Archivio del Tag ‘Natale’
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L’Italia è nella spazzatura, e loro fan la guerra ai sacchetti
L’Italia è stata trasportata in discarica e serve quanto prima un sacchetto. Possibilmente biodegradabile… Il cervello e l’intelligenza del gregge oramai sono un optional e un vero e proprio mistero. Viviamo in una dittatura oligarchica sfacciatamente manifesta, nella quale ci hanno svuotato e privato di ogni diritto, libertà e sovranità (monetaria, economica, politica) e il popolino si preoccupa e si scandalizza per il sacchetto della spazzatura! Migliaia di persone su Facebook e nel web si stanno mobilitando per acquistare le zucchine senza sacchetto. Spedizioni punitive di consumatori furibondi entrano nei supermercati con la maschera di Anonymous per prendere in ostaggio le bilance pesa-verdura. Ha ragione il grande Natalino Balasso quando dice che siamo un popolo da «rivoluzione polleggiata». «Siamo i Pile Fighter: combattenti con la tuta di pile e le ciabatte a forma di Brunetta che si scandalizzano per le ingiustizie di X-Factor». E’ come affogare in un oceano e preoccuparsi dello schizzetto di fango nella maglietta Nike… Abbiamo una gigantesca trave nel didietro e un anello al naso, ma il gregge si preoccupa di pesare singolarmente frutta e verdura per attaccare le etichette evitando così di pagare l’ingiusto balzello legato al sacchetto.
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Carpeoro: il potere dell’eggregora, energia esponenziale
Se qualcuno ci racconta che abbiamo le ali, forse è il caso di credergli. A patto che non dica di essere lui, a farcele spuntare. Mai sentito parlare di eggregore? Eccome, quasi sempre a sproposito. Sono energie sovrumane, ma non soprannaturali: «Si innescano durante le manifestazioni cerimoniali, quando molte persone pensano la stessa cosa, nel medesimo istante – non solo in un rito religioso, va bene anche un concerto di Vasco Rossi». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo, autore del saggio “Summa Symbolica”, a colloquio con Fabio Frabetti di “Border Nights” in diretta streaming su YouTube alla vigilia di Natale. A proposito: «Non sparate sul Natale, solo perché è diventato un festival del consumismo. Quello del Natale è un simbolismo affascinante: la nascita è la memoria ancestrale di come iniziamo a vivere». Francesco Saba Sardi, grande intellettuale triestino, fu scomunicato dopo aver scritto il libro “Il Natale ha 5.000 anni”? «Volendo, sono anche di più: Gesù è un simbolo universale, non un individuo figlio di Dio. E’ un archetipo, per il quale la divinità è in ognuno di noi». Le ali, appunto: sono roba nostra, fin dall’inizio, anche se poi qualcuno va dal “mago” a chiedere consigli, «come faceva Gianni Agnelli con Gustavo Rol».«Spero che nessuno mi denunci», premette Carpeoro, nel raccontare un risvolto finora inedito della vita dell’Avvocato: «Filmava i suoi incontri d’affari e poi mostrava a Rol le pellicole, chiedendogli di pronunciarsi sulla credibilità dell’interlocutore». Potere e chiaroveggenza, magia e divinazione? Su questo, Carpeoro ha più volte espresso il suo parere, che è nettissimo: la magia è illusionismo, puro strumento del potere. L’effetto magico? Non è mai il “mago” a innescarlo, ma il “cliente”, che però non ne è consapevole. Le religioni? Vittime, anch’esse, di una «deriva magica del pensiero». Inclusa la celebrazione del Natale, che può avere un effetto di grandissima suggestione: «La nascita di un bambino è per noi un momento di grande commozione, la stessa morte non commuove quanto una nascita». Ma attenzione: «Lasciamo perdere i dati folkloristici legati ai dogmi del Cristianesimo. Se esiste un Dio, per mostrarsi a noi ha dovuto necessariamente intervenire al momento della nostra nascita. E’ un evento immanente, irripetuto, incredibile, importante». L’effetto che ha su di noi? «E’ inconsapevole, ma solo per colpa nostra: siamo noi che vogliamo che sia inconsapevole. Anche il Natale fa parte di quelle aree di consapevolezza che, col tempo, ci siamo precluse».Per questo, è possibile che molte persone diano una interpretazione “magica” dell’effetto – teoricamente anche molto potente – delle cosiddette eggregore, le forme-pensiero suscitate da comunità di persone. Nessuna magia, assicura Carpeoro: quell’effetto esiste, ma dipende da precise leggi energetiche. Spiegazione: «Ognuno di noi è espressione anche di energie, che porta dentro. Per uno strano meccanismo – potrei dire coincidenza, Jung direbbe sincronicità, altri direbbero qualcos’altro – quando diventano assolutamente complementari l’una all’altra e viaggiano tutte in un’unica direzione, si sommano in un’unica energia: che nella maggior parte dei casi è addirittura superiore, come forza, all’addizione delle singole unità». Nel campo delle eggregore, aggiunge Carpeoro, «uno più uno non fa due – può fare tre, cinque, dieci». Il che non è “magico”, è “soltanto” sovrumano: sta al di sopra dell’ordinarietà. «Se tu una cosa la interpreti in senso magico avrai un tipo di conseguenza, se invece la interpreti in senso simbolico e laico, ne trai altre conseguenze». Generalmente, precisa Carpeoro, «di fronte a cose che abbiano un senso magico, la gente non deve sforzarsi di capire». Ovvero: «Quando una cosa ha un effetto magico – che poi si nasconda sotto una religione, una fascinazione – la gente non si preoccupa di capire, tant’è vero che uno dei principi della magia è la ripetizione astratta delle formule».Tutt’altro pianeta, invece, la dimensione – libera, seria, autonoma – del pensiero simbolico: «Quando tu alle cose dai un’interpretazione in senso simbolico, ti poni nella logica del capire il perché. Puoi anche non metterne in discussione l’effetto, ma sai che questo effetto risponde a delle leggi, a dei meccanismi che teoricamente noi siamo in grado di capire. Meccanismi che hanno una logica e, per la loro caratura, una caratteristica quasi scientifica». Secondo Carpeoro, nel caso delle eggregore «possono verificarsi effetti notevoli quando tutte le menti delle persone sono dirette verso un unico obiettivo». Uno dei casi più eclatanti di eggregora? «E’ quello delle manifestazioni cerimoniali. Chiamali concerti, eventi religiosi, Via Crucis del Papa, preghiere collettive. Chiamatele come volete: sono manifestazioni cerimoniali. E nelle manifestazioni cerimoniali – anche quelle della massoneria, tipo la Catena d’Unione – nel momento in cui tutte le menti riescono a essere rivolte verso un unico obiettivo, allora si crea quella forza, che non è più dovuta alla forza della somma delle singole menti, ma è una forza superiore. La sua durata? Dipende dall’obiettivo e dalle circostanze. E’ positivo partecipare a questo tipo di raduni? Non sempre».Generalmente, aggiunge Carpeoro, l’obiettivo non dev’essere mai individuale, né riguardare uno dei partecipanti: «Sarebbe un ostacolo, perché colui che è oggetto pensa diversamente dagli altri. I partecipanti devono essere in una posizione di tale complementarità che mi sembra impossibile che uno abbia un pensiero diverso e si individualizzi». Gli ultras allo stadio fanno un tipo di cerimoniale? «Può succedere, sì. Anche la diffusione di certe notizie può avere l’effetto di far concentrare le stesse persone, simultaneamente, su un unico obiettivo». La televisione invece «non può creare eggregore, ma solo sovrastrutture, mentre l’eggregora è un’energia. E la televisione può creare dicerie, dogmi, luoghi comuni e pregiudizi, ma non può creare energie». Ammette Carpeoro: «Un paio di volte queste eggregore hanno consentito la mia purificazione, rispetto a stati di agitazione o di torpidità momentanea che mi avevano coinvolto. Uno degli effetti positivi di un’eggregora può essere il fatto che ne esci completamente purificato da determinate cose». Ma anche qui, attenzione: «Non è l’eggregora a toglierti la negatività. L’hai eliminata tu stesso. Bisogna smetterla di spostare tutto fuori: è tutto dentro. Ogni cosa si verifica sempre al nostro interno. La stessa negatività fa parte di noi, è una nostra componente».Prima ancora di essere individui, cosa siamo? «Siamo parte di qualcosa di più grande. Oppure “non siamo”; ma, anche “non essendo”, siamo parte di qualcosa di più grande. Quindi, l’eggregora cosa fa? Restituisce un’integrazione». Nell’eliminare la tua individualità, continua Carpeoro, puoi avere conseguenze positive o negative. «Quando tu, reintegrandoti in una comunità particolare, in un organismo più grande, elimini l’individualità con conseguenze positive, vuol dire che poi, quando ne esci, tutta una serie di problemi legati all’ego li hai in qualche modo eliminati, rimossi». Domanda: è da respingere con forza la credenza in base alla quale altre persone ci possano inculcare delle negatività? «Dipende sempre da te», risponde Carpeoro: «Se io sono un soggetto pensante, non ci riesce». Chi pensa, in sostanza, non è manipolabile. «E’ che noi, in certi casi, non pensiamo. Pensare significa: avere l’aspirazione di capire tutto quello che ti succede. In realtà, il 90% delle cose che ci succedono e che ci troviamo a fare, il 90% delle nostre scelte, le facciamo non pensando. E questo è frutto del pensiero magico, che è un non-pensiero».Sicché noi possiamo “creare” la realtà, se circoscriviamo l’ego? «Noi siamo realtà», sottolinea Carpeoro: «Possiamo essere consapevoli della realtà che siamo». Poi, appunto, ci sono anche le eggregore. Una rockstar come Vasco? Ne ha create di enormi, secondo il suo pubblico anche molto positive: «Sicuramente, tramite le parole e alcune sue canzoni, ha mosso delle energie in un’unica direzione». Può farlo anche una messa cattolica? «Se il celebrante è bravo, sì». In altre parole: ci sono straordinarie concentrazioni di energia, che possono raggiungerci. Esistono dimensioni invisibili, ma non per questo non naturali o non fisiche. E ci sono leggi che tuttora ci sfuggono: «Una cosa che mi capita quasi quotidianamente – racconta Carpeoro – è che, se penso intensamente a qualcuno, un amico che non sento da tempo, nel giro di pochi secondi mi telefona. Mi succede quasi ogni giorno, con una frequenza che a volte mi disorienta». Ipotesi: «Secondo me sono messaggi che noi mandiamo e che automaticamente il destinatario è in grado di recepire, e quindi poi chiama. Il fatto che questo non avvenga nella consapevolezza non significa che non sia possibile», conclude Carpeoro. «La cosa in sé non mi meraviglia: me ne meraviglia la frequenza».Se qualcuno ci racconta che abbiamo le ali, forse è il caso di credergli. A patto che non dica di essere lui, a farcele spuntare. Mai sentito parlare di eggregore? Eccome, quasi sempre a sproposito. Sono energie sovrumane, ma non soprannaturali: «Si innescano durante le manifestazioni cerimoniali, quando molte persone pensano la stessa cosa, nel medesimo istante – non solo in un rito religioso, va bene anche un concerto di Vasco Rossi». Parola di Gianfranco Carpeoro, simbologo, autore del saggio “Summa Symbolica”, a colloquio con Fabio Frabetti di “Border Nights” in diretta streaming su YouTube alla vigilia di Natale. A proposito: «Non sparate sul Natale, solo perché è diventato un festival del consumismo. Quello del Natale è un simbolismo affascinante: la nascita è la memoria ancestrale di come iniziamo a vivere». Francesco Saba Sardi, grande intellettuale triestino, fu scomunicato dopo aver scritto il libro “Il Natale ha 5.000 anni”? «Volendo, sono anche di più: Gesù è un simbolo universale, non un individuo figlio di Dio. E’ un archetipo, per il quale la divinità è in ognuno di noi». Le ali, appunto: sono roba nostra, fin dall’inizio, anche se poi qualcuno va dal “mago” a chiedere consigli, «come faceva Gianni Agnelli con Gustavo Rol».
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Bogre, il martirio dei Catari che nessuno vuole ricordare
«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della più recente pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora accomunato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».Catarismo e Bogomilismo, riassume il regista, reduce dalle prime riprese condotte in Bulgaria, «sono la testimonianza storica di un medioevo tutt’altro che buio e immobile come spesso viene rappresentato: le idee viaggiavano da un capo all’altro dell’Europa, dai Balcani ai Pirenei, dall’Italia centro-settentrionale alla Bosnia». Proprio in Bulgaria, la troupe ha filmato i luoghi dell’eresia bogomila e raccolto le testimonianze dei più grandi esperti: «Abbiamo incontrato storici, filologi, archeologi. È stata la prima tappa, la seconda sarà in Occitania francese e poi seguiranno l’Italia centro-settentrionale, la Bosnia e Istanbul». La ricognizione filmica in Occitania rappresenta il cuore del documentario: «Qui la vittoria della Chiesa di Roma, delle armi dei crociati e dell’Inquisizione sui càtari, pose fine a un’idea di Dio che si voleva fedele alle origini, che predicava la pace, sosteneva l’eguaglianza sociale e – cosa inaudita a quei tempi – la parità uomo-donna». Fu lo sterminio di un mondo, aggiunge Valla, che ora promette di far entare gli spettatori «nella quotidianità dell’essere càtari e bogomili in quegli anni». All’eresia non aderirono solo i servi e i contadini che si opponevano all’alto clero, ma anche i feudatari e le classi mercantili e colte delle città.«Sono tante le famiglie di alto lignaggio che abbracciarono la novità della dottrina càtara: a Firenze – spiega l’autore di “Bogre” – erano càtari personaggi che tutti conosciamo, come Farinata degli Uberti, il poeta Guido Cavalcanti e, secondo studi recenti, lo stesso Dante Alighieri». Eppure, nonostante il suo evidente ruolo storico, il Catarismo spesso viene considerato un fenomeno marginale. Innumerevoli documenti e tradizioni svelano i rapporti dottrinali e umani che unirono i dualisti dell’Est Europa a quelli dell’Ovest: «L’episodio che rappresenta al meglio il mondo di “Bogre” è il concilio càtaro che si tenne nel 1167 a Saint-Felix de Caraman, presso Tolosa: un concilio a cui parteciparono rappresentanti delle varie comunità càtare occitane e italiane (le comunità di Tolosa, Carcassonne, Albi e Aran, più Marco di Lombardia per l’Italia) e che vide tra gli invitati il bogomilo Nicetas, che trasmise lo Spirito Santo attraverso l’unico sacramento riconosciuto dai càtari, il “consolamentum”». È innegabile che tra i due movimenti religiosi ci fosse non solo un’affinità, ma rapporti tutt’altro che sporadici. Entrambi condividevano una teologia drasticamente alternativa a quella cattolica: per càtari e bogomili, il mondo materiale era il frutto di una “creazione dannata”, operata dal Dio Straniero, alla quale il Padre Celeste (signore del cielo, ma non onnipotente) non aveva potuto opporsi.Può sembrare un espediente teologico: scagionare “Dio” dalla responsabilità del male presente nel mondo. Ma il sincretismo gnostico e proto-cristiano dei càtari ricorda da vicino la grande religione largamente diffusa nell’area mediorientale fino all’anno zero, quella dei Magi “venuti dall’Oriente” ad adorare il neonato di Betlemme. Era l’antica religione di Zoroastro, il mazdeismo, risalente al 1400 avanti Cristo, che aveva abolito i sacrifici animali (i càtari poi saranno addirittura vegetariani) e aveva aperto il sacerdozio alle donne (accanto ai Perfetti, il Catarismo ordinerà le Perfette). I Buoni Uomini, o Buoni Cristiani, erano casti e “francescani”, nonviolenti, contrari alla proprietà privata. La prima strage di massa, nel 1028, fu ordinata, suo malgrado, dal vescovo milanese Ariberto d’Intimiano, che interrogò i “bulgari” catturati a Monforte d’Alba, nelle Langhe: bruciateci pure, rispose il loro portavoce, così torneremo più velocemente al Padre Celeste. Il loro motto (“Noi non siamo del mondo, e il mondo non è nostro”) ricalca quello dei Sufi, con cui strinse un sodalizio Francesco d’Assisi. “Nel mondo, ma non del mondo; nulla possedendo, da nulla essendo posseduti”, è infatti il credo dei mistici islamici, da cui derivano i Dervisci Rotanti.In piena “new age”, avverte una studiosa rigorosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sull’argomento, il Catarismo è stato anche strumentalizzato, in modo superficiale, in funzione anti-cattolica. Uno dei massimi storici europei del fenomeno, il francese René Weis, interpreta l’adesione a quell’eresia come il bisogno del credente medievale di tornare agli ideali evangelici, in un’epoca dominata dal potere ecclesiastico, spesso corrotto. Fu lo stesso Bernardo di Chiaravalle a condurre una storica missione in Occitania: lo stile di vita dei càtari è esemplare, riferì al Papa il futuro San Bernardo, auspicando che il clero cattolico abbandonasse lussi e privilegi. Il pontefice non era dello stesso avviso: Innocenzo III bandì addirittura una crociata, in terra europea, per stroncare un’eresia che – attraverso l’adesione della classe dirigente, l’aristocrazia e la nascente borghesia artigianale e mercantile – metteva in pericolo il potere del Papato. Fonti storiche citate da Weis parlano addirittura di mezzo milione di morti, fra Crociata Albigese e Inquisizione. La tragedia scoppiò nel 1209, quando la cittadina rivierasca di Béziers, in Linguadoca, si oppose al diktat dei crociati: volevano che Béziers consegnasse loro i 200 eretici riparati fra le mura. Di fronte al rifiuto dei consoli, l’abate Arnaud Amaury – capo spirituale della crociata – reagì nel modo più spietato: «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi».La tradizione storiografica parla di migliaia di vittime. Lo choc per lo sterminio dell’intera popolazione di Béziers spinse il potente Re d’Aragona, Pietro II, a scendere in battaglia a fianco del conte di Tolosa, che difendeva – di fatto – la libertà di culto nelle terre occitane. Pietro II perse la vita nel 1213 combattendo cavallerescamente nella battaglia di Muret, ma la crociata devastò la regione fino al 1229. Si arrese Tolosa, ma non i suoi alleati: i cavalieri “faidits”, messi al bando, si rifugiarono nei castelli di montagna sui Pirenei, per proteggere gli eretici in fuga. Nel 1244, dopo nove mesi di assedio, cadde la fortezza di Montségur. L’ultima notte prima della resa, donne e soldati vollero ricevere il “consolamentum”, il battesimo càtaro, ben sapendo cosa li avrebbe attesi, l’indomani: furono 220 le persone arse vive nella spianata ai piedi del castrum, in quello che ancora oggi porta il nome di “Prat dels Cremats”. I càtari? Un fantasma scomodo: erano nullatenenti, vivevano di carità. Non veneravano nessun libro sacro: per loro, l’Antico Testamento (con la sua “terra promessa”) era opera del Dio Straniero. Non avevano neppure chiese, né templi: irriducibilmente anarchici, rifiutavano qualsiasi struttura organizzata. La comunità càtara, pur articolata in diocesi, non disponeva di beni materiali.Il Catarismo aborriva la dimensione materiale del vivere, ripudiando la materia come “prigione dello spirito”: riparlarne oggi forse non è casuale, nel momento in cui è la stessa fisica a diffidare della percezione spazio-temporale, mentre la comunità scientifica rivaluta l’esegesi non teologica dei cosiddetti testi sacri. Lo stesso Mauro Biglino, che traduce la Bibbia alla lettera «scoprendo che in quelle pagine non c’è nessun Dio», ricorda che il “format” cattolico (con i suoi dogmi) si affermò soltanto nel 325 dopo Cristo, per il volere politico dell’imperatore Costantino, «a spese di tutti gli altri Cristianesimi dell’epoca, che erano decine, a partire da quelli gnostici». In quella corrente si colloca certamente il Catarismo, che invoca la divinità “celeste” con queste parole: «Facci conoscere ciò che Tu conosci». Per i càtari, il vero Graal è, appunto, la conoscenza, al quale il credente può aspirare in modo autonomo, senza alcuna mediazione sacerdotale. Di fatto, il Catarismo nega alla religione il ruolo di struttura sociale al servizio del potere politico: i Buoni Cristiani proibivano di giurare, in un’epoca in cui proprio sul giuramento si fondava l’investitura feudale, e non riconoscevano alcuna legittimazione alle autorità terrene, né ai confini tra le nazioni.L’atteso lavoro cinematografico di Fredo Valla si basa su fonti storiche e dati d’archivio, nonché su consulenze autorevoli come quella di Maria Soresina e del Centro Ivan Dujčev di Sofia, una delle più importanti istituzioni accademiche bulgare, senza dimenticare il Cirdoc, la Mediateca Occitana di Béziers e l’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici di Firenze. Il documentario sarà completato grazie al contributo fondamentale del crowdfunding: anche una piccola donazione può essere importante, per una produzione che accanto a Valla (autore e regista) vede impegnati Andrea Fantino ed Elia Lombardo (fotografia, suono, montaggio) con Ines Cavalcanti della Chambra d’Oc (produzione). «Abbiamo deciso di lanciare questa campagna di crowdfunding per condividere il nostro lavoro di ricerca e continuarlo in Occitania, dove nasce la parola “bogre”, e dove in fondo nasce il nostro film documentario». Proprio l’attuale Midi francese sarà la tappa più importante del viaggio. «Abbiamo intenzione di mantenere un metodo di lavoro attento alla storiografia e ai documenti più attendibili», assicura il regista. «Vogliamo che la storia di “Bogre” contribuisca alla storia dei “bogre”, di chi quel nome se l’è trovato appiccicato come un insulto dal momento in cui ha scelto una fede diversa da quella dominante». Una storia di idee che camminano, e che lottano per non essere dimenticate.«Lo sterminio dei càtari? Non ci risulta». E’ una coltre di piombo quella che continua a velare la verità storica sulla devastante persecuzione che annientò la più importante eresia del medioevo europeo. Una strage di massa oscurata dall’oblio e dal negazionismo, al più minimizzata dal riduzionismo della pubblicistica cattolica, in interventi come quelli di Vittorio Messori e di altre personalità contigue al Vaticano. Estrarre memoria da quella remota vicenda resta un’impresa titanica: ed è la missione di Fredo Valla, regista di cultura occitana, impegnato nella produzione del documentario “Bogre”. Un viaggio sulle tracce dell’eresia dualistica che attorno all’anno Mille si affacciò a Bisanzio per poi propagarsi in Macedonia e Bulgaria, fino ad attestarsi in Bosnia Erzegovina per poi migrare in Lombardia, in Nord Europa e infine nella regione mediterranea e pirenaica oggi francese, l’Occitania: un sub-continente esteso dalle Alpi all’Atlantico, allora cementato dalla lingua d’Oc. Il termine “bogre”, spiega Valla, non indica semplicemente un abitante della Bulgaria: così era in antico, ma poi in occitano ha assunto il significato di persona infida, che maschera la verità. «Attorno al XII secolo, “bogre” divenne un insulto diretto ai càtari d’Occitania, colpevoli di una religione non ortodossa, simile per dottrina a un altro grande movimento eretico europeo, quello dei bogomili bulgari».
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Osservate questi 16 animali, a Natale 2018 saranno estinti
Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, osserva l’Ansa, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.Nella mappa c’è anche una specie di corallo, la madrepora oculata, scelta come simbolo della distruzione dei fondali del Mediterraneo: è una specie di profondità (250-800 metri) e la pesca a strascico e il cambiamento climatico sono i suoi nemici. In Italia per l’orso marsicano oggi si parla di poche decine di esemplari, come per la rarissima aquila del Bonelli, appena 40 coppie sulle scogliere mediterranee. Sarebbero poi appena una decina le coppie stabili di gipeto, il grande “avvoltoio degli agnelli” già estinto all’inizio del ‘900 e poi faticosamente reintrodotto. Una specie che resta a rischio, contando su meno di 10.000 esemplari tra Asia, Africa ed Europa. Se il Wwf lancia l’Sos anche per una specie arborea come l’abete dei Nebrodi, presente solo sulle montagne della Sicilia settentrionale, rischia di scomparire – tra i vari rettili – anche la lucertola delle Eolie. Il lupo della Tasmania, lo stambecco dei Pirenei, la tigre caucasica, il rinoceronte nero dell’Africa occidentale, il leopardo di Zanzibar, sono già stati spazzati via da bracconaggio, prelievo intensivo o distruzione del loro habitat, rileva l’associazione ambientalista.«Abbiamo il dovere di accendere i riflettori sul rischio di estinzione di alcune specie preziose e chiamare tutti a raccolta per combattere le minacce che rischiano di cancellare tesori di biodiversità in Italia e nel mondo», avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi. «Ormai sappiamo che la scomparsa anche di una sola specie determina una perdita immensa di informazioni biologiche, di caratteristiche genetiche e di servizi ecologici per tutta l’umanità: se, con l’impegno di tutti, anche attraverso piccoli gesti quotidiani, contribuiremo a mantenere il nostro pianeta ricco di animali, sarà a beneficio di tutti, soprattutto delle generazioni che ancora devono nascere». La piaga dell’estinzione rende più labili i sistemi naturali che consentono alle foreste di regolare le temperature del pianeta, ai fiumi di alimentare le biomasse marine, alle terre e agli oceani di produrre cibo e sicurezza, aggiunge Isabella Pratesi, direttore conservazione di Wwf Italia: «Trascuriamo inoltre che molte specie prima di noi hanno trovato, attraverso l’evoluzione, soluzioni a condizioni difficili ed estreme. Ogni insetto scomparso, ogni pianta estinta, ogni barriera corallina sbiancata potrebbe custodire le soluzioni e i rimedi ai nostri mali incurabili o ai drammatici cambiamenti che abbiamo generato».A pesare, in molti casi, sono le foreste abbattute per far spazio alle coltivazioni. Il lupo rosso statunitense sopravvive in meno di 150 individui, del bradipo pigmeo resistono alcune centinaia di esemplari su un’isola panamense. Il pangolino cinese? «E’ perseguitato per le sue scaglie ritenute “miracolose” nella medicina tradizionale». Quanto al chiurlottello, è un uccello «ritenuto una vera e propria chimera dagli ornitologi, data la sua estrema rarità in tutta Europa». Pappagalli ricercati per la loro bellezza, come l’ara golablu, hanno «la sfortuna di nidificare proprio nei palmeti pressati dalla deforestazione». Un animale leggendario come il cavallo selvaggio di Przewalski è ridotto, in Mongolia, ad appena 200 esemplari. Le specie su cui si concentra l’attenzione del Wwf sono gli “ambasciatori” di un percorso di estinzione che è arrivato, purtroppo, quasi al capolinea, insiste Donatella Bianchi: «Se, giustamente, mettiamo tanta cura nel custodire le opere dell’ingegno e della creatività umana, perché non impegnarsi per proteggere anche le meraviglie create dalla natura e che rischiano di scomparire per sempre?».Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.
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Lassù qualcuno ci odia: Halloween, per abituarci all’orrore
Alla fine, Halloween è passata, per fortuna. Ma ha lasciato sul terreno il solito cimitero di sporcizia: morti per finta, zombie per ridere, incubi per scherzo, sangue per celia. Su questa funebre sagra d’importazione si è detto e scritto tanto e molti si sono giustamente soffermati su un paio di considerazioni ineccepibili se non ovvie, trascurandone però una terza, quella più inquietante. Quanto alle prime due, ci sbrighiamo in fretta: riguardano la funzione sociale e quella economica di Halloween. La festività del due novembre non ci appartiene affatto, com’è noto, non sgorga dalla nostra tradizione patria. È, in tutto e per tutto, un’americanata di derivazione anglosassone, un carnevale di orrori, un folklore plastificato promosso a tutto volume, in tutto il mondo, dalla regia unificata dei media unificati per dotare le masse già spaesate del globo anche di una loro brava (e spaesante) celebrazione globalizzata. Sulla funzione economica non vale neppure la pena di soffermarsi, tanto è evidente: Halloween è un business stratosferico e – quanto più si diffonde, grazie anche al contributo del popolo coglione, assuefatto e teledipendente – tanto più si accumula la grana nei granai di chi la detiene.Ora veniamo al terzo aspetto, quello meno approfondito, di questa festività pagana. La sensazione è che vi sia una regia occulta a favorirne il successo su scala mondiale. ‘Occulta’ non nel senso letterale di ‘nascosta’ (le implicazioni complottistiche, pur possibili, mettiamole da parte), ma in quello paranormale di ‘maligna’. ‘Occulta’ in quanto densamente impregnata del lato oscuro della forza. Halloween è, a tutti gli effetti, la festa delle porte spalancate alle potenze delle Tenebre. Non conta tanto che le Tenebre esistano o meno – la stragrande maggioranza degli evoluti abitanti dell’evoluto Occidente ovviamente non ci crede – quanto che le loro lugubri ombre si allunghino sulla psiche individuale conscia, e sull’inconscio collettivo; proprio come un’entità provvisoriamente libera di scorrazzare nelle nostre case, nelle nostre scuole, nelle nostre piazze non già contrastata o frenata o inibita, ma addirittura vezzeggiata, corteggiata, blandita. Il quizzino ormai idiomatico (sintesi sublime dell’intera baracconata) è: dolcetto o scherzetto?Nella sua innocente formulazione sottende – in controluce, simile all’ectoplasma impercettibile di uno spettro – un colpevolissimo e mafioso avvertimento: preferisci pagare o morire? Sì, lo sappiamo, è tutto solo un gioco, ma fino a che punto le nostre deboli menti, già intossicate dal male, lo percepiscono per tale? Questo profluvio di putridi gadget e di impiccati da vetrina è davvero solo un passatempo per esorcizzare il dì dei defunti? O non è piuttosto un nuovo rito che – sottotraccia, in incognito – ci sta addestrando al culto infero del Disordine e del Caos? Già ne siamo quotidianamente bombardati: ogni giorno, in fondo, si officia un Halloween ‘laico’ attraverso gli schermi lordi di sangue e di corpi ammazzati della tivù. Ora ci siamo regalati anche un bel Natale di morte. Lassù, davvero, qualcuno ci odia.(Francesco Carraro, “Lassù qualcuno ci odia”, dal blog di Carraro del 4 novembre 2017).Alla fine, Halloween è passata, per fortuna. Ma ha lasciato sul terreno il solito cimitero di sporcizia: morti per finta, zombie per ridere, incubi per scherzo, sangue per celia. Su questa funebre sagra d’importazione si è detto e scritto tanto e molti si sono giustamente soffermati su un paio di considerazioni ineccepibili se non ovvie, trascurandone però una terza, quella più inquietante. Quanto alle prime due, ci sbrighiamo in fretta: riguardano la funzione sociale e quella economica di Halloween. La festività del due novembre non ci appartiene affatto, com’è noto, non sgorga dalla nostra tradizione patria. È, in tutto e per tutto, un’americanata di derivazione anglosassone, un carnevale di orrori, un folklore plastificato promosso a tutto volume, in tutto il mondo, dalla regia unificata dei media unificati per dotare le masse già spaesate del globo anche di una loro brava (e spaesante) celebrazione globalizzata. Sulla funzione economica non vale neppure la pena di soffermarsi, tanto è evidente: Halloween è un business stratosferico e – quanto più si diffonde, grazie anche al contributo del popolo coglione, assuefatto e teledipendente – tanto più si accumula la grana nei granai di chi la detiene.
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Berlino trema: lo stragista Amri fu incoraggiato dalla polizia
«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.Pare che la “persona di fiducia” abbia dovuto faticare a convincere Amri. Gli disse: «Ammazziamo questi miscredenti». Insisteva: «Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà per fare questi attentati qui in Germania». A citare il fatale colloquio è un ex frequentatore degli stessi circoli, «che dice di essere stato avvicinato alla stessa persona per fare l’attentato in Germania», scrive Maurizio Blondet sul suo blog. Come altri, il testimone aveva rifiutato perché voleva combattere in Siria. E ha confermato che l’informatore della polizia avrebbe insistito nel cercare un «un uomo affidabile per un attacco con un camion». Dunque “l’uomo di fiducia” della polizia tedesca era un agente provocatore: al soldo dell’Isis o dei servizi di Berlino? «La polizia sapeva da luglio che Anis Amri progettava una strage», scriveva “Globalist” già il 22 dicembre. Avverte oggi l’emittente “Rbb”: «Un siriano ex coinquilino di Amri aveva avvertito ben due volte la polizia prima dell’attentato». Ma l’allarme non diede esito, racconta il “Morgenpost”: «Amri è stato tenuto sotto osservazione solo nei giorni feriali. Nei fine settimana e nei giorni festivi il controllo cessava. E l’ufficio del procuratore generale non è mai stato informato della cessazione dell’osservazione».Le autorità tedesche, riassume Blondet, avevano impedito la rapida espulsione di Amri (non presentando alle autorità tunisine le sue impronte digitali, che pure avevano). In più, le forze di sicurezza «gli avevano fatto sapere di essere sotto controllo, e più volte». Lo avevano persino «aspettato alla fermata dell’autobus da Dortmund». Secondo lo “Spiegel”, «il dossier su Amri è stato grossolanamente falsificato, posticipando date e celando un arresto». Se la storia del passaporto abbandonato sul camion-kamikaze è la fotocopia di altre analoghe vicende, da Charlie Hebdo alla strage di Nizza, Blondet fa notare che le modalità di reclutamento di Anis Amri sono le medesime di un altro maghrebino in azione in Francia, Mohammed Merah, che scatenò il terrore a Tolosa nel 2012: «I servizi francesi stavano per reclutare Merah un mese prima dei suoi delitti», ha dichiarato alla Corte d’Assise l’ex capo della sicurezza tolosana. Per il “Foglio”, lo “stragista di Al-Qaeda”, era «un’operazione dell’intelligence francese finita male». E’ saltato fuori anche un video-testamento del giovane: «Sono innocente. Ho scoperto che il mio miglior amico Zouheir lavora per i servizi segreti francesi».Zouheir, scrive il quotidiano “Le Monde”, fece anche parte della squadra di negoziatori che cercò di convincere Merah alla resa durante l’assedio all’appartamento. Il giovane gli si ribellò con queste parole: «Mi hai mandato in Iraq, Pakistan e Siria per aiutare i musulmani. E ora ti riveli essere un criminale e un capitano dei servizi francesi. Non lo avrei mai creduto». Adesso, aggiunge Blondet, la deposizione giudiziaria del capo dei servizi a Tolosa conferma: Merah fu avvicinato da un settore dell’intelligence, la Dgcri (Direction Centrale du Reinseignement Interieur) dopo un viaggio in Pakistan. Ma in realtà, precisa il funzionario, i servizi francesi lo conoscevano bene fin dal 2006, quando Merah era ancora un ragazzino: lo avevano schedato insieme a suo fratello Abdelkadher, dopo un viaggio in Egitto compiuto «apparentemente per imparare l’arabo». Poi, nel 2010, al ritorno dal viaggio in Pakistan, lo interrogano «perché sospettato di aver ricevuto addestramento militare». Sempre nel 2010, arrestato dalla polizia afghana a Kandahar, Merah viene «sottoposto a “debriefing” da due specialisti francesi», i quali «hanno giudicato che, dato il suo carattere curioso e viaggiatore, lo si poteva orientare verso un reclutamento».Un rapporto dei servizi risalente al 21 febbraio 2012, un mese prima del primo omicidio presunto di Merah, recita: «Mohamed Merah ha spirito aperto e astuto. Non ha alcuna relazione con una rete terrorista, ha un profilo viaggiatore». Conclusione: conviene «verificarne l’affidabilità», raccomanda il rapporto. «E’ un approccio di reclutamento», ha spiegato l’ex funzionario dei servizi di Tolosa. Sembra l’accurata formazione di un agente professionale, a cui si impartiscono competenze linguistiche e militari, da avviare alla carriera di infiltrato. «Sappiamo anche che Merah ha cercato di arruolarsi nell’esercito francese nel 2008, e poi nella Legione Straniera, respinto per i suoi precedenti penali», conclude Blondet: «Povero, tragico patriota Merah, usato e distrutto come jihadista perché bisognava addossargli delitti le cui vere ragioni sono inconfessabili». Forse, anche attraverso la giustizia francese e le indagini giornalistiche tedesche, sta cominciando a sbriciolarsi un muro di menzogne sanguinose. Osservando in controluce gli attentati “islamisti” che hanno martoriato l’Europa colpendo sempre e solo nel mucchio (popolazione inerme: mai obbiettivi-simbolo del potere), nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” Gianfranco Carpeoro legge le “firme nascoste” – non islamiche, ma occidentali e massoniche – dello stragismo affidato a manovalanza jihadista. E oggi dice: «Entro un paio d’anni, magari attraverso fonti come Wikileakes, emergerà la prova che l’Isis è un’emanazione diretta dei servizi atlantici che fanno capo ai Bush».«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.
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Anche la Spagna nel copione “Isis”, con il solito passaporto
«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», a Barcellona. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisone del presidente Kennedy.Quella del camion lanciato a bomba contro la folla, sottolinea Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è una modalità tristemente “pratica”, a basso rischio organizzativo: un furgone non desta sospetti, l’azione criminale può essere rapida, solitaria e micidiale. Il destino dell’attentatore? Sempre lo stesso: viene abbattuto subito, sul posto, come i 5 kamikaze che avrebbero colpito Cambrils, poco dopo Barcellona, o viene comunque ucciso nel giro di poche ore, al massimo qualche giorno, come Anis Amri, caduto a Milano in un conflitto a fuoco con la polizia italiana dopo aver provocato la “strage di Natale” a Berlino. Per l’atroce massacro di Barcellona la polizia ha arrestato due sospetti, ma – precisa il “Corriere della Sera – tra questi «non c’è l’autore materiale dell’attentato», che si sarebbe dileguato. L’uomo identificato, Bouhlel, potrebbe avere le contate: «Se trovano il passaporto, poi lo uccidono», ha sostenuto Maurizio Blondet, in relazione agli altri attentati-fotocopia di Nizza, Berlino e Londra. Un tragico copione? Ebbene sì, sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”: «Dati gli strumenti a disposizione dell’intelligence, è matematicamente impossibile, oggi, che si possano compiere stragi senza disporre di connivenze e coperture, negli apparati di sicurezza, da parte di funzionari infedeli, complici dei veri mandanti dei terroristi».Per la prima volta, la sigla “Isis” – qualunque cosa significhi – colpisce il Sud Europa, dopo aver mietuto vittime in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Una minaccia indiretta rivolta all’Italia, paese fortunamente non ancora finito nel mirino, forse anche per il suo ruolo strategico di “autostrada mediterranea” dei migranti? In realtà, sostiene Carpeoro, «gli addetti ai lavori sanno bene che il dispositivo antiterrorismo del nostro paese è il migliore del mondo». Dispositivo particolarmente vigile, aggiunge Magaldi, che fornisce una spiegazione ancora una volta di stampo massonico: «Oggi, i servizi segreti italiani collaborano strettamente con settori dei servizi Usa riconducibili alla super-massoneria internazionale progressista, ostile all’egemonia anche stragistica delle Ur-Lodges neo-conservatrici». Affermazioni estremamente impegnative, che Magaldi – già affiliato alla superloggia “Thomas Paine” – probabilmente circostanzierà nel “sequel” del libro “Massoni”, in uscita entro fine anno, scritto forse anche con il contributo di un eminente supermassone molto controverso come il finanziere George Soros, promotore delle Ong che fanno capo a “Open Society”, struttura sospettata di aver ispirato e supportato golpe, “regime change”, primavere arabe e rivoluzioni colorate, fino all’attuale esodo dei migranti africani e mediorientali veso l’Europa, via Italia.In ogni crimine, la svolta nelle indagini scatta sempre in un momento preciso: quando gli investigatori individuano il movente. Quello del cosiddetto Mostro di Firenze (16 vittime) non è ancora stato accertato: non a caso, in carcere erano finite soltanto tre persone, i “compagni di merende”, e la sentenza indicava la necessità di sviluppare altre indagini, dato che Pacciani – il cui patrimonio si era misteriosamente gonfiato – non poteva aver fatto tutto da solo, con il semplice “aiuto” di Vanni e Lotti. Anche per questo, forse – la mancanza di un movente credibile – le autorità giudiziarie hanno riaperto l’inchiesta. Ipotesi, formulata dall’avvocato di una delle vittime: quegli oscuri delitti accompagnarono in modo cronometrico le tappe di sangue del terrorismo che, all’epoca, devastò l’Italia. Delitti efferati, per distrarre l’opinione pubblica? Gli indagatori della “pista esoterica”, come l’avvocato Paolo Franceschetti, propendono per un’altra ipotesi: delitti rituali, atrocemente compiuti secondo modalità “magico-cerimoniali”. Lo sostenne il criminologo Francesco Bruno, ingaggiato dall’allora capo del Sisde, Vincenzo Parisi: fu il primo a parlare di connotazioni “religiose”. Nel romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore Giuseppe Genna – con il quale si complimentò Cossiga, per l’acume dimostrato – l’oscura setta che, nel libro, uccide bambini, lo fa nella convinzione di “propiziare” attentati politici che seguono, di poche ore, il ritrovamento dei piccoli cadaveri. Attentati e omicidi di rilievo internazionale, da Aldo Moro a Olof Palme, fra retroscena popolati da personaggi del calibro di Kissinger.Per Magaldi, l’ex plenipotenziario della Casa Bianca, nonché fondatore della Trilaterale con David Rockefeller e i Rothschild, è stato anche al vertice della Ur-Lodge “Three Eyes”, che nel libro “Massoni” è indicata come la vera “mente” della Loggia P2 di Licio Gelli e della strategia della tensione in Italia negli anni ‘70. Un’altra superloggia, la “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi fondata da Bush padre all’inzio degli anni ‘80, sarebbe invece l’ispiratrice del neo-terrorismo internazionale, da Al-Qaeda all’Isis: ne avrebbero fatto parte Osama Bin Laden e il “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, oltre all’entourage Bush e a politici europei come Tony Blair (inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam) e Nicolas Sarkozy (fautore dell’abbattimento di Gheddafi), nonché il turco Erdogan (organizzatore, in Turchia, delle “retrovie” dell’Isis nell’attacco alla Siria). Una “Spectre del terrore”, che disporrebbe di propri uomini in alcune strutture di intelligence, a loro volta capaci di “coltivare” manovalanza islamista per gli attentati. «La cosiddetta Isis sta aumentando l’intensità delle stragi», ha sostenuto Carpeoro, «perché una parte di quella élite sta “disertando”, si sta sfilando dalla “filiera del terrore”». Carpeoro azzarda un pronostico: «Nel giro di due anni al massimo, magari attraverso Wikileaks, avremo le prove del fatto che Al-Qaeda e Isis sono un’emanazione dei Bush».«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», nel capoluogo della Costa Azzurra. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisione del presidente Kennedy.
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La fine del mondo c’è già stata: lo dice la stele dell’Avvoltoio
Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.La stele è importante perché conferma eventi che già conoscevamo, come il periodo glaciale noto come Dryas Recente (dal nome di un fiore della tundra) e l’anomalia dell’iridio osservata in Nord America, risalente all’11-10.000 a.C.: l’iridio è poco presente nel suolo e quando in uno strato geologico se ne trova molto di più, vuol dire che un meteorite o una cometa lo hanno portato sulla Terra, come avvenne nell’estinzione dei dinosauri. Per il professor Martin Sweatman, direttore della ricerca pubblicata su “Mediterranean Archaeology”, «questa scoperta, insieme all’anomalia dell’iridio, chiude il caso in favore dell’impatto di una serie di comete». Gobekli Tepe è il tempio più antico dell’umanità e pare fosse dedicato all’osservazione delle comete e dei meteoriti. I bassorilievi che narrano la catastrofe dell’11.000 a.C. erano tenuti in grande considerazione e conservati con cura, come se fosse importante non perderne la memoria. Inspiegabilmente, in epoca preistorica, il sito venne abbandonato e completamente ricoperto di terra, perché nessuno lo potesse individuare.Archeologi e antropologi collocano nel Dryas Recente l’inizio della civiltà umana, con le prime coltivazioni e i primi villaggi del Neolitico. Ma per altri ricercatori, che il mondo accademico non tiene in alcuna considerazione, la caduta delle comete ha causato la fine di una civiltà che già esisteva sulla Terra e ha costretto gli esseri umani sopravvissuti a un nuovo e faticosissimo inizio. Graham Hancock, nato a Edimburgo, ha scritto molti libri su questo tema e nell’ultimo, “Maghi degli dei: la saggezza dimenticata delle civiltà perdute”, ha sostenuto proprio la tesi che intorno al 12.000 a.C. l’impatto di una cometa abbia posto fine a una società molto evoluta, che ha lasciato tracce di sé nella perfezione delle piramidi di Giza e in altri inspiegabili monumenti ciclopici sparsi per il pianeta. Se l’asse della Terra si è davvero spostato a causa di quella catastrofe, forse l’Antartide era all’epoca libera da ghiacci e nasconde segreti che non tarderemo a scoprire, vista la progressione del riscaldamento globale.Hancock ha visitato il sito di Gobekli Tepe, giudicandolo uno dei grandi misteri dell’antichità. Se uno sciame di comete era in arrivo sulla Terra, gli astronomi del tempio le hanno sicuramente individuate in anticipo e forse quelle scie luminose arrivate nel Sistema solare interno sono state una presenza costante nel cielo per molti anni prima del loro devastante impatto. Forse da allora ci è stata tramandata la convinzione che tutte le comete (ma per lo meno bisogna salvare quella di Natale) portino sfortuna e siano messaggere di lutti e devastazioni. La teoria che grandi civiltà del passato siano state distrutte da eventi catastrofici è suggestiva e spiegherebbe le grandi costruzioni le cui rovine sono state trovate sui fondali dell’Oceano, dove Platone collocava Atlantide, così come la “piramide” sommersa che si trova vicino all’isola di Yonaguni, in Giappone. Ma c’è da sperare che i cultori delle civiltà perdute non abbiano ragione: gli sciami di comete sono infatti periodici e secondo Hancock quello descritto nella stele di Gobekli Tape potrebbe tornare nell’arco di qualche decennio. Meglio che l’autorevole e più rassicurante mondo accademico si affretti a rimettere ogni pietra, e ogni data, al suo posto.(Vittorio Sabadin, “La fine del mondo c’è gia stata: lo svela la stele dell’Avvoltoio”, da “La Stampa” del 24 aprile 2017).Undicimila anni prima di Cristo uno sciame di comete colpì la Terra devastandola, modificando l’inclinazione dell’asse di rotazione del pianeta, provocando l’estinzione di molte specie come quella dei mammut e causando un’era glaciale che durò mille anni. Lo afferma un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, che ha trovato la narrazione di questo cataclisma nel più antico libro di storia esistente: i bassorilievi portati alla luce nel 1995 nel sito archeologico di Gobekli Tepe, nel Sud della Turchia. All’annuncio della scoperta, i sostenitori della teoria secondo la quale antiche civiltà avanzate sono state distrutte da eventi catastrofici hanno esultato, e sono pronti a scrivere nuovi libri di successo. Una stele in particolare, quella chiamata “dell’avvoltoio”, ha attratto l’attenzione degli scienziati di Edimburgo. Riproduce attraverso simbolismi animali una serie di costellazioni, indicandone la posizione nel cielo. Grazie all’aiuto di un computer, è stato possibile stabilire che le stelle si trovavano in quel punto esattamente nel 10.950 a.C., alla fine del Pleistocene. Altri bassorilievi riproducevano la caduta dello sciame di comete e un uomo senza testa indicava la perdita di molte vite umane.
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Zero Anthropology: l’Impero sta cominciando a perdere
Quello che si è appena concluso è stato probabilmente «l’anno più memorabile degli ultimi decenni, un accumulo incessante di punti di svolta e di eventi significativi». La morte di Fidel Castro, la riconquista di Aleppo in Siria, la Brexit che certifica il “coma profondo” dell’Ue, la sconfitta di Hillary Clinton, la non-colonizzazione definitiva della Libia. Per il blog internazionale “Zero Anthropology”, «abbiamo cominciato ad assistere alla fine del globalismo, all’ascesa della de-globalizzazione e al tramonto dell’imperialismo neoliberale». Ovvero: «Non solo le nazioni tornano ad avere importanza, ma si riaffermano anche le storie locali e le stesse forze regionali». Qualcuno ha scritto che, con la dipartita di Fidel, è finito davvero il ‘900. Per “Zero Anthropology” se n’è andata «una figura monumentale nella storia del mondo, un gigante dei Caraibi che ha segnato gli eventi in tutto il mondo per decenni». Sopravvissuto a 638 tentativi di assassinio da parte degli Stati Uniti, nel corso di 11 diverse amministrazioni presidenziali, il combattente Castro «è morto per cause naturali, non imperiali».Un uomo «di enorme intelligenza, in confronto al quale la maggior parte dei nostri leader sembrano dei bambini sciocchi». Si è distinto come «il padre della decolonizzazione e dell’anti-imperialismo». Resta «un’eredità vivente, un punto di riferimento ineludibile», scrive “Zero Anthropology” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Quindi la vittoria contro l’Isis ad Aleppo: «Finalmente la Siria ha fatto un progresso enorme nella bonifica del suo territorio, in un importante punto di svolta della lunga guerra per procura finalizzata al cambio di regime combattuta dagli Stati Uniti e dai loro alleati del Golfo. Liberati dalla barbarie assoluta delle forze terroristiche che li hanno tenuti in ostaggio nella loro città per anni, gli abitanti di Aleppo sono usciti in massa per festeggiare la vittoria del loro governo nazionale, e anche per festeggiare il Natale. La Siria così ha testimoniato coi fatti che non avrebbe accettato di essere ridotta alla terra di nessuno di un piccolo club di stati imperiali che si autodefinisce “comunità internazionale”».I funzionari degli Stati Uniti, che avevano affermato che “Assad se ne deve andare” e che “i giorni di Assad sono contati” ora stanno facendo le valigie e preparandosi a partire, nei loro ultimi giorni al potere, «cacciati da milioni di persone che hanno preso parte ad uno sconvolgimento politico epocale negli stessi Stati Uniti», continua “Zero Anthropology”. Parla da sola, infatti, «l’eccezionale sconfitta di Hillary Clinton, e con lei della politica dell’imperialismo liberale, del potere dell’industria della pubblicità, delle pubbliche relazioni, della propaganda, della classe istituzionalizzata degli esperti e, soprattutto, dei mezzi di comunicazione di massa». I perdenti, continua il blog, stanno ancora cercando disperatamente di gestire questa sconfitta, cercando di trasformarla in qualcos’altro. «Il loro metodo è il solito, quello che li ha portati a una tale meritata sconfitta: la negazione di ogni responsabilità per le conseguenze delle loro politiche, e una negazione della realtà».Per “Zero Anthropology” il neoliberalismo utopistico, con le sue illusioni sostenute dalle lobby e dai think tank grazie a massicce infusioni di denaro, ha oltrepassato il suo apice e ora è rimasto nudo al freddo, a mormorare confusamente: “La Russia, è stata la Russia…è stato Putin”. Tutto questo è stato preceduto da un’avvisaglia altrettanto clamorosa, la Brexit: «Uno dei motori della globalizzazione neoliberalista che al suo interno ha determinato delle condizioni di integrazione disuguali, l’Unione Europea, continua ad arrancare». Il voto pro Brexit nel Brexit nel Regno Unito contribuisce a classificare il 2016 come «un anno cruciale per la storia europea», insieme anche al referendum italiano del 4 dicembre, con la vittoria del No «con margini che nessuno aveva previsto». Gli eventi dall’altra parte dell’Atlantico, poi, «non hanno fatto che rafforzare la causa dell’autodeterminazione nazionale».Secondo “Zero Anthropology”, inoltre, il 2016 «ha finalmente visto il ritorno della classe operaia, riammessa nel vocabolario politico dallo stesso mainstream che per decenni ha cercato di farla sparire, insieme con il concetto di imperialismo». Una modalità di potere che, in Libia, secondo il blog si è impantanata: il paese di Gheddafi «ha continuato ad essere una zona di devastazione imperialista e di caos», eppure «nel 2016 il piano che prevedeva la trasformazione del paese in un nuovo protettorato delle Nazioni Unite è andato in pezzi». Da un lato, i libici «si sono rifiutati di cedere le redini del proprio futuro», e gli alleati della regione «si affermano come mediatori di potere più significativi rispetto agli Stati Uniti, lontani e ormai indeboliti».Quello che si è appena concluso è stato probabilmente «l’anno più memorabile degli ultimi decenni, un accumulo incessante di punti di svolta e di eventi significativi». La morte di Fidel Castro, la riconquista di Aleppo in Siria, la Brexit che certifica il “coma profondo” dell’Ue, la sconfitta di Hillary Clinton, la non-colonizzazione definitiva della Libia. Per il blog internazionale “Zero Anthropology”, «abbiamo cominciato ad assistere alla fine del globalismo, all’ascesa della de-globalizzazione e al tramonto dell’imperialismo neoliberale». Ovvero: «Non solo le nazioni tornano ad avere importanza, ma si riaffermano anche le storie locali e le stesse forze regionali». Qualcuno ha scritto che, con la dipartita di Fidel, è finito davvero il ‘900. Per “Zero Anthropology” se n’è andata «una figura monumentale nella storia del mondo, un gigante dei Caraibi che ha segnato gli eventi in tutto il mondo per decenni». Sopravvissuto a 638 tentativi di assassinio da parte degli Stati Uniti, nel corso di 11 diverse amministrazioni presidenziali, il combattente Castro «è morto per cause naturali, non imperiali».
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Poliziotti ora in pericolo, il potere stragista investe sull’odio
Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».Riflessioni a caldo, che Carpeoro ha consegnato alla diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di Border Nights la mattina di Natale. Durissimo il giudizio dello studioso sulla decisione di esporre al pubblico l’identità dei due agenti di polizia che, a Sesto San Giovanni, hanno fermato e poi abbattuto il tunisino Anis Amri, sospettato di essere l’autore della strage di Berlino dopo il ritrovamento dei suoi documenti sotto il sedile del camion-killer. «Un terrorista “normale” non va a compiere un attentato portando con sé il passaporto: il far ritrovare prontamente il documento è la prova della “sovragestione” che ha diretto l’attentato», sostiene Carpeoro, che spiega: «Risalire immediatamente al presunto killer, in modo da neutralizzarlo subito, è estremamente utile agli strateghi del terrorismo: una prolungata caccia all’uomo manterrebbe in tensione per molto tempo le forze di polizia, e questo disturberebbe i piani dei manovratori occulti». A Milano, inoltre, l’identità dei poliziotti è stata esibita: «Il problema è questo potere ha bisogno di eroi», insiste Carpeoro, «e questa sua esigenza è superiore al tutelare la vita delle persone che lavorano per noi». Finì sotto i riflettori anche il “Capitano Ultimo”, l’ufficiale dei carabinieri coinvolto nella cattura di Riina: «Fu gettato in pasto ai porci in maniera evidente, esposto al rischio della vita in modo ancora più efferato».Carpeoro sta analizzando le clamorose analogie tra l’attentato di Nizza del 14 luglio e quello di Berlino al mercatino natalizio. Identiche modalità: «Un camion lanciato contro la folla è uno strumento probabilmente più facile da utilizzare, non richiede requisiti tecnici come invece gli esplosivi, e infine un mezzo di trasporto non suscita di per sé allarme, può sfuggire al controllo delle forze di sicurezza». Di regola, questi attentati stragicisti sono “firmati” con un corredo simbolico, «segnali in codice rivolti a chi li può intendere», nei circoli del massimo potere. In attesa di decifrare quali segni (anche nascosti) possano legare la strage di Nizza e quella di Berlino, Carpeoro avverte: «Temo che siamo di fronte a un’escalation», uno “sciame” di stragi «destinate a preparare il terreno per un evento ancora più grave e sanguinoso». La “filosofia” che muoverebbe questa regia occulta? Sempre la stessa: alimentare l’odio, attraverso il falso “scontro di civiltà”. «La paura e l’odio sono strumenti adottati dall’attuale élite di potere, il cui obiettivo è impedire qualsiasi cambiamento dello status quo, dopo che la finanza ha neutralizzato la democrazia. Non serve nemmeno una Terza Guerra Mondiale: basta e avanza quello che è già in atto, cioè un insieme di tante guerre locali». Paura, tensione, odio: funzione che, in Europa, è svolta dal terrorismo “sovragestito”, comodamente targato Isis.Quei due poliziotti di Milano ora sono in pericolo, ma a questo Stato «servono eroi da esibire», anche a rischio della loro incolumità: lo afferma l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del libro “Dalla massoneria al terrorismo” che denuncia la “sovragestione” degli attentati, progettati da “menti massoniche” e coordinati da settori dei servizi segreti che utilizzano manovalanza di pretesa matrice islamista. «L’Isis è sostanzialmente una marionetta, a disposizione di Ur-Lodges reazionarie americane, prime fra tutte la “Hathor Pentalpha” e la “Three Eyes”», la cui esistenza è stata rivelata da Gioele Magaldi nel saggio “Massoni”, a fine 2014. La strage di Berlino? «Sembra attuata per colpire Angela Merkel in vista delle prossime elezioni politiche in Germania, per forzare il governo tedesco spingendolo ad assumere un atteggiamento intransigente verso l’immigrazione: come sempre – aggiunge Carpeoro – chi utilizza il terrorismo colpisce gli elementi moderati e dialoganti: in Italia fu colpito Moro perché dialogava col Pci, in Israele a cadere fu Rabin perché dialogava coi palestinesi. Gli estremisti invece non vengono mai toccati, perché seminano odio, e l’odio fa sempre comodo al potere».
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La profezia di Blondet: trovato il passaporto, lo uccideranno
Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, semre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».Queste righe, Blondet le scriveva il 21 dicembre, cioè quasi due giorni prima l’evento sanguinoso di Milano, che ha fatto il giro del mondo. «Ma com’è che ora si pubblica, oltre al nome e cognome, anche la fotografia del poliziotto che ha appena ucciso un terrorista?», si domanda Francesco Santoianni. «Una ipotesi: Marco Minniti – da tempo immemorabile tutor dei servizi segreti e ora anche ministro dell’interno – si era reso conto che la morte di Anis Amri – identificato come il responsabile della strage con il Tir a Berlino grazie ad un ennesimo documento di identità, miracolosamente ritrovato dopo 24 ore – per mano di un ignoto avrebbe legittimato in tutta l’opinione pubblica i sospetti che Anis Amri non fosse altro che un Patsy», cioè un capro espiatorio, paragonabile a Lee Harvey Oswald, l’apparente killer di John Kennedy. «Poliziotto – continua Santoianni, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – al quale auguriamo che – dopo il nome, la fotografia, l’account Facebook – non venga pubblicato anche il suo indirizzo di casa». Se le “stranezze” abbondano, irrompe l’inevitabile corredo di dietrologie: Federico Dezzani si spinge a ipotizzare «un assist anglomericano all’Italia, ai danni della Germania», contraria alla nazionalizzazione di Mps, “punita” ora con la dimostrazione di efficienza della polizia italiana, che dimostrerebbe l’inadeguatezza di quella tedesca.«Poca gloria, ma in compenso molte domande», sintetizza “Piotr” su “Megachip”: «Come sapevano che era proprio questo tizio alla guida del camion che ha fatto strage a Berlino? Semplice. Come al solito, hanno trovato – toh, guarda – un suo documento nella cabina del camion, sotto il sedile. Come mai allora l’efficientissima polizia tedesca aveva arrestato un pakistano che non c’entrava nulla? Ci hanno messo veramente un giorno a trovare un documento sotto il sedile dell’arma del crimine? Ma va là». La sequenza, sottolinea “Megachip”, si ripete con un cliché incredibilmente monotono: prima un attentato “imprevisto”, poi il ritrovamento dei documenti degli attentatori sul luogo del crimine, quindi la dichiarazione che l’attentatore era già sospettato, magari sotto sorveglianza (però l’attentato lo riesce a fare lo stesso, invariabilmente). Quindi scatta la caccia all’uomo. Finale: «Conflitto a fuoco e uccisione del sospetto. Niente cattura e interrogatorio. Nemmeno per Osama bin Laden». Identica sceneggiatura: «Qualcuno sta usando sempre lo stesso canovaccio. Non chiedetemi chi. Non ho le prove», ammette “Piotr”. L’importante, conclude, è vedere che la narrazione ufficiale «non sta in piedi, ed è diventata mortalmente noiosa». Intanto, «gli innocenti continuano ad essere ammazzati, per la gloria di poche élite, pronte a scatenare tutte le loro speculazioni politiche e gli stati di emergenza sull’onda di una campagna di terrore e tensione».Due poliziotti in mondovisione (nomi e cognomi, persiono le foto), uno di loro è ferito. E a terra, nella notte, a Sesto San Giovanni, un giovane tunisino: Anis Amri. «Era lui il killer di Berlino?», si domanda Massimo Mazzucco su “Luogo Comune”. «Vedete? Anche la polizia e i servizi tedeschi imparano presto», scriveva giorni fa Maurizio Blondet. «Prima si lasciano scappare il terrorista della strage di Natale; ma il giorno dopo, guardando meglio, scoprono che – come tutti i terroristi islamici – ha lasciato nel vano porta-oggetti il suo documento di prolungamento della permanenza in Germania, che è praticamente la prova della sua identità». Lo ha fatto uno dei fratelli Kouachi dopo aver sparato a quelli di Charlie Hebdo. E lo stragista di Nizza, Lahouaiej-Bouhlel? «Anche lui, prima di lanciarsi nella folle corsa omicida e suicida, pone in bella vista patente di guida, carta d’identità, telefonino, persino carte di credito». Ricorda la storia, sempre uguale, dei documenti dei “terroristi” emersi tra le macerie dell’11 Settembre, in mezzo all’apocalisse. «Da allora, è una certezza per gli investigatori: cercate bene sui sedili, sotto la cenere, nella guantiera, e smetterete di brancolare nel buio». Un copione: diffondere ai media l’identità del “mostro” da braccare. Se intercettato, «invariabilmente risponde al fuoco gridando “Allah Akhbar!”. Sicchè non ne vien preso vivo uno. Succederà, possiamo profetizzarlo, anche al “tunisino “ identificato dalla polizia tedesca».
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Ma nemmeno il Premio Nobel svelerà l’enigma Bob Dylan
«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.Se il “flaming delta” simboleggia la presenza immanente della divinità («percepisco ovunque la presenza di Dio», ha detto in una recente intervista), nell’affascinante logo che accompagna il “neverending tour” si può riconoscere “l’occhio di Horus”, o “occhio dell’iniziato”, quello dell’uomo che ha accesso al cammino verso la “verità profonda”. In più, l’occhio di Dylan – sul drappo calato come un sipario alle spalle della band, in chiusura di concerto – ha un’iride particolarissima, in forma di spirale (in codice esoterico, può significare: verità raggiungibile). E la corona che sovrasta l’occhio richiama direttamente la scienza alchemica, ritenuta la “regina” di ogni conoscenza. Traduzione ipotetica: attraverso l’alchimia interiore – trasformare in “oro” il proprio piombo terreno – è possibile arrivare a «vedere Dio ogni giorno, in ogni cosa», specie a 75 anni, con davanti un calendario di appuntamenti concertistici da schiantare un ventenne. «Morirò su un palco, un giorno, da qualche parte nel mondo», ebbe a dire Dylan qualche anno fa, cercando di spiegare il suo tour infinito, fondato sulla strepitosa reintepretazione, ogni volta rivoluzionaria, di leggendari successi resi irriconoscibili dai nuovi arrangiamenti, ogni volta diversi, regalati in esclusiva al pubblico presente.Rarissime le esternazioni pubbliche, dall’ex ragazzo del Minnesota, nipote di ebrei ucraini e lituani, protagonista di una traiettoria culturale ricchissima: la venerazione per il menestrello Woody Guhrie, “Blowin’ in the wind” e la protesta degli anni ‘60, le battaglie civili come quella per far uscire di prigione il pugile nero Rubin “Hurricane” Carter, o la campagna “Farm Aid” per il sostegno degli agricoltori americani colpiti dalla crisi. Fino all’incredibile disco natalizio del 2009, “Christmas in the Heart”, coi proventi interamente devoluti a “Feeding America”, associazione caritativa che fornisce pasti caldi ai senzatetto. Forse, tra i giudici del Nobel ha pesato soprattutto il Dylan politico, quello di “Masters of war” contro i signori della guerra, tema riproposto in modo magistrale attraverso canzoni più recenti, come “Ring them bells”, del 1989. “I pity the poor immigrant”, cantava un Dylan giovanissimo, soffermandosi su “The lonesome death of Hattie Carroll”, schiava nera uccisa a bastonate dal suo “padrone”, ricco proprietario terriero. Dall’ultimo Dylan, pensieroso fino alla cupezza, sono scaturite gemme di autentica poesia come il disco “Tempest”, ispirato al poeta Henry Timrod, uscito nel 2009 – già allora, sul palco, a fine serata compariva il misterioso simbolo dell’occhio “incoronato”.«Capirete fra trent’anni quello che ho scritto», si sbilanciò nel 1967 quando uscì “John Wesley Harding”, il disco contenente una traccia come “All along the Watchtower”, poi resa immortale dall’interpretazione di Jimi Hendrix a Woodstock. Tutto il lavoro – in apparenza country-western – svelava la profonda intimità dell’artista con una dimensione metafisica presente tra i risvolti del quotidiano, attraverso fotogrammi che illuminano verità senza tempo, percezioni astoriche e immateriali, in un mondo di evocazioni e citazioni bibliche, tra il fantasma di Sant’Agostino e l’arrivo di oscuri messaggeri. “Ci dev’essere il modo di uscire di qui, disse il buffone al ladro”: come i personaggi di “All along the Watchtower”, anche Dylan crede alla possibilità di un riscatto, un Piano-B, mentre si interroga sull’umanità senza mai smettere di denunciarne gli orrori – la vigorosa rock-ballad “Union Sundown” (da “Infildels”, con Mark Knopfler alla chitarra) è un grido, profetico, contro la catastrofe della globalizzazione: porta la data del 1983. «Ha vinto Dinsey, quindi abbiamo perso tutti», sentenziò. Ma non smise di girare il mondo, e – anzi – aggiunse sul palco quel misterioso stendardo-pirata, come monito ammiccante: io so, vedo, capisco. L’occhio in fiamme, la corona. E ora anche il Nobel Prize for Literature.«Se la misura della grandezza è quella di allietare il cuore di ogni essere umano sulla faccia della terra, allora era veramente il più grande. In ogni modo è stato il più coraggioso, il più gentile e il più eccellente degli uomini». Così Bob Dylan in memoria di Muhammad Alì, scomparso il 3 giugno 2016. Sincronicità: nel giorno della dipartita di Dario Fo, l’accademia di Svezia concede il Premio Nobel per la letteratura – sospiratissimo, soprattutto da parte di migliaia di fan e supporter – all’immenso artista di Duluth, il cui capolavoro forse consiste nell’essere sopravvissuto a se stesso dopo oltre mezzo secolo di dischi e concerti, perfettamente intatto nell’ispirazione creativa di cantante, musicista, compositore e performer. Un’autorevolezza culturale, quella di Dylan, che ne ha fatto un involontario maestro, riconosciuto da generazioni di cantanti, artisti e intellettuali di ogni parte del mondo. Un maestro singolare, laconico, riluttante. Enigmatico come il simbolo che lo accompagna da anni, sul palco: un occhio in fiamme, sormontato da una corona.