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».E’ l’ennesima prova del vero volto della guerra siriana, dove l’Occidente ha sfruttato le prime proteste contro Assad, sul modello della “primavera araba”, per incunearsi in Siria – cioè a ridosso dell’Iran – con feroci milizie islamiste, finanziate e protette da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, nonché Arabia Saudita e Qatar, con il supporto occulto di Israele e lo sfrontato appoggio logistico della Turchia. Il modello operativo: lo stesso della Libia, da cui sono stati fatti affluire molti reparti impiegati contro Gheddafi. Variante: in Siria, dopo la prima versione della guerriglia, targata “Esercito Siriano Libero”, si è passati direttamente al regime terroristico dell’Isis, fino all’impiego di armi di distruzione di massa come il gas Sarin impiegato nella strage di civili alla periferia di Damasco nel settembre 2013. Sviluppi che hanno consentito a Putin di intervenire direttamente, coi bombardieri installati sul suolo siriano. Da qui l’abbattimento del Sukhoi-24 ad opera di un F-16 turco e, pochi mesi dopo, il fallito golpe ad Ankara che ha ribaltato i giochi: oggi, infatti, lo stesso Erdogan stringe la mano a Putin e annuncia che la Turchia si farà garante dell’integrità territoriale della Siria, cioè il paese che proprio i turchi – più di ogni altro – hanno contribuito a devastare, attraverso le armate dell’Isis.Il punto-chiave della svolta, riassume Blondet, sono i combattimenti ora in corso nel nord, ad Hasakah, tra le truppe siriane e la milizia curda dell’Ypg, spalleggiata da centinaia di commandos americani. Una situazione come quella di Aleppo, ma rovesciata: l’esercito siriano occupa la città, ma è circondato dalle milizie curde. Lo Ypg ha intimato ai “regolari” di abbandonare Hasakah, dove l’esercito di Assad è il solo protettore della grossa minoranza cristiana (assira), che teme di dover subire una pulizia etnica se i curdi avessero la meglio. Secondo Blondet, Hasakah potrebbe diventare una delle città del futuro Stato curdo, secondo un programma ben collaudato: “sfratto” delle minoranze e «plebiscito per l’appartenenza allo Stato curdo prossimo venturo, garantito da Usa e Sion». La milizia curda «è assistita dagli americani con la scusa che “combatte lo Stato Islamico” – che nella zona non c’è: combatte invece l’armata legittima di Damasco». I giochi si sono fatti pericolosi quando l’aviazione siriana – intervenuta per aprire vie di rifornimento al suo esercito assediato – ha quasi colpito i militari americani che sostengono l’assedio curdo.Gli aerei di Assad, scrive Blondet, hanno bombardato le posizioni Ypg: nel corso della missione aerea – accusa il Pentagono – poco è mancato che le truppe americane venissero colpite. Reazione immediata: caccia F-22 sono stati lanciati all’inseguimento dei bombardieri siriani. «Il Pentagono ha accusato Mosca, che ha risposto di non entrarci nel bombardamento di Hasakah». Ma, invece di appianare la situazione, «gli americani si sono impegnati in una gravissima escalation, di fatto minacciando di abbattere gli aerei che sorvolano Hasakah, russi o siriani che siano». In base al diritto internazionale, continua Blondet, non c’è alcuna base legale alla presenza di forze armate Usa in Siria. «Per questo, quando l’Air Force (dice) di aver cercato di contattare le forze siriane che stavano colpendo i militari americani sul terreno, Damasco ha ignorato il richiamo – altrimenti sarebbe stato ammettere che gli Usa sono un nemico occupante. Per tutta risposta, il Pentagono – invece di sloggiare le sue truppe da Hasakah, ne ha rafforzato il contingente».L’enormità della situazione, aggiunge Blondet, è stata rilevata dal giornalista tedesco Thomas Wiegold, che ha twittato: “Come? Ora gli Usa praticano il divieto di operare alle forze di un paese sul suo territorio?”. «Il punto è che il voltafaccia di Erdoğan ha messo in grave pericolo la promessa fatta da Usa e Israele ai curdi, di ritagliare per loro uno Stato indipendente (e loro satellite) nella zona tra Turchia, Siria, Iraq e Iran», osserva ancora Blondet. «Erdoğan si è recentemente pronunciato, in inaudita coordinazione con Teheran per “il mantenimento dell’integrità territoriale della Siria”, di cui quindi Turchia e Iran si fanno garanti (insieme ai russi e a Pechino): quindi nessuno smembramento della Siria per linee etniche e religiose; capendo finalmente che la Turchia, dal progetto, ha solo da perdere – un terzo del suo territorio, abitato dai curdi». Lo ha ripetuto qualche giorno fa il nuovo primo ministro turco Yildirim: «Nei prossimi sei mesi giocheremo un ruolo più attivo in Siria, voglio dire non permetteremo che la Siria sia divisa secondo linee etniche: ci assicureremo che il suo governo non sia basato su etnie».Il fatto è che l’anno scorso, i rappresentanti della regione curda (già autonoma sotto la Costituzione siriana) hanno elevato un annuncio di federalizzazione: annuncio unilaterale, non concordato e incostituzionale – su aperta istigazione statunitense. Gli Usa hanno fornito ai secessionisti «addestramento, armi, munizioni e 350 milioni di dollari “per combattere l’Isis”». La traduzione di Blondet: «Ormai è chiaro che, per i neocon che hanno occupato la politica estera Usa, i trattati internazionali sono stracci di carta: la forza è la sola “ragione”», inlcusa la pulizia etnica. «Oltretutto, i folli sentono l’urgenza frenetica di contrastare i successi di Mosca nell’area, di “far pagare un prezzo a Putin e ad Assad”; recuperare il danno inferto ai loro progetti da Erdoğan e vendicarsi di lui». A questo servirebbe la promessa fatta ai curdi, che lottano da decenni – soprattutto in Iraq e in Turchia – per il loro diritto a esistere, come popolo. Washington oggi ne impugna la causa, in modo evidentemente strumentale. E pericoloso: dietro alla Siria ci sono Mosca, Teheran e Pechino. «L’orribile attentato di Gaziantep, che ha sterminato più di cinquanta curdi partecipanti al matrimonio di un capoccia locale, capo del partito curdo rappresentato ad Ankara, si deve situare in questo quadro», conclude Blondet. «Naturalmente Erdoğan ha accusato l’Isis (ha imparato dagli americani); i curdi presenti hanno accusato Erdoğan. Non senza ragione, credo. Nella gara all’escalation irresponsabile, i neocon non sono i soli».Persa la possibilità di rovesciare Assad e conquistare la Siria, a causa del sostegno che Russia e Iran hanno fornito a Damasco, ora gli Usa puntano sui curdi, fino a ieri massacrati dai jihadisti dell’Isis protetti da Erdogan. Per lo Zio Sam, che ha perso il primo round ed è entrato in rotta anche con la Turchia, i combattenti del Kurdistan siriano – che hanno aiutato Assad a respingere l’Isis, assistiti dai russi – ora per Washington diventano la possibile “mossa del cavallo”, grazie alla promessa di una repubblica indipendente che Damasco non può garantire, e che getterebbe nel panico la Turchia. «Buttata la maschera, l’America minaccia militarmente Siria e Russia», avverte Maurizio Blondet: «Ammette di avere sul territorio siriano commandos e truppe americane che combattono contro il governo di Damasco a favore dei separatisti curdi; crea un “no-fly zone” di fatto sulla particella di territorio siriano che ha promesso ai curdi di rendere indipendente». Il generale Stephen Townsend, comandante delle forze Usa in Iraq e Siria, è esplicito: «Abbiamo informato i russi di cosa siamo pronti a fare: ci difenderemo se minacciati».
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Verità proibita in Europa, la vergogna dell’arresto di Chiesa
Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.E’ abbastanza evidente, dice, il maldestro tentativo di impedire a un cittadino europeo di esprimere le proprie idee e raccontare le verità che conosce. «Questa – aggiunge Giulietto Chiesa dopo il rilascio – non è certo l’Europa che sognava Altiero Spinelli». Il “decreto di espulsione” dall’Estonia, scrive Pino Cabras su “Megachip”, il newsmagazine web fondato da Chiesa, sarebbe stato «emanato ad personam» dal governo di un paese membro dell’Unione Europea, «senza nessuna accusa formulata in nome di una qualche fattispecie di reato». Quindi, «si è voluto colpire un cittadino di quella stessa Unione Europea, una personalità pubblica nel pieno dei suoi diritti politici e di parola, da sempre proclamati come il miglior primato dell’Europa». In teoria, aggiunge Cabras, tutti hanno quei diritti, «ma vengono usati poco e sempre meno», anche perché «per i diritti funziona al contrario dei vestiti: meno li usi più si sgualciscono». Giulietto? «Indossa invece tutte le sfumature del diritto di parola e perciò mostra la veste integra della libertà, che spicca in mezzo a un sistema dell’informazione ormai agli stracci».Vent’anni prima che diventasse popolare la denuncia della disinformazione di massa organizzata in modo sistematico del mainstream, Giulietto Chiesa ne ha fatto una ragione di vita: «Non sappiamo nulla di quanto avviene attorno a noi, perché non ce lo dicono, e se non sappiamo nulla potrebbe accadere di tutto, al riparo dalla verità». Durissime le denunce sulla Guerra del Golfo, costruita con le false accuse contro Saddam, e sui crimini di Israele verso i palestinesi. E poi la mattanza nei Balcani, i bombardamenti “umanitari” per il Kosovo, le atrocità della guerra in Cecenia: tra i pochissimi, Giulietto Chiesa, a denunciare la Russia per la guerra nel Caucaso, “organizzata” direttamente dal Cremlino per creare un fronte interno in grado di fabbricare consenso a beneficio del pericolante “zar” privatizzatore Boris Eltsin. In contatto con Gino Strada e la struttura di “Emergency”, Giulietto Chiesa è stato il primo giornalista italiano – tra i primi al mondo – a entrare a Kabul nella primavera 2002, durante la “liberazione” dai Talebani, nel corso dell’offensiva dell’Alleanza del Nord scatenata per “punire” Al-Qaeda all’indomani del super-attentato dell’11 settembre 2001, rispetto al quale – oggi è accertato – il network terroristico di Bin Laden non ebbe alcuna responsabilità.«Giulietto Chiesa mente», scrisse l’agenzia sovietica “Tass” ai tempi dell’Urss, sperando di liberarsi dell’allora corrispondente de “L’Unità”, ritenuto scomodo perché sincero, non allineato al potere. Fu Berlinguer in persona, ricorda Chiesa, a chiarire al Cremlino che il giornale non lo avrebbe sostituito. Un’autorevolezza, quella di Chiesa, che gli ha consentito di collaborare per lunghi anni coi maggiori organi d’informazione italiani, da “La Stampa” ai telegiornali Rai e Mediaset. Stretto collaboratore di Mikhail Gorbaciov a partire dagli anni ‘90, Chiesa ha condiviso l’impegno del “padre della perestrojka” per sviluppare una visione multipolare del mondo, archiviata la guerra fredda. Ma la storia s’è rimessa a correre in direzione contraria: la “guerra infinita”, innescata proprio dall’11 Settembre, ci ha regalato un conflitto dopo l’altro. «La peggiore arma di distruzione di massa è la menzogna», dice Chiesa. «Proprio sulla manipolazione della verità si basa la preparazione di ogni guerra di aggressione: tutte guerre asimmetriche, ormai, particolarmente sanguinose, non più tra eserciti contrapposti ma tra milizie e popolazioni civili». In crisi, Giulietto Chiesa, anche con la sinistra, da cui pure proviene: «La sinistra – dice – non ha “visto” il rivolgimento epocale in corso, l’affermarsi delle grandi oligarchie finanziarie che hanno piegato la politica al loro volere. E se la politica democratica sparisce, non abbiamo più difese».Le ultime grandi battaglie civili l’hanno condotto, ancora una volta, nell’ex Unione Sovietica. Prima nell’Ossezia del Sud, aggredita dalla Georgia armata dalla Nato su ordine di Bush. E poi nell’Ucraina sfigurata dal golpe di Kiev, orchestrato da Washington e affidato alla manovalanza neonazista che ha sparato sulla folla di piazza Maidan e assassinato più di cento inermi alla “casa dei sindacati” di Odessa, provocando la secessione della Crimea. Poi, a seguire, i bombardamenti indiscriminati sulla popolazione civile del Donbass “ribelle”. Tutti episodi documentati e filmati, ma oscurati dal mainstream occidentale secondo cui l’aggressore è il vecchio nemico, l’Orso russo, incarnato oggi da quel Putin a cui non si perdona di non volersi “arrendere” al dominio occidentale. «Il mondo sta cambiando e cambierà sempre più in fretta», ha avvertito Pepe Escobar di “Asia Times” al simposio organizzato a Roma da Giulietto Chiesa il 12 dicembre. «Il problema – ha aggiunto Marcello Foa, opinionista del “Giornale” e a allievo di Indro Montanelli – è che l’opinione pubblica occidentale non se rende conto, perché i media non la informano».L’attività più recente di Giulietto Chiesa, la direzione della web-tv “Pandora Tv”, impegnata a svelare i torbidi retroscena della crisi ucraina, gli è probabilmente costata l’inaudito arresto a Tallinn, in quel Baltico dove il risentimento contro l’ex “padrone imperiale” sovietico è ancora così forte da armare violente discriminazioni contro le minoranze russe, fino al punto da applaudire i “rivoluzionari” di Kiev che sfilano sotto bandiere con la svastica. Non è un caso, osserva Pino Cabras, che nel punire con metodi squadristici gli scomodi portatori di verità «si cominci da uno dei paesi baltici, quelli in cui, assieme alla Polonia e all’Ucraina, con la benedizione della Nato, si sta formando un cuore nero dell’Occidente: lì, in piena Europa, si sta “normalizzando” un modo di concepire l’Occidente alla maniera dell’America Latina degli anni Settanta». Per essere chiari: «È un sistema in cui le strategie militari e finanziarie le decide Washington, gli apparati repressivi sono in mano a manovalanza di ispirazione nazista, i simboli storici sono manipolati con ogni mezzo, si rimuove con la forza ogni memoria antifascista e si recuperano segni, monumenti, cimeli legati al peggiore nazionalismo. Per le idee diverse c’è la repressione».Anche in questo caso, Giulietto Chiesa aveva fiutato il pericolo con largo anticipo: si era candidato al Parlamento Europeo in una lista creata per tutelare la minoranza russa della Lettonia. E nel 2009, nel libro “Il candidato lettone”, scriveva: «Mi rendevo conto, nonostante fossi lontano, che si stava preparando un focolaio, che avrebbe presto potuto trasformarsi in un incendio. E avvertivo anche che l’informazione che arrivava da Tallinn era – per usare un eufemismo – incompleta, inadeguata, e che, per capirci qualche cosa, si doveva integrarla con le notizie che venivano da Mosca. L’esperienza mi diceva che le crisi non nascono per caso. Anche se appaiono all’improvviso, hanno sempre una gestazione lunga ed è quella che bisogna scandagliare. Sono come corsi d’acqua, che escono dagli argini all’ultimo momento. Ma è evidente che la questione non è soltanto se gli argini siano sufficientemente alti; bisogna capire perché tanta acqua sia scesa dai monti». L’acqua baltica dell’ultimo decennio, aggiunge Cabras, è quella del recupero della memoria delle SS, della persecuzione dei russi, delle ondate repressive in stile G8 di Genova, tutte raccontate nel libro, «che ancora non poteva descrivere gli sviluppi che invece nel 2014 ha poi raccontato “Pandora Tv”: la guerra ucraina, la veloce e drammatica militarizzazione Nato dell’Est europeo; l’oltranzismo dei leader di quell’area, sempre più organici ai loro burattinai d’Oltreoceano, al punto che cedono platealmente i ministeri chiave e la finanza a ministri stranieri, come in Ucraina; le stragi naziste e i villaggi bombardati dall’artiglieria, le centinaia di migliaia di profughi, l’Europa delle sanzioni autolesioniste».Su questo fiume di eventi, conclude Cabras, c’è l’alba cupa dell’Europa che va incontro alla guerra da Est, non trattenuta dall’altra Europa più a Ovest, a sua volta devastata dall’austerity del regime europeo. «Solo in un contesto simile potevano eleggere il polacco Donald Tusk come presidente del Consiglio Europeo: ai piani alti vogliono quanta più russofobia possibile». L’incredibile arresto intimidatorio e illegale cui è stato sottoposto Giulietto Chiesa a Tallinn «ci dice che il regime europeo non solo emargina le voci dissidenti ma non vuole più tollerarne l’esistenza». Per Pino Cabras, evidentemente, «il silenzio mediatico su notizie importanti non basta più alle correnti atlantiste che dominano il continente. Vedono che c’è chi non si rassegna al silenzio, mentre avverte – qui e lì per l’Europa – che bisogna fare molto chiasso, e urlare che la guerra non sarà in nostro nome». Per Giulietto Chiesa, l’arresto è anche «una lezione da imparare», perché «ci aiuta a capire che razza di Europa è quella che ci troviamo davanti ora, e che battaglia dovremo fare per cambiarla, per rovesciarla come un calzino, se non vogliamo che questa gente rovesci noi».Sbattuto in cella e tenuto in arresto per sette ore, rilasciato solo grazie al tempestivo intervento dell’ambasciatore italiano a Tallinn e del ministero degli esteri di Roma, che ha convocato alla Farnesina l’ambasciatore estone chiedendo spiegazioni: com’è possibile che un cittadino europeo – per giunta giornalista ed ex europarlamentare – venga improvvisamente arrestato nella capitale dell’Estonia senza che abbia commesso alcun reato? Le autorità di Tallinn – imbeccate dai loro “custodi” atlantici o convinte di render loro un servizio? – hanno balbettato dichiarazioni che non spiegano nulla, citando un decreto che considera Giulietto Chiesa “persona non gradita”, documento di cui però non c’è traccia. Il provvedimento sarebbe datato 13 dicembre 2014, cioè il giorno dopo il meeting internazionale organizzato a Roma proprio da Chiesa, con grandi giornalisti e autorevoli politologi russi e americani, tra cui Paul Craig Roberts, già viceministro di Regan, tutti critici con la gestione Usa della crisi ucraina. Chiesa è stato arrestato a Tallinn, dov’era invitato per un convegno, poco dopo aver rilasciato un’intervista a una televisione estone.
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Guerra all’Isis, ecco il vincitore: l’industria delle armi
Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.«I costruttori di droni avranno un bel da fare», ammette Dov Zakheim, al Pentagono con George W. Bush. Il che significa «enormi profitti per la compagnia privata General Atomics, costruttrice del drone “Predator”, il capostipite della categoria, ancora ampiamente in uso, come anche del “Reaper” di seconda generazione, progettato per portare bombe del valore di 3.000 sterline», scrive Newmyer in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”. Inoltre, per agevolare il monitoraggio di vaste aree desertiche, l’esercito potrà contare sul “Global Hawk” prodotto dalla Northrop Grumman (Noc, le cui quotazioni in borsa salgono), un drone in grado di volare ad altitudini di 50.000 piedi per quattro giorni di seguito. «Questi velivoli possono anche avere in uso il “Gorgon Stare”, un sensore sviluppato dall’azienda privata Sierra Nevada, capace di tenere sotto controllo un diametro di 4 chilometri attraverso nove telecamere».L’estendersi del conflitto rilancerebbe gli investimenti in tecnologia, sostiene Mark Gunzinger, colonnello in pensione della Us Air Force ed ex viceministro della difesa, ora in forza al Centro per le valutazioni strategiche e di bilancio: «Una delle cose che potrebbe facilitare una nuova capacità di sfondamento è un’intensificazione delle operazioni, come una più massiccia campagna aerea». Entreranno in azione anche soggetti minori che operano nel settore aereo: Zakheim ha cita la Aero Vironment (Avav), che produce velivoli telecomandati abbastanza piccoli da essere lanciati a mano (compreso il “Nano Hummingbird”, un mezzo minuscolo, che pesa meno di due pile elettriche AA). Jason Gursky, analista che si occupa di industria per Citigroup, scommette sulla Digital Globe (Dgi), azienda di satelliti il cui principale business consiste nel vendere alle agenzie federali immagini digitali “non classificate”: l’esercito le utilizzerà per localizzare gli obiettivi, man mano che estenderà il suo intervento.«Saranno comunque i produttori di armi a ottenere i maggiori benefici, soprattutto a breve termine», scrive Newmyer. «In cima alla classifica troviamo la Lockheed Martin (Lmt), produttrice del missile “Hellfire”, arma di precisione che può essere lanciata da diverse piattaforme, inclusi i droni “Predator”». Sempre secondo Zakheim, si trovano in buona posizione anche Raytheon (Rtn), che produce i “Tomahawk”, missili a lunga gittata lanciati dal mare, e General Dynamics (Gd), anch’essa operante nel settore degli armamenti. «I casi più ovvi sono ciò che io chiamo il commercio di stivali, fagioli e proiettili», dice Ronald Epstein, analista della Bank of America. In altri termini, spiega “Fortune”, «i costruttori navali non possono aspettarsi molto lavoro da questo conflitto, ma coloro che riforniscono le forze americane sono già elettrizzati dalla prospettiva di nuove ordinazioni». Gunzinger sottolinea che «le bombe di piccolo diametro possono essere un grande affare, perché un aereo può portarne parecchie in una sola uscita». Un ulteriore vantaggio, tra gli altri, per la linea di produzione della Raytheon.Zakheim stima che questa cifra potrebbe raddoppiare «se le operazioni si intensificheranno e il teatro di guerra si allargherà alla Siria, con una significativa componente di spesa per le munizioni». Avverte Newmyer: «Il costo totale di questa guerra senza fine, che probabilmente va misurata in anni piuttosto che in mesi, nessuno lo può ipotizzare. Tuttavia, nell’immediato, la Casa Bianca sta facendo pressione sul Congresso perché approvi un finanziamento di 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare i gruppi ribelli pro-occidentali in Siria. Soltanto questo potrebbe significare un supplemento di lavoro per una vasta platea di fornitori per la prima difesa, secondo l’opinione di Gursky». Sul lungo termine, dicono i lobbisti della difesa, l’America non potrà badare a spese. Si annunciano affari miliardari per l’intera filiera delle armi, con co-produzioni ramificate in tutto il mondo. Epstein cita l’Iraq ma anche l’Ucraina, la Russia e tensioni tra Cina e Giappone: «Per chi investe, il panorama di questi conflitti regionali nel mondo, almeno da un punto di vista emotivo, non può essere male».Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.
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Roberts: mentecatti europei, pagati per portarvi in guerra
Pagliacci pericolosi, pagati per mentire. Dal portoghese José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea prima del degno sostituto Juncker, fino al danese Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Obbediscono agli ordini di chi li ha piazzati al vertice: gli Stati Uniti. E l’ordine è semplice: raccontare il contrario della verità, in modo da “orientare” l’opinione pubblica grazie ai media mainstream, anch’essi “zerbini” del super-potere come i loro editori, per nulla indipendenti. E’ la dura accusa lanciata sul blog “Counterpunch” da Paul Craig Roberts, già editor e viceministro di Reagan, indignato per la criminale manipolazione delle notizie sul fronte ucraino, orchestrata dallo staff di Obama. E perché gli europei non si ribellano, visto che hanno tutto da perdere in caso di un’escalation con la Russia? Perché noi americani li paghiamo, scrive Roberts: tutti i leader europei sono stati elevati a ruoli di comando dallo Zio Sam. Grazie agli Usa hanno fatto carriera e ricevuto denaro a palate. Per questo, sono pronti a dire (e fare) qualsiasi cosa. Anche la guerra, persino contro una superpotenza nucleare.«Herbert E. Meyer, un pazzo che per un periodo aveva occupato il ruolo di assistente speciale del direttore della Cia durante l’amministrazione Reagan, ha scritto un articolo invitando all’assassinio del presidente russo Vladimir Putin», riferisce Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. Dice l’ex uomo Cia: «Se dobbiamo farlo uscire dal Cremlino con i piedi in avanti e un foro di proiettile nella nuca, non avremmo problemi». Assassinare Putin? «Come il folle Meyer spiega – ribatte Roberts – il delirio che Washington ha diffuso nel mondo non ha limiti». Lo provano, su un altro piano, le bugie di Barroso, «messo alla presidenza della Commissione Europea come burattino degli Usa». Dopo una recente telefonata con Putin, Barroso ha raccontato ai media che il capo del Cremlino avrebbe espresso la seguente minaccia: «Se volessi, potrei prendermi Kiev in due settimane». C’è da mettersi a ridere, dice Roberts: «Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la disparità tra le forze russe e ucraine sa più che bene che alla Russia basterebbero 14 ore, e non 14 giorni, per prendersi l’Ucraina».Basta ricordarsi cosa accadde all’armata georgiana «addestrata e armata da Usa e Israele quando Washington aveva piazzato i suoi bambolotti georgiani nell’Ossezia del Sud». Le forze georgiane, precisa Roberts, sono collassate sotto il contrattacco russo in appena 5 ore.In ogni caso, «Putin non ha minacciato nessuno: una minaccia non sarebbe coerente con l’intero approccio attendista di Putin alla minaccia strategica che Washington e i suoi burattini della Nato hanno mosso alla Russia in Ucraina». Il rappresentante permanente della Russia all’Ue, Vladimir Chizhov, ha detto che se la menzogna di Barroso non verrà ritrattata, la Russia divulgherà la registrazione dell’intera conversazione. «La bugia che la marionetta di Washington Barroso ha raccontato non è degna di una persona rispettabile», scrive Roberts. «Ma dove, in Europa, c’è qualcuno di rispettabile al potere? Da nessuna parte. Le poche persone serie sono del tutto fuori dai centri di potere».Al vertice c’è gente come Rasmussen: era solo il premier della piccola Danimarca, e un giorno capì che «avrebbe potuto salire oltre, diventando una marionetta degli Usa». Come? Per esempio supportando l’invasione illegale dell’Iraq. E quindi, mentendo: «Sappiamo – disse – che Saddam Hussein possiede armi di distruzione di massa». Il danese conosceva le regole: «Chi serve Washington fa carriera, e Rasmussen ne ha fatta». Osserva Craig Roberts: «Il problema del mettere in certe posizioni dei mentecatti è che essi rischierebbero il mondo per la loro carriera». Ora, secondo l’ex viceministro di Reagan, il segretario della Nato ha «messo a rischio la sopravvivenza di tutta l’Europa, occidentale e orientale», annunciando al vertice di Newport la creazione di una forza speciale di attacco capace di operazioni-lampo in Russia. Ciò che «il burattino di Washington chiama “piano di azione immediata”» è giustificato come una risposta al quello che viene definito «l’atteggiamento aggressivo della Russia in Ucraina». Tutto falso, ovviamente. Inoltre, la “forza d’attacco fulminea” di Rasmussen «verrà spazzata via così come ogni capitale europea». Aggiunge Roberts: «Che tipo di idiota provoca in questo modo una superpotenza nucleare?». Risposta: un “idiota” prezzolato, riempito di dollari e quindi ricattabile.Racconta Craig Roberts: «Il mio professore di dibattito all’università, che è diventato un alto ufficiale del Pentagono con il compito di terminare la guerra in Vietnam, in risposta alla mia domanda su come Washington faccia sempre fare all’Europa ciò che vuole ha detto: “Soldi, diamo loro soldi”. “Aiuti stranieri?”, ho chiesto. “No, diamo ai politici europei un sacco di soldi. Loro sono in vendita. Noi li compriamo, e loro ci rendono conto”. Forse – aggiunge Roberts – questo spiega i 50 milioni di dollari guadagnati da Blair, in un anno, con il suo ufficio». Facile prendersela con Mosca, inventando di sana pianta ogni accusa: «La Russia se ne è stata in disparte mentre il governo-marionetta di Kiev ha accerchiato e bombardato insediamenti civili, ospedali, scuole, e lanciato una serie costante di bugie». Putin ha persino respinto le richieste delle province ora indipendenti del Sud e dell’Est dell’Ucraina, in passato territori russi, di venire nuovamente annesse. La verità è esattamente opposta: «Sono le milizie naziste ucraine ad attaccare i civili nei territori che appartenevano alla Russia». Infatti, «molti militari ucraini hanno disertato a favore delle repubbliche indipendenti».A quei soldati disertori non piaceva l’idea di bombardare civili inermi e di combattere accanto a dei neonazisti, alcuni ripresi con la svastica stampata sull’elmetto. «L’Ucraina dell’Ovest – ricorda Craig Roberts – è la dimora delle divisioni ucraine delle SS che combatterono al fianco di Hitler. Oggi le milizie organizzate dal “Right Sector” e altri partiti politici di destra indossano la divisa delle divisioni ucraine delle SS. Queste sono le persone che Washington e l’Ue sostengono. Se i nazisti ucraini potessero vincere contro la Russia, e non possono, si rivolterebbero all’Occidente. Esattamente come l’Isis, creato da Washington, e che Washington ha sguinzagliato contro Siria e Libia. Ora l’Isis sta ricreando un Medio Oriente unito, e Washington non sembra in grado di reagire. William Binney, un ex ufficiale dell’Nsa, ha scritto alla cancelliera tedesca Angela Merkel avvertendola di difendersi dalle menzogne di Obama al summit della Nato in Galles. Gli ufficiali dell’intelligence statunitense avvertono la Merkel di ricordarsi delle “armi di distruzione di massa” irachene e di non farsi ingannare nuovamente, entrando stavolta in conflitto con la Russia».La domanda è: chi rappresenta la Merkel? Washington o la Germania? «Fino ad ora», nella vertenza con Mosca sull’Ucraina, la cancelliera «ha rappresentato Washington, non gli interessi dell’economia tedesca, non il popolo tedesco, non la Germania come nazione», sostiene Roberts, ricordando che in una manifestazione di protesta, a Dresda, una folla ha ostacolato il discorso della Merkel gridandole “kriegstreiber” (guerrafondaia), “bugiarda” e “nessuna guerra contro la Russia”. Nulla, comunque, che abbia perforato il muro dei media mainstream, silenzio e menzogna. «I media occidentali, la più grande casa chiusa del mondo, agognano la guerra». Craig Roberts denuncia il “Washington Post”, «un giornale-trofeo nelle mani del proprietario miliardario di “Amazon.com”», divenuto «un zimbello mondiale» per «le bugie di Washington» su Putin, «sbrodolate» in editoriali come quello del 31 agosto. Putin avrenne «resuscitato la tirannia» per ricostituire l’impero russo. «Come ex editore del “Wall Street Journal” – replica Paul Craig Roberts – posso dire con assoluta certezza che una propaganda di questo tipo, spacciata per editoriale, sarebbe conseguita nell’immediato licenziamento di tutte le persone coinvolte».I nostri media evitando persino di riferire quello che Kiev racconta al Fmi: e cioè che l’Ucraina non è mai stata invasa. In caso di invasione, infatti, la guerra sarebbe conclamata. E una Ucraina ufficialmente in guerra con un paese straniero non potrebbe neppure ricevere le agognate sovvenzioni del Fondo Monetario. «Ma i media occidentali non si interessano ai fatti: bastano le bugie, solo le bugie. Il “Washington Post”, il “New York Times”, la “Cnn”, “Fox News”, “Die Welt”, la stampa francese e quella inglese pregano in coro: “Per favore, Washington, dacci altre bugie sensazionali da sbandierare. La nostra circolazione ne ha bisogno. Chissenefrega della guerra e della razza umana, se in cambio possiamo avere stabilità finanziaria”». Siamo seri, aggiunge Roberts: se unità militari russe fossero davvero in azione nell’Est del paese, l’Ucraina «non esisterebbe più» e sarebbe di nuovo «parte della Russia, come secoli prima che Washington sfruttasse il crollo dell’Unione Sovietica per separarla».Piuttosto, c’è da domandarsi «quanto durerà la pazienza russa di fronte alle continue bugie e provocazioni dell’Occidente», visto che «le menzogne di Washington, insieme a quelle dei suoi bambolotti europei e dei media occidentali, rendono inutili gli sforzi della Russia per risolvere la situazione con la diplomazia e un comportamento non aggressivo». Per Roberts, «non c’è nulla che la Nato possa fare se la Russia decide che un’Ucraina nelle mani di Washington è una minaccia strategica troppo grande per i propri interessi». Niente da fare, se Mosca decissere davvero di “reincorporare” Kiev: «Qualsiasi forza d’intervento della Nato inizierebbe una guerra che non potrebbe vincere. E la popolazione tedesca, memore delle conseguenze della guerra contro la Russia, ribalterebbe il governo burattino di Washington». A quel punto, «la Nato e la Ue crollerebbero, se la Germania si staccasse dall’assurdo costrutto asservito agli interessi di Washington a spese dell’Europa». Solo allora, finalmente, «il mondo avrebbe pace».Pagliacci pericolosi, pagati per mentire. Dal portoghese José Manuel Barroso, presidente della Commissione Europea prima del degno sostituto Juncker, fino al danese Anders Fogh Rasmussen, segretario generale della Nato. Obbediscono agli ordini di chi li ha piazzati al vertice: gli Stati Uniti. E l’ordine è semplice: raccontare il contrario della verità, in modo da “orientare” l’opinione pubblica grazie ai media mainstream, anch’essi “zerbini” del super-potere come i loro editori, per nulla indipendenti. E’ la dura accusa lanciata sul blog “Counterpunch” da Paul Craig Roberts, già editor e viceministro di Reagan, indignato per la criminale manipolazione delle notizie sul fronte ucraino, orchestrata dallo staff di Obama. E perché gli europei non si ribellano, visto che hanno tutto da perdere in caso di un’escalation con la Russia? Perché noi americani li paghiamo, scrive Roberts: tutti i leader europei sono stati elevati a ruoli di comando dallo Zio Sam. Grazie agli Usa hanno fatto carriera e ricevuto denaro a palate. Per questo, sono pronti a dire (e fare) qualsiasi cosa. Anche la guerra, persino contro una superpotenza nucleare.
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Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?
Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.«Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.«Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.«Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
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Reporter senza frontiere, ora sindaco lepenista a Béziers
«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.I francesi, scrive Leonardo Martinelli sul “Fatto Quotidiano”, se lo ricordano per anni a difendere con entusiasmo e determinazione «il diritto a informare e a essere informati in tutto il mondo». Protagonista di blitz sorprendenti, Ménard: nel 2008 salì di notte in cima a Notre-Dame, a Parigi, per poi sventolare una bandiera con la scritta “Freedom in China”, in occasione del passaggio della fiamma dei Giochi olimpici di Pechino nelle strade della capitale francese. «Oggi, ecco il nuovo Ménard: sindaco di Béziers, città del profondo Sud francese, una delle più degradate e povere del paese», nel cuore della regione dove nacque la lingua d’Oc. Ménard è stato un uomo simbolo, in Francia, delle tradizionali battaglie sociali della sinistra: gli stessi francesi faticano a comprenderne la “metamorfosi”, ora che si è schierato con un partito sovranista ed euroscettico, che la gauche – francese e non solo – continua a definire “sciovinista e di estrema destra”, non volendo riconoscere il “patriottismo socio-economico” invocato dalla Le Pen, per tornare alla “sovranità democratica nazionale” contro i diktat dell’Unione Europea.Classe 1953, Ménard è nato a Orano, in Algeria. «È quindi un pied-noir, figlio di coloni dell’Algeria francese, che dovette abbandonare dopo la raggiunta indipendenza», scrive Martinelli. Famiglia di origini modeste, il padre era un sindacalista comunista che poi passò all’Oas, l’organizzazione paramilitare che voleva mantenere il dominio della Francia sull’Algeria. La madre, una fervente cattolica. «Sono elementi non secondari, se si guarda alla vita che verrà del piccolo Robert». Lasciata in fretta Orano, andarono a vivere a Béziers, nel quartiere (ancora oggi) popolare della Devèze. «Negli anni Settanta il giovane Robert aderì alla Lega comunista rivoluzionaria, per poi prendere la tessera del Partito socialista nel 1979, abbandonato, a dire il vero, poco dopo l’elezione di François Mitterrand», uno dei massimi artefici dell’attuale Unione Europea. Ménard continuò negli anni Ottanta a impegnarsi animando radio libere, per poi entrare a far parte, come giornalista, della redazione locale di “Radio France”, l’emittente di Stato.A Montpellier, ancora nel Sud, fondò nel 1985 con un gruppo di amici “Reporters Sans Frontières”, «una Ong che in seguito ha assunto un ruolo importante, anche a livello internazionale, nella difesa dei giornalisti perseguitati in tutto il mondo», ricorda Martinelli. Sebbene Rsf non sia legata direttamente ad alcun partito, ha sempre avuto in Francia un’immagine di sinistra. «Ménard veniva invitato sempre più spesso in tv: diretto nell’eloquio, perfino un po’ irascibile. Ormai era diventato un personaggio pubblico». A sorpresa Ménard lasciò Rsf nel settembre 2008 per andare a Doha, in Qatar, a dirigere il “Centro per la libertà dell’informazione”, «finanziato dall’emirato, che non si può proprio definire una democrazia perfetta». Ma «fuggì anche da lì, l’anno seguente, in mezzo alle polemiche, per rientrare in Francia e ricominciare la sua carriera di giornalista, con trasmissioni alla tv e in radio». È a quel momento, continua il “Fatto”, che è emersa chiaramente la virata verso il Front National, firmando il libro “Vive Le Pen!”, uscito nel 2011. Il paladino francese della libertà d’informazione ha sempre rifiutato di iscriversi al partito. E anche a Béziers, la città della sua giovinezza, quando ha deciso di presentarsi alle comunali ha costituito una lista indipendente, con personaggi provenienti da vari orizzonti culturali, non solo quello del Fn, di cui ha chiesto solo in seguito l’appoggio esterno.In ogni caso, riguardo al discorso politico di Marine Le Pen, dice di «condividerne almeno l’80%», in modo assolutamente spiazzante: è favorevole alla linea dura sull’immigrazione mentre è contrario al maggior cavallo di battaglia del Fronte Nazionale, cioè l’uscita della Francia dall’euro. «Adesso – ha dichiarato – dico quello che penso e che prima non osavo dire o non ammettevo neanche a me stesso». Si è quindi lanciato contro il «perbenismo della sinistra», accusata di essere troppo “politicamente corretta”. «Sul matrimonio gay, ad esempio – scrive Martinelli – si è espresso in maniera critica, definendolo un “capriccio” e assicurando che, una volta eletto a Béziers, si sarebbe rifiutato di celebrarne al municipio della città». Il “Fatto” sottolinea che Ménard ha scritto quasi tutti i suoi ultimi libri assieme a Emmanuelle Duverger, sua moglie, che proviene da una famiglia cattolica di destra.Partita in sordina nell’estate scorsa, la campagna elettorale di Ménard è diventata progressivamente un caso in Francia e soprattutto a Béziers, città rivierasca del sud-ovest mediterraneo con 76.000 abitanti, di cui il 32% vive al di sotto della soglia di povertà. Béziers, che ha vissuto un lento declino economico a partire dagli anni Ottanta, esce da 19 anni ininterrotti di dominio dell’Ump, il partito conservatore, protagonista di un governo locale accusato a più riprese di corruzione. «Anche questo ha favorito la lista di Ménard, oltre al fatto che la sinistra è storicamente debole in città», conclude Martinelli. «L’ex agitatore di Rsf ha costituito una lista “con l’obiettivo di riunire elettori di sinistra e di destra”. Obiettivo decisamente centrato».«Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi». Non è certo che l’infelicissima frase – sterminare l’intera popolazione di una città che ospitava 500 càtari – sia stata testualmente pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo della “crociata contro gli albigesi”. Né è sicuro che i morti di quel fatidico 22 luglio 1209 siano stati davvero così tanti, 20.000 civili. Ma è invece accertato che la città di Béziers, pure circondata dalle schiaccianti milizie crociate, avesse sdegnosamente rifiutato, il giorno prima, di salvarsi consegnando ai carnefici gli eretici che ospitava: la morte, piuttosto che il tradimento della protezione accordata agli inermi “veri cristiani” del medioevo. Otto secoli dopo quella strage, che segnò l’inizio della sanguinosa Crociata Albigese, oggi la città di Béziers – che fu ribelle e martire – ha un sindaco eletto coi voti del Front National di Marine Le Pen, la donna che sfida a viso aperto il regime di Bruxelles. Ma la notizia è un’altra: il nuovo primo cittadino è il giornalista Robert Ménard, fondatore di “Reporters Sans Frontières” e icona francese della difesa dei diritti civili.
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Generazione decrescente: la crisi e la formica utopista
Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.Certo, l’attuale modello di sviluppo ha avvelenato la Terra e prodotto solitudine e depressione. E ora che s’è inceppato, abbandona al suo destino la prima “generazione decrescente” della storia occidentale moderna, quella che sa di non poter avere quello che ebbero tutte le generazioni precedenti: la legittima speranza di crescere ancora. Il che però non significa, di per sé, precipitare nell’abisso: ci si può attrezzare per vivere meglio, comunque, a prescindere dall’ecatombe del Pil. E’ la tesi di Andrea Bertaglio, classe 1979, espressa nella sua ultima dolente ricognizione editoriale presentata da Maurizio Pallante, di cui è stretto collaboratore. Il libro si affaccia con angoscia sul panorama desolante dei coetanei, traditi dalle false promesse dello sviluppo illimitato e condannati all’esilio o al call center, in precaria alternativa alla disoccupazione perenne, mentre intorno si sfasciano, giorno per giorno, tutte le certezze del sistema Italia. Sta franando, il nostro paese, che pure militava nel G7 – settima potenza industriale del mondo – e che l’Eurozona dell’austerity ha letteralmente declassato, stroncato, ridotto a mendicare clemenza dai potenti signori di Bruxelles, che peraltro nessuno ha mai eletto.Tutto questo accade, sostengono ormai molti analisti, perché l’élite mondiale non tollera di dover “dividere la torta” con ormai 7 miliardi di esseri umani e le loro inevitabili aspirazioni di consumo. Cibo e terre, acqua, energia, tecnologia, merci. Il risveglio dell’ex terzo mondo, oggi guidato dai Brics, dopo la caduta dell’Urss ha fatto esplodere il business della globalizzazione selvaggia, le delocalizzazioni, il lavoro schiavistico. L’industria? Sempre meno conveniente, per gli antichi “padroni”: meglio la pura speculazione finanziaria. A una condizione, essenziale: sbaraccare l’ostacolo della politica democratica, il welfare, la sovranità degli Stati, le leggi a tutela del cittadino, i diritti del lavoro. Per teorici intransigenti come Paolo Barnard – che cita economisti come il francese Alain Parguez, già insider all’Eliseo – basta dare un’occhiata alle biografie dei padri fondatori dell’Unione Europea (l’autoritario Mitterrand, “monarchico” come il suo guru Jacques Attali, e il primo presidente della Commissione Europea, Jacques Delors, definito “uomo dell’Opus Dei”) per capire che razza di progetto – a vocazione feudale – sia quello dell’Ue, di cui l’euro rappresenza il braccio armato, con un unico grande obiettivo: radere al suolo la sovranità finanziaria degli Stati membri, e quindi la loro residua capacità di proteggere le rispettive comunità nazionali.Il tracollo è ovvio, perfettamente voluto. Se privatizzi la moneta crolla tutto, a cascata: credito, spesa pubblica, settore privato dell’economia, occupazione, risparmi delle famiglie. “Masters of the Universe”, li chiama Noam Chomsky. Sono l’élite planetaria, erede dell’oligarchia occidentale che per due secoli, e in particolare nella seconda metà del ‘900, ha subito come un affronto la nascita della democrazia moderna, l’avvento dello Stato come erogatore di benessere materiale per i propri cittadini, grazie alla libera creazione di moneta. Oggi? Si stanno semplicemente riprendendo tutto, abolendo di fatto la democrazia. E lo fanno in un mondo sovrappopolato e minacciato da più crisi, concomitanti e tutte potenzialmente letali: energia, clima, economia, acqua, cibo, ambiente. Per Giulietto Chiesa, autore del saggio “Invece della Catastrofe” che parte dalle drammatiche profezie del Club di Roma sui raggiunti limiti dello sviluppo del capitalismo coloniale e mercantile, ci sono tutte le condizioni geopolitiche per temere l’avvento di una Terza Guerra Mondiale.Dopo l’11 Settembre la storia s’è rimessa a correre: Iraq e Afghanistan, Libia e Siria, ora Ucraina. Evidente il tentativo degli Usa di coinvolgere l’Europa in una drammatica sfida con la Russia. Obiettivo: fermare l’avanzata della Cina, sfruttando l’unico vero vantaggio di cui gli Stati Uniti ancora dispongono, cioè la supremazia tecnologico-militare. Il guaio, avverte uno storico medievista come Franco Cardini, è che ormai a decidere non sono più i governi eletti dal Parlamento, perché tutte le maggiori istituzioni nazionali e soprattutto internazionali – politiche, diplomatiche, economiche, finanziarie – sono capillarmente infiltrate dalle lobby dell’élite, che tende a militarizzare il mondo impiegando missili-fantasma, droni-killer, milizie private, eserciti mercenari. Si preparano soluzioni sbrigative, repressioni, abolizioni di diritti sociali. Un incubo, che aiuta a comprendere lo scenario nel quale sono paracadutati i trentenni di oggi, a cui anche in Germania viene spiegato che i mini-job da 500 euro al mese sono un lusso, dati i tempi che corrono. C’è una guerra in corso, appunto. Ma ancora si stenta a riconoscerla.Di recente, in un incontro coi ragazzi torinesi del Movimento per la Decrescita Felice, un intellettuale ultra-indipendente come Guido Ceronetti ha ammesso la propria nostalgia per il socialismo, cioè un sistema in cui lo Stato garantisca pari opportunità per tutti. Lo Stato è il grande assente dei nostri giorni: privandolo della sua sovranità fisiologica, i trattati-capestro di Bruxelles lo costringono a trasformarsi in spietato esattore, non avendo più altra fonte finanziaria che quella fiscale. Un libero pensatore come Alex Langer, profeta europeo dell’ambientalismo politico, si battè già negli anni ‘80 per il grande cambiamento oggi invocato dagli ecologisti: sapeva benissimo che solo il governo, investendo denaro sovrano attraverso la spesa pubblica e quindi il debito, può imprimere una forte eccelerazione a qualsiasi politica di ricoversione sostenibile dell’economia. Bertaglio lo cita in un passaggio del suo libro: «La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile». E’ esattamente il crinale – innanzitutto culturale – su cui si impegnano i promotori della decrescita intelligente, da Pallante a Latouche.E’ anche il cuore dell’indagine che Andrea Bertaglio conduce con voce disarmata, partendo dalla propria esperienza personale, a confronto con quella di suo padre e, prima ancora, di suo nonno. E’ crollato un mondo, il loro. E questo di oggi, popolato di giovani spaesati e costretti a farsi mantenere dai genitori, rinunciando all’idea di metter su casa, è qualcosa che – per la prima volta – fa davvero paura. Quella della decrescita (s’intende: decrescita del Pil, degli sprechi, dei veleni) è una sorta di bussola: se lavori come un pazzo e spendi tutto quello che guadagni, finisci col non sapere neppure più cosa stai facendo, e perché. A cosa serve il lavoro che attualmente – quando c’è – ci dà da vivere? Riconversione: di certo, un lavoro socialmente utile fa vivere meglio, anche se magari fa calare il Pil perché comporta meno consumi, meno spostamenti, meno spese. E’ la filosofia della filiera corta, dei territori sostenibili, del “meno e meglio”. La strada imboccata da Roberto, che ha mollato il lavoro d’ufficio a Cagliari e si è messo a fare l’orticoltore in un paesino della provincia. O quella – spettacolare – dei ragazzi di Pescomaggiore, l’ecovillaggio fatto di case di paglia.I pionieri dell’economia sostenibile sembrano scansare il dilemma politico dei rapporti di forza, quelli cioè che – attraverso le elezioni – possono far vincere un’idea, trasformandola in azione pubblica regolarmente finanziata. Si diffida, purtroppo (ma comprensibilmente) delle organizzazioni politiche, preferendo l’azione diretta, promossa dal basso. Come quella del Comitato Rifiuti Zero che, ricorda Bertaglio, ha imposto «la vittoria del popolo valdostano contro l’affarismo», che voleva il solito inceneritore. Leader del comitato di lotta, il giovane medico Jean-Luis Aillon, dirigente Mdf. Un ragazzo di 29 anni, che ha scelto di lavorare meno – come guardia medica – per avere più tempo per l’orto e la produzione di formaggi destinati all’autoconsumo. «Se lavorassi soltanto per diventare ricco e famoso, sarei presto molto depresso».L’ennesimo ingenuo utopista? «La selezione naturale ha prescelto l’istinto utopista», risponde il dottor Aillon. «Sperare in un mondo migliore, mettere in crisi il reale, lottare per i propri sogni, è qualcosa che è stato iscritto nel nostro parimonio genetico. Perché favorisce la sopravvivenza della specie». Utopia, maneggiare con cura: quello che può apparire debolezza, è esattamente il suo contrario. Nel libro di Bertaglio, Jean-Luis ricorre a una parabola: «Se paragoniamo il nostro cinquantenne medio, disilluso e senza speranze, e una specie di formiche utopista, che sogna e si batte per un mondo diverso, possiamo vedere che quest’ultima è molto più forte e sopravvive». Inutile negarlo: «Noi abbiamo dentro questo patrimonio genetico, che la cultura odierna cerca di spegnere. L’ingenuo, semmai, è chi non lo riconosce». Farà in tempo, la “formica utopista”, a fermare i carri armati neoliberisti di Harvard, quelli che suggeriscono all’euro-totalitarismo la dottrina dell’austerity espansiva che uccide come mosche i bambini di Atene e avvicina alla Grecia anche il nostro paese?(Il libro: Andrea Bertaglio, “Generazione decrescente”, riflessione autobiografica sul mondo che è – e che potrebbe essere, con prefazione di Maurizio Pallante, Edizioni Età dell’Acquario, 103 pagine, 14 euro).Fine del lavoro, del futuro, della società civile protetta dai diritti di cittadinanza. Fine di tutto quello che siamo stati abituati a pensare come destino, consuetudine, standard di vita, aspettative. E’ scoppiata una guerra: era pronta da trent’anni, ma quasi nessuno se n’era accorto – men che meno la sinistra, partiti e sindacati. Oggi vaghiamo smarriti tra macerie lungamente programmate: persino l’incresciosa elemosina degli 80 euro promessi da Matteo Renzi può apparire una buona notizia, anche se ha il sapore della minestra della Caritas o della distribuzione di aiuti umanitari nel Darfur. Siamo in guerra, ma c’è chi ragiona come se fossimo ancora in tempo di pace. Lo fanno i politici, naturalmente, professionisti dell’elusione della verità esattamente come i maggiori media. E lo fanno pure, a modo loro, gli illuminati sostenitori dell’eresia decrescista: dicono che il sistema si è rotto semplicemente perché “doveva” rompersi, non poteva durare.