Archivio del Tag ‘ministri’
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Il valzer delle poltrone archivia il 25 Aprile che ci salverebbe
Che senso ha festeggiare il 25 aprile del ‘45, fingendo di non vedere la necessità impellente di un’altra Liberazione? «Noi antifascisti dobbiamo impegnarci nuovamente per continuare a combattere contro tutte le forme di oppressione», avverte Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt: «L’oppressione, che nel passato ha trovato espressioni in forme violente e autoritarie, può oggi trovare nuove forme più subdole per agire sulla società». Siamo assediati da “fascismi” vecchi e nuovi, “dittature” palesi oppure larvate e occulte. Una su tutte: «La gestione diretta, o indiretta, del potere (legislativo, esecutivo o giudiziario) da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, anche se sostengono di agire in suo nome e nel suo interesse». Si discriminano persone per l’appartenenza (religioni, classi, etnie), e si impedisce al singolo di «perseguire liberamente i propri talenti, le proprie capacità e aspirazioni». Nuovo medioevo: scontiamo ancora «la predeterminazione del ruolo che le persone avranno nella società in base a condizioni di nascita, piuttosto che ai propri meriti». Se contro tutto questo ha votato la maggioranza degli elettori il 4 marzo, dov’è finito il vento della “liberazione” a due mesi di distanza dalle elezioni? Siamo alla farsa del Movimento 5 Stelle, che tratta alla pari la Lega della Flat Tax e il Pd che sorveglia il dogma intoccabile del rigore Ue.«Alla fine, aver messo sullo stesso piano Lega e Pd si rivelerà la mossa sbagliata del M5S», scrive Enrico Mentana, in una nota ripresa da Vincenzo Bellisario sempre sul blog del Movimento Roosevelt. «Non si può essere europeisti o euroscettici, per la Fornero o contro, per la Flat Tax o l’imposizione progressiva (e la lista sarebbe lunga) a seconda dell’alleato che ti dà i voti per andare a Palazzo Chigi», sostiene Mentana. Oltretutto, «non è ciò che il movimento ha predicato in questi cinque anni». Per il direttore del Tg La7, il Movimento 5 Stelle «si avvicina sempre più al paradosso del Pd: che fece il governo con Forza Italia perché il M5S lo aveva rimbalzato, con ottimi argomenti che però ha nel frattempo dimenticato». Lo spettacolo è inequivocabile: «Tutti, a turno, hanno una sana vocazione maggioritaria: ma quando poi i voti non bastano si diventa cultori delle alleanze». Adesso il tempo è scaduto, avverte Bellisario: «Credo sia giunto il momento in cui il centrodestra e il “rottamatore” Renzi diano un taglio netto a questa “falsa” insopportabile: chiedo a entrambi i Matteo di “rottamare” tutto e tornare al voto». Tutti d’accordo? Nemmeno per idea: a remare contro le elezioni anticipate, scrive il “Giornale”, c’è il “club dei ministri” capitanato da Dario Franceschini.«Più di mezzo Partito democratico vuole andare al governo con i Cinque stelle e ha lavorato di sponda con il Quirinale per non fare cadere questa ipotesi sotto i bombardamenti renziani», scrive Gian Maria De Francesco sul quotidiano diretto da Alessandro Sallusti. «D’altronde, tra i consiglieri del presidente della Repubblica Sergio Mattarella vi sono molti franceschiniani. A partire dal capo della segreteria Simone Guerrini fino al consigliere segretario Daniele Cabras, passando per il consigliere per l’informazione Gianfranco Astori e al portavoce Giovanni Grasso». Franceschini garantisce «l’obbligo di verificare nei contenuti la possibilità di un’intesa». Ma a lavorare sottotraccia per un accordo coi 5 Stelle ci sarebbero anche Andrea Orlando (giustizia) e Anna Finocchiaro (rapporti con il Parlamento), insieme al reggente Pd Maurizio Martina (già ministro dell’agricoltura), a Roberta Pinotti (difesa) e Marco Minniti (interno). Vero: il “club dei ministri” poco avrebbe potuto, se non fosse stato in qualche modo sospinto dal Quirinale e se il Luigi Di Maio «non avesse fallito miseramente la trattativa con il centrodestra ostracizzando (e consentendo di ostracizzare) Forza Italia». Ma questo è accaduto: si è chiusa la porta in faccia al possibile cambiamento.«Un epilogo che nessuno ha cercato di evitare – chiosa De Francesco – lasciando campo libero alle vecchie volpi cresciute a Piazza del Gesù, prima fra tutte l’ex enfant prodige Dario Franceschini, che ha saputo muoversi con abilità in questa palude. Aumentando le probabilità per tutto il Club di mantenere la poltrona». Felpate manovre, alle spalle degli elettori: questo il clima politico del 25 Aprile 2018, tra le celebrazioni che commemorano la Resistenza di allora. Ma il voto del 4 marzo non è stato soprattutto una delega a centrodestra e 5 Stelle per rompere la sottomissione italiana rispetto a Bruxelles? Come ricorda Moiso, subiamo infatti «il controllo esclusivo, da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, delle risorse monetarie». Attenzione: si tratta di «un controllo tale da determinare la sudditanza economica delle masse». C’è quindi «bisogno e urgenza di vivere nel modo più autentico e aggiornato possibile lo Spirito della Resistenza», non certo confermando poltrone come quelle del Padoan di turno; non sarà certo un Cottarelli a interpretare la “volontà degli elettori” espressa due mesi fa. «Combattendo nel presente per migliorare il futuro», Moiso sottolinea la necessità di «tornare a incidere, tramite un’azione politica consapevole, gagliarda e lungimirante», valutando finalmente «se nuove forme di oppressione antidemocratica non siano molto più vicine a noi di quanto pensiamo».Che senso ha festeggiare il 25 aprile del ‘45, fingendo di non vedere la necessità impellente di un’altra Liberazione? «Noi antifascisti dobbiamo impegnarci nuovamente per continuare a combattere contro tutte le forme di oppressione», avverte Marco Moiso, coordinatore del Movimento Roosevelt: «L’oppressione, che nel passato ha trovato espressioni in forme violente e autoritarie, può oggi trovare nuove forme più subdole per agire sulla società». Siamo assediati da “fascismi” vecchi e nuovi, “dittature” palesi oppure larvate e occulte. Una su tutte: «La gestione diretta, o indiretta, del potere (legislativo, esecutivo o giudiziario) da parte di élites che non rispondono al volere del popolo, anche se sostengono di agire in suo nome e nel suo interesse». Si discriminano persone per l’appartenenza (religioni, classi, etnie), e si impedisce al singolo di «perseguire liberamente i propri talenti, le proprie capacità e aspirazioni». Nuovo medioevo: scontiamo ancora «la predeterminazione del ruolo che le persone avranno nella società in base a condizioni di nascita, piuttosto che ai propri meriti». Se contro tutto questo ha votato la maggioranza degli elettori il 4 marzo, dov’è finito il vento della “liberazione” a due mesi di distanza dalle elezioni? Siamo alla farsa del Movimento 5 Stelle, che tratta alla pari la Lega della Flat Tax e il Pd che sorveglia il dogma intoccabile del rigore Ue.
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Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles
Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
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Giannuli: Di Maio, neoliberismo populista funzionale all’élite
Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.«Aleggiava un certo odore neoliberista, che poi Di Maio provvedeva ad amplificare con dichiarazioni del tipo “dobbiamo metterci in testa che i governi devono accettare l’andamento dei mercati finanziari senza pretendere di influenzarli” o giù di lì». Il che, aggiunge Giannuli nel suo blog, «fa pensare che se il Pd (riposi in pace) fu la “socialdemocrazia neoliberista”, il M5S si candida ad essere il “populismo neoliberista”». E la scelta dei ministri, aggiunge il politologo, conferma purtroppo questa impressione. «I tre ministri dell’economia vengono dipinti come keynesiani o neo-keynesiani e si invocano le ombre di Krugman e di Stiglitz, ma sia l’uno che l’altro sono sostanzialmente dei neoliberisti che cercano di innestare quote di keynesismo nel neoliberismo, e non sono affatto fautori del superamento di questo sistema». Sempre che un governo Di Maio poi effettivamente nasca, continua Giannuli, staremo vedere come Fioramonti «pensa di abbattere del 40% il debito pubblico in 10 anni, di dare il reddito minimo di cittadinanza (che peraltro è una ricetta neoliberista), e di abbattere la pressione fiscale. Non è che le promesse son state troppe?». E poi, come ci si regola con l’Europa e con gli apparati ministeriali italiani?Quanto alla squadra di governo, Giannuli teme ci siano troppi “tecnici” (e di dubbia competenza), che farebbero tremendamente somigliare l’esecutivo Di Maio «ad un governo Monti in carta 5 Stelle» (Gioele Magaldi l’ha definito «un governo Monti senza Monti»). E al di là degli aspetti di linea politica, Giannuli ricorda che il Movimento 5 Stelle ha una serie di gravi handicap nel suo modello organizzativo: «Il debolissimo radicamento territoriale, il carattere di movimento di opinione assai volatile e il forte rischio di essere “scalato”», visti i meccanismi di selezione dei candidati: «Se il “controllo di qualità” è quello che abbiamo visto, la prossima volta nelle liste ci troviamo Dracula e Jack lo Squartatore!». Tutte cose che, per Giannuli, «minacciano la statica del Movimento, anzi del partito, che tale è al di là dei nominalismi». Un raggruppamento fortissimo sul piano elettorale ma assai fragile su quello politico. E quel che è peggio, con le idee tutt’altro che chiare sulla politica economica. Grosso rischio: l’entusiasmo degli elettori – 11 milioni di italiani, un votante su tre – potrebbe rapidamente trasformarsi in delusione, e quindi in rabbia. In altre parole: la vittoria è insidiosa, va maneggiata con cura.Può sembrare un paradosso, ma il Movimento 5 Stelle è quello che sta messo peggio di tutti: in politica, contrariamente a quel che si crede, gestire i successi è molto più difficile che gestire le sconfitte. Secondo il politologo Aldo Giannuli, storico dell’unviersità di Milano, la cosa migliore per i grillini sarebbe «un governo di centrodestra appoggiato dal Pd». Stando all’opposizione, l’anno prossimo alle europee il M5S «supererebbe il 40%». Attenti al successo, dunque, che prepara i peggiori scivoloni: «Le vittorie spesso ingenerano sicurezze malfide». Il giorno dopo il voto, il vincitore infatti si sente dire: bene, a adesso fammi vedere quello che sai fare. In campagna elettorale, Giannuli ammette di esser stato «molto morbido», con i 5 Stelle, evitando di dire tutto quello che pensava. Oggi che elezioni sono ormai alle spalle, afferma di poter parlare «senza peli sulla lingua». Non che non le avesse espresse, Giannuli, le sue perplessità. Ora, semplicemente, ci torna sopra in modo più marcato. A cominciare dall’analisi del programma pentastellato: «Era molto poco tranquillizzante», sia in quanto «accozzaglia di luoghi comuni e proposte da bar dello sport», sia perché «era debolissimo su punti decisivi come la politica estera, le politiche sul lavoro», ma anche «la questione del debito pubblico». Grande imputato: il neoliberismo, presente nell’agenda grillina in salsa populista.
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De Bortoli l’anti-Renzi, un suicidio le sanzioni alla Russia
«Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.«Renzi non mi convince», scrive De Bortoli sul “Corriere” il 24 settembre. «Se vorrà veramente “cambiare verso” a questo paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso». Ha «una personalità egocentrica», che è «irrinunciabile per un leader» ma nel suo caso è «ipertrofica». Fatto «non irrilevante», visto che Renzi è «un uomo solo al comando del paese (e del principale partito), senza veri rivali». Vuol fare tutto da solo, e la sua squadra di governo «è in qualche caso di una debolezza disarmante»: il sospetto è che alcuni ministri «siano stati scelti per non far ombra al premier». In troppi casi «la fedeltà (diversa dalla lealtà) fa premio sulla preparazione, sulla conoscenza dei dossier», e additrittura «a prevalere è la toscanità», non il valore. La competenza? «Un criterio secondario». L’esperienza? «Un intralcio, non una necessità». L’irruenza può scuotere la “palude”, ma «non sempre è preferibile alla saggezza negoziale». Inoltre, «la muscolarità tradisce a volte la debolezza delle idee, la superficialità degli slogan». Ovvero: «Un profluvio di tweet non annulla la fatica di scrivere un buon decreto».Se Renzi è un oratore travolgente, «il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa». Il marketing della politica? «Se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso». E in Europa, «meno inclini di noi a scambiare la simpatia e la parlantina per strumenti di governo, se ne sono già accorti». Attenzione: «Le controfigure renziane abbondano anche nella nuova segreteria del Pd, quasi un partito personale, simile a quello del suo antico rivale, l’ex Cavaliere». E qui sorge quello che De Bortoli definisce l’interrogativo più spinoso: «Il patto del Nazareno finirà per eleggere anche il nuovo presidente della Repubblica, forse a inizio 2015». Quindi «sarebbe opportuno conoscerne tutti i reali contenuti, liberandolo da vari sospetti (riguarda anche la Rai?) e, non ultimo, dallo stantio odore di massoneria». Ultimo consiglio al premier: «Quando si specchia al mattino, indossando una camicia bianca, pensi che dietro di lui c’è un paese che non vuol rischiare di alzare nessuna bandiera straniera (leggi Troika), e tantomeno quella bianca».Il durissimo attacco di De Bortoli costituisce il punto culminante di un crescendo di critiche taglienti portate avanti dalle firme di punta di Via Solferino, scrive Edoardo Petti su “Formiche.net”. Prima Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulla strategia economica del premier, poi i corsivi di Antonio Polito, Ernesto Galli della Loggia e Pierluigi Battista. Ora, l’intervento a gamba tesa del direttore. Per Giancarlo Galli, l’asprezza di De Bortoli riflette «lo stato d’animo di un mondo imprenditoriale lombardo e italiano che, tranne l’eccezione della Fiat ormai pienamente americana, è preoccupato per l’eccessivo filo-americanismo del premier». Le sanzioni contro la Russia? «Quella è la punta dell’iceberg», sostiene Galli. «La classe economica del nostro paese ritiene che gli sbocchi privilegiati delle attività commerciali italiane siano i mercati orientali, Russi e asiatici in primo luogo. E per questo motivo ha giudicato malissimo la politica muscolare perseguita dal presidente del Consiglio verso Mosca, da cui importiamo energia e soprattutto gas metano. Comparto fondamentale, in cui gli Usa si apprestano a far concorrenza alla Russia attraverso la ricerca e raffinazione dello “shale gas”». In più, aggiunge Galli, gli industriali italiani guardano con timore all’offensiva del premier contro l’articolo 18 e i sindacati: «Potrebbe creare una fase di turbolenza negli ambienti di lavoro, ed è l’ultima cosa di cui gli imprenditori hanno bisogno».Di fatto, scrive Gianni Gambarotta, Renzi e il suo modo di far politica sono stati demoliti: col suo editoriale, De Bortoli ha tagliato i ponti col palazzo che oggi conta. Dunque si dimostrano infondate «le voci che puntasse, dopo l’uscita da via Solferino nell’aprile prossimo, a una presidenza Rai». De Bortoli «non si prende nemmeno il disturbo di accennare, nel suo tacitiano articolo, al centro di potere che ruota attorno ai suoi editori». Ormai «gioca una sua partita di direttore di quotidiano libero da ogni vincolo». Ma che cosa ha in mente per il futuro? «Un futuro che si immagina ancora lungo e intenso, dato che Fdb ha solo 60 anni, e in 40 di brillante carriera ha dimostrato di essere un eccellente professionista e di amare molto il lavoro». Gambarotta ricorda che di De Bortoli si parlò come possibile sindaco di Milano dopo Gabriele Albertini. Non se ne fece nulla, «però quella mezza idea di tanti anni fa potrebbe essere ripescata dal cassetto, e magari non solo a livello locale», conclude Gambarotta. «La politica italiana di oggi è un immenso nulla nel quale rimbombano i bla-bla-bla di Renzi. In questo vuoto una personalità come de Bortoli sarebbe un gigante».«Renzi è la rovina dell’Italia», avrebbe confidato tempo fa Ferruccio De Bortoli ad alcuni amici. Notizia filtrata sui media, poi indirettamente confortata dall’annuncio di Rcs: il direttore lascerà il “Corriere della Sera” nell’aprile 2015. Per fare politica? Lo ipotizza Gianni Gambarotta su “Formiche.net”, all’indomani dell’esplosivo editoriale di De Bortoli contro Renzi, dipinto come chiacchierone inconcludente, con in tasca l’accordo segreto con Berlusconi, il Patto del Nazareno, che “puzza di massoneria”. «È un passaggio molto intrigante e non è caduto per caso», dichiara Giancarlo Galli, saggista economico e editorialista di “Avvenire”, nonché autore di inchieste e libri che hanno messo in luce trame, ambizioni, rivalità e faide del ceto dirigente italiano. «La Toscana è una terra di forte e radicata tradizione massonica, così come gli Stati Uniti cui Renzi è frequentemente accostato». Ecco il punto: obbedendo a Obama nell’offensiva contro la Russia, Renzi sta gettando nel panico l’agonizzante imprenditoria italiana, che conta proprio sui mercati dell’Est. Pessimo affare, la “guerra” contro Putin. Avvertimento: il premier prenda nota, o sarà presto “scaricato”.