Archivio del Tag ‘monarchia’
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Abbiamo tradito ogni promessa? Almeno, sbranatevi Battisti
Cari italiani, consolatevi: non manteniamo nessuna delle promesse elettorali, ma in compenso vi diamo in pasto quel che resta di Cesare Battisti. Contenti? Pare questo il messaggio dietro al sorriso tronfio di Salvini, che – vestito da poliziotto – ha atteso all’aeroporto l’arrivo dell’ex terrorista, a lungo protetto dalla Francia e poi arrestato dalle autorità della Bolivia, paese in cui aveva cercato rifugio dopo che il Brasile di Jair Bolsonaro aveva promesso a Salvini di restituirlo all’Italia. Scrive Simone Galgano, sul blog “Maestro di Dietrologia”: «Basterebbe guardare ai messaggi che si scambiano il figlio di Bolsonaro e Salvini (“il regalo è in arrivo”) per capire come persino la discutibile dignità di uno Stato, per questa gente, è stata subordinata a una gestione privatistica della cosa pubblica e persino della sua capacità repressiva. Roba da corti settecentesche, con scambi tra parenti su troni differenti, mentre nelle strade va maturando un cambio epocale di regime». Il poliziotto Salvini? «Che schianto di statista, si è scordato pure di ringraziare il presidente boliviano Morales forse solo perché comunista». Ma è accorso a Ciampino, a beneficio del «porno-shit mediatico», agghindato «con tanto di divisa PlayMobil di ordinanza, mentre filma la diretta del Big Brother Battisti cinto da militari».Ride largo, Salvini, come quando indossa l’uniforme dei vigili del fuoco o quando dispensa ai follower «la Nutella della buonanotte», forse anche per far dimenticare le imprese del governo, riassumibili nel motto “un giorno da leone e cento da pecorone”. Il “Ministro delle Interiora” si mostra «soddisfatto per la cattura del pericoloso vecchietto comunista, felice di essersi vendicato di un certo mondo che l’ha sempre odiato». E’ bravo, nel «propagandare l’italianità più triviale alla “maggioranza silenziosa” che lo segue», utilizzando «le parole che userebbe l’uomo di strada, anzi, da bar sport». Battisti? Ovvio: deve “marcire in galera”. «Termini brutali e disumani che un ministro, un politico, ma anche un qualsiasi uomo non dovrebbe mai usare, soprattutto dopo che si è catturata la pericolosa preda», scrive Galgano. «Questo infierire su un cadavere freddo oramai ritualizzato ha qualcosa di veramente pornografico, volgare, direi necrofilo, e solo un cinico strumento del potere come Salvini, poteva in questa impresa dell’orrore». Secondo “Maestro di Dietrologia”, «Salvini è la piazza virtuale che si contrappone a quella fisica, la terribile astinenza da rogo per soddisfare ubriachi demagoghi in cerca di stellette». Domanda: «Cosa è successo a questo comunista padano?». Sono lontani i tempi in cui frequentava con passione il Lonecavallo: «Deve essere successo qualcosa di traumatico, forse una fidanzatina rubata dall’amico anarchico?».Montanelli, scrive Galgano, diede «affettuosamente» del pagliaccio a Garibaldi, per il vezzo di indossare mantelli e divise sgargianti. Salvini? «Ci tiene a veicolarsi sbirro in mezzo agli sbirri, mentre poliziotto non è e non deve essere, in uno Stato democratico». Ma è più forte di lui: «Deve indossare la sua bella divisa per l’occasione e fare propaganda anche quando bisognerebbe astenersi, mostrando sobrietà e rispetto per i ruoli istituzionali». Sciacallaggio? Speculare sui “cadaveri” politici come Battisti può depistare il pubblico dalla grande criminalità impunita, «come quel Locatelli bergamasco narcotrafficante superiore a qualsiasi Riina, ma che nessuno politico sui media cita e pare conoscere». Per non parlare del terrorismo nero e di quel Delfo Zorzi, «grande criminale fascista relegato all’oblio collettivo, sfuggito in Nipponia tra un sushi e una setta di efebi samurai». Protesta Galgano: siamo saturi della propaganda quotidiana, «di questo carnevale orwelliano senza fine», tra abbracci a capi ultras e picchiatori patentati, per poi «mostrare con orgoglio ruspe contro i Casamonica», dopo che i loro beni erano già stati requisiti dal governo precedente.«Quando finirà questa eterna campagna elettorale dell’orrore? Non vi daremo il promesso “reddito di cittadinanza”, ma solo un obolo se siete pronti a farvi schiavi? Beh, ma abbiamo preso Battisti, siamo forti e risoluti. Non vi sentite già meglio, più ricchi e sereni?». Il welfare? Spianato dal rigore imposto da Bruxelles. Infatti: «Non vi daremo lo smantellamento della “Fornero”, ma solo una trappola che – se vuoi andartene in pensione – ci devi lasciare un bel pezzo dell’assegno e vedere la liquidazione tra cinque anni? Beh, ma abbiamo preso Battisti, siamo forti e risoluti: non vi sentite già meglio, più ricchi e sereni?». Ancora: «Non potrete neanche protestare perché abbiamo fatto un “decreto sicurezza” incostituzionale facendovi credere che era per la vostra sicurezza? Beh, ma abbiamo preso Battisti, siamo forti e risoluti… Mica vorrete fare la sua fine, no?».Cari italiani, consolatevi: non manteniamo nessuna delle promesse elettorali, ma in compenso vi diamo in pasto quel che resta di Cesare Battisti. Contenti? Pare questo il messaggio dietro al sorriso tronfio di Salvini, che – vestito da poliziotto – ha atteso all’aeroporto l’arrivo dell’ex terrorista, a lungo protetto dalla Francia e poi arrestato dalle autorità della Bolivia, paese in cui aveva cercato rifugio dopo che il Brasile di Jair Bolsonaro aveva promesso a Salvini di restituirlo all’Italia. Scrive Simone Galgano, sul blog “Maestro di Dietrologia”: «Basterebbe guardare ai messaggi che si scambiano il figlio di Bolsonaro e Salvini (“il regalo è in arrivo”) per capire come persino la discutibile dignità di uno Stato, per questa gente, è stata subordinata a una gestione privatistica della cosa pubblica e persino della sua capacità repressiva. Roba da corti settecentesche, con scambi tra parenti su troni differenti, mentre nelle strade va maturando un cambio epocale di regime». Il poliziotto Salvini? «Che schianto di statista, si è scordato pure di ringraziare il presidente boliviano Morales forse solo perché comunista». Ma è accorso a Ciampino, a beneficio del «porno-shit mediatico», agghindato «con tanto di divisa PlayMobil di ordinanza, mentre filma la diretta del Big Brother Battisti cinto da militari».
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Cristo e la Maddalena: così Raffaello smentisce Dan Brown
Il “Codice da Vinci”? Un equivoco da 80 milioni di copie, grazie all’abilità di Dan Brown. Lo scrittore fa dire a Leonardo che c’era la Maddalena accanto a Gesù nell’ultima cena: dunque il messia aveva una compagna segreta? E il Santo Graal (in realtà “Sang Real”, sangue reale) non sarebbe stato altro che la discendenza occulta di Cristo, sbarcata in Francia insieme alla donna clandestina del Nazareno? Un segreto inconfessabile, secondo il bestseller americano, in cui alla fine dell’800 si sarebbe imbattuto Bérenger Saunière, il famoso parroco di Rennes-le-Château, scavando sotto l’altare della sua chiesetta di campagna. Di quel segreto, secoli prima, sarebbe stato il massimo custode il sommo Leonardo, rappresentato come “gran maestro” di un ipotetico e leggendario ordine iniziatico, il Priorato di Sion. Nel suo capolavoro, il Cenacolo affrescato nel refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, Leonardo avrebbe lasciato un indizio rivelatore: la presenza della Maddalena, tra i Dodici riuniti per l’ultima cena. A smentire i dietrologi, però, provvede – già vent’anni dopo – un altro grande del Rinascimento italiano: Raffaello Sanzio. Nella sua Estasi di Santa Cecilia, Raffaello riproduce quella stessa figura, scambiata per la Maddalena. Solo che non è una donna, è un giovanissimo dai tratti efebici: l’apostolo Giovanni, futuro San Giovanni evangelista. Nel quadro di Raffaello, infatti, c’è anche la Maddalena: una donna, non un soggetto dall’identità incerta.Lo rivela il simbologo Gianfranco Carpeoro, analizzando l’Estasi raffaellita dipinta nel 1514 e custodita alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. Raffaello riproduce alla perfezione la misteriosa figura dell’affresco di Leonardo: osservandola, «non si può non riscontrarne la assoluta somiglianza, nelle fattezze, alla omologa raffigurazione leonardesca del Cenacolo: stessi tratti efebici, stessa impostazione», scrive Carpeoro sulla sua pagina Facebook. Ma attenzione: nel quadro di Raffaello «la figura della Maddalena è presente», e quindi «la raffigurazione di San Giovanni è al di sopra di ogni sospetto». C’è lui, e c’è la Maddalena. Certo, Giovanni è ritratto giovanissimo – esattamente come la figura del Cenacolo, scambiata per la Maddalena. «Così i cosiddetti maddaleniani, compreso Dan Brown e il suo “Codice da Vinci” sono serviti a dovere». La somiglianza tra i due Giovanni è impressionante: Raffaello “cita” in modo esplicito Leonardo. E’ come se dicesse: credevate fosse la Maddalena? No, è Giovanni. Ergo: tra i Dodici, nell’ultima cena di Cristo, la Maddalena non c’era. Nell’analisi simbologica, Raffaello è lo “specchio” di Leonardo: offre la stessa identica immagine, ma capovolta nel suo significato. Come dire: per cogliere l’insieme, conviene esaminare le due opere in modo complementare, come fossero parte di un unico messaggio cifrato.Autore del ciclo saggistico “Summa Symbolica” nonché di romanzi sui Rosa+Croce, confraternita iniziatica a cui si suppone appartenessero sia Leonardo che Raffaello, Carpeoro ha condotto approfonditi studi storici e simbologici su Leonardo, figura in realtà misteriosissima e quasi comparsa dal nulla, con quel non-cognome (“da Vinci”), che indica solo una provenienza geografica, in un secolo – il ‘400 – in cui i cognomi erano regolarmente presenti. Carpeoro ipotizza che il geniale Leonardo fosse in realtà un formidabile “depistatore”, incaricato da un lato di fissare nelle sue opere la “conoscenza segreta” tramandata dalla confraternica rosacrociana (i Fidelis in Amore di Dante Alighieri, poi Giordaniti con Giordano Bruno) e dall’altra di allontanare da quel gruppo sapienziale le attenzioni delle occhiute polizie dell’epoca, a cominciare da quella vaticana. Cent’anni dopo, la firma Rosa+Croce siglerà i clamorosi manifesti pubblici apparsi in Francia (Fama Fraternitatis e Confessio Fraternitatis), scritti con l’evidente intento di suscitare una radicale riforma di una società dominata dal doppio giogo dell’assolutismo monarchico e dell’oscurantismo teocratico cattolico.Non a caso, sottolinea Carpeoro, a quel periodo appartiene la straordinaria fioritura della letteratura utopistica rosacrociana: da “Utopia” di Tommaso Moro a “La città del Sole” di Tommaso Campanella, fino a “Christianopolis” di Johann Valentin Andreae, considerato l’autore della Fama Fraternitatis, manifesto politico-programmatico che adotta il tema evangelico per stimolare la nascita di un’umanità migliore, fraterna e unita, non più divisa dai confini tra le nazioni. Giustizia sociale: «I Rosa+Croce propongono addirittura l’abolizione della proprietà privata: sono, a tutti gli effetti, i progenitori del socialismo», sostiene Carpeoro. E dato che proprio quella confraternita iniziatica decise di “parlare” a tutti attraverso i capolavori artistici, fino a permeare le maggiori opere del Rinascimento, ricchissime di letture a più strati, è sicuramente utile – suggerisce Carpeoro – esaminare con attenzione un’opera fondamentale come quella di Raffaello, che sembra “rispondere”, a distanza, al celeberrimo Cenacolo leonardesco. L’Estasi di Santa Cecilia è un olio su tavola poi trasferito su tela. Raffigura Santa Cecilia, patrona della musica, nel momento della sua rinuncia agli strumenti musicali in favore della voce. Traduzione simbolica: meglio il canto, per produrre «una musica vicina a Dio», visto che l’ugola è un dono “divino”, mentre gli strumenti restano una creazione umana.Come comprovato da un disegno preparatorio conservato a Parigi, aggiunge Carpeoro, è stato accertato che, nel dipinto, «il dualismo originario era tra la musica divina degli angeli, anch’essi raffigurati mentre suonavano degli strumenti, e la musica umana». Evidentemente, «in un momento successivo l’artista ha deciso di sottolineare diversamente la contrapposizione». Un altro rilievo evidente, annota sempre Carpeoro, riguarda l’analisi geometrica del dipinto: «Santa Cecilia è collocata al centro di un quadrato, formato da quattro santi», ovvero San Paolo, San Giovanni evangelista, Sant’Agostino e Santa Maria Maddalena. «Ciò può assumere il significato che Santa Cecilia simboleggi la quintessenza, il quinto elemento degli alchimisti, lo spirito universale della materia». E non è tutto: «C’è anche il sottile simbolismo di una croce spaziale e assiale, raffigurata dagli sguardi dei santi». Infatti San Paolo guarda in basso e Santa Cecilia verso l’alto, San Giovanni e Sant’Agostino «realizzano un asse destra-sinistra, incrociando reciprocamente i loro occhi», mentre la Maddalena fissa chi guarda il quadro, e quindi «stabilisce una asse tra l’interno e l’esterno dell’opera, tra il passato e il presente».A loro volta, i santi sono simboli: se Cecilia può raffigurare la quintessenza, Sant’Agostino (riprodotto col bastone) può essere la Terra. La Maddalena può simboleggiare l’acqua, visto che tiene in mano un’anfora, mentre San Paolo, «raffigurato come sempre con la spada», incarna lo spirito del fuoco. San Giovanni invece può simboleggiare l’aria, «secondo il suo simbolo evangelico, cioè l’aquila». Elementi fondamentali: terra, acqua, fuoco e aria (più la quintessenza, Cecilia: la musica). Alchimia, appunto: «La spada di San Paolo e il bastone di Sant’Agostino possono essere definiti come il “solve” e il “coagula” degli alchimisti». Quanti indizi può contenere un singolo quadro, se è opera di un genio? Carpeoro lo definisce «l’ultimo messaggio di Raffaello», dato che l’Estasi fu dipinta poco prima che l’artista si spegnesse. Un avvertimento chiarissimo, ignorato dai seguaci di Dan Brown: all’epoca di Cristo (secondo Raffaello, almeno) la Maddalena non era un’adolescente scambiabile per un ragazzino, ma una donna perfettamente compiuta.Il che non esclude di per sé la possibilità che la stessa Maddalena si sia poi davvero imbarcata per approdare nel Sud della Francia, insieme alle altre Marie del Mare, sulle spiagge della Camargue dove ancora oggi i gitani eleggono la loro regina, di nome Miriam. Proprio alla Maddalena, i francesi hanno dedicato le loro chiese più importanti, a cominciare da Notre-Dame de Paris. La storia non fornisce appigli certi: la stessa vicenda del Cristo è supportata unicamente dai Vangeli, che restano testi privi di fonti attendibili (sono attribuiti agli evangelisti solo in base alla convenzione tradizionale). Proprio per questo, può essere interessare scavare tra le pieghe delle narrazioni dei primi secoli, per scoprire l’importanza di una figura elusiva ma determinante: quella di Giuseppe d’Arimatea, il potente armatore che avrebbe guidato la leggendaria spedizione navale dalla Palestina alla Provenza, dopo aver avuto il coraggio di riscattare il corpo di Cristo da Pilato per poi inumarlo nella sua tomba di famiglia. Ma le notizie biografiche su Giuseppe d’Arimatea sono scarne quanto quelle sulla genealogia di Leonardo. Solo un caso?Quel racconto è di capitale importanza, per la tradizione religiosa: alla Maddalena (come anche a San Giacomo) è legata l’introduzione del Cristianesimo in Europa. Due narrazioni controverse, entrambe imbarazzanti per la Chiesa dell’epoca: il messaggio di Cristo sarebbe giunto nel continente europeo grazie a una donna, vicinissima al Maestro, e grazie all’apostolo attorno a cui fu cucita la fiaba del Campo di Stelle per battezzare il santuario di Santiago de Compostela in Galizia. Un evento miracoloso, cioè magico – la straordinaria pioggia di stelle cadenti nel campo in cui spirò Giacomo, alla fine della sua predicazione – fu inventato di sana pianta per travisare il senso del vero Campo di Stelle, tratto di Via Lattea che si riteneva visibile dalla Palestina all’Italia, che per l’antica Chiesa di Giacomo (diversa da quella di Pietro) aveva un significato simbolico preciso: riportare a Roma “la verità di Gerusalemme”, cioè la reale identità del Cristo, interpretabile come simbolo del Dio presente in ogni essere umano. Declinato in mille modi, il tema è sempre lo stesso: un pensiero che viaggia dal Medio Oriente all’Europa. Anche di questo parlarono, Leonardo e Raffaello, dietro il Cenacolo e l’Estasi, insistendo sulla Maddalena? Di certo non accennarono minimamente, neppure loro, a quella che probabilmente resta la figura più misteriosa della narrazione evangelica: Giuseppe d’Arimatea, sfuggente quanto Leonardo.Il “Codice da Vinci”? Un equivoco da 80 milioni di copie, grazie all’abilità di Dan Brown. Lo scrittore fa dire a Leonardo che c’era la Maddalena accanto a Gesù nell’ultima cena: dunque il messia aveva una compagna segreta? E il Santo Graal (in realtà “Sang Real”, sangue reale) non sarebbe stato altro che la discendenza occulta di Cristo, sbarcata in Francia insieme alla donna clandestina del Nazareno? Un segreto inconfessabile, secondo il bestseller americano, in cui alla fine dell’800 si sarebbe imbattuto Bérenger Saunière, il famoso parroco di Rennes-le-Château, scavando sotto l’altare della sua chiesetta di campagna. Di quel segreto, secoli prima, sarebbe stato il massimo custode il sommo Leonardo, rappresentato come “gran maestro” di un ipotetico e leggendario ordine iniziatico, il Priorato di Sion. Nel suo capolavoro, il Cenacolo affrescato nel refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, Leonardo avrebbe lasciato un indizio rivelatore: la presenza della Maddalena, tra i Dodici riuniti per l’ultima cena. A smentire i dietrologi, però, provvede – già vent’anni dopo – un altro grande del Rinascimento italiano: Raffaello Sanzio. Nella sua Estasi di Santa Cecilia, Raffaello riproduce quella stessa figura, scambiata per la Maddalena. Solo che non è una donna, è un giovanissimo dai tratti efebici: l’apostolo Giovanni, futuro San Giovanni evangelista. Nel quadro di Raffaello, infatti, c’è anche la Maddalena: una donna, non un soggetto dall’identità incerta.
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Sapelli: la resa all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione
«La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».Quella legge, del 1973 – aggiunge Sapelli – aveva dato ai deputati e ai senatori il potere di dichiarare guerra e ritirare le truppe nel caso di mancata autorizzazione, restringendo dunque l’autorità di un presidente, costretto a passare per il Parlamento. Legge poi scavlcata regolarmente da Obama, che per i finanziamenti e le armi ai sauditi aveva sempre bypassato l’aula. Tutto questo, spiega Sapelli, mette in crisi Trump, finora sostenitore del governo gialloverde contro l’oligarchia franco-tedesca che ha in pugno l’Ue. È stata la Cia a relazionare al Senato sulla tragedia umanitaria yemenita, e questa relazione «si aggiunge alla rottura esistente tra il segmento dell’establishment Usa favorevole a Trump e tutto il resto del Deep State nordamericano, che vede l’Fbi capofila nella richiesta di ritornare in fondo all’era Bush e Obama», cioè a un’epoca «di pericolosissimo unilateralismo, quando l’Occidente è stato diviso dalla guerra in Iraq con Francia e Germania che si rifiutarono di partecipare a quel disastroso intervento che segnò l’inizio del terrorismo di massa wahabita e jihadista e diede poi il fuoco alle polveri con il discorso di Obama al Cairo».Il bilateralismo di Trump e il suo tentativo di una “entente cordiale” internazionale per assicurare un “roll back” contro la Cina, «paese che si sta armando e che sta dilavando le fonti tecnologiche occidentali», secondo Sapelli «è stato messo in discussione da un ritorno, di fatto, alle ideologie dei seguaci di Leo Strauss, i “neocon”, che facevano dipendere le scelte di politica estera dai principi morali, secondo, del resto, una secolare tradizione Usa che risale ai padri fondatori». Trump rischia l’impeachment? «Sì, se ne farà un processo lungo e terribile». Tutto questo colossale sbandamento internazionale, aggiunge Sapelli, dipende sostanzialmente «dalle radici degli alberi della foresta Usa, ma altresì dalla savana dell’Unione Europea, che da circa trent’anni si dedica metodicamente a sradicare con la sua gramigna gli alberi europei, distruggendo con il principio della dipendenza monetaria funzionale da divieto del debito pubblico le fondamenta stesse della grandiosa foresta costruita nei secoli e nei secoli dagli europei dopo la morte di Carlo Magno e dopo il Trattato di Verdun dell’843».Di quella “foresta”, avverte Sapelli, non sta più rimanendo nulla: «Crolla con fragore in Francia, sotto la disgregazione sociale che fa seguito al potere verticale presidenziale che si trova incapace di adempiere ai principi auspicati con l’elezione di un presidente con il solo 26% degli aventi diritto al voto», ed evidenzia «una necessità di far saltare ogni parametro ordoliberista, alias Fiscal Compact». Di lì il disvelamento – storico, quanto la dichiarazione del Senato Usa – dei rapporti di potenza che la tecnocrazia eurocratica non riesce a nascondere. Sapelli si riferisce alle dichiarazioni del commissario Moscovici: «Un patriota francese che è occasionalmente commissario europeo e che dichiara candidamente che le regole che valgono per l’Italia rispetto al famoso debito non valgono per la Francia». Notizia che «non stupisce uno studioso serio e non prezzolato, che sa che il funzionalismo non ha fatto altro che nascondere e non eliminare gli squilibri di potenza nazionali». Questo fatto è forse «quello più rilevante dell’intero 2018, per coloro che vogliono ritornare all’analisi scientifica e non ideologica della realtà europea».In questo contesto, prosegue Sapelli nella sua analisi, emerge un altro evento importante: «La diffusività comprovata della capacità dell’ordoliberismo di cooptare seguaci, catturando ideologicamente per la pressione dell’ambiente gli “homines novi” dal basso per farli salire su su nella cuspide del potere». Il che avviene per effetto di motivi «non pecuniari, ma precipuamente culturali, ossia di “soft power”: è ciò che pare capiti ai primi ministri italiani con una continuità impressionante» Vengono sostanzialmente cooptati dall’egemonia neoliberista. «Il pericolo è che, nonostante le reazioni sempre più esplicite della borghesia nazionale contro la manovra (sbagliata perché troppo poco incentrata sulla creazione di capitale fisso e quindi sulla crescita), la compagine governativa italiana non ingaggi con Bruxelles la vera battaglia: quella della negoziazione dei parametri del Fiscal Compact (peraltro già scaduto, come trattato) e si abbandoni così alla tremenda ondata d’urto che verrà dalla prossima recessione per debito cinese e per debito “corporate” Usa». Recessione, assicura Sapelli, «che si unirà alla deflazione secolare e disgregherà ancor più il nostro sistema sociale».In questo “tramonto della ragione”, conclude Sapelli, non sorge «la stella polare che deve guidare ciò che rimane della borghesia nazionale: lavorare con le borghesie nazionali tedesche, convincere quelle classi politiche della necessità di rivedere le politiche economiche europee e riscrivere in tal modo la storia d’Europa». La Brexit, quella storia, «la sta già scrivendo da parte sua, dimostrando l’ignavia, l’ignoranza di una intera classe dominante politica e tecnocratica dell’Unione Europea, che invece di aprire un varco al primo ministro del Regno Unito lo stringe sempre più in un cul-de-sac per sgretolamento del sistema politico inglese». Domanda: «Dove sono finiti gli ammiratori sfegatati del modello Westminster?». Pervicace e violenta, la tecnocrazia europea «non è consapevole dei rischi che corre l’intero rapporto di potenza mondiale, se il Regno Unito entra in convulsione». Usa e Uk in crisi: «Una tragedia che il mondo, non l’Ue – non solo l’ Ue – non può permettersi, pena l’entropia. Ed è invece l’entropia mondiale che la cuspide del potere europeo sta producendo senza sosta in una pazzia inarrestabile».«La resa del governo all’Ue ci farà spazzare via dalla recessione». Per il professor Giulio Sapelli, storico dell’economia, l’Italia è esposta alle peggiori bufere: da un lato subisce senza anestesia il rigore di Bruxelles, dall’altro starebbe per perdere anche la protezione a distanza finora assicurata dalla presidenza Trump, qualora il presidente Usa venisse sabotato dall’impeachment. Un indizio clamoroso, per Sapelli, è la decisione del Senato statunitense di sospendere lo storico appoggio militare all’Arabia Saudita, fornito dai tempi di Obama per condurre una spietata guerra contro lo Yemen, di cui i media non parlano mai. Su proposta dei democratici Bernie Sanders e Mike Lee (e il sostegno di Lindsey Graham), scrive Sapelli sul “Sussidiario”, il Senato ha deciso di approvare una risoluzione che chiede la fine del coinvolgimento americano nella campagna militare saudita contro lo Yemen e una mozione che dichiara il principe ereditario Mohammed Bin Salman responsabile dell’omicidio del giornalista dissidente Jamal Ahmad Khashoggi, assassinato lo scorso 2 ottobre nell’ambasciata saudita di Istanbul, in Turchia. «Si tratta del primo voto in 45 anni in cui il Senato fa riferimento al War Power Act, legge approvata dal Congresso Usa durante la presidenza Nixon per far ritirare le forze statunitensi dal Vietnam».
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Cadaveri in aula, processi post-mortem: uccise anche suore
Singolare è stato scoprire come il mondo ecclesiale non sia stato indenne dalle accuse di eresia e stregoneria, anche le monache hanno dovuto scontare le loro colpe al pari delle streghe. Nei conventi, in particolar modo in quelli di clausura dove la disciplina gerarchica imponeva l’obbedienza assoluta, per le suore era ammesso un unico comportamento: trascorrere l’intera esistenza sottomesse alle regole monastiche cancellando la propria identità e sottostando al controllo psicologico totale. Frequenti furono anche i casi di misticismo religioso portato all’estremo, come nel caso di Suor Maria Margherita Alacoque (1647- 1690) che arrivò a leccare il vomito di una malata dal pavimento in segno di devozione a Gesù Cristo. Così scrisse nella sua biografia: «Una volta, volendo pulire il vomito d’una malata, non riuscii a impedirmi di farlo con la lingua e di mangiarlo, dicendogli: Se avessi mille corpi, mille amori, mille vite, io li immolerei per esservi schiava». Proprio in virtù di certe esternazioni di fede, molte suore vennero proclamate sante. A fronte di tutto ciò, molte religiose crollarono sotto il muro di una disciplina assoluta che snaturava ogni forma di individualità.Esaurimenti nervosi e crisi isteriche, umana conseguenza di tanta sottomissione, furono il pretesto per tacciarle di collusione con il demonio. L’Inquisizione non si fece alcuno scrupolo nel condannarle al rogo senza pietà. Come scrive Gian Paolo Prandstraller per la rivista “Etruria Oggi” in un articolo intitolato “L’edonismo organico e il crollo dello spirito ascetico”, «il convento è una tipica istituzione totale, oltre il convento sono esempi di questa organizzazione le prigioni, i campi di concentramento, i manicomi, varie forme di organizzazione militare nelle quali le attività delle persone che vi sono ospitate sono strettamente controllate in ogni ora della giornata». Per capire la ferocia delle istituzioni religiose contro le suore, guardiamo cosa successe a Suor Francesca Fabbroni, la cui vita era legata a un sottile filo che la divideva tra la santità e l’accusa di essere un’invasata. Il suo cadavere fu riesumato per un processo post mortem e quindi bruciato, una prassi piuttosto comune nel medioevo.La stessa sorte era toccata ai resti di Papa Formoso (816 – 896), accusato di ambizione smodata, il cui cadavere venne dissotterrato dopo circa otto mesi dalla sua morte. Fu poi rivestito con i paramenti pontifici, collocato su un trono per essere processato e per rispondere a tutte le accuse che erano state avanzate da Giovanni VIII. Un diacono fu incaricato di porre le domande al cadavere che, per ovvi motivi silente, ammetteva tutte le sue colpe. Non dimentichiamo mai che la Chiesa, santa e infallibile fautrice di verità e della parola del Signore, è stata anche questo. Si arrivò infine al verdetto: il deceduto era stato indegno del pontificato. Così, per seguire un copione di divina sentenza, le vesti papali gli vennero strappate di dosso, le tre dita della mano destra, utilizzate per le benedizioni, gli vennero tagliate. Il cadavere fu infine gettato nel Tevere dopo aver attraversato in bella mostra la città di Roma: ciò accrebbe l’autorità del neo-eletto Papa Stefano VI. Lo stesso trattamento riservato a Papa Formoso toccò in sorte ai resti di Suor Francesca Fabbroni la quale, dopo aver trascorso la sua vita in odore di santità, vide le sue doti mistiche trasformarsi in un’accusa di stregoneria.Le ragioni sono ignote, probabilmente generate da un moto di invidia; questo non ci è dato saperlo. Il cambiamento di vedute, all’epoca, era molto frequente. La suora fu ossequiata in vita e resa consigliera da alcuni regnanti del tempo, vista come guaritrice e santona dal popolo poiché asseriva di parlare direttamente con Dio, i Santi e gli Angeli. Allontanata dal monastero di S.Benedetto di Pisa di cui era badessa, venne spogliata della veste e mandata in esilio nel convento di Santa Caterina a San Gimignano, dove morì nel 1681 senza rinnegare le manifestazioni mistiche di cui era protagonista. Fu perciò seppellita in terra sconsacrata. Ricorre anche qui lo storico pensiero misogino della Chiesa: l’“esibizione” di santità era un concetto in linea generale non ammesso, la presunzione che Dio potesse avere un filo diretto con un’umile suora, anziché con gli alti prelati, assolutamente intollerabile. Il corpo putrefatto della religiosa fu riportato in chiesa una domenica mattina, tre frati lessero a turno i capi di imputazione. Terminata questa ignobile farsa, i suoi resti furono bruciati sulla pubblica piazza come da copione.Vi segnalo adesso una storia che mi ha sconvolto, non troppo nota poiché opportunamente relegata nei polverosi libri delle antiche biblioteche. Mi riferisco al caso di Agueda Azzolini, appartenente a una facoltosa famiglia siracusana, la quale prese i voti giovanissima, come Suor Gertrude di Gesù e Maria. La sua imputazione scaturì da presunti comportamenti immorali e si generò in merito alla sua adesione a un gruppo religioso che si riuniva nel cosiddetto “Fondaco dell’Abate”, nel convento di San Nicolò da Tolentino a Palermo. I religiosi si radunavano in un cenacolo costituito principalmente da frati mistici agostiniani, fra i membri della congregazione erano presenti anche delle suore. Fu rinchiusa nelle carceri del Sant’Ufficio perché avrebbe preso troppo spesso la comunione e abbracciato con calore i suoi confratelli. Comportamento sessualmente illecito, questa fu l’accusa. Non venne giudicato colpevole di alcuna nefandezza l’amministratore del carcere, fra’ Pedro Cicio, il quale tentò più volte di violentarla. Agueda riuscì a salvarsi grazie all’ intervento di una compagna di cella, ma non riuscì a evitare una morte per stenti. La famiglia della suora pagò due tarì al giorno per il suo mantenimento in cella, diaria che scomparve misteriosamente. Fu magari Pedro Cicio, padrone dei registri carcerari, a far sparire quel denaro? Il dramma finale di questa suora innocente, giovane e carina, avverrà perciò in carcere e non su una pira.La fine di Agueda Azzolini, seppur con modalità diverse, ricorda quella di Caterina Medici e del capitano Vacallo: la “suorina”, che si era ribellata allo stupro, morirà di fame. Caterina, che non volle cedere alle insidie del suo padrone, bruciata viva. Uno dei casi più eclatanti, anche perché rappresentò l’ultimo rogo in Baviera e nella stessa Germania, fu quello di suor Maria Renata, accusata di aver evocato il demonio allo scopo di fargli possedere le consorelle nel proprio convento. Davanti al rogo, il gesuita Padre Gaar pronunciò un monito caustico contro la condannata a morte e le sue consorelle. Non ancora pago, pubblicò il libro “Ragionamento” che fu tradotto e diffuso anche in Italia. Accusare un uomo di praticare la stregoneria, in particolar modo un sacerdote, era una pratica piuttosto rara. Nonostante ciò, nei pressi di Pruem – nel Palatinato – il parroco cattolico Michael Campensis fu incriminato e giustiziato per impiccagione. Tutti i battesimi da lui amministrati furono considerati nulli, il rito replicato da altri officianti. In Germania, in Svizzera e nel nord Italia la repressione contro le streghe e gli stregoni fu molto più efferata rispetto ad altre regioni. La casistica è nota perché gran parte della documentazione non è andata perduta.(“Anche le monache erano accusate di eresia e stregoria”, estratto dal volume “Inquisizione” di Fabio Fornaciari, ripreso dal blog di Mauro Biglino. Il libro: Fabio Fornaciari “Inquisizione. Un crimine contro l’umanità”, UnoEditori, 220 pagine, euro 13,90).Singolare è stato scoprire come il mondo ecclesiale non sia stato indenne dalle accuse di eresia e stregoneria, anche le monache hanno dovuto scontare le loro colpe al pari delle streghe. Nei conventi, in particolar modo in quelli di clausura dove la disciplina gerarchica imponeva l’obbedienza assoluta, per le suore era ammesso un unico comportamento: trascorrere l’intera esistenza sottomesse alle regole monastiche cancellando la propria identità e sottostando al controllo psicologico totale. Frequenti furono anche i casi di misticismo religioso portato all’estremo, come nel caso di Suor Maria Margherita Alacoque (1647- 1690) che arrivò a leccare il vomito di una malata dal pavimento in segno di devozione a Gesù Cristo. Così scrisse nella sua biografia: «Una volta, volendo pulire il vomito d’una malata, non riuscii a impedirmi di farlo con la lingua e di mangiarlo, dicendogli: Se avessi mille corpi, mille amori, mille vite, io li immolerei per esservi schiava». Proprio in virtù di certe esternazioni di fede, molte suore vennero proclamate sante. A fronte di tutto ciò, molte religiose crollarono sotto il muro di una disciplina assoluta che snaturava ogni forma di individualità.
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Carne macinata per l’universo: la vera rivoluzione italiana
Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.Poi è arrivato il Direttorio, Robespierre ha fatto la fine che ha fatto, Buonarroti è stato richiamato a Parigi e messo in galera, e chi s’è visto s’è visto. Gli onegliesi, da allora, non si sono mai più ripresi. Perché è stata un’esperienza che ha sconvolto la loro vita, ha rivoluzionato ovviamente le loro vite, e da allora – fino a oggi – votano sempre e solo a destra. E’ dal collegio di Oneglia che è uscito fuori questo fiore della repubblica, il ministro Scajola. Se Buonarroti è ancora vivo, in qualche universo parallelo, forse si rende conto che avrebbe dovuto rivedere un po’ le sue posizioni. Ma il punto è un altro. Il titolo di questa conferenza dovrebbe essere questo: carne macinata per l’universo. E “carne macinata per l’universo” è il giudizio che dà Carlyle – il grande poeta, drammaturgo, uomo di cultura e anche politico, inglese – quando gli chiedono chi fosse Giuseppe Mazzini. Carlyle risponde: «Nessun uomo come Giuseppe Mazzini è, per me, carne macinata per l’universo». Quello che io so, di quello che è stato chiamato Risorgimento, è che ci sono state due generazioni di giovani europei, e in particolare due generazioni di giovani italiani, che hanno speso la loro vita e null’altra ambizione hanno avuto, per la loro vita, se non quella di farsi carne macinata per l’universo.Due generazioni di uomini e di donne che allora non si sono nemmeno poste il problema del sesso, maschile o femminile. E’ una cosa che noi forse non riusciamo a capire. Tutta l’Europa e gran parte del mondo (intendo le Americhe, soprattutto), per cinquant’anni hanno pensato all’Italia, a ciò che noi oggi chiamiamo Italia e che allora si chiamavano “gli Stati del territorio italiano”. E hanno guardato a ciò che accadeva, in quello che adesso è questo paese. Vi hanno guardato con la speranza, il timore, l’angoscia, la promettenza universale di chi pensava e dichiarava, sui giornali consevatori e progressisti, nelle riunioni dei gabinetti dei ministri inglesi o danesi o tedeschi o francesi: ciò che accade in Italia, come disse un giornalista del consevatore “Times”, è «il più grande teatro della storia a cui noi possiamo assistere: ciò che accade in Italia condizionerà la storia d’Europa e del mondo». Questo pensavano l’opinione pubblica, i politici, gli ambasciatori di tutta Europa e delle Americhe, osservando ciò che accadeva in Italia. Era straordinariamente più vasto, più grande e più radicale di ciò che comunque accadeva nel resto d’Europa – in alcune nazioni, almeno: nella Germania baltica, in Ungheria, in Polonia, in Grecia, in Francia. Due generazioni che hanno dedicato la loro vita alla rivoluzione.Ciò che essi chiamavano Risorgimento è stato un continuo susseguirsi di rivoluzioni territoriali. Guardate, ci sono stati moti rivoluzionari e insurrezioni dal 1821 al 1878 (e io sostengo fino al 1884, e poi spiego perché). E’ accaduto in Italia, ma anche nel resto d’Europa: certamente in Grecia, e in Francia fino al 1870. Rivoluzioni in nome di cosa? Quando studiamo il Risorgimento, leggiamo “Risorgimento, uguale: Unità d’Italia”. Ma c’erano quelle due generazioni di rivoluzionari, a vario titolo e in vario modo: Giuseppe Mazzini era un repubblicano, Giuseppe Garibaldi era repubblicano e socialista, Orsini era un anarchico repubblicano, Filippo Buonarroti era comunista, i fratelli Bandiera erano repubblicani e socialisti, Pisacane era forse comunista, chi lo sa. Ma non si davano etichette: avevano un pensiero, ciascuno il suo. Condividevano quel pensiero con altri, lo discutevano. E’ straordinaria la libertà di pensiero e di movimento del pensiero generata nell’incontro di queste due generazioni, in un paese come quello: il paese degli Stati componenti il territorio italiano, in nessuno dei quali era consentita la libertà di espressione.E’ straordinario come in questa servitù, in questa schiavitù, in questi Stati oppressivi (in un modo che la stessa regina Vittoria, conservatrice e reazionaria, considerava vergognoso) si ebbe una diffusione di opinioni e di libero pensiero – una diffusione libera, ricca, forte e, a volte, anche di grande contrasto. Non solo opinioni: opinioni che formano pensiero. Si sono formati dei pensieri che sono rimasti, e che sono stati pensieri costituenti la modernità e la contemporaneità del Novecento. Ciò che le due generazioni di giovani italiani e di giovani europei hanno costruito, dal punto di vista del pensiero, è la base a fondamento del pensiero ottocentesco, novecentesco e, per quanto ne so io, è ancora oggi strumento di valutazione e di comprensione della contemporaneità. La critica che faceva Giuseppe Mazzini al comunismo nel 1852 è una critica che oggi condivido totalmente – io, che vado a dire in giro di essere un anarchico, e che mi sento profondamente legato a un modo del pensiero libertario anarchico. Mazzini dibatte senza diffamare nessuno, senza sporcare il suo pensiero con nessuna menzogna – e questo è importante, perché il pensiero oggi tendiamo sempre a sporcarlo, e non riesco a capire perché. C’è una parola, che io metto assieme a quelle due generazioni di giovani rivoluzionari: uomini e donne casti, di casto pensiero (e vita). Un agire e un pensare privo di malizia, candidamente casto.La prima cosa che Mazzini dice, sul comunismo, è: attenzione, perché l’abolizione delle classi, così come concepita nel pensiero comunista, genererà una nuova classe, e quella nuova classe sarà oppressiva quanto la vecchia classe dei capitalisti, e forse di più. E se non sarà oppressiva dal punto di vista economico, lo sarà dal punto di vista politico e culturale. Questo scriveva, Mazzini. Abbiamo da discutere, su questo. Ma pensate che sia infondata, come critica? Direi che è estremamente moderna, forse. Ma non è questo il punto. Mi piacerebbe raccontare di Mazzini, di Garibaldi. E mi piacerebbe anche raccontare di Carmine Crocco. Era un uomo del Risorgimento, che si è fatto bandito – fuorilegge – perché giustamente trovava intollerabile, insieme a una massa di contadini, di pastori e di artigiani, il fatto di aver sperato con tutta l’anima e con tutto il cuore, dal 1831 (i primi grandi moti siciliani e calabresi), in una rivoluzione sociale che avrebbe finalmente rotto le catene medievali della proprietà privata concepita nel latifondo, e avrebbe dato finalmente un minimo di equità sociale.Due generazioni di siciliani, calabresi e napoletani hanno pensato a questo: hanno pensato di aver finalmente coronato il loro sogno impossibile, quando Garibaldi arriva coi suoi volontari e, per prima cosa, dopo aver preso possesso dei palazzi comunali e di governo, emana ordinanze che riducono le tasse, ridistribuiscono le terre ai senza terra (per quanto possibile, attraverso la riforma catastale) e garantiscono un minimo di istruzione per tutti. Ecco, per prima cosa Garibaldi fa questo. Se ne va a Teano, e lì il Piemonte (Vittorio Emanuele) prende possesso dei territori conquistati dai volontari repubblicani e socialisti di Garibaldi, diventati da mille a sessantamila con i volontari siciliani, calabresi e campani. E nel giro di 6 mesi vengono abolite tutte le ordinanze, intese alla giustizia sociale, alla libertà di espressione e a un minimo di redistribuzione delle terre – tutte abolite. Nel giro di due anni, i territori meridionali dell’Unità d’Italia hanno una tassazione, per le fasce basse della popolazione, che è il doppio della tassazione imposta dai borbonici. Non solo: le popolazioni dell’Italia meridionale si devono pagare le spese dello stato d’assedio, perché in due anni le terre liberate vengono assoggettate alla legge marziale.Questo perché le rivoluzioni, le insurrezioni e le rivolte cominciate nel 1831 per la giustizia sociale continuano, perché la giustizia sociale non c’è. Quando oggi ci poniamo la questione cosiddetta meridionale, vogliamo ricordarci di quelle due generazioni? Generazioni di giovani uomini e giovani donne, che altro non hanno vissuto se non per un po’ di giustizia e di libertà. E sono state distrutte, letteralmente distrutte, dal regno unitario. Carmine Crocco era un bandito – come altri cento, duecento banditi. Ma lo voleva con una forza che è calabrese, contro la quale non c’è niente da fare. Finché tutto non è finito: nell’eccidio, nella violenza, nella strage. Se sfogliate i tomi fotografici della storia d’Italia editi da Einaudi, scoprite che la più grande quantità di documenti fotografici relativi al paese immediatamente post-unitario riguarda le fotografie degli uomini uccisi in Campania, in Basilicata, in Calabria e in Sicilia. Mettevano in posa 10-20 morti ammazzati, e i carabinieri se li fotografavano – fotografavano le teste mozzate. Non solo: prima di fucilarli, li mettevano in posa coi loro schioppi e li fotografavano. C’era molta modernità, nello stato d’assedio. C’era molta intuizione, nella nuova società – nella legge marziale. Carne macinata per l’universo.L’Unità d’Italia? Certo, questi uomini e queste donne pensavano all’Unità d’Italia. Ma cosa significava, per loro, l’Unità d’Italia? Lo dicono, lo hanno scritto. Sapete quante lettere ha scritto, Giuseppe Mazzini, nella sua vita? Nessuno ne ha idea. Pare che fossero almeno 8-900.000, per quello che si sa. Non ne sono rimaste che 70-80.000. Le altre sono state tutte bruciate da chi le riceveva o confiscate dalla polizia, ma soprattutto bruciate, perché chi aveva una lettera di Mazzini veniva arrestato e finiva in galera. Come forse sapete, Giuseppe Mazzini ha vissuto tre quarti della sua vita nascosto, perché perseguito da due, tre, quattro polizie. E’ stato condannato a morte in contumacia. Andate a vedere a Londra dove ha vissuto, in quali case d’appartamento, in quali stanze, quasi sempre con le finestre chiuse o le tende tirate. Alla fine, vecchio, non lo hanno arrestato anche se si sapeva che “forse” era a Pisa, dove ha vissuto gli ultimi mesi prima di morire, nascosto in una casa, potendo uscire solo per dieci minuti, di notte. L’unica cosa che ha chiesto, una settimana prima di morire – e per poterla realizzare sono state spese le energie di 30-40 uomini, suoi amici – è che fosse portato a Firenze, di notte, e che si riuscisse ad aprirgli Santa Croce: prima di morire, Mazzini voleva vedere la tomba di Ugo Foscolo. E Ugo Foscolo è uno di quei ragazzi di quelle due generazioni. Se n’era andato a di casa a 18 anni, per non tornarci più: esule. Ugo Foscolo è uno di loro.L’Unità d’Italia, certo: perché comunque, per tutti, gli ideali rimanevano quelli – libertà, giustizia e solidarietà. Gli Stati territoriali di ciò che oggi chiamiamo Italia erano tutti, direttamente o indirettamente, proprietà e comproprietà di paesi stranieri: la Francia, la Germania, la Spagna. Da secoli, erano così. Ed erano tutti a regime strettamente, rigidamente oppressivo. Nessuno di quei giovani pensava, ragionevolmente, di poter ottenere una vera Costituzione, un vero suffragio universale, un vero piano di giustizia e un vero piano di equità, se non attraverso la cacciata dei regimi stranieri, coloniali, e l’instaurazione di un regno che non poteva appartenere a nessuna delle casate che mantenevano un regime di spietato egoismo dinastico. Questa era l’Italia unita. L’unico modo per raggiungere questo ideale era quello: un anno via l’altro c’erano insurrezioni, sommosse e rivoluzioni. E quando si dice che è stata una minoranza, a volere l’Unità d’Italia, si dice la più grande menzogna – ma si dice anche una verità: perché la gran parte di quei rivoluzionari erano ragazzi, che poi sono diventati uomini. A 18 anni si partiva, sulla strada che avrebbe portato all’esilio, o alla morte.Due generazioni: 1821, i primi segni di rivolta; 1828, le grandi rivolte; 1831, le rivoluzioni al meridione d’Italia, in particolare in Sicilia. Se avete letto un po’ di storia, alle scuole medie, non vi viene in mente una cosa? Tre anni prima, a Vienna, tutti i potenti d’Europa si mettono d’accordo per stabilizzare il continente, in modo tale da assicurare a se stessi la garanzia che quello sarà un sistema di equilibri che durerà in eterno. Al Congresso di Vienna si chiude – per sempre, dicono: definitivamente – un’epoca di rivoluzioni, l’epoca della Rivoluzione Francese, e si instaura il Nuovo Ordine d’Europa, basato su equilibri così stabili che potrà durare in eterno. Questo dicono gli uomini riuniti a Vienna. Tre anni dopo, cominciano i casini. Dieci anni dopo siamo in pieno casino. Trent’anni dopo, in Europa succede una cosa che ricordiamo ancora adesso, volenti o nolenti: succede il ‘48, è successo un Quarantotto. Cioè: nel 1848, nessuno dei principi, nessuna delle illusioni, nessuna delle certezze di Vienna stava ancora in piedi – finito, tutto. Niente, nel ‘48, aveva più senso, di quello che sembrava avere senso in eterno.Io incontro tanta gente, ogni giorno, e vedo sguardi e occhi avviliti, scorati, depressi. E’ lo scoramento di chi dice: non c’è niente da fare, non c’è nessuna possibilità. E io penso a quanto erano tronfi, tranquilli e sicuri i re, gli imperatori, le regine, le troie di regime, i chierici e i cardinali di corte, nel 1818. E come potessero essere frustrati, i reduci della Rivoluzione Francese e quelli di Napoleone (che anche lui i suoi vizi li aveva, in fatto di assolutismo). Ma son bastati pochi anni: cosa vuol dire, “non c’è niente da fare”? Pensate a come poteva essere più oppressivo di oggi, il clima europeo del 1819, ‘20, ‘21 e ‘22. Eppure, già dieci anni dopo, tutta l’Italia e gran parte dell’Europa erano in movimento. Una generazione nata lì – sedicenni, diciassettenni, diciottenni – era già in movimento. E perché questo non può più accadere? Chi lo dice? Loro non avevano contro la televisione, è vero, però avevano altro: avete idea di che lavoro facessero, dal punto di vista “televisivo”, i 300.000 sacerdoti sparsi per l’Italia, nel 1818, 1819 e 1820? Non tutti, certo. Ma pensate a Garibaldi, che in punto di morte disse: fatemi di tutto, ma non mettetemi davanti un prete. Lo scrisse: non fatemi vedere un prete un punto di morte. Eppure, lui doveva la sua vita a un prete.Garibaldi doveva la vita a Don Verità. E conoscete Ugo Bassi? Io ci avevo la scuola, in via Ugo Bassi. Sapete chi era? Era un prete che in Romagna, insieme a Don Verità, aiutò Garibaldi a sfuggire all’accerchiamento delle truppe papali e austriache. Don Verità è riuscito a cavarsela, dopo essersi portato Garibaldi in spalla, per mezza nottata. Bassi non se l’è cavata: è stato fucilato dagli austriaci, per aver aiutato Garibaldi. Certo, se l’Unità d’Italia è quello Stato che, per prima cosa, ha come effetto il raddoppio e la triplicazione degli affitti dei fondi agricoli, che significa mettere alla fame i contadini; se è quello Stato dove i parlamentari che fanno le leggi vengono eletti soltanto dai grandi proprietari terrieri e dell’esigua grande borghesia cittadina, cioè appena l’1,8% dei potenziali aventi diritto al voto; se è l’Italia che stabilisce la legge marziale al meridione contro le sommosse per la terra e aumenta la tassa sul macinato, quella è l’Italia voluta da quei proprietari terrieri. Gli aventi diritto al voto erano quelli: una piccola minoranza, che è diventata la classe dirigente unitaria. Ma l’Unità d’Italia come baluardo, come certezza contro qualunque regime oppressivo e totalitario, come autodeterminazione di un popolo che non c’era ma che andava facendosi, “dagli atrii muscosi, dai fori cadenti”, come unica chance in nome della giustizia, della libertà e dell’equità, ebbene, quell’Italia la voleva la stragrande maggioranza della gente.E la Repubblica Romana? Lo so, al Nord abbiamo dei romani l’impressione di gente, come dire, poco attiva – sbagliato, sbagliatissimo. Andatevi a leggere le corrispondenze dei giornali francesi, americani, inglesi. Andatevi a leggere i rapporti degli ambasciatori, dei viaggiatori, dei turisti che erano a Roma nel ‘49. E’ straordinario, dicono: non avremmo mai creduto che la Repubblica avesse così tanta popolarità tra i ceti inferiori della società. Non avremmo mai immaginato che potesse essere governata in modo così equo e così tollerante. Scrive il “Times”: «Ci dice il nostro primo ministro che Giuseppe Mazzini è un sanguinario rivoluzionario, ma nei suoi atti e nei suoi decreti si trova più tolleranza che nel nostro paese, che pure è democratico dal 1.000 dopo Cristo». La Repubblica Romana era vista da tutta Europa come un esperimento straordinario di autodeterminazione del popolo. C’erano i danesi, che venivano a vedere la Repubblica Romana: volevano capire come poter fare. C’erano gli ungheresi, c’erano i polacchi. Perché c’erano i greci, gli ungheresi e i polacchi a cercare di dare una mano alla Repubblica Romana? Perché avrebbero voluto anche loro poter sviluppare una cosa così incredibile e grandiosa come l’autodeterminazione democratica. Sapete qual è la prima legge emanata dalla Repubblica Romana? La libertà di espressione religiosa. E la sera dell’emanazione della legge, vengono aperte le porte del ghetto ebraico.Quanti traditori ha avuto il Risorgimento? Quanti delatori? Quante spie? Mazzini aveva costantemente due spie alla porta. Metternich affermava di aver speso più soldi per le spie dietro a Mazzini che per i suoi servizi segreti personali. Metternich e Pio IX hanno letto, finché le ha scritte, tutte le lettere d’amore di Mazzini. Oggi ci lamentiamo della privacy, diciamo basta al gossip – ma era Pio IX, che si leggeva le lettere d’amore di Mazzini! E Mazzini ha avuto una sola storia d’amore, nella sua vita. E quella donna, Giuditta, l’avrà incontrata in tutta la sua vita forse dieci volte. Si sono solo scritti lunghe lettere d’amore: lunghe, bellissime, caste lettere d’amore. Giuditta aveva marito, ma allora c’era la rivoluzione. A 18 anni, Pisacane era già in galera per adulterio. E’ straordinario come, nel liberarsi dell’energia, della forza intellettuale, politica, ideale, si liberino anche un sacco di altre energie. Il Sessantotto ha portato questo? Ma c’era già nel Quarantotto, ragazzi. Quante donne hanno abbandonato i loro mariti, per arruolarsi volontarie nella Repubblica Romana o nella spedizione dei Mille? La Della Torre s’era vestita da ammiraglio per andare a Calatafimi (e ha finito la sua vita in manicomio, perché poi tutto è stato “messo via”).Tutto è stato “messo via” perché era intollerabile che potesse essere permesso il sopravvivere di una memoria collettiva – che ci fu. Fino al 1880, i siciliani e i calabresi venivano “sparati” quando cercavano di andarsi a prendere un pezzo di terra da un latifondo. Sapete cosa pensavano? Che Garibaldi sarebbe tornato. E quando Garibaldi morì, nessuno ci credette: perché Garibaldi era il Redentore, e il Redentore non muore. Il Redentore non può abbandonare. Il Redentore torna: questo pensavano. E’ ingenuo. E’ stupido, forse. E’ una follia stupida. Ma guardate, nella leggenda nazionale della Fiandra, che adesso è metà olandese e metà belga – la leggenda di Thyl Ulenspiegel, il contadino che da solo combatte contro il Duca d’Alba, contro la grande oppressione papista, spagnola, delle Fiandre – quest’uomo viene bruciato, alla fine, insieme alla sua donna. Però la leggenda finisce dicendo: ma lui non è morto, tornerà. Ecco, questo è stato spento. Questa memoria è stata spenta. E chi ha fatto l’operazione più geniale è stato certamente Benito Mussolini – che se l’è ripreso, il Risorgimento, per spegnerlo definitivamente. Ma la memoria è stata spenta ancora prima, quando il Regno d’Italia appena unito è stato diviso in due dalla legge marziale.Sapete cos’è la legge marziale? Si può sparare a chiunque. I carabinieri sparavano e tagliavano le teste, poi le mettevano nelle gabbie e le appendevano all’ingresso dei paesi. Certo, teste di banditi e di assassini – tanti lo erano. Quando si fa una rivolta di contadini, bisogna sapere (parafrasando Mao) che i contadini non sanno nemmeno cos’è, un invito a cena. Quanto è stato rubato, di tutto questo? Sapete qual è stata l’attività principale di Giuseppe Mazzini, oltre a scrivere lettere? Quello che ha fatto più a lungo, per tutta la vita, è stato il maestro. Giuseppe Mazzini, carne macinata per l’universo, ha fondato alla fine degli ‘40, in Inghilterra, una scuola popolare per i bambini-schiavi italiani. Negli anni ‘40 dell’800, a Londra, era calcolato che ci fossero migliaia di bambini venduti in Italia – venduti come schiavi – e portati dagli scafisti italiani a Londra, dov’erano trattati da schiavi (tutti morivano prima della maggiore età) e giravano per Londra. Si chiamavano “i bambini dell’organetto”: chiedevano l’elemosina suonando l’organetto. Quando Mazzini apre la sua scuola, tutti gli dicono: non è possibile, non verrà nessuno, quei bambini hanno troppa paura dei loro padroni. Quella scuola verrà incendiata decine di volte, e risorgerà sempre. Uno dei suoi costanti finanziatori è stato Charles Dickens – e chi, se non lui, poteva avere in simpatia una scuola popolare per bambini schiavi?Un mese dopo l’apertura, in quella scuola c’erano 200 bambini. Si reggeva sul volontariato: chiunque avesse titoli, andava a insegnare. Tutte le domeniche, Giuseppe Mazzini – per trent’anni – è andato a insegnare in quella scuola: carne macinata per l’universo. Giuseppe Garibaldi sapete di cosa viveva? Viveva del soldo militare, che prendeva una volta sì e l’altra no. Il suo soldo militare, Garibaldi l’ha speso per la sua follia. Tutti erano uomini folli. La sua follia era poter vivere in un posto dove sentirsi, sempre e comunque, libero. La sua follia era vivere in un posto di granito, battuto dai venti, dove poter far crescere la vigna e il grano e le greggi. Non c’è mai riuscito. Ci ha messo tutto quello che aveva, e non ci è mai riuscito. Andate a Caprera, a vedere com’è possibile. Eppure, mangiava solo di quello che coltivava e di quello che pescava. E sua figlia lo sgridava sempre: perché veniva gente, e a pranzo si mangiava due gamberi crudi sopra un foglio di giornale. Bene, Garibaldi è diventato ricco in fin di vita. E’ diventato ricco perché gli è stato imposto – da Depretis, che era un suo amico: Depretis, il fondatore della vergogna politica nazionale, un uomo tra i più spregevoli della storia nazionale, quello che ha inventato (da primo ministro) il trasformismo – prima, da ragazzo, era un garibaldino. Depretis è andato da Garibaldi a dirgli: per favore, prendi la pensione. Perché Garibaldi non aveva mai voluto la pensione del re. Alla fine l’ha presa, perché il re d’Italia aveva paura di essere svergognato in tutta Europa, perché a Garibaldi stavano pignorando l’isola, per debiti.Il 2 agosto, a Cesenatico, c’è un’esplosione di fuochi d’artificio, ci sono stormi di piade e piadine che a migliaia sorvolano tutto il paese, ripiene di salsiccia, di formaggio e di prosciutto, tra lo scoppiare delle orchestre, della bande musicali e dei fuochi d’artificio. Non è la festa del turista, è la festa della Trafila. La “trafila” è passarsi oggetti di mano in mano, come quando una casa brucia e ci si mette in fila passandosi i secchi d’acqua. Il 2 agosto, in quella piccola comunità di Cesenatico, ci si ricorda di una delle storie più belle, più affascinanti, più ricche e più straordinarie, una delle diecimila meravigliose storie delle rivoluzioni che chiamiamo Risorgimento italiano. Ed è la storia di tutto un popolo, il popolo romagnolo – contrabbandieri fluviali, contadini braccianti, notai, preti (Don Verità e Don Bassi), custodi delle chiuse polesane, cavallari. Tutti: tutto il popolo di Romagna che, per 13 giorni e 13 notti, si è passato di mano in mano Giuseppe Garibaldi, sua moglie Anita e il colonnello Leggero – un sardo che a 12 anni si era arruolato come mozzo in marina e a 16 anni aveva già disertato per andare con Garibaldi, per questo condannato a morte. Era il suo luogotenente: “leggero”, perché era alto un metro e venti. Morirà credo a 90 anni, con una moglie di 60 anni più giovane di lui – perché i garibaldini, sapete…Dicevo, la Trafila: per 13 giorni e 13 notti, Garibaldi, Anita e il “minuto” vengono passati di mano in mano per sfuggire all’accerchiamento dell’esercito papista e austriaco. Garibaldi, 1849: la Repubblica Romana è persa. Lui scappa, ma non torna a casa. Non torna a Montevideo, dove già allora è considerato eroe nazionale. Se ne va a Venezia, perché la Repubblica Veneziana resiste (“sul ponte sventola bandiera bianca”). Ma lì non c’era ancora, la bandiera bianca. E Garibaldi, con la moglie incinta di sei mesi, vuole andare a combattere per la repubblica veneta. A San Marino viene circondato. E’ spacciato? No. Tutto il popolo di Romagna si organizza clandestinamente, e Garibaldi e sua moglie – con una fatica immensa: siamo in pieno agosto – riescono in 13 tappe ad essere portati, di mano in mano, come figli. Tra le tante cose orrende della cultura popolare c’è un catechismo garibaldino. Nel catechismo a un certo punto c’è la domanda: chi è la santissima trinità? La risposta garibaldina è: nella persona di Giuseppe Garibaldi si “sustanziano” il padre della patria, il figlio del popolo, lo spirito della libertà. Portato di mano in mano, come un figlio. Muore Anita – per la sete, la fatica, lo sfinimento. Muore in una capanna, in mezzo al Polesine. Ma negli stessi giorni, in un vallone lucano, tutto il popolo (diretto ancora oggi da Michele Placido) si mette in costume e rappresenta l’ultima grande battaglia – e l’ultima sconfitta – di Carmine Crocco e degli altri briganti (figli del popolo, spirito di libertà) distrutti dall’esercito unitario sabaudo.(Maurizio Maggiani, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conferenza “Risorgimento senza memoria” al Salone del Libro di Torino, 16 maggio 2010. Autore di bestseller come “Il coraggio del pettirosso”, “La regina disadorna” e “Il viaggiatore notturno”, Premio Strega 2005, Maggiani ha scritto “Quello che ancora vive”, dedicato alla memoria garibaldina della Trafila romagnola, mentre opere più recenti come “I figli della Repubblica” e “Il romanzo della nazione” sviluppano personalissime riflessioni sul carattere del popolo italiano).Sono tornato in via Filippo Buonarroti, sono tornato in via Ferrari, in piazza Garibaldi e dove ho fatto le scuole, in via Ugo Bassi. Qualcuno di voi si ricorda di chi era Filippo Buonarroti? Un anarchico rivoluzionario? No, non era proprio un anarchico, perché allora, quando lui era in vita, l’anarchia non si era ancora compiuta in un qualche pensiero. Ma in tutte le città d’Italia c’è una via intitolata a Filippo Buonarroti. Qualcuno ha avuto la forza, il desiderio di intitolargliela. Intorno agli anni ‘20 del 1800, Filippo Buonarroti è stato considerato, dai giornali conservatori di tutta Europa, il più grande rivoluzionario europeo vivente. Filippo Buonarroti ha fatto una cosa che nessun altro uomo ha osato compiere, nella storia dell’umanità. Ha fondato e costituito un paese a totale regime comunista: Oneglia. Lui, come prefetto robesperriano della Rivoluzione Francese, è stato mandato a governare Oneglia – sapete, Oneglia, in fondo alla Liguria, che allora era francese. E lì costituì un paese totalmente comunista, con l’estinzione della proprietà privata e il ricalcolo dei beni, a tutti. Guardate che i paesi che noi chiamiamo comunisti non si sono mai chiamati comunisti, si chiamavano “paesi socialisti verso il comunismo” (verso il baratro, poi). A Oneglia, invece: redistribuzione delle terre e istruzione obbligatoria fino al più alto grado, per tutti. E’ stato un paese comunista che è durato 9 mesi.
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La lotteria dell’universo e i numeri sbagliati del pianeta
La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.Il messia. Alla mia destra, aveva detto, e alla mia sinistra. Sedevano a tavola, semplicemente. Avevano sprecato un sacco di tempo in chiacchiere inconcludenti, e lo sapevano. Con colpevole ritardo, dopo inenarrabili vicissitudini dai risvolti turpemente malavitosi, si erano infine rimessi al nuovo sire, l’inviato dall’alto. Familiarmente, tra loro, lo chiamavano messia, essendo certi che avrebbe fatto miracoli e rimesso le cose al loro posto, ma non osavano consentirsi confidenze di sorta: ne avevano un timoroso rispetto. Quell’uomo incuteva soggezione, designato com’era dal massimo potere superiore. Non restava che ascoltarlo, in composto silenzio, assecondandolo in tutto e sopportandone la postura da tartufo. La sua grottesca affettazione si trasformava inevitabilmente, per i servi, in squisita eleganza. Gareggiavano, i sudditi, in arte adulatoria. Stili retorici differenti, a tratti, permettevano ancora di distinguere i servitori seduti a destra da quelli accomodati a sinistra.Tungsteno. L’isoletta era prospera e felice, o almeno così piaceva ripetere al governatore, sempre un po’ duro d’orecchi con chi osava avanzare pretese impudenti, specie in materia di politica economica, magari predicando la necessità di sani investimenti in campo agricolo. Il popolo si sentì magnificare le virtù del nuovo super-caccia al tungsteno, ideale per la difesa aerea. Ma noi non abbiamo nemici, protestarono. Errore: potremmo sempre scoprirne. Il dibattito si trascinò per mesi. I contadini volevano reti irrigue, agronomi, serre sperimentali, esperti universitari in grado di rimediare alle periodiche siccità. Una mattina il cielo si annuvolò e i coloni esultarono. Pioverà, concluse il governatore, firmando un pezzo di carta che indebitava l’isola per trent’anni, giusto il prezzo di un’intera squadriglia di super-caccia al tungsteno.Stiamo pensando. Stiamo pensando alla situazione nella sua inevitabile complessità, alle sue cause, alle incidenze coincidenti ma nient’affatto scontate. Stiamo pensando a come affrontare una volta per tutte la grana del famosissimo debito pubblico, voi capite, il debito pubblico che è come la mafia, la camorra, l’evasione fiscale, l’Ebola, gli striscioni razzisti negli stadi, la rissa sui dividendi della grande fabbrica scappata oltremare, l’abrogazione di tutto l’abrogabile. Perché abbiamo perso? Stiamo pensando a come non perdere sempre, a come non farvi perdere sempre. Stiamo pensando, compagni. E, in confidenza, di tutte queste problematiche così immense, così universali, così globalmente complicate, be’, diciamocelo: non ne veniamo mai a capo. Il fatto è che non capiamo, compagni. Non capiamo mai niente. Ma, questa è la novità, ci siamo finalmente ragionando su. Stiamo pensando. Una friggitoria di meningi – non lo sentite, l’odore?Unni. Scrosciarono elezioni, ma il personale di controllo era scadente e il grande mago cominciò a preoccuparsi, dato che i replicanti selezionati non erano esattamente del modello previsto. Lo confermavano a reti unificate gli strilli dei telegiornali, allarmati anche loro dall’invasione degli Unni. Non si capiva quanto fossero sinceri i loro slogan, quanto pericolosi. Provò il dominus ad armeggiare con i soliti tasti, deformando gli indici borsistici, ma non era più nemmeno certo che il trucco funzionasse per l’eternità. Vide un codazzo di Bentley avvicinarsi alla reggia e si sentì come Stalin accerchiato dai suoi fidi, nei giorni in cui i carri di Hitler minacciavano Mosca. Ripensò ai tempi d’oro, quando gli asini volavano e persino gli arcangeli facevano la fila, senza protestare, per l’ultimissimo iPhone.(Estratto da “La lotteria dell’universo”, di Giorgio Cattaneo. “Siamo in guerra, anche se non si sentono spari. Nessuno sa più quello che sta succedendo, ma tutti credono ancora di saperlo: e vivono come in tempo di pace, limitandosi a scavalcare macerie. Fotogrammi: 144 pillole narrative descrivono quello che ha l’aria di essere l’inesorabile disfacimento di una civiltà”. Il libro: Giorgio Cattaneo, “La lotteria dell’universo”, Youcanprint, 148 pagine, 12 euro).La verità. La verità è che siamo fuori di qualche trilione. Lo so, ammise il supremo contabile; ma il problema, come sempre, è politico. Occorre ben altro che il pallottoliere: servono narrazioni, e il guaio è che i narratori ormai scarseggiano. Il Supremo aveva superato i sessant’anni ed era cresciuto al riparo dei migliori istituti, poi l’avevano messo alla prova per vedere se sarebbe stato capace di premere il pulsante. Intuì che premere il pulsante era l’unico modo per restare a bordo, e lo premette. Quando poi vide la reale dimensione del dramma, ormai era tardi: c’erano altri pulsanti, da far premere ad altri esordienti. Si fece portare un caffè lungo, senza zucchero, e provò il desiderio selvaggio di tornare bambino. Rivide un prato senza fine, gremito di sorrisi e volti amici, tutte persone innocue. Devo proprio aver sbagliato mondo, concluse, tornando alla sua contabilità infernale.
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Santo Tav, a Torino il culto arancione del Serpente d’acciaio
L’animalone mitologico chiamato Tav Torino-Lione è riapparso – in purezza, per evocazione – nel cuore sabaudo di Torino, la città-Stato transitata senza colpo ferire dai Savoia alla Fiat e quindi al Pd, prima di smarrirsi (per un caso tuttora misterioso) tra i proclami palingenetici dei 5 Stelle, guidati addirittura da una donna. Riappare a comando, il mitico Serpentone superveloce, a beneficio delle telecamere: un’epifania mediatica lunga circa un’oretta, sinistramente addobbata in arancione come le tante farlocche “rivoluzioni colorate” che hanno depistato l’Occidente negli ultimi anni, in televisione, tra una fake news e l’altra. Ricompare innaturalmente, l’ipotetico l’animalone su rotaia, in forma di archetipo: qualcosa che esiste solo nell’iperurario, nel mondo delle idee, e dopo più di vent’anni ancora attende qualcuno che lo traduca finalmente in un evento materiale spiegabile, sensato, ragionevole, oltre che desiderabile. Per i comizianti convocati dal vecchio establishment torinese, infatti, l’entità miracolosa che nei loro sogni miliardari salverebbe la città è sempre intangibile come la fede, impalpabile come la felicità. Il rettilone sputa-amianto è semplicemente la gioia, il bene, la storia, il progresso, la civiltà. Impossibile chiedere agli arancioni la decenza di una spiegazione: ai fedeli non serve.Non serve nemmeno ai giornali, una spiegazione. Quali meraviglie potrebbe mai portare in dono, il drago metallico che i bene informati non vogliono? Forse non è il caso di chiarirlo neppure stavolta, di fronte agli “oltre 30.000” manifestanti in piazza Castello, che sono “25.000” per la questura ma restano “oltre 30.000, forse 40.000” per tutti i grandi media, ennesima dimostrazione del carattere prodigioso dell’evocazione. Perfettamente inutile sfogliare la “Stampa”, i titoli parlano da soli: “Torino, in piazza i 30.000 del popolo del Sì”. Trentamila eroi (sempre gli stessi 25.000 per la questura): “Piazza piena, ma civile”. Le voci: “Perché SìTav: non siamo madamin che stanno a casa a cucire, vogliamo un futuro”. Già: perché SìTav? Mistero della fede: guai a svelarlo, pena il crollo carismatico del clero officiante. Per l’occasione, molto solenne, se ne occupa – citando De Gasperi, nientemeno, come suscitatore di folle torinesi – l’ex sottosegretario berlusconiano Mino Giachino, esponente del Rito Unificato (Pd e Forza Italia) che il Serpentone ha saputo creare, riunendo sotto un’unica bandiera l’affarismo italico. «In questi vent’anni è stato bloccato lo sviluppo del paese», proclama monsignor Giachino, uno che quindi in questi ultimi vent’anni non stava al governo, ma in vacanza permanente alle Hawaii.Diciamo sì al Tav, insiste il reverendo, «perché negli ultimi vent’anni l’Italia ha perso 20 punti di Pil rispetto alla media europea, e Torino di più». L’Italia è arretrata, è vero: ma perché? Colpa della globalizzazione, del neoliberismo, della deindustrializzazione? Delle delocalizzazioni e del regime di austerity a base di tagli e tasse, e quindi di licenziamenti? Colpa della guerra anti-italiana scatenata dall’oligarchia franco-tedesca grazie all’Unione Europea con il fondamentale contributo dei collaborazionisti nostrani? Colpa della crisi finanziaria? Colpa dell’élite speculativa che ha precarizzato il lavoro e demolito i consumi? Ma no, suvvia: Prodi e Draghi non contano niente, l’Eurozona è una leggenda, Mario Monti resta un personaggio letterario come Giorgio Napolitano. La disgrazia piovuta sull’Italia, inclusa Torino (con l’eccezione dell’Impero Juventus, prontamente trasferito a Detroit) ha un’unica causa evidente, mitologicamente impeccabile: la pervicace resistenza dell’Impero del Male, popolato dai farabutti NoTav, nel consentire alla Luce di rischiarare finalmente le tenebre, il funereo abisso nel quale le “madamin” in arancione raggruppate in piazza Castello sono certe di rischiare di sprofondare. «Siamo tutti qui per dire sì al futuro e sì al lavoro», chiosa il cardinal Giachino, tra le ovazioni.Il magico Serpentone scaccia-malocchio ha anche il potere taumaturgico di ridisegnare la geografia: «Sì alla Tav, che collega il Piemonte all’Europa e all’Asia», si sente cantare dal palco, come se il povero Piemonte fosse una terra di pastorelli costretti ad arrancare a dorso di mulo. «Sì a Torino come centro di scambi, porta aperta verso gli altri paesi, snodo sulla rete ferroviaria internazionale». Percepito da piazza Castello, il Serpentone perde il suo colore arancione e si tinge di giallo, come la coda del Dragone cinese. Eccolo, il futuro: Torino come “centro si scambi” sulla Nuova Via della Seta, destinata a trasformare l’Eurasia in un mercato viaggiante di vagoni e container. Ah, se solo ci fosse una ferrovia capace di collegare Torino a Lione… C’è già, nel mondo reale: si chiama Torino-Modane e utilizza il traforo del Fréjus appena riammodernato con quasi mezzo miliardo di euro per farvi transitare anche i container più grandi. Ma è noto che la realtà non giova al pensiero magico che si nutre del soprannaturale. Che fine farebbe, il fenomenale Serpentone, se per sbaglio deragliasse dalle usuali rotaie metafisiche? Meglio le fiabe soavemente narrate, ancora una volta, dal celebrante televisivo, magnificamente riproposte a reti unificate dagli stessi media che, l’8 dicembre, quando la città sarà invasa dai barbari NoTav, spegneranno come al solito i microfoni. Il Serpentone, del resto, è pura trascendenza: tentare di spiegarne l’utilità, oltre che impossibile, sarebbe un atto sacrilego.L’animalone mitologico chiamato Tav Torino-Lione è riapparso – in purezza, per evocazione – nel cuore sabaudo di Torino, la città-Stato transitata senza colpo ferire dai Savoia alla Fiat e quindi al Pd, prima di smarrirsi (per un caso tuttora misterioso) tra i proclami palingenetici dei 5 Stelle, guidati addirittura da una donna. Riappare a comando, il mitico Serpentone superveloce, a beneficio delle telecamere: un’epifania mediatica lunga circa un’oretta, sinistramente addobbata in arancione come le tante farlocche “rivoluzioni colorate” che hanno depistato l’Occidente negli ultimi anni, in televisione, tra una fake news e l’altra. Ricompare innaturalmente, l’ipotetico l’animalone su rotaia, in forma di archetipo: qualcosa che esiste solo nell’iperurario, nel mondo delle idee, e dopo più di vent’anni ancora attende qualcuno che lo traduca finalmente in un evento materiale spiegabile, sensato, ragionevole, oltre che desiderabile. Per i comizianti convocati dal vecchio establishment torinese, infatti, l’entità miracolosa che nei loro sogni miliardari salverebbe la città è sempre intangibile come la fede, impalpabile come la felicità. Il rettilone sputa-amianto è semplicemente la gioia, il bene, la storia, il progresso, la civiltà. Impossibile chiedere agli arancioni la decenza di una spiegazione: ai fedeli non serve.
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Moiso: via il Che da quelle magliette, metteteci Draghi
Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.Mi ricordo chiaramente come Sankara avesse smascherato platealmente, alle Nazioni Unite, come il debito pubblico fosse un’arma di controllo post-coloniale, rivendicando la necessità di aiutare il popolo africano in Africa; e mi ricordo ancora più chiaramente come Ernesto “Che” Guevara, sempre alle Nazioni Unite, rivendicò il principio della sovranità del popolo di fronte all’imperialismo del mondo finanziario. Ora… o mi ricordo male io, o gli elettori progressisti non sono progressisti (e in effetti tra i progressisti si nascondono molti conservatori e comunisti) o la classe politica sedicente progressista ha mantenuto la narrativa progressista ma si è completamente venduta al neoliberismo. Alcuni potrebbero guardare al nazionalismo e al comunismo con nostalgia, come reazione alle politiche neoliberiste dell’attuale sedicente sinistra… La verità è che nonostante “Che” Guevara e Sankara si dicessero comunisti, non è certo nel comunismo che troviamo l’esempio che hanno lasciato nella storia.Piuttosto, queste persone ci hanno insegnato che non c’è niente, nella vita, che valga più della lotta per il bene della collettività; della lotta per creare un mondo giusto ed equo. Oggi, ci sentiamo dire che dobbiamo fare i conti con l’economia e con la finanza, base imprescindibile di un sistema sociale che ha sostituito gli indicatori economici e finanziari ai diritti umani. Ma la storia insegna che nel XVII, XVIII e XIX secolo il popolo si sentiva dire che non si potesse lottare contro una monarchia reggente per volere di Dio. Ecco, personaggi come Sankara e “Che” Guevara non ci insegnano che il comunismo sia la filosofia economica sulla quale ricostruire la società, ma piuttosto ci insegnano che si può e si deve lottare anche oggi – e che la lotta vale una vita.(Marco Moiso, “Si sbiadiscono le magliette della sedicente sinistra”, dal blog del Movimento Roosevelt del 7 novembre 2018).Che strana questa sedicente sinistra che critica coloro che parlano di sovranità, che pensa di dover organizzare le proprie iniziative politiche partendo dalla necessità assoluta e imprescindibile di tagliare il debito pubblico, e che crede che l’accoglienza indiscriminata di quelle povere persone che vengono dall’Africa e dal Medio Oriente possa essere una soluzione giusta e sostenibile. Che strana, questa sedicente sinistra che da giovane appendeva, vestiva e si tatuava “Che” Guevara, Marx e Sankara; avrebbe piuttosto dovuto vestire le maglie con la faccia di Mario Draghi, appendere i poster di Visco in cameretta affianco a quelli dei Guns’n’Roses e farsi i tatuaggi di Mattarella o Monti sulla spalla; questo sì che sarebbe stato coerente con le loro posizioni odierne! Viene da pensare, perché mi ricordo chiaramente Marx ed Engels scrivere di come l’immigrazione indiscriminata irlandese – in condizioni di scarsità di risorse – potesse danneggiare le condizioni dei lavoratori inglesi, nonché sottoporre i lavoratori irlandesi a condizioni disumane.
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Livigni: ci governa la cupola che liquidò Kennedy e Mattei
Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.Una prima trattativa avvenne all’Hotel Excelsior di Roma, in grandissimo segreto. Mattei non si fece assistere da nessuno. Kennedy chiese alle grandi compagnie americane di mettere Mattei in condizioni di fare affari, di offrirgli contratti migliori di quelli che aveva con l’Unione Sovietica. Dopo lunghe trattative, venne fatto un contratto tra l’Eni e la Esso per la fornitura di 12 milioni di tonnellate l’anno di greggio a condizioni veramente migliori di quelle che Mattei aveva con l’Urss. Dopo l’accordo commerciale, segretissimo, si passò alla trattativa politica. Parteciparono il responsabile della politica estera di Kennedy e il futuro capo della Cia in Italia. Mattei doveva andare a dicembre 1962 a incontrare Kennedy. Non ne parlò con nessuno, neanche con me. Era abbastanza teso, in quei giorni: aveva ricevuto minacce. La cosa che mi colpì è che era stato in Sicilia, il 18 ottobre 1962. C’era stato un incontro a Gela, un Cda della Agip Mineraria. Lui transitò da Palermo, mi chiamò e mi disse: «Ti voglio vedere subito in aeroporto». Arrivò con l’aereo aziendale, mi diede indicazioni su fatti che stavamo svolgendo e io gli dissi: «Presidente, venga entro l’anno, perché abbiamo fatto una realizzazione, a Gela, che voleva lei: un grande deposito costiero per importare dalla raffineria di Gela i prodotti sul mercato». Lui disse: «Non posso venire, ho parecchi impegni, ci vediamo il prossimo anno».Dopo sette giorni ricevo una sua telefonata. Io mi trovo a Palermo, avevo un incarico di “scout man”, l’uomo dei servizi segreti nel petrolio che cerca di sapere cosa fanno le altre compagnie. Mi disse: «Sto partendo per Gela». «Presidente, ma… come mai?». «Poi glielo dico». Arrivai a Gela prima di lui, andai al Motel Agip e mi dissero: «Non atterra qui». L’Agip aveva un aeroporto privato, l’aeroporto di Ponte Olivo, con una pista molto sorvegliata. Ma la sera prima avevano messo una carica di tritolo e rotto la pista per non farlo atterrare, per farlo venire con l’elicottero. E lui dovette atterrare a Catania, arrivò intorno alle 13. Abbiamo parlato di problemi in corso che riguardavano l’Iraq. Nessun libro, dei 300 e rotti pubblicati nel mondo su Mattei, ha mai parlato dell’Iraq. Sapevo che c’era una questione in Iran: non si era riusciti a entrare nel consorzio dopo la caduta di Mossadeq, fatto cadere dagli angloamericani perché aveva nazionalizzato il petrolio (fatto cadere con l’uso dei sicari dell’economia). Mossadeq fu denunziato come se fosse un pazzo, e invece era molto saggio: era presidente del Consiglio del primo governo democratico iraniano, un governo eletto dal popolo.Gli americani tornarono con gli inglesi e riaprirono le compagnie angloamericane, fecero un consorzio e noi siamo stati rifiutati. E Mattei disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Che cosa era successo? Io ho conosciuto a Taormina Dino Grandi, ex ministro degli esteri del governo Mussolini, che mi ha informato che nel 1934 l’Agip, fondata nel 1926, era riuscita a ottenere in Iraq il più grande giacimento nell’area di Kirkuk, nell’area curda. Era riuscita per l’abilità di Grandi che venne a patti con gli inglesi, che avevano l’85% del territorio iracheno. Una concessione enorme, con una sessantina di concessioni. L’Iraq è un’invenzione di Churchill, che aveva capito che – tirando una linea, un rettangolo, e unificando sciiti, curdi, sunniti e turcomanni – avrebbe creato un paese in eterno confitto, facilmente governabile e dominabile da un punto di vista coloniale. Dino Grandi diede appoggio all’Inghilterra, perché scadeva il protettorato inglese nel 1934, presso la Società delle Nazioni, la futura Onu. In contropartita, l’Inghilterra accettò che l’Agip rilevasse una piccola società petrolifera, e poi accettò che questa si ingrandisse fino a diventare una concessione importante, che si chiama Mossul Oil Field.E però avvenne che nel 1935 le truppe italiane invadono l’Etiopia, gli inglesi ricattano la Agip, dicono: «Se vuoi che noi interveniamo alla Società delle Nazioni per non fare sanzioni e un embargo petrolifero, ci devi cedere la Mossul Oil Field». Grandi trattò, e alla fine trovarono una soluzione: sarebbe andato a inglesi e americani il 51%, però l’Agip avrebbe mantenuto il 39% e una presenza strategica nella “golden share” della società, cioè avrebbe partecipato alle politiche e alle strategie. Quando Grandi tornò a Roma, Mussolini ebbe paura e disse: «No, cediamo la società, perché gli inglesi poi mi possono giocare un brutto scherzo, e io non posso fermare in Etiopia le truppe con un embargo». Mattei sapeva tutto questo, e dopo che fummo rifiutati dal consorzio iraniano disse: «Andiamoci a prendere il petrolio in Iraq». Si formò un gruppo molto ristretto. Io lavorai con l’équipe che andò in Iraq quando Khassem, nel 1958, abbatté la monarchia irachena di Re Faysal. Khassem venne contattato nel mese di agosto, in una caserma, mentre fuori si sparava. Gli fu portata una credenziale di Mattei, in cui diceva: «Vogliamo fare con voi un contratto paritetico, un partenariato, non un contratto in cui vi vede paese esattore di tasse o di royalty. Facciamolo insieme, facciamo una società paritetica che si occuperà anche di altre cose connesse al petrolio». Lui accettò e disse: «Voglio però prima cacciare via l’Iraq Petroleum Company».E così si iniziò a dare assistenza legale a Khassem esaminando, concessione per concessione, l’Iraq Petroleum Company, per vedere dove questa società aveva mancato. Su 60 e rotti concessioni, la società ne aveva sfruttato solo tre, con un atteggiamento di scorrettezza enorme: si era mantenuta come riserva le altre risorse, privando il popolo iracheno di quelle royalty, ancorché irrisorie. Nel 1962 Khassem revocò le concessioni, queste 57 concessioni, all’Iraq Petroleum Company. Era una bomba! Una delle più grandi compagnie del mondo veniva buttata fuori, perché Khassem avrebbe fatto entrare l’Eni. Seguii da vicino la faccenda, ma non eravamo sicuri di essere sfuggiti ai servizi segreti americani e inglesi, perché in Italia c’era parecchia gente che voleva la fine di Mattei – parecchia. Lui aveva rotto con Fanfani: mandò all’opposizione i fanfaniani siciliani, che non erano gente troppo facile – erano Gioia, Lima. Avevano indirizzato i finanziamenti alla Dc, a Fanfani, a Moro. Era rottura totale, e Fanfani era presidente del Consiglio. Poi c’è la questione Cefis: Mattei lo aveva cacciato fuori, il vicepresidente, che era un uomo dei servizi inglesi.Mattei era isolato, e durante la trattativa ho scoperto, con i documenti avuti, che c’erano stati interventi pesantissimi dell’ambasciata americana e inglese a Roma su Fanfani, per fermare Mattei, e Fanfani ha risposto: «Io Mattei non lo posso fermare, non ho il potere». È una cosa gravissima: «Fermare a ogni costo». Khassem fece una società nazionale per creare poi una società paritetica con noi, fece sapere che voleva dare un annunzio al giornalismo internazionale di questo progetto della costizione della compagnia nazionale: non c’era più influenza esterna. Noi abbiamo detto: «Prendi tempo!». Era il 16 settembre del 1962. E Khassem, per la smania di dimostrare al popolo che stava lavorando per il bene dell’Iraq, rilasciò un’intervista che ci fece gelare. Disse: «Io ho revocato le concessioni all’Iraq Petroleum company e sto realizzando una società paritetica con l’Eni». Ci siamo sentiti persi: era grave, gravissimo. Abbiamo detto a Mattei di stare attento, di non viaggiare più in aereo. E quindi arrivò in Sicilia il giorno 26 ottobre. Eravamo terrorizzati. Io ho detto: «Presidente, non riparta questa sera per Milano. Venga con me, andiamo in campagna, mia moglie ha campagne vicino Palermo. Si riposi, non chiami neanche sua moglie. Un amico andrà a Roma e avviserà sua moglie, ma lo farà in modo privato: per un mese, “faccia finta di…”». Lui disse: «No, devo andare. Devo incontrarmi a Milano con l’onorevole Tremelloni questa sera e poi devo partire, devo fare il contratto con l’Algeria».Era un altro contratto molto osteggiato dagli angloamericani, ma soprattutto da Fanfani perché non voleva che Mattei portasse avanti una politica di rottura nei confronti delle Sette Sorelle (fu Mattei a definirle così, in verità all’inizio voleva dire “sorellastre” ma poi i giornalisti l’hanno modificato). E’ voluto partire lo stesso, Mattei. E quella sera l’aereo è caduto. In Italia abbiamo avuto una porcheria degna di nessun paese al mondo. Quando pubblicai “La grande sfida”, il procuratore Vincenzo Calia di Pavia, zona dove l’aereo è caduto, riaprì l’inchiesta perché la novità era il rapporto Mattei-Kennedy. Indagò con molta serietà, Calia. Ho avuto l’onore di collaborare da vicino con l’avanzamento inchiesta, e si accertò l’avvenuto sabotaggio. Si sono riesumati i corpi di Mattei e Bertuzzi, il pilota, e si sono trovate tracce di esplosivo: Compound 200, un esplosivo molto potente. Si è accertato che l’esplosivo era stato messo sotto i comandi del carrello, e si può fare attraverso il ruotino: si infila la carica con una calamita. La notte tra il 25 e il 26, l’aereo era stato portato dentro l’hangar militare della Nato (quello che vi dico è nell’inchiesta), ed è stato sabotato dai servizi: l’ho scritto. L’aereo, quando il pilota azionò la cloche per scendere, è andato in aria, è esploso.Ebbene, quest’inchiesta, che stava arrivando ai mandanti, già individuati (il magistrato stava acquisendo ulteriori elementi per le prove) è stata archiviata nel 2003. Dicono che Mattei non si sa perché è morto, alcuni dicono in un incidente: è una vergogna che una verità sia stata occultata. Se ammazzano un uomo non succede niente: un paese indegno. (Io ci ho perduto la moglie, nel luglio 2007: una macchina ci ha speronato e mia moglie è morta. Ebbene, chi ci ha speronato – che era ubriaco e drogato – sta passeggiando tranquillo, si diverte, va alle feste. Denunziato per omicidio colposo, ma non succederà niente!). Ritorniamo a Mattei. Archiviata l’inchiesta, io ho fatto un libro in 25 giorni, lavorando notte e giorno, che si chiama “Caso Mattei, un giallo Italiano”. Perché giallo italiano? Perché alla fine è stata gestito da italiani, da uomini per cui l’escalation di Mattei nella politica avrebbe dichiarato la fine politica o manageriale. E poi ho messo in evidenza, da una serie di documenti, un rapporto tra l’assassinio di Kennedy e quello di Mattei. A Catania c’era, quel giorno, Carlos Marcello, che è stato implicato nell’assassinio di Kennedy. Il tutto converge sull’oligarchia britannica – sulla Permidex, controspionaggio inglese.Siamo sempre lì: il centro del mondo nella finanza è Londra, e quindi Mattei ha messo in difficoltà gli inglesi. Kennedy lo stesso, perché ha rotto i rapporti con l’oligarchia britannica della politica a fini finanziari, e ha posto fine alla guerra in Corea senza interpellare gli inglesi. Non ci sono prove, ma c’è un legame comune. Quindi Mattei è stato ucciso, anche se tutti quelli che hanno scritto libri, come Bruno Vespa, dicono è caduto per un incidente aereo. Negli anni ‘90 è accaduto qualcosa di grave, ma i giornali italiani non hanno parlato di nulla perché fanno solo propaganda, poi alla fine le verità vengono negate. E’ successo questo: cade il Muro di Berlino, e il ministro Scotti avverte il capo del governo che manovre strane stavano avvenendo da parte di importanti banche d’affari contro l’economia italiana. Poi ribadisce: me lo ha detto Parisi. Mi ha detto pure che potrebbero avvenire stragi o uccisioni. Nel ‘92 avvenne la strage di Capaci, dove la mafia ha avuto solo un ruolo di supporto militare. Invece è una strage con gruppi di potere più o meno occulto, che prepararono una svolta economica e politica: «Vogliamo sedere in Parlamento, vogliamo governare». Allora l’Italia avvia la svendita dell’economia pubblica.Voglio parlare dell’Eni. Quando finì la guerra si avviò un dibattito tra i cattolici sociali e la sinistra italiana, guidata dai comunisti. Dovevano decidere quale struttura economica si doveva dare lo Stato italiano dopo il fascismo. I cattolici sociali hanno rifiutato il liberismo con una grande intuizione, perché il liberalismo penalizza le classi più deboli e spesso anche la vita della gente. Si creò un compromesso con lo Stato imprenditore che opera con le leggi del mercato in concorrenza, indirizzando in aree depresse anche l’economia privata. Viene privatizzato l’Eni, nel 1994 viene privatizzato l’Iri, altre aziende dello Stato nel campo delle telecomunicazioni. Alla fine di questo scempio, di questa carneficina, si sono divisi tutto. E nessuno ha mai parlato. Un pezzo alla sinistra, un pezzo alla destra: un’operazione scellerata di abbrutimento. L’unica denunzia viene fatta dal movimento civile americano di Lyndon LaRouche, ma Ciampi diventò presidente e tutto fu insabbiato. Tutto il patrimonio immobiliare dell’Eni, stimato in 100.000 miliardi, viene svenduto a un fondo Goldman Sachs. Stranamente, l’uomo che ha condotto questa operazione è stato Mario Draghi, che poi è diventato vicepresidente della Goldman. Non si può accettare, si tratta della logica più miserabile. Io l’ho denunziato, ma non è successo niente.Vorrei tornare su Enrico Mattei, di cui sono stato uno strettissimo collaboratore, per dire che in Italia è avvenuto qualcosa di orrendo, di sporco. Era stata fatta una inchiesta, quando l’aereo precipitò a Bascapè: un’inchiesta vergognosa, fatta da depistaggi e coperture della verità. Un’altra mezza inchiesta era stata subito chiusa. Nel 1994 ho pubblicato un libro con la Mondatori che si chiama “La grande sfida”, e sono riuscito avere documentazioni top secret dagli archivi della Jfk Library di Boston, dall’Eisenhower Library e, con mia sorpresa, ho scoperto che tra Mattei e Kennedy c’era una corrispondenza molto stretta. Dopo la crisi di Suez, quando Inghilterra e Francia erano state invitate dagli Stati Uniti a ritirarsi durante la Guerra di Suez, perché gli Usa temevano uno shock petrolifero, l’Italia avanzò la proposta di coprire un ruolo di nazione strategica, sul Mediterraneo, in sostituzione di Francia e Inghilterra. Kennedy era d’accordo, però bisognava dare stabilità politica al governo italiano, che cambiava ogni due mesi (c’era stata la crisi del governo Tambroni, che durò un mese e mezzo). Per dare stabilità politica bisognava scegliere un uomo e fare riforme. Kennedy esaminò tutti i possibili interlocutori italiani, e li scartò subito: via Fanfani, via Gronchi. E arrivò a Mattei: di lui, Kennedy era affascinato. E iniziarono delle trattative.
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Moncalvo: Agnelli segreti, il potere Usa dietro a Marchionne
Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.Autore di una minuziosa ricostruzione, basata essenzialmente sulle carte processuali prodotte dalla clamosa “guerra familiare” aperta da Margherita Agnelli per difendersi da quello che lei considera “il golpe del 2003”, Moncalvo ha riempito di voluminosi dossier un intero appartamento. Un lavoro di scavo giornalistico, il suo, magistralmente riproposto – a puntate – anche nelle trasmissioni “Reteconomy”, diffuse su YouTube. Focus: la controversia giudiziaria (non ancora esaurita, ma silenziata dai media) sulla vastissima eredità di Gianni Agnelli, in gran parte costituita da beni collocati all’estero: «Dal testamento emerse un ammontare che si aggirava sui 300 milioni di euro, inferiore a quelli di Pavarotti e Lucio Dalla, mentre oggi la vedova dell’Avvocato, Marella Caracciolo, è accreditata di una fortuna pari ad almeno 20 miliardi di euro, forse in parte custoditi in un bunker super-blindato all’aeroporto di Ginevra». Singolare, rileva Moncalvo, che tanto denaro sia stato parcheggiato all’estero, da un uomo a capo di un’azienda così pesantemente foraggiata dallo Stato italiano: straniera, oggi, anche la domiciliazione fiscale dell’ex Fiat, senza calcolare i conti (personali) nei vari paradisi fiscali del pianeta.Proprio la ricostruzione della reale entità patrimoniale del padre, ricorda Moncalvo, è stata il punto di partenza della clamorosa azione legale condotta da Margherita Agnelli, ex moglie di Alain Elkann e madre di Lapo e John, vistasi improvvisamente isolata: all’apertura del testamento, Margherita Agnelli scoprì che sua madre Marella e suo figlio John si erano accordati con i due plenipotenziari dell’anziano “monarca”, vale a dire Gianluigi Gabetti (amministratore dei beni di famiglia) e Franzo Grande Stevens, divenuto l’avvocato più importante, nella vita di Gianni Agnelli, dopo la perdita dello storico legale Vittorio Chiusano. L’intento di Margherita, spiega Moncalvo, era quello di riunire la famiglia – lei, la madre e il figlio – nella piena condivisione paritetica della “Dicembre”, vero e proprio forziere dell’impero Fiat, pur essendo una “società semplice” (senza neppure l’obbligo di presentare bilanci). Ma nello stesso giorno della lettura testamentaria, continua Moncalvo, Margherita Agnelli ebbe la più amara delle sorprese: sua madre Marella cedette gran parte delle sue quote della “Dicembre” all’allora giovanissimo nipote John, che a quel punto divenne formalmente l’unico vero padrone dei destini della “royal family”, senza però che vi fosse traccia di un’investitura (scritta) da parte del nonno. Come se, appunto, l’operazione fosse stata il frutto di una occhiuta regia esterna, affidata all’abilissima “manovalanza” di Gabetti e Grande Stevens.Il primo a protestare per lo strano ingresso nel board Fiat dell’imberbe John Elkann era stato Edoardo Agnelli, che nella “Dicembre” non aveva mai neppure voluto mettere piede. Poco prima di essere ritrovato senza vita ai piedi di un viadotto dell’autostrada Torino-Savona, il figlio “ribelle” dell’Avvocato confidò al “Manifesto” che trovava inappropriata la nomina del 21enne John nel Cda della Fiat, a pochi giorni dalla morte del cugino “Giovannino” (Giovanni Alberto) Agnelli, figlio di Umberto, lanciatissimo nella carriera aziendale ma stroncato da un tumore a soli 33 anni. John Elkann, ricorda Moncalvo, in fondo deve la sua attuale posizione a una serie terribile di decessi: il nonno Gianni, lo zio Umberto, il cugino Giovannino e, ovviamente, lo stesso Edoardo, sulla cui fine – l’ipotetico volo dal viadotto di Fossano – le prime ombre furono sollevate dal regime iraniano, secondo cui il figlio dell’Avvocato sarebbe stato “suicidato dai sionisti”. Evidente l’allusione (velenosa) ad Alain Elkann, il padre di John, ebreo osservante. Secondo lo studioso italiano Gianfranco Carpeoro, Alain Elkann sarebbe un autorevole esponente nel B’nai B’rith, esclusiva massoneria ebraica strettamente controllata dal Mossad, mentre lo sfortunato Edoardo Agnelli, fratello di Margherita, aveva aderito all’Islam e addirittura al Sufismo. Una celebre foto lo ritrare in preghiera a Teheran, di fronte all’ayatollah Alì Khamenei.Nella visione di Moncalvo (autore non solo di “Agnelli segreti”, ma anche de “I lupi e gli agnelli”) la tragica fine di Edoardo è ben presente, ma il giornalista evita accuratamente qualsiasi tentazione complottistica. Moncalvo preferisce stare ai fatti: e le carte (specie quelle prodotte da Margherita Agnelli) raccontano di una sostanziale svolta, nel management e nella proprietà dell’impero ex-Fiat, che appare imposta da lontano, come se i veri dominus del destino del gruppo non risiederesso più a Torino. Un “trasloco” reso lampante dall’avvento di Marchionne, ma in realtà risalente – nelle intenzioni – a un passato assai meno recente. Ai microfoni di “Forme d’onda”, Moncalvo parla addirittura del primissimo dopoguerra, quando l’allora giovane “vitellone” Gianni Agnelli, rinomato playboy, «viveva in una sfarzosa villa in Costa Azzurra, disertata però dal bel mondo dell’epoca, che non perdonava al rampollo torinese la fortuna del nonno, costruita con le commesse militari del fascismo». Tutto cambiò, dice Moncalvo, quando Gianni Agnelli incontrò «la donna più importante della sua vita: Pamela Churchill Harriman», nuora dello statista britannico. «Da quel momento, la nuova fidanzata gli aprì porte prima impensabili: le grandi banche d’affari americane, i Rothschild, i Rockefeller. Potenze finanziarie, coinvolte nel Piano Marshall che poi avviò la “resurrezione” della Fiat devastata dalle bombe alleate».Del resto, è noto che lo stesso Gianni Agnelli scrisse la prefazione (nell’edizione italiana) dello storico saggio “La crisi della democrazia”, vero e proprio manifesto del pensiero unico neoliberista, commissionato da quella Commissione Trilaterale di cui lo stesso Avvocato era membro, accanto a personaggi come Henry Kissinger e David Rockefeller. Moncalvo invita a far luce sull’insieme, collegando i fili su cui il giornalismo nostrano sorvola regolarmente. Per poi scoprire, magari, che alla morte dell’Avvocato quel super-potere si è semplicemente ripreso il pieno controllo dell’impero torinese, a lungo affidato alla sapiente guida politica del principe degli industriali italiani. Un monarca intoccabile, ricorda Moncalvo: avvicinandosi la tempesta di Tangentopoli, Gianni Agnelli ottenne l’immunità parlamentare da Francesco Cossiga, che lo nominò senatore a vita, mentre l’avvocato Chiusano “blindò” la Fiat dall’insidioso attacco di Mani Pulite, che aveva già portato all’arresto del numero tre del gruppo, Francesco Paolo Mattioli, la mente finanziaria della holding torinese.Riuscirono a fare della Fiat un’eccezione, dice Moncalvo: grazie al magistrale Chiusano, si stabilì che il tribunale competente non sarebbe stato quello dell’area dove erano stati contestati i reati (Milano) ma quello di Torino, sede dell’azienda. «Un po’ come se la Juventus giocasse sempre e solo in casa». E a proposito di Juve: «Mai, con l’Avvocato in vita, si sarebbe potuta contestare legalmente la gestione Moggi, togliendo scudetti alla squadra fino a retrocederla in Serie B». Moncalvo spiega così sua la passione per il giallo-Agnelli: «La dirompente azione legale di Margherita ha permesso di svolgere finalmente un’attività giornalistica, attorno alla famiglia più potente d’Italia, sempre protetta dalla micidiale autocensura degli stessi giornalisti, e non solo». Pensate, aggiunge, che il film-capolavoro “Il silenzio degli innocenti”, con Anthony Hopkins e Jodie Foster, uscì in tutto il mondo con il titolo originale, “The silence of the lambs”, cioè quello del romanzo di Thomas Harris, da cui era tratto. Solo in Italia, «senza alcun riguardo per l’opera di Harris», al “silenzio degli agnelli” si preferì quello, molto meno rischioso, degli “innocenti”.(Sono due i saggi di Moncalvo sulla famiglia Agnelli, stranamente irreperibili in libreria ma comodamente acquistabili sul sito dell’autore. Il primo: Gigi Moncalvo, “Agnelli segreti”, sottotitolo “Peccati, passioni e verità nascoste dell’ultima ‘famiglia reale’ italiana”, 522 pagine, 20 euro. Contenuto: “Processi di cui nessuno parla, testamenti ’segreti’, amori clandestini, morti sospette, eredità contese, prestanome all’estero, evasioni fiscali: a undici anni dalla morte dell’Avvocato, finalmente senza censure la saga familiare più avvincente d’Italia”. Il secondo: Gigi Moncalvo, “I lupi e gli agnelli”, sottotitolo “Ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”, 476 pagine, 20 euro. Contenuto: “Mi hanno rubato i figli per farne degli eredi Agnelli”. Il racconto delle verità, dei retroscena, delle ‘trappole’, dei documenti inediti che hanno fatto da contorno alla guerra dichiarata da Margherita alla sua famiglia. E viceversa…).Chiedetevi chi mise Sergio Marchionne alla guida della Fiat, e capirete anche perché – alla morte di Gianni Agnelli, nel 2003 – la figlia Margherita fu clamorosamente estromessa dal futuro della famiglia, cioè dal controllo della impalpabile ma potentissima società “Dicembre”, vera e propria cassaforte e cabina di regia dell’Avvocato. E’ la tesi che propone Gigi Moncalvo, autore del dirompente saggio “Agnelli segreti”, misteriosamente sparito dalle librerie ma acquistabile online attraverso il sito dello stesso Moncalvo, giornalista di lungo corso. In un intervento-fiume alla trasmissione web-radio “Forme d’onda”, Moncalvo sintetizza: il potere finanziario globalizzatore si è sostanzialmente “ripreso” la holding torinese, imponendo le sue decisioni (Marchionne, John Elkann) dopo che i nomi più celebri della finanza planetaria – Rothschild, Rockefeller – avevano “soccorso” l’allora giovane Agnelli, erede del complesso industriale torinese che si era immensamente arricchito soprattutto con la guerra fascista. Armi e mezzi, treni e camion, motori: forniture pagate in lingotti d’oro. Poi, i bombardamenti alleati e la ricostruzione degli stabilimenti, con il Piano Marshall. Da allora, “l’amico americano” non mollò più la Fiat. E alla morte del carismatico Avvocato fece emergere in modo evidente le sue scelte: Marchionne e la Chrysler, al culmine di una internazionalizzazione già avanzatissima, con la sede fiscale in Gran Bretagna e il lavoro sostanzialmente portato via dall’Italia.
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L’Italia vera e quella (indecente) di Moody’s e Cottarelli
Ci sarebbe da ridere, non fosse per i brutti ceffi in circolazione e le loro cattive intenzioni verso il sistema-Italia, ancora solido nonostante l’impegno che gli eurocrati hanno profuso per azzopparlo. Prima comica: azzannano il timido governo gialloverde, che si è limitato al 2,4% di deficit (contro il 3% ammesso da Maastricht), neanche fosse un esecutivo rivoluzionario. Seconda comica: gli stregoni di Moody’s declassano l’Italia, regina del risparmio europeo, in combutta coi loro azionisti bancari, che speculeranno sul ribasso del rating. Terza comica: a strapparsi i capelli sono l’infimo Martina, candidato a guidare il Pd verso l’estinzione, e Antonio Tajani, «decadente e grottesco presidente del Parlamento Europeo, figura modestissima e nuovo frontman di Berlusconi per le prossime europee, anche lui impegnato a spiegarci che andiamo verso la rovina». A mettersi le mani nei capelli semmai, è Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: costretto a vedere la televisione di Stato che strapaga l’oligarca Cottarelli perché ripeta, nel salotto di Fazio, che la visione economica del mondo è una sola: la sua. Il primo a denunciare «la presa per i fondelli a spese degli italiani» è stato Gianluigi Paragone: non è curioso che a spillare quattrini alla Rai sia proprio Cottarelli, cioè il massimo censore della spesa pubblica? «Quello sarebbe il primo spreco da tagliare», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube.Stiamo vivendo agitazioni surreali, esordisce l’autore del bestseller “Massoni”, in collegamento con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La storia delle “manine” che secondo Di Maio avrebbero manipolato il decreto fiscale? «Fa un po’ ridere i polli», così come il proditorio declassamento di Moody’s. «Siamo alla farsa finale: il sistema è talmente in crisi, e anche tremebondo, che mette in atto meccanismi spudorati, e quindi anche facilmente smascherabili». Le agenzie di rating? Non sono imparziali: «Sono aziende che perseguono profitto in pieno conflitto d’interessi, perché i loro azionisti hanno interessi di tipo speculativo e possono trarre vantaggio proprio dai declassamenti delle agenzie di cui detengono i pacchetti azionari. Possono cioè trarre profitto da quello che le agenzie di rating promettono o minacciano, e dal panico che il giudizio di queste agenzie può indurre». Questo, aggiunge Magaldi, è un sistema malato, al quale Moody’s dà un ulteriore colpo. «Da un lato la Bce non fa il suo mestiere di banca centrale e non garantisce il debito in titoli di Stato dell’Italia, come dovrebbe, per mantenere basso il famigerato spread. Dall’altro, le sedicenti istituzioni europee mandano i “pizzini” e disapprovano la manovra del governo, mostrando il loro cipiglio».Poi ci sono i pupazzi del teatrino italiano – i Martina, i Tajani – che suonano l’allarme. E quali sarebbero queste grandi e radicali manovre del governo Conte, che tanto preoccupano costoro? L’aver ipotizzato qualche spesa per lenire le condizioni di indigenza, senza neppure istituire un vero reddito di cittadinanza? Qualche spesa per migliorare la situazione fiscale? «Tutte cose che noi del Movimento Roosevelt salutiamo come un inizio, l’aurora di un possibile nuovo scenario, ma siamo sicuramente al di sotto delle proclamazioni solenni degli uni e degli altri», chiarisce Magaldi. «Dal punto di vista del governo c’è poco da strombazzare un New Deal, che non è ancora iniziato. Per contro, chi contesta il fatto che queste misure portino al 2,4% del rappoto deficit-Pil, ripete che, per questo motivo, il governo italiano andrebbe ricondotto alla ragione a forza di bastonate – attraverso le agenzie di rating, le dichiarazioni dei tecnocrati europei e le giaculatorie di questi personaggi decadenti del centrodestra e del centrosinistra. Mi sembra un teatro dell’assurdo, perché purtroppo non abbiamo ancora un governo che dichiari chiaramente di voler mettere in discussione, in quanto infondati scientificamente, i parametri di Maastricht, nei quali peraltro l’Italia rientra perfettamente».Perché non si ragiona mai sulla vera natura del debito pubblico, come ha fatto recentemente Guido Grossi anche su “ByoBlu”? Ci sono economisti, intellettuali e politici che offrono soluzioni concrete, già oggi, per gestire il debito pubblico così com’è. Ma poi, bisognerebbe inquadrare il debito per quello che è, ovvero «un elemento di economia spiegato male e utilizzato in modo improprio». Ma il governo gialloverde non ha messo seriamente in discussione i parametri di Maastricht, sul piano economico. E su quello politico, continua a giurare che non è vero, che vorrebbe “uscire dall’Europa”. «Ma il problema non è questo: bisognerebbe dire, invece, che in Europa non ci siamo mai entrati», sottolinea Magaldi. «Il governo dovrebbe dire: vogliamo una Costituzione Europea, politica». Di Maio, Salvini, Savona e gli altri insistono nel dire di voler restare nell’Eurozona, non mettendo in discussione neppure la valuta euro? «Bene, ma come vogliamo starci? Vogliamo restare in quest’Europa così com’è? In questa strana struttura sovranazionale senza Costituzione, senza meccanismi democratici e senza una vera partecipazione popolare alle decisioni più importanti?».Se finalmente il governo parlasse chiaro, pretendendo un’Europa democratica, allora sì che si potrebbe capire, «l’alzata di scudi da parte dei veri nemici del progetto dell’Europa unita, cioè quelli che oggi occupano indebitamente le maggiori poltrone delle istituzioni sedicenti europee». Se Lega e 5 Stelle dicessero che vogliono una Costituzione Europea, il loro «sarebbe un attacco al cuore del sistema, per renderlo più democratico». Vorrebbe dire «ridiscutere il concetto stesso di deficit, di debito pubblico, e “sforare” con percentuali ben più importanti, ma con spese in investimenti». Gli oppositori lo dicono in malafede, ma hanno ragione: nella manovra gialloverde non ci sono grandi spese in investimenti. «Ma lo si può capire: è solo l’inizio, al governo bisogna dare credito e fiducia, perché l’esecutivo Conte, quantomeno, sta cercando di fare qualcosina, laddove negli ultimi 25 anni non si è fatto nulla – o meglio, si è agito solo contro l’interesse del popolo italiano». Mancano investimenti adeguati, certo, come si è visto dopo il disastro di Genova. Ma il governo gialloverde è a metà strada fra il Paolo Savona che in Senato si appella al New Deal e il ministro Tria (scelta di ripiego, imposta dal Quirinale) che «non sa deve dar retta a Visco, a Draghi, a Mattarella, oppurre alla maggioranza che sostiene il governo di cui lui è parte».Per Magaldi «siamo, di nuovo, alla commedia dell’assurdo: si parla del nulla, il discorso politico è surreale». Quello economico, invece, è aggravato dal clamoroso declassamento di Moody’s, totalmente infondato: «L’Italia ha un grandissimo risparmio privato e ha dei “fondamentali” di economia eccellenti. L’Italia è un paese ricco, sotto molti aspetti: in Nord Europa ci sono paesi con i conti pubblici in apparenza migliori dei nostri, ma con un indebitamento privato molto più grave, quindi sono in una situazione più fragile». Perciò non si capisce (o meglio, si capisce anche troppo bene) perché Moody’s vada a declassare l’Italia. L’economista Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt, suggerisce di creare un’agenzia di rating di respiro europeo, che – partendo dall’Italia – guardi le cose con occhi diversi, e valuti quindi la solidità di entità pubbliche e private con altri parametri. Mossa indispensabile, conferma Magaldi, «per evitare di essere ricattati da masnadieri in costante conflitto d’interessi». E dall’altro, aggiunge, bisogna creare un’agenzia che si preoccupi di valutare il sistema economico-sociale in base all’effettiva qualità della vita, oltre il semplice Pil.Lo disse Bob Kennedy già nel 1968, «pagando con la vita il suo tentativo di rappresentare la speranza di un’evoluzione diversa dell’Occidente e del mondo». Il Pil non può essere l’unico metro di misura delle nostre vite. Anche dal punto di vista meramente economico, aggiunge Magaldi, il solo Pil non funziona: «Questi numeri non raccontano davvero la prosperità e la ricchezza dell’Italia, pur con tutti i suoi limiti e tutta la decadenza che in questi anni è stata rovesciata sul nostro sistema. Si è tentato di deindustrializzarlo e impoverirlo, ma non ci si è riusciti: perché l’Italia è un grande paese, con capacità industriali e commerciali, grande attitudine al risparmio privato». L’Italia non può essere impunemente declassata, come giustamente rilevato dalla stessa magistratura di Trani, intervenuta in passato contro alcune agenzie di rating, in occasione del famigerato “golpe bianco” attuato con l’avvento del governo Monti: «Forse, oggi – ipotizza Magaldi – proprio la magistratura dovrebbe rimettersi in moto, analizzando le molte opacità di questo giudizio di Moody’s».Quanto al presunto sabotaggio del documento fiscale indicato da Di Maio, secondo Magaldi si può parlare anche di “manine” «ascrivibili a filiere massoniche neo-aristocratiche, e perciò contro-iniziatiche, come quelle che hanno demonizzato Rocco Casalino», scelto dai 5 Stelle come portavoce del premier. Volevano incastrarlo con il celebre fuori-onda nel quale prometteva sfracelli contro i sabotatori nascosti nei ministeri? «Intanto è riuscito nell’intento di denunciare i tecnici del ministero dell’economia che “remano contro”, e il fenomeno non riguarda certo solo quel dicastero». Se in Italia ci fossero ancora veri giornalisti, dice Magaldi, una bella inchiesta svelerebbe che nei ministeri e negli apparati burocratici circolano da decenni sempre le stesse persone: si ritiene abbiano competenze imprescindibili, galleggiano da un governo all’altro (centrodestra o centrosinistra non importa) e si sono riciclati anche con questo governo gialloverde. «Credo sia giunto il momento di un bel cambio: non è vero che questi siano professionisti insostituibili, credo occorra puntare su una rigenerazione della scuola della pubblica amministrazione, anche nell’individuazione di nuovi parametri».L’orizzonte è vasto: «Dobbiamo cambiare i termini di insegnamento dell’economia e della finanza, che in questi decenni hanno creato dei mostri», sostiene Magaldi. Spesso, «quelli che hanno studiato economia l’hanno fatto come asini, istruiti da altri asini, grazie a qualche “padrone degli asini” che, a monte, scientemente, ha voluto questa “asinità” diffusa». Seriamente: «L’economia dovrebbe essere un sapere critico, dialogico, scientifico e perciò aperto al confronto critico, e invece è stata insegnata come una sorta di catechismo, con dei principi di fede da seguire». Non mancano le ribellioni anche famose, contro il “lavaggio del cervello” subito in università anche prestigiose: lo conferma un caso come quello dell’economista Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, mostrando (dal di dentro) tutte le storture della narrazione economica neoliberista. «Discorso che vale anche per capi di gabinetto, dirigenti e consulenti: una casta di mandarini riciclati e inamovibili, che obbediscono a chi – come loro – abita stanze del potere non sottoposte al vaglio delle elezioni». Ha ragione Casalino: c’è da fare un bel repulisti. «E a proposito: non scordiamo quello che abbiamo appreso su Carlo Cottarelli, personaggio appartenente ai peggiori circuiti della contro-iniziazione massonica neo-aristocratica».Cottarelli viene dal Fmi, potente istituito che ha contribuito alla catastrofe della Grecia. Come giustamente fatto notare da Gianluigi Paragone, proprio Cottarelli incarna un madornale paradosso: «Un signore che da anni invoca “spending review”, revisione della spesa e grandi tagli, oggi per le sue comparsate televisive (dove sciorina le sue personalissime idee, intonate all’austerity montiana più becera) è strapagato con moltissimo denaro pubblico. Sono cose vergognose». Spreco di denaro pubblico, insiste Magaldi, è riempire di soldi il neoliberista Cottarelli per parlare per 40 minuti, senza un regolare contraddittorio con un economista post-keynesiano: giornalismo (e servizio pubblico) imporrebbero di ascoltare due voci distinte e contrapposte, peraltro non remunerate, ma presenti in televisione a titolo gratuito. «Ci sono personaggi italiani che avrebbero tante cose da dire, e che non vengono mai interpellati, dai media. E gli altri, che hanno tutto lo spazio per dire la loro, sono pure strapagati. Anche questo fa parte del teatro dell’assurdo che stiamo vivendo: il nostro è un paese che ha perso il senso del ridicolo. Ecco perché dobbiamo lavorare, tutti, per far ritrovare il senso della decenza».La realtà, aggiunge Magaldi, è che va ripensato l’intero sistema, partendo proprio dall’economia. «Forse è arrivato il momento storico in cui si può immaginare l’emissione di una moneta non “a debito”, cioè non ottenuta attraverso l’oferta di titoli di Stato. Forse dobbiamo pensare anche a monete complementari. Soprattutto: come di tutte le cose, in una società aperta, democratica e pluralistica, dobbiamo immaginare di poter parlare laicamente anche della moneta e dell’economia». Non è possibile, aggiunge Magaldi, che l’economia sia diventata una fede, «con sacerdoti che comminano scomuniche, lanciano anatemi e condannano al rogo». E’ inaccettabile l’impossibilità di essere eretici: anche perché «il mondo contemporaneo, scientifico e progressista, liberale, che tanti accigliati difensori vorrebbero difendere dalla “barbarie” dei populisti, è un mondo libero, democratico e pluralista fondato proprio sul libero confronto tra le diverse posizioni». E invece oggi «abbiamo questa surreale situazione, per cui da un lato si denunciano le pulsioni autoritarie, xenofobe, razziste e fascistoidi dei populisti, dei barbari che assaltano l’Olimpo della democrazia italiana, della convivenza pacifica tra le nazioni garantita dalle isitituzioni europee, e dall’altro questi signori sono fideisti, devoti a visioni monolitiche e indiscutibili».Non ammettono, gli oligarchi, che le loro convinzioni siano sottoposte alla discussione pubblica, «come non fu ammesso alla discussione il grande tema dell’introduzione del pareggio di bilancio nella Costituzione», che ha consentito a Mattarella di “difendere” una Carta costituzionale gravemente lesionata, rispetto al dettato democratico del 1948. Sul fronte opposto, intanto, il leghista Giancarlo Giorgetti sostiene che il futuro sia del sovranismo populista? «Sbaglia, Giorgetti, se l’ha detto davvero, perché questo – replica Magaldi – consente agli avversari di spacciare per reale il presunto assalto alla democrazia, alle istituzioni liberali, all’equilibrio faticosamente raggiunto da una società avanzata». Molto meglio «stanare gli autori di questa immensa ipocrisia: qui non è questione di sovranismo o di populismo, qui è questione di sovranità del popolo, di democrazia sostanziale». Per il presidente del Movimento Roosevelt «bisogna che sia chiaro c’è una incongruenza grande come una casa, nell’atteggiamento dell’Europa che guarda all’Italia in modo arcigno: da un lato si rivendica la difesa della tenuta democratica di fronte all’assalto populista xenofobo, e dall’altro al popolo bue (trattato in modo veramente demagogico e manipolatorio) si propinano delle fedi, cioè l’esatto contrario di ciò che ha costruito le democrazie».I moderni regimi democratici, aggiunge Magaldi, con l’occhio dello storico, sono stati edificati «con metodo massonico, dunque progressista», basandosi cioè «sul dubbio critico e sulla messa in discussione dei dogmi». Uno su tutti: il dogma per il quale «il potere venisse da Dio e fosse amministrato da monarchi, da aristocrazie laiche per diritto di sangue e da aristocrazie ecclesiastiche per diritto d’ispirazione divina». Questi dogmi, sottolinea Magadi, hanno regnato per secoli: «E con questi dogmi, per secoli, i molti hanno asservito i pochi». Quello massonico, continua Magaldi, è stato un metodo di liberazione, di democrazia e di parlamentarizzazione della vita politica: «Ha creato quelle Costituzioni di cui avremmo bisogno in Europa, dove invece è stato istituito un sistema neo-feudale, non c’è Costituzione: ci sono altrettanti vassalli, valvassori, valvassini e cavalieri, che difendono una sorta di impero collegiale, oggi in mano a oligarchie apolidi e sovranazionali, le quali trattano il popolo come una massa di neo-sudditi». Queste cose bisogna pur iniziale a discuterle: «Io andrei volentieri a spiegarle in televisione, ovviamente gratis, insieme a tanti altri: non ho verità in tasca – precisa Magaldi – ma vorrei che ci fosse un confronto critico tra diverse visioni del mondo». Invece paghiamo, profumatamente, Cottarelli e soci: «Sacerdoti, che ci vengono a fare le loro prediche». E hanno a disposizione tutti i pulpiti, «offerti dai pennivendoli di regime, davvero spregevoli alla vista e all’udito, che infestano i media mainstream di questo paese».Ci sarebbe da ridere, non fosse per i brutti ceffi in circolazione e le loro cattive intenzioni verso il sistema-Italia, ancora solido nonostante l’impegno che gli eurocrati hanno profuso per azzopparlo. Prima comica: azzannano il timido governo gialloverde, che si è limitato al 2,4% di deficit (contro il 3% ammesso da Maastricht), neanche fosse un esecutivo rivoluzionario. Seconda comica: gli stregoni di Moody’s declassano l’Italia, regina del risparmio europeo, in combutta coi loro azionisti bancari, che speculeranno sul ribasso del rating. Terza comica: a strapparsi i capelli sono l’infimo Martina, candidato a guidare il Pd verso l’estinzione, e Antonio Tajani, «decadente e grottesco presidente del Parlamento Europeo, figura modestissima e nuovo frontman di Berlusconi per le prossime europee, anche lui impegnato a spiegarci che andiamo verso la rovina». A mettersi le mani nei capelli, semmai, è Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt: costretto a vedere la televisione di Stato che strapaga l’oligarca Cottarelli perché ripeta, nel salotto di Fazio, che la visione economica del mondo è una sola: la sua. Il primo a denunciare «la presa per i fondelli a spese degli italiani» è stato Gianluigi Paragone: non è curioso che a spillare quattrini alla Rai sia proprio Cottarelli, cioè il massimo censore della spesa pubblica? «Quello sarebbe il primo spreco da tagliare», dice Magaldi, in web-streaming su YouTube.
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Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi
Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».