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Giannuli: Potere al Popolo, per scuotere questi partiti morti
«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».La destra berlusconiana, «anche se solo tatticamente» (per affondare Renzi) ha votato No al referendum, «mentre il Pd era l’eversore». Secondo Giannuli, «il nemico costituzionale è un nemico strategico assoluto». Dopo, non c’è più possibilità d’intesa: «Non glielo perdoneremo mai». Questo però non è chiaro a quella parte del Pd (neppure a tutta) che votò No e poi si è scissa, dando vita a “Liberi e Uguali”. Ok, ieri hanno ingaggiato la battaglia referendaria e oggi non hanno accettato di entrare in coalizione col Pd, ma l’hanno fatto «con un costante margine di ambiguità, per cui in Lazio entrano nella coalizione di Zingaretti e non escludono alleanze future». Il problema? Per Leu non è il Pd, ma Renzi: «Con un Pd senza Renzi si potrebbe ragionare», pensano. «E invece no: il Pd era una cosa sbagliata anche prima del fiorentino, un intruglio venefico fra neoliberismo e centralismo staliniano per il quale il gruppo dirigente fa opportunisticamente quel che vuole senza mai rendere conto a nessuno». D’altra parte, aggiunge Giannuli, il Pd appartiene a quella post-socialdemocrazia “terzista”, blairiana, «che si arrese al neoliberismo e che oggi sta pagando il conto, riducendosi a percentuali non rilevanti». La sua stagione è finita, e questo vale anche per il Pd. «Ma i nostri amici di Leu non sembrano capaci di imparare dall’esperienza, e insistono».Poi c’è stata «l’imbarazzante vicenda della caccia al “capo”», prima inseguendo «quel nulla politico che è Pisapia», per poi planare incredibilmente su Pietro Grasso, «un nome che non ha bisogno di commenti». Quindi, continua Giannuli, sono passati all’ancora più imbarazzante vicenda delle candidature, «in cui Leu si è dimostrata un ufficio di collocamento per parlamentari in cerca di rielezione, senza nessuna consultazione della base», con politici a fine carriera «paracadutati in collegi in cui non c’entravano nulla». Il programma di “Liberi e Uguali”? Lo svela una colorita espressione siciliana: “Nuddu, ammiscàtu a nenti” (nessuno, sommato a niente). «Insomma, iniziativa politica zero, idee zero, democrazia interna zero: invotabili». Giannuli, che vota a Milano, farà un’eccezione solo per Onorio Rosati, candidato con Leu alle regionali lombarde, «perché la Regione non è il Parlamento nazionale». Quanto ai 5 Stelle, dopo la manfrina elettoralistica del “né di destra, né di sinistra”, hanno fatto la scelta peggiore: la destra neoliberista. Il “reddito di cittadinanza”? «Una proposta tutta interna al neoliberismo». Lorenzo Fioramonti, il guru arruolato da Di Maio nonché suo mentore a Wall Street? «Nemico numero uno del Pil, economista di spiccata ispirazione neoliberista» (vorrebbe amputare del 40% il debito pubblico).«La solita solfa “né di destra né di sinistra” è un vecchio trucco per raccogliere voti da ambo le parti», ricorda Giannuli: «Per primi lo usarono i Fasci di Combattimento di Mussolini esattamente 99 anni fa». Furbetti e pilateschi, i 5 Stelle, su questo punto, «per non dire dell’annosa vicenda dei migranti». Quanto al modello organizzativo – apparato di funzionari o notabili parlamentari, oppure gruppi dirigenti regolarmente selezionati in modo collegiale e democratico – il Movimento 5 Stelle «ha scelto il peggiore: quello dell’uomo solo al comando, tanto simile a quello renziano». E l’ha fatto «con un colpo di mano statutario sbalorditivo», adottando «un regolamento subito applicato, senza neppure essere mai stato votato da nessuno». Il risultato, ferma restando la “pasticcioneria dell’ultima ora” tipica dei 5 Stelle, «è questa selezione di candidati su cui non spenderemo neppure mezza parola». Unico auspicio: forse non finirà così. «La base del movimento non è stata consultata e ha taciuto perché c’erano le elezioni, ma il 5 marzo magari avrà qualcosa da dire». Poi bisogna vedere come andrà Di Maio alle elezioni, cosa diranno Grillo e Di Battista, «e Dio non voglia che vengano fuori una decina di “responsabili”»). Comunque sia, per Giannuli, la base pentastellata resta pur sempre «un serbatoio di forze antisistema per nulla trascurabile».Poi ci sono le liste-contro, specie quelle di sinistra: l’unica che in base ai sondaggi sembra avere una chance (almeno di conquistare qualche seggio) è “Potere al Popolo”, messa insieme all’ultimo momento e tra mille difetti. «Però non c’è dubbio che una sua affermazione scombinerebbe molti giochi», sostiene Giannuli: «Tanto per cominciare, questo significherebbe che la domanda di una nuova rappresentanza politica si fa avanti e non è frenata», nonostante le tante “trappole” inventate dalla classe politica, tra sbarramenti e scatole cinesi: dalla valanga di firme da raccogliere in tempo record per ogni per circoscrizione, fino alla stessa «incomprensibile» legge elettorale, per cui «persino quelli di Forza Italia hanno rischiato». Non sta scritto da nessuna parte che il Parlamento debba essere monopolio dei tre poli maggiori, sottolinea Giannuli. E allora «allarghiamo il club e vediamo soprattutto quanti voti raccoglieranno le liste fuori coalizione».Queste elezioni, in fondo, sono solo il secondo round del crollo dell’infelicissima Seconda Repubblica. Il primo round è stato il referendum. Ne verrà un terzo tra un anno alle europee, poi forse un quarto alle regionali, sempre che prima non ci siano elezioni anticipate. Dunque, un voto necessariamente tattico: «Se “Potere al Popolo” prendesse ora il 3%, fra un anno parteciperebbe alle elezioni senza dover raccogliere le firme». Un bel punteruolo nella schiena di Leu e M5S: «Mica male, considerate le porcherie che hanno combinato questa volta». Capirebbero che «non possono dar da bere alla gente proprio tutto»? Inizieranno a correggere la rotta? «Ho visto dei sondaggi che danno “Potere al Popolo” al 2,4%», scrive Giannuli. «Certo, c’è la valanga degli indecisi che poi, quando rientra, non premia i piccoli partiti». Ma forse l’impresa non è impossibile: “Potere al Popolo” ha registrato una crescita costante fin dall’inizio, «quando nei sondaggi non compariva proprio». Lo spazio politico da riempire c’è tutto, chiosa Giannuli: «Diciamo che deve rastrellare 120-130.000 voti, per farcela». Poi dipende anche dall’astensionismo: in quanti voteranno? Quanti, invece, diserteranno le urne?«Non per dare consigli a nessuno (non mi sembra di averne titolo) ma per chiarezza, faccio il mio “coming out” elettorale». Ovvero: “Potere al Popolo” alla Camera, «scommettendo che faccia il 3%», e i 5 Stelle al Senato «per dare ancora un segnale di disponibilità, sempre che raddrizzino il timone». Parola del professor Aldo Giannuli, storico dell’università di Milano, ascoltato politologo e attento osservatore “da sinistra” della scena italiana. «Come ho detto più volte – premette – il principale problema del momento è l’indecente offerta politica: è troppo al di sotto di quel che ci vorrebbe». Quindi, «più che per adesione», Giannuli voterà pensando agli effetti del suo voto «in questa specie di partita a carambola che sono diventate le consultazioni elettorali». Andando per esclusione: «Partiamo da quello che assolutamente non si può votare: centrodestra e centrosinistra sono solo avversari da battere». E per essere più precisi, «l’avversario peggiore e quello “di sinistra”, proprio per la truffa di un partito di destra che si presenta come “sinistra” e, in questo modo, riesce a fare quello che alla destra aperta non riusciva». E cioè: abolizione dell’articolo 18, Jobs Act, “buona scuola”: «Sono cose che Berlusconi avrebbe voluto fare ma non ci riuscì, per la reazione di sindacati e opposizione». Renzi invece ce l’ha fatta, «e per poco non è riuscito a stravolgere anche la Costituzione, non fosse stato per la rivolta popolare del 4 dicembre 2016».
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento. L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia. Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour. L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse. Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia. L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord. Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava. E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato. Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico. Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana. Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista? Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo? E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861? Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere. Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche». Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano. Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo. Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero. Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi. Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti. Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni. Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume. Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini. Inglesi e americani, massoni e cardinali? Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
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Magaldi: l’Italia è salva, grazie a Grasso e ai D’Alema-boys
Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.«C’è da ridere per non piangere, se il rinnovamento deve partire da Grasso», dice Gioele Magaldi a David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della convention romana dei fuoriusciti dal Pd renziano, alleati degli ex-Sel e di gruppi ancora più esigui della sinistra, come quello di Civati. «Già magistrato dignitoso, Grasso è un signore di 72 anni che è stato miracolato da alcune poltrone, come la presidenza del Senato: si è dimesso, tra virgolette, dal Pd, ma non ricordo che si sia erto a difensore della democrazia e dei diritti quando tutti quanti, da destra a sinistra, avallavano il Fiscal Compact varato dal governo Monti, anche con i voti di Bersani, D’Alema, Speranza e compagni, tutti provenienti dalla filiera Pci». Insiste Magaldi: «L’aver pienamente sottoscritto le peggiori le politiche di rigore è davvero il peccato originale di questa sedicente sinistra italiana». E aggiunge: «Chi può pensare, davvero, che il rinnovamento del paese possa venire da un personaggio come Grasso? Non direi che sia stato un presidente del Senato memorabile: e oggi il popolo “de sinistra” dovrebbe entusiasmarsi, plaudire? Immagino quanta eccitazione e quanti fremiti, alla vista di Grasso che arringa le folle. C’è davvero da piangere, da singhiozzare».Per il dopo-elezioni, non c’è bisogno di profezie: sondaggi alla mano, Renzi e il Cavaliere saranno “costretti” a una riedizione del Patto del Nazareno. Larghe intese, ma dalla vita breve: Magaldi prevede «crisi parlamentari sempre più ravvicinate, nei prossimi tempi, perché la situazione è insostenibile: c’è una decadenza dell’Italia che ormai questa classe dirigente nel suo complesso non è in grado di fronteggiare», men che meno «gli spaventapasseri della convention romana della sinistra, vecchi notabili variamente riciclati, che oggi ci vengono a cantare questa canzone stonata: e sono più aristocratici loro, nei rapporti umani e anche nella visione politica, di altri che vengono collocati a destra». Magaldi pensa al futuro Pdp e ragiona da allenatore: «Basta con questa finzione, noi lavoriamo per un partito davvero popolare: non ci interessa la rappresentazione populista, demagogica e squinternata che fa del popolo una macchietta, vogliamo una politica finalmente all’altezza dell’Italia, fondata su sovranità, dignità e diritti». Si tratta di ripartire da zero, per una «credibile rigenerazione politica di un paese malgovernato per 25 anni dai sedicenti centrodestra e centrosinistra». Il punto si svolta? Dire no alla truffa del rigore, dogma ideologico imposto dall’élite finanziaria. E’ la parola d’ordine su cui, promette Magaldi, si costruirà il Pdp, già partire dalla prossima legislatura, parlando anche a parlamentari «disgustati» dello spettacolo in arrivo.Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.
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Dieudonné e le reti dell’orrore: bambini uccisi dai potenti
Fate tacere quel comico: svela l’esistenza di reti di pedofili satanisti dietro i massimi vertici del potere. E’ il caso del controverso Dieudonné, nome completo M’bala M’bala, umorista francese di origine camerunense, balzato anche in Italia agli onori delle cronache per il suo presunto antisemitismo dopo la strage di Charlie Hebdo. Mesi prima era finito nelle indagini della magistratura francese, che aveva ordinato il boicottaggio del suo spettacolo “Il muro” nei teatri delle più importanti città. Durante lo show, scrive Federica Francesconi sul blog “La strage degli innocenti”, Dieudonné «denunciava apertamente le reti dei pedofili che agiscono in Francia indisturbate grazie alle coperture della classe dirigente del paese». Dopo la circolare emanata dal ministero dell’interno, che imponeva lo stop allo spettacolo che il comico avrebbe dovuto recitare in tutta la Francia, i teatri transalpini gli hanno revocato uno dopo l’altro il permesso andare in scena. «Alcuni movimenti e gruppi hanno denunciato l’intervento delle autorità francesi come un vero e proprio attacco alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione». A preoccupare i censori erano «le rivelazioni che Dieudonné aveva fatto durante i suoi show satirici sull’esistenza in territorio francese di radicate e pericolosissime reti pedofile».Non è difficile mettere fuori gioco Dieudonné, che è «dichiaratamente antisemita». La stessa Francesconi premette: «Non condivido tutto quello che il comico sostiene sugli ebrei». Ma il punto è un altro: la questione non riguarda “gli ebrei”, o meglio i sionisti, ma i bambini. Spesso sequestrati, violati e abusati. Torturati, e infine “sacrificati”. «Durante i suoi spettacoli il comico francese ha parlato più volte dei bambini che vengono violati durante disgustosi rituali sessuali praticati dai “grandi” di questo mondo», avverte la blogger. Per cui, «vi è il legittimo sospetto che questa possa essere la vera ragione dell’interdizione dei suoi spettacoli». In particolare, Dieudonné si è occupato del caso dei fratelli Roche: un caso di malagiustizia che in anni recenti ha suscitato molto clamore in Francia e ha fatto venire allo scoperto le strette connessioni tra pedofilia e magistratura deviata. I due fratelli, Charles-Louis e Diane Roche, hanno denunciato il coinvolgimento di politici e magistrati francesi in pratiche pedofile “controiniziatiche”, a cui pare fosse legato anche il loro padre, il magistrato di Tolosa Pierre Roche. La rivelazione: il potere di una magistratura “nera”, incaricata di insabbiare le indagini e proteggere gli “orchi”, tutti insospettabili.Poco prima di morire di cancro, l’uomo aveva confidato ai figli il terribile segreto che per anni aveva custodito: l’esistenza di una costola deviata della magistratura, «il cui obiettivo segreto è di insabbiare tutte le inchieste e le indagini che provano l’esistenza delle reti pedocriminali e che tentano di fare luce sulle coperture istituzionali di cui i pedofili godono». Bingo: nel suo spettacolo, Dieudonné aveva ospitato uno dei due fratelli, Charles-Louis, «che ha potuto esprimersi liberamente in una sorta di monologo durante il quale ha denunciato i loschi traffici di cui è a conoscenza e in cui pare fosse implicato anche il padre». Il comico ha bollato senza mezzi termini le reti pedofile dell’orrore, definendole «reti sataniste», a capo delle quali vi sarebbe un «gruppo segreto», meglio conosciuto come «élite mondialista». Che cosa ha rivelato di così destabilizzante per i poteri occulti il figlio del defunto magistrato Pierre Roche? Durante lo spettacolo di Dieudonné, «Charles-Louis ha testimoniato sulle confessioni fattegli dal padre che riguardavano i crimini di cui si era macchiato durante l’esercizio della sua carica».In particolare, in punto di morte, Pierre Roche avrebbe «rivelato al figlio di aver partecipato a delle orge nella regione di Tolosa, in compagnia di altre personalità francesi altolocate». Durante queste orge «i partecipanti abusavano di prostitute, di vagabondi rapiti per strada e di bambini». Attenzione: erano «orge che finivano sempre con l’uccisione rituale delle piccole vittime, dopo averle sottoposte a ogni tipo di tortura». Federica Francesconi definisce quelle atroci serate «cerimonie controiniziatiche». Un’allusione precisa: viene chiamato “contro-iniziato” un soggetto che abbia ricevuto un’iniziazione esoterica (per esempio massonica) e che poi faccia un uso distorto, capolvolto, delle conoscenze che gli sono state trasmesse. Per la massoneria democratico-progressista sono “contro-iniziati” gli uomini del massimo potere, aderenti a superlogge internazionali che nei fatti rinnegano gli ideali della stessa tradizione massonica (libertà, uguaglianza, fratellanza) per “pervertire” in senso neo-oligarchico l’ordine mondiale, retto da una casta più o meno occulta di super-potenti, assolutamente reazionari, contrari cioè ai diritti, al benessere e al progresso del 99% della popolazione.Per alcuni di essi si tratta di una vera e propria forma di religione, scrive Gianfranco Carpeoro nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, in cui illustra la dottrina ottocentesca del marchese Saint-Yves d’Alveidre: in base alla teoria della “sinarchia”, l’élite (“illuminata” per auto-elezione) ha il diritto-dovere di governare le masse, visto che il popolo – rozzo e ignorante – non avrebbe gli strumenti per decidere da sé. In altre parole, la democrazia è una bestemmia. E proprio allo svuotamento sostanziale della democrazia si è dedicata l’élite eurocratica, che secondo Dieudonné è anche rigorosamente pedofila. Uccidere un bambino mediante un sacrificio rituale significa “uccidere” il futuro che non ti piace, quello degli altri, al tempo stesso propiziando il tuo: lo sostiene Giuseppe Genna, tra le pagine del romanzo “Nel nome di Ishmael” che svela una realtà abominevole: quella dell’omicidio “rituale” dei bambini, abusati dai pedofili, come viatico “magico” per sanguinosi attentati politici organizzati dall’oligarchia tramite settori deviati dei servizi segreti. Un incubo, simile a quello descritto da Charles-Louis Roche nello spettacolo di Dieudonné. E quelle orge francesi, dice il figlio del giudice, erano quasi sempre filmate, «verosimilmente per ricattare a vita i partecipanti», ne deduce la Francesconi.«I partecipanti alle serate orgiastiche erano tutti membri della massoneria deviata francese la quale, tramite i filmati, teneva sotto scacco i suoi affiliati per obbligarli a lasciarsi manovrare nell’esercizio dei rispettivi ruoli pubblici», aggiunge la blogger. «La testimonianza dei due fratelli Roche è molto importante perché per la prima volta, tramite i suoi figli, un notabile, uno dei membri di questi gruppi occulti che governano i sistemi istituzionali di quasi tutti gli Stati, viola il voto di segretezza e omertà a cui è obbligato per rivelare al mondo i segreti inconfessabili dell’élite satanista». La terribile ricostruzione è proposta anche da un documentario su Dieudonné ripreso da YouTube. Il documento conferma che Charles-Louis Roche ha approfittato dell’ospitalità del comico per rendere pubblica la testimonianza del genitore, e quindi denunciare l’esisternza delle «reti dell’orrore» delle quali padre, magistrato di alto grado, è stato membro, prima di morire. O meglio: «Prima di essere assassinato», si afferma, sostenendo che il giurista non sarebbe morto in modo naturale. E dai media «silenzio totale», visto che gli organi di stampa «eseguono gli ordini».Secondo Charles Louis-Roche, l’ideologia del gruppo cui aveva appartenuto il padre «consiste in un progetto culturale, a cominciare dalla legge, dalla morale e dalla discendenza che ha come scopo la violazione, la tortura e la morte di bambini di età compresa tra i pochi mesi di vita e i 10 anni». Ne parla anche la sorella, Diane Roche: «Reti pedofile, sataniste e mafiose all’interno delle quali dei bambini vengono filmati e contemporaneamente torturati, violati e uccisi». Nello spettacolo di Dieudonné, Charles-Louis Roche ha dichiarato che il padre gli aveva rivelato che a tali reti pedofile «appartengono esponenti del mondo della politica, gli editori, la finanza, i medici». Quali sono le attività di questi circoli? «Consistono nell’organizzare serate estreme, alcune delle vere e proprie rappresentazioni teatrali, che sono di due tipi». Il primo tipo consiste in una “storia della pesca di Cristo”, forse un rituale controiniziatico: «Per festeggiare la Natura, la serata degenera nel sadomasochismo e nel consumo di stupefancenti, che servono per aumentare il piacere dei partecipanti e che costituiscono un doppio premio». Vengono utilizzate anche prostitute e ragazze provenienti da famiglie disagiate: «Sono le candidate ideali per sparire senza lasciare traccia».E chi sarebbero i protettori di queste reti pedofile? Charles-Louis Roche elenca i nomi di 71 magistrati francesi attualmente in carica: li definisce «corrotti» e sostiene che facciano «esattamente ciò che il potere politico ordina loro di fare». Dentro a queste reti esisterebbe un metodo comune di dissuasione, per evitare che troppe verità scomode vengano divulgate. «Questo metodo – denuncia il documentario – consiste nell’ostacolare e nel ricorrere a minacce molto dissuasive per ridurre al silenzio grandi uomini come Dieudonné, il belga Marc Vervloesem ed altri, che hanno rivelato alcune verità e che quindi costituiscono per questi mostri, questi assassini di bambini, un pericolo». Costoro avrebbero «minacciato di rapire i figli di Dieudonné, che ha contribuito a denunciare queste reti pedofile sataniche». Aggiungono gli autori del video: «Sono perfettamente al corrente che Dieudonné conosce l’esistenza di queste reti pedofile, che ha contribuito a denunciare». Si parla di personaggi potentissimi e protetti da impunità assoluta: «Sono coloro che attualmente detengono il potere sulla Terra». Le chiavi del potere, per loro, sarebbero «l’adorazione di Moloch, una delle rappresentazioni di Lucifero simboleggiato da un gufo o da una civetta», nonché il più prosaico «controllo privato della moneta».«Secondo i loro precetti satanici – continuano i documentaristi francesi – l’adorazione del diavolo deve manifestarsi attraverso rituali e cerimonie che coinvolgono bambini, rituali che si rivelano alla presenza di alcuni simboli che li rappresentano». Il filmato accusa in particolare un prestigioso avvocato di origine ebraica, Alain Jacubowicz, che avrebbe minacciato Dieudonné, invitandolo (sinistramente) a «ridere bene con i suoi figli». Jacubowicz è il presidente della Licra, la Lega antirazzista francese, specializzata nella lotta contro l’antisemitismo, che «ha fatto di Dieudonné il bersaglio preferito di una diffamazione mediatica imbastita per screditare il comico e le sue denunce pubbliche contro i poteri occulti», scrive Federica Francesconi. «Jacubowicz è anche colui che ha difeso il B’nai B’rith e il Concistoro israelita durante i processi “Barbie”, “Touvier” e “Papon”, criminali e torturatori nazisti che durante la Seconda Guerra Mondiale si resero responsabili dell’uccisione di migliaia di ebrei». Il B’nai B’rith è un’associazione ebraica di stampo massonico, mentre il Concistoro israelita è l’istituzione rappresentativa degli ebrei di Francia.Quindi Jacubowicz è uno dei massini rappresentanti della comunità ebraica francese, «ma non un personaggio esattamente limpido se, come denunciato da Dieudonné, in un’aula del tribunale, davanti a decine di persone, ha minacciato di nuocere ai suoi figli pronunciando quell’inequivocabile frase dal sapore satanista», aggiunge Francesconi: “ridere bene coi propri figli” può essere un’allusione ai riti infernali di chi “ride” uccidendo bambini? «Ma si sa: a certi personaggi è permesso dire di tutto», aggiunge Francesconi. Certi big «godono dell’immunità pressoché integrale della magistratura», quindi non temono che il loro prestigio sociale possano essere scalfito. «E’ curioso che pochi mesi prima della strage del presunto commando jihadista contro la redazione di Charlie Ebdo, in Francia un disegnatore satirico, Plantu, sia stato assolto in un processo che lo vedeva accusato di incitamento all’odio religioso e alla violenza», aggiunge la blogger, dopo aver disegnato in una vignetta l’allora pontefice Benedetto XVI nell’atto di sodomizzare un bambino. Palntu era stato assolto: quella vignetta «era soltanto una denuncia dell’omertà e del silenzio dei vertici ecclesiastici sul fenomeno sommerso della pedofilia nella Chiesa», e non già un atto di accusa indiscriminato contro tutti i cattolici. «Peccato che la stessa libertà di espressione non venga riconosciuta anche a Dieudonné, forse perché, a differenza di Plantu, punta il dito contro l’onnipotente e tentacolare comunità ebraica? A voi la risposta».Fate tacere quel comico: svela l’esistenza di reti di pedofili satanisti dietro i massimi vertici del potere. E’ il caso del controverso Dieudonné, nome completo M’bala M’bala, umorista francese di origine camerunense, balzato anche in Italia agli onori delle cronache per il suo presunto antisemitismo dopo la strage di Charlie Hebdo. Mesi prima era finito nelle indagini della magistratura francese, che aveva ordinato il boicottaggio del suo spettacolo “Il muro” nei teatri delle più importanti città. Durante lo show, scrive Federica Francesconi sul blog “La strage degli innocenti”, Dieudonné «denunciava apertamente le reti dei pedofili che agiscono in Francia indisturbate grazie alle coperture della classe dirigente del paese». Dopo la circolare emanata dal ministero dell’interno, che imponeva lo stop allo spettacolo che il comico avrebbe dovuto recitare in tutta la Francia, i teatri transalpini gli hanno revocato uno dopo l’altro il permesso andare in scena. «Alcuni movimenti e gruppi hanno denunciato l’intervento delle autorità francesi come un vero e proprio attacco alla libertà di espressione sancita dalla Costituzione». A preoccupare i censori erano «le rivelazioni che Dieudonné aveva fatto durante i suoi show satirici sull’esistenza in territorio francese di radicate e pericolosissime reti pedofile».
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Senza Catalogna, la Spagna crolla: rischio bagno di sangue
Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.A differenza dei Paesi Baschi, «che hanno smesso di combattere solo dopo aver ottenuto l’indipendenza economica grazie a 35 anni di guerra», Barcellona quell’indipendenza se la può sognare, scrive l’analista di “Scenari Economici”, ricordando che ad aprire la vertenza fu José Maria Aznar, «che per governare si mise in coalizione coi catalani dovendo concedere l’indipendenza culturale, la lingua e il decentramento amministrativo, ma non quello economico». Poi i catalani «non servirono più», e rimasero in un angolo fino al 2006, quando il nuovo premier socialista José Luis Rodriguez Zapatero, «con un mix di idealismo progressista unito al solito calcolo politico», fece nuove concessioni alla Catalogna. Ma attenzione: lo fece «in periodi di vacche grassissime». Per legge e con approvazione parlamentare, Zapatero concesse a Barcellona «anche l’indipendenza economica a termine, un po’ come accaduto in Italia con l’Alto Adige». Tradotto: i catalani potevano «tenersi la maggior parte delle tasse pagate nella regione». All’epoca, ricorda Jesus de Colon, «l’economia spagnola scoppiava di salute, dunque i calcoli dicevano che la baracca sarebbe rimasta in piedi comunque».Poi è arrivata la tremenda crisi finanziaria mondiale, e nel 2010 la Corte Costituzionale ha annullato l’autonomia fiscale catalana: «Se non l’avesse fatto la Spagna sarebbe fallita», scrive “Scenari Economici”. Da quel momento «l’irredentismo catalano iniziò a decollare», per ragioni «squisitamente economiche». Ovvero: la Catalogna oggi vuole tornare a tenere per sé le proprie tasse, a maggior ragione dopo la crisi dei mutui sub-prime, per uscire dalla quale «Madrid ha obbligato tutti i lavoratori spagnoli a tirare la cinghia». E ora, visto che a Barcellona e dintorni i turisti affluiscono in massa, in una situazione che ha «costi europei ma stipendi spagnoli», la conclusione è quella che sta andando in scena: la ribellione. Secondo Jesus de Colon, le possibili soluzioni sono tre: Madrid si “suicida” finanziariamente lasciando le tasse a Barcellona, oppure ottiene in cambio importanti sgravi dall’Unione Europa, o più probabilmente – terza ipotesi – annulla l’autonomia catalana proedecendo con la più brutale repressione del separatismo. La prima ipotesi è pura fantascienza: senza i soldi di Barcellona, tutti gli spagnoli sarebbero costretti a ridurre ulteriormente il già declinante tenore di vita. Ma anche il Piano-B sarebbe poco realistico, perché incoraggerebbe altre disgregazioni in Europa.Anche se l’Ue permettesse a Madrid ulteriori sforamenti di bilancio, non ci sarebbe più una situazione di equilibrio: i conti spagnoli non starebbero più in piedi come prima dell’ipotetica indipendenza catalana, «soprattutto in presenza di un eventuale neo-paese vicinale, appunto la Catalogna indipendente, che inevitabilmente si svilupperebbe molto di più della madrepatria». E in tal caso, aggiunge Jesus de Colon, anche l’Italia e la Grecia potrebbero accampare ulteriori pretetese di flessibilità nel bilancio, sulla falsariga della flessibilità spagnola. Di consegenza, l’analista considera di gran lunga più probabile la terza ipotesi – la repressione – vista «l’impossibilità materiale di Madrid di concedere i soldi (e il benessere) che i catalani di fatto pretendono». Per Madrid sarà inevitabile «soddisfare gli istinti “idealistici” castigliani», ovvero «i principi poco mediabili ereditati dal franchismo», con il mantenimento dello status quo: la Spagna unita. «In tal caso inevitabilmente ci sarà repressione». La misura della violenza? «Dipenderà dalla volontà di Barcellona di accettare la sconfitta: che dovrà essere piena». Il problema, chiosa l’analista, «sta nel fatto che un popolo, quando annusa la libertà e soprattutto quando gli viene fatto ben capire che è nel suo interesse, non viene mai veramente sconfitto: a meno di usare la forza bruta o di trucidarlo».Repressione brutale della Catalogna, a meno che Bruxelles non conceda robusti sgravi a Madrid. Perché la tempesta iberica è essenzialmente economica: la coperta è sempre più corta e, senza Barcellona, la Spagna non sta in piedi. Lo sostiene Jesus de Colon in un’analisi su “Scenari Economici”: prima ancora che una questione di lingua e cultura, la rivolta catalana nasce dalla volontà di smettere di sostenere finanziariamente le regioni più arretrate, come l’Andalusia e l’Estremadura. Ma senza i soldi della Catalogna, il tenore di vita spagnolo sarebbe destinato a crollare. Certo è normale che i catalani vogliano smarcarsi dalla Spagna, «il paese con più nobili in tutta Europa, a maggior ragione in presenza di notabili locali – a partire dai Borboni – che, si sa, non brillano troppo spesso di lucente intelletto». In Spagna, poi, sopravvivono inquietanti reliquie del franchismo: c’è «la presenza ingombrante e marziale della Legion, l’erede militare della Falange di Melilla», una milizia «protetta dalla Vergine, con cui sfila ogni Pasqua». In altre parole: comunque vada a finire, la situazione non sarà mai più come prima. E quello che sta per andare in scena potrebbe essere un brutto spettacolo, con molta violenza.
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La lezione inglese: se i socialisti tornano a fare i socialisti
Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.L’elezione a sorpresa di Jeremy Corbyn alla segreteria – grazie a primarie che hanno dato più peso alla base e meno ai notabili – ha rappresentato una rottura e un ritorno alla linea precedente. Non c’è stato osservatore o analista politico che non abbia accolto questa sterzata con commenti impregnati di uno scetticismo a volte ai limiti del dileggio: in questo modo, si è detto, il Labour si condanna a una sterile opposizione, senza alcuna speranza di tornare prima o poi al governo. I sondaggi sembravano confortare questa tesi, visto che fino a un paio di mesi fa accreditavano al Labour consensi intorno al 25%, con un abissale distacco di una ventina di punti rispetto ai rivali Tory. Poi Corbyn ha presentato il suo programma, subito bollato come “massimalista” e “populista”. In realtà, al di là di qualche esagerazione da campagna elettorale, era semplicemente un programma che rovesciava i paradigmi neoliberisti: basta all’austerità diretta a senso unico verso le classi più svantaggiate, basta riduzioni del welfare, ri-nazionalizzazione di servizi essenziali come poste e ferrovie (queste ultime oggetto di una privatizzazione particolarmente fallimentare).Basta con l’università così costosa da escludere gran parte di coloro che non hanno possibilità economiche: e probabilmente proprio questa è stata la carta vincente nei confronti dei giovani, che sono andati a votare (mentre al referendum sulla Brexit si erano astenuti per due terzi) e hanno votato in maggioranza per Corbyn. Il risultato è stato che un partito che sembrava avviato verso la triste sorte degli altri confratelli ha ottenuto un successo a cui il numero di seggi non rende giustizia: il Labour è arrivato al 40%, testa a testa con il 42,5 dei Tory. Altro che che “così non vincerà mai più”: la linea Corbyn ha dimostrato di essere l’unica che possa sperare di contendere il potere ai conservatori. Una speranza tutt’altro che peregrina: quando le percentuali sono così vicine basta l’ulteriore spostamento di un numero abbastanza limitato di voti per rovesciare la maggioranza dei seggi conquistati. Frutto di un sistema elettorale che produce risultati paradossali: anche questa volta, per esempio, l’irlandese Dup con lo 0,91% conquista 10 seggi, mentre il 7,36 dei Libdem ne vale appena 2 in più e il 3% dei nazionalisti scozzesi gliene assegna 35.Insomma la lezione, per chi la vuol capire, è molto chiara: se i socialisti non fanno i socialisti prima o poi vanno incontro alla scomparsa. Ogni paese ha le sue dinamiche e le sue specificità: per alcuni quel “poi” è già arrivato, in altri casi – come quello dell’Italia – non ancora, ma è sulla buona strada. Ne dovrebbero tener conto, per esempio, i fuoriusciti dal Pd, le cui analisi sulla globalizzazione, sull’Europa e sull’economia non recidono ancora quel legame con la Terza via che ha distrutto o sta distruggendo la sinistra. Cosa che invece ha fatto, per esempio, il francese Jean-Luc Mélenchon, ottenendo alle recenti presidenziali un successo che – anche in quel caso – nessuno aveva previsto. Il mondo è cambiato, è vero. Ma ciò non significa che non possa cambiare di nuovo. Soprattutto, non sono cambiati i bisogni e gli interessi di chi da questi mutamenti è stato danneggiato e vede un futuro in cui la propria condizione potrà semmai solo peggiorare. Chi vuole rappresentarli dovrà prenderne atto fino in fondo.(Carlo Clericetti, “Uk, quando i socialisti fanno i socialisti”, da “Repubblica” del 9 giugno 2017, articolo ripreso da “Micromega”).Tutte le elezioni degli anni della crisi sono state caratterizzate dai risultati catastrofici dei partiti socialisti, che in vari casi – ultimi due l’Olanda e la Francia – da formazioni che competevano per il governo si sono ridotti a gruppetti irrilevanti. Sono i risultati di lungo termine della loro mutazione genetica, iniziata con la truffaldina “Terza via” blairiana che li ha portati ad accogliere senza riserve l’ideologia neoliberista. In vari casi i loro elettori tradizionali ci hanno messo un po’ a capire che erano passati dall’altra parte e quindi in una prima fase hanno avuto successo, usufruendo di un patrimonio di adesioni consolidatosi storicamente e raccogliendone altre nuove dall’area moderata. Ma poi hanno cominciato a franare, perché non c’è tradizione che tenga quando si sceglie di rappresentare interessi opposti a quelli per tutelare i quali il partito era nato. Questa è stata anche la parabola del Labour, che dopo il grande e anche lungo successo di Blair ha cominciato a perdere sempre più terreno, avviandosi a seguire quella stessa sorte.
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Foa: anche la Merkel nel complotto per abbattere Trump
Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.Pensate alle marce pro-immigrati come quelle svoltesi a Londra o a Milano: rientrano non solo in una certa linea di pensiero (e fin qui niente di sorprendente) ma anche – e forse soprattutto – in un movimentismo teso a contrastare le cosiddette forze populiste. L’Europa, però, veniva indicata da Kupchan come nuovo perno del potere globalista. La frase cruciale è questa: «Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale». Riflettete: quante volte in passato i leader europei hanno osato contestare pubblicamente un presidente degli Stati Uniti durante un vertice del G7 o in altri consessi ufficiali?Probabilmente bisogna risalire al 2003 quanto Schroeder e Chirac si opposero, con saggezza, alla guerra in Irak. Per il resto o i contrasti non emergevano in conferenza stampa o più frequentemente, gli alleati europei si allineavano ai desiderata di Washington, talvolta anche contro il proprio interesse geostrategico. Non è strano che un cancelliere prudentissimo come la Merkel trovi improvvisamente il coraggio per dire: “Impossibile ormai fidarsi degli Usa”? Ne converrete: non è da lei. Il sospetto è che tanto ardire sia calcolato e strumentale: ovvero che vada a rafforzare la tesi – o dovremmo dire gli auspici – di Kupchan. Quelle dichiarazioni rafforzano l’establishment anti-Trump, che può dire ai notabili di Washington: visto? Perdiamo anche l’Europa. In realtà non va intesa come una rottura ma come una parentesi politica, perché lo stesso Kupchan parlava di una latitanza angloamericana “temporanea”; dunque il tempo di far fuori Trump. Quando negli Usa loro riconquisteranno la Casa Bianca, l’Unione europea tornerà ad essere consenziente e l’audace Merkel di nuovo pragmaticamente mansueta.(Marcello Foa, “Anche l’Europa nel piano per far cadere Trump, ecco perché la Merkel è cpsì audace”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 28 maggio 2017).Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.
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Attali, cioè Macron: salvare la Francia a spese dell’Italia
Ho riletto recentemente un libro importantissimo, il saggio “Come finirà” di Jacques Attali: ebreo, estremamente influente, consigliere di svariati presidenti francesi senza distinzione partitica e soprattutto vero mentore di Emmanuel Macron, molto probabilmente il prossimo presidente d’oltralpe. Oggi molti in Italia pensano erroneamente che avere un giovane come presidente in Francia sia una buona notizia. Nulla di più errato, sarà il perfetto contrario per gli interessi italici. Visto che quanto verrà fatto da Macron ricalcherà le idee di Attali ben spiegate nel saggio in oggetto, vale la pena di spiegarvi quale può essere la strategia eurofrancese del nuovo presidente in relazione all’Italia. Notasi: il saggio citato è del 2010, ossia antecedente a tutti gli eventi più scottanti che hanno riguardato l’Italia, di fatto anticipati in modo addirittura imbarazzante. In breve, i concetti fondamentali che emergono dallo splendido saggio sopra citato sono, secondo chi, scrive quattro. Primo: la storia insegna che gli Stati perdono la loro autonomia venendo fin anche smembrati principalmente a causa dell’eccesso di debito (normalmente in presenza di un debito eccessivo si diventa un protettorato alla mercè di chi detiene le tue obbligazioni).Secondo: appunto, la crisi del 2008 secondo l’autore non fu una semplice recessione ricorrente ma una vera crisi sistemica del modello capitalistico occidentale del primo mondo, a causa principalmente di un accumulo eccessivo di debito con corrispondente enorme creazione di credito bancario, per sostenere i consumi altrimenti asfittici. Terzo: l’Italia – secondo Attali – era messa particolarmente male a causa dell’enorme debito pubblico, con inevitabili crisi prospettiche; nonostante questo, lo stesso autore ammette che l’uscita dall’euro sarebbe stata utile all’Italia, ma questo avrebbe disintegrato l’Ue e quindi gli interessi di Francia e Germania soprattutto a causa delle conseguenze del subprime, positivissime per Roma in rapporto alle altre capitali ex-coloniali europee (le cui banche erano tecnicamente fallite e infatti vennero salvate in larga parte dallo Stato). Alcuni esempi di banche fallite in Europa, dove lo Stato dovette intervenire con la segregazione dei debiti in “bad banks” o ricapitalizzazioni: Ubs, Ing, Ikb, WestLb, Dexia, Lloyds, Rbs, Northern Rock, Hsh Nordbank, Santander, Bank of Ireland, Commerzbank, Deutsche Postbank, ecc.Il punto 4, l’ultimo, lo spiegherò di seguito. Prima una contestualizzazione importante, taciuta (ad arte) da Attali che – non dimentichiamolo mai – resta profondamente francese: nel 2009 l’Italia presentava il sistema bancario più sano dell’Occidente grazie ad una relativa arretratezza che aveva evitato agli istituti nazionali – a pena di rendimenti passati più bassi delle controparti estere – di prendere rischi che non si comprendevano. Ad esempio i debiti subprime nei portafogli delle banche italiane erano relativamente ridotti, idem i crediti concessi alla Grecia. E senza dimenticare che gli immobili in Italia salirono sì ad inizio millennio, ma non raggiunsero mai i livelli folli di Irlanda, Spagna e finanche Olanda. Ossia i debiti inesigibili italiani, a fronte di una economia che tutto sommato teneva, erano perfettamente sotto controllo. L’unica banca italiana che soffriva era Unicredit, a causa delle sue partecipate tedesche e austriache. Ma tale istituto venne di fatto salvato da Gheddafi, sempre vicino all’Italia nel momento del bisogno (sua madre era italiana). Molto probabilmente tale intervento a salvataggio di Unicredit rappresentò il giusto motivo per toglierlo di mezzo.Ora il punto 4: i paesi fortemente indebitati e in crisi del 2009 – Italia esclusa, come abbiamo visto – rappresentavano il primo mondo; in tale contesto non potevano crollare e, come sempre capita quando si parla di potenze coloniali, fu necessario fare in modo che il debole pagasse per te (…). Da qui la decisione dei grandi europei di imputare colpe tutto sommato inesistenti all’Italia, con il fine di impossessarsi dei suoi attivi, per salvarsi loro stessi. Forse ora si capisce la reiterata richiesta a Berlusconi di fare arrivare la Troika in Italia. Il Cavaliere giustamente rifiutò e sappiamo come è andata a finire. Poi l’austerità imposta dall’Eu franco-tedesca via Mario Monti e continuata con Letta e Renzi (tutti e tre cooptati dall’Eu francotedesca, il primo al limite del criminale per le conseguenze dei suoi provvedimenti) ha fatto il resto, indebolendo le imprese nazionali e quindi creando i famosi crediti inesigibili “Npl”, che vediamo oggi su tutti i giornali (dopo 6 anni di recessione imposta dall’austerità è un miracolo non essere ancora falliti). Ora, Attali scrisse in tempi non sospetti nel suo saggio che l’Italia non poteva ne può uscire dall’euro, altrimenti salta l’Ue e dunque prima di tutto la Francia, oberata da privilegi statali enormi. Dunque, Macron cosa farà quando sarà alla presidenza francese? Semplice, seguirà le ricette economiche di Attali. Ossia per salvare la Francia supporterà il più possibile l’austerità a danno dell’Italia, che dovrà accettare la Troika. Ossia spogliarsi dei propri beni anche con tassazione enorme verso i propri concittadini.Vedremo se a causa di ciò il Belpaese diventerà semplicemente povero o verrà anche fatto a pezzetti. Per inciso, di uscire dall’euro manco a parlarne (ed ora con Trump “normalizzato” anche l’ultima speranza è morta). Ah, dimenticavo: in questi casi la storia insegna che il sangue per le strade è immancabile. E se pensate che – come “sempre” è accaduto – “qualcuno” difenderà il Belpaese da tale ignobile fine, temo vi sbagliate: guardate solo chi è stato insignito della Legion D’Onore francese tra i notabili italiani per capire che una buona parte dell’intellighenzia italica tiferà estero, sono certo che per riffa o per raffa tutti sono stipendiati da fuori Italia. Ne cito solo alcuni: Carlo De Benedetti, Gilberto Benetton, Anna Maria Tarantola, Claudio Scajola, Enrico Letta (proposto per quest’anno), il generale degli alpini Massimo Panizzi (quello che dovrebbe presidiare il confine alpino con i vicini d’oltralpe). Poi l’immancabile Romano Prodi e anche Giorgio Napolitano. Eccetera. Fortunatamente ci sono anche soggetti veramente onorevoli che la Legion d’Onore l’hanno rifiutata: su tutti il generale Tricarico, che la rispedì al mittente in protesta per il di fatto attacco agli interessi italiani di Sarkozy in Libia del 2011 (tutti in piedi a salutare con orgoglio tale valoroso rappresentanze della nazione, uno dei pochissimi). Auguroni davvero.(Mitt Dolcino, “Il mentore di Macron, Attali, ha previsto il fallimento dell’Italia, per salvare l’Eu. Pessime notizie per il futuro”, da “Scenari Economici” del 26 aprile 2017).Ho riletto recentemente un libro importantissimo, il saggio “Come finirà” di Jacques Attali: ebreo, estremamente influente, consigliere di svariati presidenti francesi senza distinzione partitica e soprattutto vero mentore di Emmanuel Macron, molto probabilmente il prossimo presidente d’oltralpe. Oggi molti in Italia pensano erroneamente che avere un giovane come presidente in Francia sia una buona notizia. Nulla di più errato, sarà il perfetto contrario per gli interessi italici. Visto che quanto verrà fatto da Macron ricalcherà le idee di Attali ben spiegate nel saggio in oggetto, vale la pena di spiegarvi quale può essere la strategia eurofrancese del nuovo presidente in relazione all’Italia. Notasi: il saggio citato è del 2010, ossia antecedente a tutti gli eventi più scottanti che hanno riguardato l’Italia, di fatto anticipati in modo addirittura imbarazzante. In breve, i concetti fondamentali che emergono dallo splendido saggio sopra citato sono, secondo chi, scrive quattro. Primo: la storia insegna che gli Stati perdono la loro autonomia venendo fin anche smembrati principalmente a causa dell’eccesso di debito (normalmente in presenza di un debito eccessivo si diventa un protettorato alla mercè di chi detiene le tue obbligazioni).
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Macron, l’uomo dei Rothschild, non fermerà Marine Le Pen
Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.Mentre i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e il governatore della Bce ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica, ammettendo però implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose, Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia. E il governo italiano («forse bluffando, forse alienato dalla realtà») plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa. La situazione si fa incandescente, scrive Dezzani nel suo blog: «Messa di fronte al fallimento dell’euro come strumento politico per strappare gli Stati Uniti d’Europa (“nein” tedesco agli eurobond, all’unione bancaria, alla transfer-union), l’oligarchia euro-atlantica ha scelto di arroccarsi, difendendo strenuamente le posizioni dall’avanzata dei “populisti”, ossia dei partititi che catalizzano il malessere della società accumulato in sette anni di eurocrisi». L’apice della tensione sarà certamente toccato nelle elezioni transalpine, dove Marine Le Pen – vicinissima alla vittoria – potrà innescare la dissoluzione dell’Ue. La Francia è un paese-cardine dell’Unione, «è la seconda economia della moneta unica, nonché parte integrante del famigerato “motore franco-tedesco” (da tempo sbiellato)».Il successo dei “populisti” alle prossime presidenziali, dice Dezzani, sancirebbe automaticamente la fine dell’euro e delle istituzioni di Bruxelles, con buona pace delle pretese di irrevocabilità dell’euro ed i sogni di Angela Merkel di un’Europa a più velocità. «Il giorno dopo la vittoria dei populisti francesi, l’Unione Europea arriverebbe al capolinea, imboccando la strada della disgregazione, forse concordata, ma più probabilmente caotica». Da tempo la situazione sta precipitando, con «un capo dello Stato, François Hollande, tra i più impopolari della Quinta Repubblica», poi «un debito pubblico che è lievitato dal 60% al 100% del Pil da quando è stato adottato l’euro», nonché «una bilancia commerciale in cronico disavanzo e una disoccupazione record, pari al 10% della forza lavoro». Perché la Francia possa rimanere agganciata all’euro, «andrebbe anch’essa sottoposta alle dure ricette dell’austerità e della svalutazione interna». Ma la Francia non è l’Italia: «I cugini d’Oltralpe vantano una lunga storia di rivoluzioni e sono naturalmente inclini a ribellarsi se giudicano lo Stato troppo vessatorio. Lo hanno ricordato il piano di esuberi ad Air France, che per poco non è degenerato in un linciaggio dei dirigenti, e le proteste contro il “Jobs Act” francese», il pacchetto Loi Travail, che ha generato «mobilitazioni di massa di lavoratori e sindacati che hanno portato il paese ad un passo dalla paralisi».Dezzani spiega così l’offensiva terroristica (targata Isis) di cui è stata vittima la Francia: una vera e propria «strategia della tensione», nel tentativo di «sedare l’elettorato e soffocare le pulsioni populiste», rafforzando i «partiti di sistema». Dezzani sottolinea la progressione degli eventi: nell’autunno 2013 Hollande inanella un nuovo record di impopolarità; nella primavera 2014 Manuel Valls è nominato primo ministro; nel gennaio 2015 è inaugurata, con la strage di Charlie Hebdo, la lunga scia di attentati «gestita dalla Dgse», l’intelligence francese, «e dai servizi segreti atlantici (Mossad, Cia, Mi6)». Seguono la carneficina del Bataclan, la strage di Nizza e uno stillicidio di attentati minori con cadenza mensile: «Circa 200 persone muoiono nell’arco di due anni, ed è facile attendersi ancora qualche colpo di coda prima delle presidenziali». Sull’onda della strage di Parigi, è dichiarato lo stato d’emergenza (novembre 2015) e la serie quasi interrotta di attentati permette di protrarlo ad ogni scadenza: «Per la prima volta dalla guerra in Algeria, i francesi voteranno quindi in un contesto di limitazioni alle libertà personali».Ma se gli attentati servano a mobilitare 10.000 riservisti, a ripetere il mantra “la Francia è in guerra” e ad iniettare «effimere dosi di popolarità alla presidenza di Hollande», in realtà i consensi dei principali partiti d’establishment «si squagliano come neve al sole», se è vero che «a distanza di un mese dalla carneficina del Bataclan il Front National si impone come prima forza politica alle regionali del dicembre 2015 e si rafforza la certezza che il Fn conquisterà il ballottaggio alle presidenziali del 2017». Se nel 2002 finì al ballottaggio il fascistoide impresentabile Jean-Marie Le Pen, cosa che spinse anche i socialisti a votare per Jacques Chirac, oggi il Front National è però rappresentato dall’accattivante volto della figlia, Marine Le Pen. E, «complice la grande debolezza dei repubblicani (ancora convalescenti dalla presidenza di Nicolas Sarkozy) e la liquefazione dei socialisti, il partito è ben posizionato per raccogliere voti a destra (sicurezza, lotta all’immigrazione, gaullismo anti-Nato) ed a sinistra (difesa dell’industria nazionale, contrasto all’impoverimento post-euro, attacco ai soliti notabili parigini). Le probabilità di una vittoria del Front National aumentano settimana dopo settimana, concretizzando i peggiori incubi dell’establishment euro-atlantico: dopo Donald Trump alla Casa Bianca, Marine Le Pen all’Eliseo».Marine Le Pen sarebbe «favorevole all’Europa della Nazioni, all’uscita dall’euro ed al ritorno al franco, allo svincolamento della Francia dalla Nato (con il probabile avvallo di Donald Trump) ed a rapporti solidi e proficui con la Russia (da cui ha sinora ricevuto finanziamenti per la campagna elettorale)». Dopo Brexit e Trumo, la vittoria di Marine sarebbe «il colpo di grazia alla già traballante impalcatura Cee-Ue/Nato su cui basa da 70 anni il dominio angloamericano sul Vecchio Continente». Il potere è già corso ai ripari. Ma, puntando su Macron, secondo Dezzani sta sbagliando i suoi conti. Nell’arco di soli tre mesi, «l’oligarchia euro-atlantica ha mutato la strategia in base all’esito delle primarie, passando dall’iniziale scenario “Alain Juppé versus Marine Le Pen” a quello “Emmanuel Macron versus Marine Le Pen”, sacrificando nel mezzo il repubblicano François Fillon, reo di essere troppo filo-russo ed euro-tiepido: è stata una scelta non solo azzardata, ma quasi certamente anche errata, perché le probabilità di vittoria di Marine Le Pen, anziché diminuire come sperato, sono invece paradossalmente aumentate».Ebbene sì, madame Le Pen avrà l’onore di abbattere il Muro di Bruxelles. Convinzione che Dezzani ricava dalla ricostruzione delle manovre in corso in Francia per tentare di fermare la first lady del Front National. Punto di partenza, «l’impopolarità record di François Hollande e il conclamato sfaldamento del partito socialista», condannato all’esclusione dal ballottaggio. L’establishment punta dapprima sul navigato Alain Juppé, più volte ministro, europeista convinto, ostile a Putin. Ma ci sono ostacoli: «Il primo è Nicolas Sarkozy, la cui eliminazione politica è relativamente facile: è sufficiente rivangare i finanziamenti illeciti ricevuti durante la campagna elettorale del 2012 e l’ex-presidente è neutralizzato». Il secondo ostacolo è François Fillon, ultra-liberista ma indigesto all’élite: contrario al Trattato di Maastricht, critico sull’Ue e sulle sanzioni alla Russia. Ma i sondaggi (quelli veri) rivelano che nessuno di questi candidati può farcela, contro Marine Le Pen. Serve un nuovo personaggio, che sembri un outsider: Emmanuel Macron, 38 anni, già ministro dell’economia, fresco di dimissioni. Le probabilità di vittoria, scrive inizialmente “Le Monde”, sono esigue, perché Macron ha intenzione di correre senza l’appoggio di alcun partito tradizionale: il suo progetto è quello di “superare la sinistra e la destra”. «Già, però “Le Monde” dimentica che Macron dispone di qualche solida amicizia nel mondo della finanza: la banca Rothschild, dalle cui fila uscì a suo tempo il presidente Georges Pompidou».A testimonianza della ribellione che serpeggia tra l’elettorato, le primarie del centrodestra incoronano Fillon, che si impone su Juppé. «Considerato che i socialisti sono matematicamente estromessi dal ballottaggio, si figura quindi un singolare duello tra “les amis de Vladimir Poutine”, Fillon e Len Pen. Il colpo incassato dall’oligarchia euro-atlantica è molto duro, forse anche un po’ troppo, considerata la sua successiva mossa che sembra davvero poco lucida: segare le gambe a François Fillon, per portare al ballottaggio il suo “protégé” Emmanuel Macron». Contro Fillon «è scatenato il solito scandalo mediatico-giudiziario, incentrato sui compensi ricevuti dalla moglie, assunta come assistente parlamentare». Fillon denuncia pubblicamente il “colpo di Stato istituzionale” ai suoi danni, ma il battage della stampa martella senza sosta: «Benché non ci sia nulla d’illegale nella condotta di Fillon, sono forti le pressioni perché si ritiri dalla campagna elettorale. L’ex-primo ministro ha recentemente asserito di non voler gettare la spugna, ma è chiaro che la sua corsa verso l’Eliseo è stata gravemente compromessa, a vantaggio dell’astro nascente di queste ultime settimane, l’ex-banchiere Emmanuel Macron».Tra il 2008 ed 20126, Macron, «già pupillo di quel Jacques Attali che contribuì a scrivere il Trattato di Maastricht», ha lavorato infatti presso la Rothischild & Compagnie. «E ci sono pochi dubbi che dietro la sua fulminea ascesa si nasconda la solita oligarchia finanziaria liberal: quella che tira i fili dell’Unione Europea, quella che sogna il cambio di regime in Russia, quella che aveva scommesso tutto su Hillary Clinton, quella che ha portato Bergoglio al soglio pontificio». È così evidente il nesso tra Macron ed i circoli dell’alta finanza, continua Dezzani, che «gli osservatori, specie se italiani, non possono che sorridere, notando le incredibili analogie tra Macron e l’ex-premier Matteo Renzi, a sua volta espressione di Jp Morgan. Entrambi “rottamatori”, entrambi per il superamento della sinistra e della destra (vedi Partito della Nazione), entrambi “ultimo argine” contro i populismi, entrami “europeisti”, entrambi creati artificialmente in laboratorio, con l’auspicio che l’elettore voti “la novità” come compera un detersivo pubblicizzato in televisione. Il motto scelto da Macron per la campagna elettorale, “En marche!”, è addirittura quasi la traduzione de “l’Italia riparte” usato dallo sfortunato Renzi».Basta un mese scarso di campagna elettorale perché si imponga, sui media, il “fenomeno Macron”, «il giovane rottamatore che conquista i cuori e le menti degli elettori grazie ai social network, al sorriso accattivante, al superamento delle ideologie e alla retorica liberal». A cronometro, ai primi di febbraio, «escono (dietro suggerimento dei soliti noti) sondaggi sorprendenti. il sorpasso è avvenuto!». Sicché, il ballottaggio del 7 maggio non vedrà più fronteggiarsi i due filo-russi Fillon e Le Pen, ma l’europeista Macron e la populista Le Pen. E poi, perché fermarsi al ballottaggio? “Francia, sondaggio: Macron 65% al ballottaggio contro Le Pen. Fillon si scusa ma va avanti”, titola il “Sole 24 Ore” il 6 febbraio. «L’ex-banchiere della Rothschild & Compagnie ha già vinto, 65% contro 35! Et voilà! Il voto della prossima primavera è solo una formalità: anche la più grande minaccia per l’impalcatura euro-atlantica è stata scongiurata e l’establishment può tirare un sospiro di sollievo. Ma è davvero così?». Dezzani scommette di no: «Supponiamo che i sondaggi siano effettivamente corretti ed il “rottamatore” Macron conquisti il ballottaggio a discapito di François Fillon, dimezzato dagli scandali. La domanda da porsi è: la banca Rothschild, così facendo, ha ridotto le probabilità di una vittoria finale della populista Le Pen? La risposta è no». Anzi, le chance di una vittoria di Marine Le Pen al ballottaggio sono virtualmente in aumento.Per Dezzani, la strategia dell’oligarchia euro-atlantica sta sbagliando tutto, «ennesimo sintomo dell’incapacità delle élite di leggere la realtà: la stessa incapacità già riscontrata in Italia, dove l’enorme capitale politico di Matteo Renzi è stato dilapidato in soli tre anni, fino all’esaurimento totale con la sconfitta referendaria del 4 dicembre». In un ballottaggio tra François Fillon e Marine Len, giocato tutto alla destra dell’arena politica, il candidato repubblicano aveva (e forse ha) qualche possibilità di successo, perché «in grado di intercettare i voti dei socialisti e del centro, sommandoli a quelli dell’Ump/repubblicani». Con Fillon, «l’opinione pubblica avrebbe percepito il ballottaggio come una sfida tra due “outsider”, rendendo più difficile al Front National catalizzare il voto anti-sistema, divenuto sempre più importante in termini numerici». In un ballottaggio tra Macron e la Le Pen, invece, «tutto il bacino della destra francese, repubblicana, gollista e nazionalista (in sostanza i due principali partiti politici), confluisce verso il Front National, aprendo le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen con una facilità persino maggiore che in duello con Fillon».Non solo: quel ballottaggio «si configurerebbe anche come una sfida tra “le candidat du fric” (il candidato dei soldi) e la populista, tra l’ex-banchiere dei Rothschild e la candidata che raccoglie i voti nelle periferie, tra i notabili di Parigi ed il resto della Francia. Poteva chiedere di meglio il Front National?». Aggiunge Dezzani: «Azzoppando Fillon e scommettendo tutto su Macron, la banca Rothschild & Compagnie ha in sostanza commesso un clamoroso errore politico, frutto di una valutazione completamente distorta della realtà: non c’era modo migliore che aprire le porte dell’Eliseo a Marine Le Pen che schierarle contro un ex-banchiere d’affari, discepolo di Jacques Attali, ministro dell’economia sotto la presidenza Hollande ed espressione del grande capitale internazionale». In più, «circolano voci di imminenti rivelazioni su Emmanuel Macron, compromettenti notizie sui suoi legami con l’alta finanza e/o con la lobby omosessuale: sarebbe, secondo alcune ricostruzioni, un tentativo della Russia di soccorrere il “proprio candidato”, quella Marine Le Pen che promette di liberare la Francia dal giogo dell’euro e della Nato». Morale: «Il Front National vincerà con alte probabilità le elezioni presidenziali, ma non dovrà sdebitarsi col Cremlino», perché «l’assist più prezioso» le è stato involontariamente fornito dai Rothschild e dal loro “candidat du fric”».Tra un po’ salterà fuori la verità sul finto “rottamatore” Emmanuel Macron, ex banchiere della Rothschild & Compagnie. E il 7 maggio, «Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno “le candidat du fric”, il candidato dei soldi», profetizza Federico Dezzani: «Come insegna la parabola di Matteo Renzi, il primo contatto di questi leader di cartapesta con l’elettorato in rivolta è spesso anche l’ultimo». Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta saranno le presidenziali che si apriranno il 23 aprile in un paese «sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia». L’elettorato è in rivolta, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. «Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico» e lanciando verso il ballottaggio il giovane Macron. Ma «la manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato», dato che Macron proviene dal gruppo Rothschild: i francesi non si lasceranno incantare.
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Fine della sovranità popolare, è l’autunno della democrazia
L’articolo 1 della Costituzione, comma II, recita: “La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Anche molte altre costituzioni iniziano, più o meno, con la stessa dichiarazione di appartenenza della sovranità al popolo. Ed è proprio questa una delle norme più tradite dell’ordinamento giuridico: fra i popolo e la sovranità si frappongono molti ostacoli vecchi e nuovi, che vanificano in gran parte il valore. Fra gli ostacoli di sempre, prima fra tutti, c’è la tendenza oligarchica del ceto politico in tutte le sue forme. Nell’ordinamento liberale classico (retto a collegio uninominale) era un ceto notabilare a sollecitare, sulla sola base della fiducia personale, una delega piena che avrebbe speso a sua totale discrezione. Si pensò che il rimedio sarebbe stato la democrazia dei partiti, basata su una robusta e continua partecipazione popolare. L’eletto non sarebbe stato più solo nell’esercizio quinquennale del suo potere di rappresentanza, avrebbe dovuto render conto agli organi di partito, eletti con metodo democratico e rinnovati con frequenza molto meno che quinquennale. La voce della “base” si sarebbe fatta sentire di continuo.
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Perché in Italia un vero leader non viene mai eletto al Colle
Sei un vero leader, stimato dagli elettori? Non abiterai mai al Quirinale. Lo dice la storia della Repubblica italiana, che nei suoi settant’anni ha avuto una quindicina di figure eminenti, statisti e capi di partito che l’hanno fondata, guidata e dominata. Nessuno di loro, però, ha mai raggiunto il Colle, annota Marcello Veneziani. Alla guida del paese si sono infatti succeduti «statisti come De Gasperi, padri fondatori come Sturzo, padri costituenti come Calamandrei, uomini di governo e di partito come Fanfani e Moro, Andreotti, De Mita, capi socialisti come Nenni e Craxi, laici come Malagodi, La Malfa e Spadolini, comunisti come Togliatti e Amendola, oppositori di destra come Almirante e radicali come Pannella». Tutte figure di primo piano, «assai diverse tra loro, per ruolo, indole e giudizio, ma unite da un destino: nessuno di loro è diventato presidente della Repubblica». Osserva Veneziani: «Sorte curiosa per una Repubblica, ma i suoi presidenti sono stati piuttosto notabili, a volte anche di secondo piano».Un analista “eretico” come Marco Della Luna sostiene che il profilo “defilato” della classe dirigente italiana, specie degli esponenti politici chiamati a rivestire le cariche istituzionali più eminenti, non è casuale: un leader forte, capace di incarnare una vertenza sovranista in nome del futuro della comunità nazionale, sarebbe percepito come un pericolo, sia in sede europea che sul versante atlantico. Le eccezioni – da Mattei a Moro – non sono arrivate all’età della pensione: qualcuno le ha tolte di mezzo. Prevale il grigio: in generale, la nomenklatura italiana si segnala per l’alto tasso di corruzione, clientelismo e degrado delle strutture partitiche. Più che ovvio, sostiene Della Luna: solo una partitocrazia corrotta, e quindi debole perché ricattabile, può “obbedire” senza fiatare alle direttive e ai diktat che provengono dai poteri forti che risiedono all’estero. Dopo il “golpe dello spread” architettato per l’insediamento di Monti e il varo definitivo dell’austerity, l’economista Nino Galloni ha svelato la vana ma serrata resistenza condotta da Giulio Andreotti per evitare che l’Italia finisse nella morsa dell’euro, che l’avrebbe condotta alla catastrofe economica. Galloni racconta che il governo subì fortissime pressioni dalla Germania, operate direttamente dal cancelliere Kohl.Un altro studioso “fuori ordinanza”, l’insigne esoterista Gianfranco Carpeoro, sostiene che Bettino Craxi fu liquidato in modo brutale proprio dai poteri che già allora puntavano a demolire la sovranità italiana: un leader troppo ingombrante col quale fare i conti. Nel libro “Il golpe inglese”, edito da Chiarelettere, Giovanni Fasanella e Mario José Cereghino evocano il ruolo costante di potenze straniere come quella britannica nel destino politico del Belpaese. E un altro libro di Chiarelettere, l’esplosivo “Massoni” di Gioele Magaldi, illumina il grande retroscena massonico di ogni decisione storica, mettendo in fila nomi come quelli di Mario Draghi, Giorgio Napolitano e Mario Monti. La sorte dell’Italia viene sempre decisa lontano da Roma? Lo sostiene anche Paolo Barnard: nel saggio “Il più grande crimine” documenta la “svendita” del paese da parte dei tecnocrati del centrosinistra, cooptati dall’élite finanziaria europea prima ancora che la classe dirigente della Prima Repubblica venisse spazzata via dal ciclone Mani Pulite. L’Italia del boom economico “doveva” piegarsi ai tormenti di Maastrich e alle torture imposte dall’euro, pareggio di bilancio e Fiscal Compact, riforme strutturali (azzeramento del welfare) e taglio della spesa pubblica, cioè demolizione – mediante crisi – del tessuto socio-economico nazionale.Chiedetevi perché non si fa mai “la cosa giusta”, suggerisce Barbard: scoprirete che i partiti, specie quelli del centrosinistra, sono stati tutti reclutati dal “vero potere”, quello dell’oligarchia neo-aristocratica, per sabotare lo Stato e servire gli interessi delle multinazionali finanziarie. Questo spiega l’altrimenti incomprensibile, cronica mediocrità del ceto politico italiano. Sul “Giornale”, alla vigilia dell’elezione di Mattarella al Quirinale, Marcello Veneziani riflette sullo strano veto che impedisce l’accesso al Colle ai leader più carismatici. Veneziani passa in rassegna i presidenti finora succedutisi: «Il più autorevole fu Einaudi e prima di lui De Nicola, entrambi monarchici; e poi notabili democristiani da Gronchi a Scalfaro, o Segni, Leone e Cossiga, su cui si esercitò la macchina del fango; esponenti come Saragat e Napolitano, capi partigiani come Pertini o banchieri come Ciampi. Ma nessun vero leader o statista, nessun leader di partito di massa o di grande popolarità, nessun riformatore con significative esperienze di governo, se non di governi di transizione o balneari (e nessun romano, lombardo o adriatico)». Per Veneziani, «è questa l’anomalia della Repubblica italiana: senza presidenzialismo niente capi alla De Gaulle o Mitterrand, alla Kennedy o Nixon, solo gregari o notabili. Così sarà pure stavolta. Il galletto è Renzi, per il Colle cercano la gallina».Tra le mille dietrologie fiorite attorno all’anomala elezione di Mattarella, si segnala per inappuntabile coerenza la spiegazione fornita da Francesco Maria Toscano, stretto collaboratore di Gioele Magaldi: Renzi avrebbe “mollato” Berlusconi dopo aver promesso obbediente devozione al “venerabile” Mario Draghi, vero padre del rigore europeo. Il Patto del Nazareno? Un bluff di Renzi per alzare la posta: accoglietemi a corte, o rimetto in gioco l’odiato Berlusconi. Detto fatto: secondo Toscano, a Renzi sarebbe stato finalmente accordato l’accesso al mondo ultra-riservato delle “Ur-Lodges”, le massime strutture di potere della massoneria internazionale, di cui Draghi sarebbe uno dei leader più importanti, insieme alla presidente del Fmi, Christine Lagarde. In pegno, come garanzia di sottomissione, il mite Mattarella sul Colle. Un uomo destinato a non ostacolare il manovratore Renzi, in realtà mero esecutore dei diktat di Bruxelles? E’ presto per dirlo, ovviamente. Ma certo è da interpretare il primo gesto del neo-presidente: che evoca il nazismo alle Fosse Ardeatine per lanciare un monito contro “il terrorismo”, e non il nuovo nazismo della Troika Ue che governa col ricatto e senza più ombra di democrazia, piegando i popoli al volere di ristrettissime élite neo-feudali.Sei un vero leader, stimato dagli elettori? Non abiterai mai al Quirinale. Lo dice la storia della Repubblica italiana, che nei suoi settant’anni ha avuto una quindicina di figure eminenti, statisti e capi di partito che l’hanno fondata, guidata e dominata. Nessuno di loro, però, ha mai raggiunto il Colle, annota Marcello Veneziani. Alla guida del paese si sono infatti succeduti «statisti come De Gasperi, padri fondatori come Sturzo, padri costituenti come Calamandrei, uomini di governo e di partito come Fanfani e Moro, Andreotti, De Mita, capi socialisti come Nenni e Craxi, laici come Malagodi, La Malfa e Spadolini, comunisti come Togliatti e Amendola, oppositori di destra come Almirante e radicali come Pannella». Tutte figure di primo piano, «assai diverse tra loro, per ruolo, indole e giudizio, ma unite da un destino: nessuno di loro è diventato presidente della Repubblica». Osserva Veneziani: «Sorte curiosa per una Repubblica, ma i suoi presidenti sono stati piuttosto notabili, a volte anche di secondo piano».