Archivio del Tag ‘Nuova Zelanda’
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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Pedofilia al governo? La morte di Epstein fa comodo a tanti
Una morte stranissima e soprattutto provvidenziale, quella di Jeffrey Epstein, arrestato il 6 luglio con l’accusa di sfruttamento della prostituzione su minori e violenza carnale su oltre 30 ragazze minorenni, almeno dal 2002 al 20045, nella sua residenza di New York e nella sua tenuta in Florida. Già dieci anni fa era stato condannato per gli stessi reati, ma ora a tremare erano i pezzi da novanta dell’establishment, americano e non solo: da Trump a Clinton, dall’ex premier israeliano Ehud Barak al principe Andrea d’Inghilterra. Strana morte, scrive Zara Muradyan su “Sputnik News”, in una nota tradotta da “Come Don Chisciotte”: l’improvvisa fine di Epstein arriva poche settimane dopo «le affermazioni secondo cui il finanziere americano il 23 luglio era stato trovato ferito e inconscio sul pavimento della sua cella a Manhattan», nel Metropolitan Correctional Center. All’epoca, diversi media avevano suggerito che avrebbe potuto tentare il suicidio. Eppure, «la dinamica degli eventi non è stata chiarita». Epstein era stato trovato privo di sensi e «con segni sul collo che, apparentemente, sembravano autoinflitti». Da allora, «era stato messo sotto sorveglianza speciale anti-suicidio». Risultato: si sarebbe suicidato lo stesso, il 10 agosto. Una storia che puzza da lontano: Wayne Madsen, già dirigente della Nsa, accusa esplicitamente il Mossad israeliano.
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Ashkenaz, il super-sapiens, ci schiavizza col debito eterno
Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.La solita, bieca massoneria mondiale? Gli uomini invisibili del famigerato “complotto giudaico-massonico” caro ai cospirazionisti? Nemmeno, scrive Cianti, mettendo a fuoco un altro gruppo, che definisce “super-sapiens”. «Si chiamano Ashkenazi, e si sono mimetizzati tra gli ebrei, a insaputa degli ebrei stessi. Ma attenzione: gli “Ahskenazim” non sono ebrei, e nemmeno semiti. Sono i veri manipolatori dell’umanità, fin dai primordi, attraverso il denaro e il credito usuraio». Sarebbero stati loro a danneggiare in primo luogo gli ebrei, provocando la catastrofe dell’antisemitismo. Da dove spuntano? Ne parla la Bibbia, probabilmente, quando – nella Genesi – racconta la “fabbricazione” degli adamiti: strani ibridi, praticamente degli Ogm ante litteram, clonati mescolando i geni del sapiens con quelli dei Figli delle Stelle, che l’Antico Testamento chiama Elohim (come Yahvè e colleghi) mentre per i Sumeri si chiamavano Anunna o Anunnaki. Stessa schiatta di dominatori – venuti dal cielo, secondo il sumerologo Zecharia Sitchin, affascinante e controverso teorico della paleo-astronautica. La missione: trasformare la Terra, fino a quel momento popolata solo da tribù nomadi, in un immenso campo di lavoro.Per produrre cibo, energia e poi anche tecnologia occorrevano “servi” intelligenti e obbedienti, i sapiens, che ancora non c’erano. E per dirigere i sapiens ci voleva una super-razza, in grado di dominarli per conto terzi. Impressionante la consonanza con le rivelazioni che l’avvocato Paolo Rumor affida al saggio “L’altra europa”, edito da Panda, con prefazione dell’eminente politologo Giorgio Galli. La tesi: un’élite immutabile, sempre la stessa, reggerebbe il mondo da quasi 12.000 anni. Origine: Golfo Persico, poi Mesopotamia, Egitto, Mediterraneo fenicio e poi minoico e greco-romano. Pietra miliare: l’antico insediamento nella città caldea di Ur, alla foce del Tigri. E’ la stessa geografia che ripercorre Cianti, inseguendo il fantasma dei progenitori di quelli che (erroneamente, sostiene) verranno poi chiamati “ebrei askhenaziti”, diffusisi nell’Est europeo. La comparsa dell’Adàm biblico, «non ancora ebraico, verosimilmente sumero», risalirebbe a un’epoca collocabile tra il 15.000 e il 20.000 avanti Cristo. Seguono 9 discendenti quasi millenari, i patriarchi pre-diluviani, fino ad arrivare a Noè, cioè intorno all’anno 5.600.Stando alla Bibbia, Noè generò Sem, Cam e Jafet. Da Sem si arriva a Giacobbe-Israele per linea retta attraverso Ever, Terach, Abramo e Isacco: in altre parole, ecco gli ebrei (quelli veri), poi suddivisi nelle famose 12 tribù, inclusa quella israelitica di Giuda e Davide. «Quindi – conclude Cianti – solo i discendenti di Abramo possono essere considerati semiti». Gli altri, cioè la super-razza di cui si occupa “Benvenuti all’inferno”, sarebbero la discendenza di Jafet: il fratello di Sem e Cam «generò tra gli altri Gomer, capostipite dei Cimmeri», il cui figlio si chiamerà Ashkenaz, «dall’assiro Askuza»: nome col quale, secondo la Tavola nelle Nazioni, «si indicavano i popoli nomadi della regione sciita del Caucaso». Insieme ai Minniti e al Regno di Ararat, continua Cianti, i nomadi caucasici Ashkenaz si opposero ai Babilonesi, almeno secondo la Bibbia (Geremia 51-27), e in seguito diedero origine ai popoli slavi. «Gli Ashkenaziti – conclude Cianti, citando sempre l’Antico Testamento – sono dunque “jafeti”, cimmeri o sciiti – ma non semiti, quindi non ebrei».Per l’autore si tratta di un “cluster genetico” autonomo, «una popolazione nomade di origini turcomanne che si reinventa continuamente». Prima sciiti (da “sak”, nomade), poi Kazari (dal turco “qaz”: nomade, ancora). Per Cianti erano di religione tengrista, un mix di sciamanesio, animismo e totemismo diffuso nell’Asia Centrale. «Si convertirono all’ebraismo per convenienza», e molto tardi: solo fra il 740 e il 920 dopo Cristo. «Alla dissoluzione del Canato di Kazaria, conquistato dal russo Sviatoslav I, si dispersero in tutta Europa, attribuendosi l’appellativo di “ebrei erranti”», evidentemente abusivo. Nell’alto medioevo, continua Cianti, li ritroviamo nella valle del Reno e nel Nord della Francia: «Ed è da questo momento che iniziano a usare l’yiddish, lingua germanica con elementi di ebraico e aramaico». Poi si spostano verso Est: Lituania e Polonia, Moldavia, Russia. Il ritorno in Germania comincerà nel 1200 e terminerà solo nell’Ottocento. In tutti quei secoli, scrive l’autore, gli Askuza-Ashkenaz sciameranno di terra in terra perché «perseguitati per l’attività usuraia». Sono loro gli “inventori” del sistema creditizio?Il prestito a interesse, dice Cianti, compare contemporaneamente in Mesopotamia, India e Cina. «L’invenzione stessa della scrittura nasce lì, da quella nuova necessità». A Uruk (oggi Warka, Iraq) a raccontare quella storia sono 5.000 tavolette d’argilla risalenti al quarto millennio avanti Cristo: «Si iniziò allora a parlare di prestiti, tassi d’interesse, garanzie, usura, derivati e pignoramenti». La banca dell’epoca era il Tempio; non prestava solo denaro ma anche cereali, vino e birra, metalli pregiati: «Si cominciò a prestare argento a tassi fino al 60%». Attraverso il mondo mesopotamico, poi fenicio e persiano, ellenico e romano, il network nomade del denaro si trasferisce dove gli conviene, tendenzialmente da Est a Ovest, col progredire dei nuovi fiorenti imperi. Proto-scienziati della finanza? Cianti li chiama “i nostri mandriani”. Il loro metodo non cambia: usura, per conquistare il potere. Obiettivo: «Mantenere nella sottomissione non solo le masse ma anche gli stessi governanti, che in pratica diventano i loro burattini. E se qualcuno di loro si oppone, viene destituito o ucciso, come i Kennedy».Per Cianti, gli Ahskenaz restano un gruppo ristretto e rigorosamente chiuso al suo interno, per via matrilineare, attraverso i secoli. Sono i “ruler”, gli attuali “padroni dell’universo”. Veri fenomeni: si tratta di «individui di eccezionale intelligenza». Oltre a mercanti e banchieri, nei millenni, «hanno espresso anche filosofi, scienziati, pensatori che hanno determinato le sorti dell’umanità». L’élite dell’élite: «Nomadi e apolidi, seguono lo sviluppo dei più importanti centri di potere, in una traiettoria sempre diretta verso ovest che oggi, dalla West Coast degli Stati Uniti, ha spiccato il balzo verso la Cina». Sono loro i teorici e i registi del globalismo finanziario, secondo Cianti: religioni e massonerie, Ur-Lodges e centri di potere paramassonici sarebbero solo cinghie di trasmissione del super-sapiens Ashkenaz, protagonista del club più inaccessibile del vero potere.Lungo le sue 400 pagine, “Benvenuti all’inferno” esamina con estrema cura le più recenti asserzioni scientifiche, dall’astrofisica alla paleontologia fino alla climatologia, demolendo Darwin: «La Terra è passata attraverso eventi catastrofici che hanno provocato ripetute estinzioni di massa. E ogni volta il pianeta è stato ripopolato con specie nuove, che non avevano niente a che fare con le precedenti». Fino al sapiens, ultimissimo prodotto di queste “introduzioni”: «Una specie bio-ingegnerizzata, nel cui corredo è stato introdotto Stamina, il gene della paura che ci rende così docili di fronte al potere». Nel saggio “Resi umani” scritto con Mauro Biglino, il prestigioso biologo molecolare Pietro Buffa (già attivo al King’s College di Londra) spiega che il “missing link” tra uomo e scimmia non è mai esistito: a quanto pare siamo stati “fabbricati” diversi, dalla nascita, ben distinti dai primati e dagli stessi ominidi – persino dal Neandearthal, a noi vicinissimo nel tempo, probabilmente sterminato dai nostri antenati.A lungo traduttore ufficiale della Bibbia per le Edizioni San Paolo, Biglino sostiene che l’Antico Testamento – alla lettera – racconti l’avvento sulla Terra dei Figli delle Stelle. Proprio loro avrebbero “costruito” il sapiens, riservandosi poi la “fabbricazione”, sempre per via genetica, di una super-specie di lavoratori particolarmente intelligenti: gli adamiti, collocati nel Gan-Eden (da cui poi furono cacciati, dopo che ebbero scoperto la possibilità di riprodursi in modo autonomo, sessualmente). Tuttora, nessun sumerologo sa spiegare esattamente l’origine della civiltà sumera, sorta improvvisamente appena a Sud del Gan-Eden (situato nel Caucaso) e immediatamente dotata di favolose competenze tecniche: scrittura e architettura, matematica, astronomia. E soprattutto: agricoltura. «Proprio la rivoluzione agricola – sostiene Cianti – ha cambiato in modo irrimediabile il pianeta, devastando i suoli e sottraendo acqua, impoverendo la nostra dieta e determinando una vera e propria mutazione antropologica: i primi sapiens erano liberi di muoversi e cacciare, noi invece siamo schiavi inurbati, costretti a lavorare e a nutrirci di cibo ormai avvelenato».La stanzialità come sciagura è il tema del saggio “Dominio”, nel quale Francesco Saba Sardi collega all’introduzione dell’agricoltura la nascita del nuovo potere, prima sconosciuto, che “inventa” la religione per trasformare gli esseri umani in servi, lavoratori della terra e soldati. Figure sociali che non esistevano, prima del neolitico: nacquero con l’agricoltura insieme alla religione e alla sua sorella gemella, la guerra, grazie alla comparsa di quell’inedito potere, configurato in forma di dominio. A questo, Giovanni Cianti aggiunge un’altra disgrazia: l’alimentazione. Giornalista e già pubblicitario, appassionato studioso di biologia, Cianti è anche e soprattutto un nutrizionista, disciplina attraverso cui ha rivoluzionato la pratica del body-building partendo proprio dalla dieta. La minaccia più grande? L’abuso di cereali. Il pane – che ha nutrito milioni di individui – viene dal grano, che è comparso sulla Terra di colpo. Discende dal farro selvatico, che però non è commestibile. Chi l’ha trasformato geneticamente in cereale dolce, da farina? I medesimi, misteriosi individui – si suppone – che allo stesso modo, all’epoca di Adamo ed Eva, “fabbricarono” la patata, insieme con la pecora.Cibo pronto uso e a basso costo, per schiere di futuri lavoratori? L’ipotesi è ora vagliata da scienziati di tutto il mondo, ormai convinti che convenga rivalutare e rileggere con occhi nuovi i testi antichi, poi trasformati arbitrariamente in “libri sacri” dalle religioni che, più tardi, se ne impossessarono, travisandoli: e se in quelle pagine ci fossero gli indizi di una storia attendibile? Se cioè il racconto – incluso quello biblico, con la comparsa degli Elohim (Figli delle Stelle) – spiegasse davvero la nostra origine genetica, altrimenti non ricostruibile solo per via evolutiva? Nel qual caso, dice Cianti, sarà meglio aggiungere una riflessione piuttosto decisiva: se qualcuno – venuto dal cielo? – impiantò sulla Terra la sua “mandria” da mungere, di sicuro non scordò di assicurarla alla custodia di servitori speciali e fidatissimi, a loro volta “bio-ingegnerizzati” alla bisogna: i nostri “mandriani”.Non manca nessuno, nella “hall of fame” dei dominatori che Cianti esibisce, dai secoli passati fino ai giorni nostri: spicca il visionario oligarca Jacques Attali, lo sconcertante mentore di Emmanuel Macron, oscuro profeta del transumanesimo post-democratico. C’è l’eterno Zbigniew Brzezinski, lo storico stratega della Casa Bianca (sodale di Kissinger) che reclutò in Afghanistan un certo Osama Bin Laden, poi protagonista della strategia della tensione globale sotto l’egida dei Bush. Riflettori su Al Gore, l’ex vice di Clinton, ormai «frontman mondiale della bufala del global warming di origine antropica», il nuovo catechismo recitato dalla piccola Greta, la ragazzina svedese spuntata (in apparenza) dal nulla. Gore ha appena vinto due Oscar con il documentario “Una scomoda verità”, «diretto dal regista “ashkenazi” Davis Guggenheim». Manipolazione? «Se è per questo, erano “ashkenazi” anche Walt Disney e Edward Bernays, l’inventore della propaganda pubblicitaria», dice Cianti, «come pure i fratelli Andy e Larry Whachowski», gli sceneggiatori di “Matrix”, film nato per metterci in guardia «sul destino della “mandria umana”, costretta a vivere come nella caverna di Platone, cioè in un mondo virtuale completamente avulso dalla realtà».Tra i protagonisti negativi, invece, dominano politici e finanzieri: si va da Madeleine Albright, che difese la necessità inevitabile del bagno di sangue nei Balcani negli anni ‘90, alla quasi-popstar George Soros, «ashkenazi di elevata esposizione mediatica, quindi verosimilmente di rango inferiore». Nulla, in confronto ai veri “dominus”, più appartati, come ad esempio i campioni delle celeberrime dinastie Rothschild, Warburg e Rockefeller, sinistramente implicati nell’ascesa di Hitler (e nel nascente sionismo), ben sapendo che il dittatore nazista avrebbe sterminato milioni di ebrei: era il mostruoso prezzo necessario per ottenere poi lo Stato di Israele? Incubi e interrogativi storici a parte, dell’immenso potere di quelle famiglie parla anche il professor Pietro Ratto nei suoi recenti saggi, che rivelano l’incredibile pervasività (purtroppo attualissima) della loro influenza, persino nell’odierna editoria scolatica validata dai ministeri attraverso commissioni, strutture e aziende di cui non parla mai nessuno. Ma quei nomi così famosi – i vituperati Rothschild, tanto per cambiare – potrebbero essere solo la vetta dell’iceberg, la parte visibile.Chi sono e cosa vogliono, quelli che Cianti chiama “i nostri mandriani”? Lo spiega lo stesso Attali, nella sua “Breve storia del futuro”, «libro che anticipa le mosse dei “mandriani” fino al 2100», fornendo «una descrizione terrificante delle loro intenzioni nonché l’evidenza di una straordinaria assenza di empatia, mista a follia e delirio di onnipotenza». L’umanità ridotta a formicaio pilotabile, prevedibile? Il genere umano eventualmente anche sterminabile, all’occorrenza, con le pratiche più insospettabili? Cianti menziona il cibo cancerogeno, i medicinali-killer e l’imposizione di vaccini pieni di alluminio e altri metalli pesanti, come quelli che scendono dal cielo, da una ventina d’anni, diffusi nella bassa atmosfera dalle strane scie bianche rilasciate dagli aerei di linea. Di fronte a questo, il mainstream grida immancabilmente al complottismo, fingendo di non sapere che le teorie più eretiche (incluse quelle bislacche e ridicole) nascono proprio dal silenzio ufficiale, dalla ostinata reticenza di chi dovrebbe fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni che allarmano la popolazione. Peccato che sia lo stesso sistema dei media a essere strettamente detenuto da pochissime mani.Oltre a controllare Intesa SanPaolo e Unicredit, scrive Cianti, la filiera Rothschild («connessa agli Agnelli-Elkann e ai Caracciolo») è presente in Facebook, in Telecom Italia, nell’agenzia “Reuters”, nel francese “Libération”, nei britannici “Daily Telegraph” e “The Economist”. Sempre secondo Cianti, il gruppo Rcs (Rizzoli e “Corriere della Sera”) è invece appannaggio della scuderia Rockefeller, mentre il gruppo Sassoon controllerebbe “Sunday Times” e “The Observer”. Stessa musica per i grandi network televisivi internazionali. In Italia, aggiunge Cianti, «appartiene al “cluster” anche Carlo De Benedetti», fondatore del gruppo “Espresso-Repubblica”, che «ha alle spalle Lazard e Lehman Brothers». Un’unica discendenza, addirittura, collegherebbe gli attuali Master of the Universe? «La risposta definitiva – ipotizza Cianti – potrebbe venire dall’Us Trust Corporation, istituita a suo tempo da Walter Rothschild», che però è inaccessibile alla consultazione pubblica. «Secondo alcuni “insider” – aggiunge l’autore del saggio – si tratterebbe di otto-dieci linee di sangue millenarie». I nomi? Goldman Sachs, Rockefeller, Lehman e Kuhn-Loeb di New York. Poi i Rothschild di Parigi e Londra. Poi gli inglesi Windsor, già Sassonia-Coburgo-Gotha, insieme ai Warburg di Amburgo, ai Lazard di Parigi, alla dinastia Israel Moes Seif di Roma.Si tratta di «famiglie che da sole posseggono tutte le banche e le corporation del mondo, attraverso un sistema di scatole cinesi: il vertice della piramide, totalmente “ashkenazi”, resta estremamente ristretto e al di fuori di ogni forma di controllo». Gioielli della collezione, dagli Usa all’Europa fino alla Cina, le superpotenze bancarie: Hsbc Holding, Bnp Paribas, Jp Morgan, Icbc Bank of China e Agricoltural Bank of China, Wells Fargo, Bank od America, China Construction Bank. In generale, scrive Cianti, il meccanismo del big business «riguarda tutti i settori industriali strategici: cibo ed energia, farmaci, armi, informazione e intrattenimento, ma anche droga e traffico di esseri umani e di organi». Il volume mastodontico dell’attuale sistema iper-capitalista e neoliberale, interconnesso dalla globalizzazione, lo fornisce ad esempio il database Orbis 2007, che (come documenta uno studio svizzero pubblicato nel 2011 da “Plos One”) ha passato al setaccio qualcosa come 37 milioni di aziende e investitori globali. Le strutture che detengono il 97% della ricchezza del pianeta, riassume Cianti, sono soltanto 147: in cima alla classifica Barclays, Capital Group Companies, Frm Corporation, Axa Assicurazioni, State Street Corporation, Jp Morgan, Legal General Group, Vanguard Group, Ubs e Merrill Lynch.«Una rete capillare ed estesa, di soggetti che si posseggono a vicenda». Blackrock, «il più grande fondo d’investimento del pianeta, fondato da Lawrence Fink (ashkenazi) ha tra i maggiori azionisti Pnc Financial Service, Norges Bank, Vanguard, Bank of America, Wellington Management Group». A sua volta, Jp Morgan è gestita da Vanguard e Blackrock, insieme a State Street, Bank of New York e altri soci. Sempre le stesse aziende possiedono anche il colosso farmaceutico Merk. La notizia? Secondo Cianti, il vertice è costituito da consanguinei, tutti discendenti dell’ipotetica, originaria super-razza, quella che già agli albori della civiltà inventò il “debito inestinguibile”. Dalla Mesopotamia si arriverebbe tranquillamente fino ai veri campionissimi del terzo millennio, come il sudafricano Elon Musk, fondatore della Tesla, e il fenomenale Mark Zuckerberg, l’enfant prodige di Facebook. A proposito, chi c’è nell’azionariato del social network che “scheda” oltre due miliardi di esseri umani? «Sempre gli stessi: Vanguard e Blackrock, Frm-Lcc, State Street Corporation, Prince T Rowe, Capital World Investors».Globalizzazione? Termine in uso dagli anni ‘80, quando si pianificò l’abolizione dei dazi per merci e capitali. Ma, stando a Cianti, non sarebbe che l’ultimo passaggio tecnico del mondialismo ante litteram perseguito dal misterioso “cluster” del super-sapiens, fin dagli albori della nostra storia. Possibile? L’autore invita a riflettere sul vero significato dell’agenda dell’Onu, organismo – pochi lo sanno – poderosamente finanziato da donatori privati (sempre loro, i mattatori del superclan). Mondialismo mercantilista, che dichiara guerra alle identità – di genere, nazione, religione – per omologare la “mandria” che popolerà l’Iper-Impero dopo l’imminente declino della potenza Usa. Un “impero totale” esteso in ogni continente «con la sola eccezione della Russia, che per ora resiste ma finirà accerchiata da America, Europa, Cina e India». Viaggia sempre verso ovest, dunque, il super-sapiens di cui parla Cianti? Lo conferma, secondo l’autore, il matrimonio di Zuckerberg: «Sua moglie, Priscilla Chan, è nata negli Usa da genitori rifugiati Hou, un gruppo minoritario di usurai cinesi del Vietnam». Gli Hou, scrive Cianti, discendono dagli “ashkenazi d’Oriente” come la famiglia Li (o Lee), che duemila anni fa, al tempo della dinastia Zhou – introdussero la moneta cartacea.Oggi, come dire, si sono portati avanti col lavoro: «Già legati a Mao Tse-Tung, hanno espresso presidenti cinesi come Li-Peng e Li-Xinnian. Oggi, Lee Kwan Yew è il presidente di Singapore». Un altro esponente della dinastia, Li Ka-Shing, secondo “Forbes” ha un patrimonio di 4 miliardi di dollari, mentre Li Kwok-Po gestisce la Bea (Banca dell’Est Asiatico) agendo «in collegamento coi Warburg e restando in ottimi rapporti coi Rothschild, i Rockefeller e i Bush». La nuova corsa all’Ovest, assicura Cianti, vede una strana migrazione: i boss dell’impero digitale della Silicon Valley ormai puntano verso la Nuova Zelanda, che sta diventando «il santuario dei super-sapiens ashkenazi». Il passaggio dalla California all’Oceania «sarà seguito dallo spostamento degli iper-nomadi dell’Ordine Mercantile Usuraio in una sede geograficamente più vicina ai loro nuovi affari, cioè il subcontinente indocinese».La Nuova Zelanda? Un’area scarsamente abitata e pressoché intatta, dal punto di vista naturalistico. Il resto del mondo, invece – prevede Cianti, in modo apocalittico – sarà «costretto a condizioni invivibili, catastrofi climatiche, epidemie indotte, crollo dell’ordine pubblico, terrore nucleare e collasso della civiltà». Le isole dell’Oceania «saranno l’ultimo rifugio: il nuovo santuario dell’élite, sicuro e intoccabile». Scrive Cianti: «Centinaia di tecno-plutocrati e finanzieri stanno acquistando terreni in queste isole per costruire lussuose ville-bunker. Il Deep State, cioè il vero potere dell’impero americano, ha già creato il governo del “santuario”: si tratta di una oligarchia socialista, che li accoglierà garantendo loro sicurezza, anonimato e impunità». L’attuale primo ministro neozelandese, la trentanovenne Jacinda Ardern, già leader dell’Unione internazionale della gioventù socialista, «è una creatura di Hillary Clinton, che le ha fatto da mentore nella carriera politica», guidandone l’ascesa.Il recente attentato di Christchurch contro le moschee musulmane, lo scorso marzo – aggiunge Cianti – era una classica “false flag” (con morti reali) escogitata «per testare la rapidità con la quale si riesce a far sparire da Internet ogni testimonianza diretta di una strage», e ha fornito «il pretesto per disarmare immediatamente tutti i civili del paese». E’ già una specie di bunker, la Nuova Zelanda: «Per risiedervi sono necessari beni per milioni di dollari, oppure bisogna essere cooptati in quelle ristrettissime liste di personale di servizio necessario al sistema. Ogni altra forma di immigrazione è proibita e immediatamente repressa», alla faccia della politica di accoglienza (quella che oggi, per dire, viene imposta all’Italia). Allucinazioni fantapolitiche? Non proprio: nel suo ponderoso volume, ad ogni pagina, l’autore acclude note, link, riferimenti, citazioni. “Benvenuti all’inferno” si inserisce nella recente letteratura divulgativa che tenta di dare risposte ai pesanti interrogativi del presente, rileggendo la storia antica e provando a sincronizzarla con l’attualità.E’ l’ennesimo catastrofista, Angelo Cianti? In realtà si mostra ottimista rispetto alle possibilità del libero arbitrio. Non smette di credere nel sapiens, in fondo. E infatti sogna di rinaturalizzare l’Appennino con il suo Evo Village Project, presentato nel 2018 al ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio. Obiettivo: ricolonizzare i versanti con una rete di ecovillaggi, verso un’economia sostenibile e slegata dalle catene del sistema-debito. La sua tesi sul ruolo dell’ipotetico super-sapiens rischia di apparire fin troppo facilmente demonizzante, col risultato di introdurre discriminazioni “etniche” e scoraggiare i lettori, posti di fronte a un avversario super-umano e quindi invincibile? Intanto, è notevolissimo lo sforzo compiuto dall’autore nel collegare realtà in apparenza lontane fra loro, nel tempo e nella geografia planetaria. Uno stimolo per farsi domande, allargare la mente e verificare connessioni, scovando strane coincidenze nel ricorrere, invariabile, delle medesime “famiglie” che – come si può vedere – in molti casi detengono da secoli (da millenni, secondo Cianti) le redini del globo. Dinastie che mostrano la straordinaria capacità di rendersi invisibili, mimetizzandosi nella società – magari anche a spese dei veri israeliti, di cui si parla spessissimo a sproposito.(Il libro: Giovanni Angelo Cianti, “Pianeta Terra, benveuti all’inferno! Passato, presente e probabile futuro della mandria umana”, Evo Editorial, 401 pagine, euro 27,78 su Amazon).Menti raffinatissime, le chiamava Giovanni Falcone. Nel suo caso, avevano piazzato una bomba davanti alla sua villetta sul mare, tre anni prima del fatale attentato di Capaci. Sono speciali, quelle menti – e altrettanto criminali – anche per Giovanni Angelo Cianti, che non è un giudice antimafia ma a suo modo si occupa lui pure di criminologia, per così dire, se si volesse leggere come un’epocale, sterminata stagione criminogena quella aperta dalla stessa misteriosa comparsa sulla Terra dell’homo sapiens, tuttora non spiegata (men che meno dall’evoluzionismo darwininano). L’ultima fatica letteraria di Cianti – che esordì addirittura come autore del fumetto-cult “Ken Parker”, creato nel ‘74 da Giancarlo Berardi e Ivo Milazzo – si intitola “Benvenuti all’inferno”, in questo richiamando l’ombra del manicheismo, tra risonanze gnostiche e poi catare. Una “creazione dannata”, la nostra, opera di divinità infere esiliate nel mondo della materia? Premessa pragmatica: siamo quasi 8 miliardi e stiamo devastando il pianeta, come cavallette inarrestabili. Un formicaio di insetti onnivori e famelici, e al tempo stesso docili e malleabili, senza più coscienza né memoria della propria origine. Solo colpa nostra? No, risponde Cianti: la grande attenuante è incarnata da chi lo dirige più o meno segretamente, il “formicaio”.
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Stiamo diventando sempre più stupidi: crolla il Qi in Europa
Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Secondo gli studiosi norvegesi, le ragioni dell’incremento nell’intelligenza fino agli anni ‘70 sarebbero legate a un miglioramento di diversi fattori e condizioni di vita, dall’istruzione alla sanità, passando per l’alimentazione e il benessere generale. Ma a cosa è dovuto il preoccupante crollo del Qi avviatosi negli anni ‘70? Secondo gli scienziati di Oslo, la colpa sarebbe principalmente dei media, che avrebbero allontanato i giovani dalla lettura “intrappolandoli” davanti alla televisione e ai videogiochi, fino a indurli – negli ultimi anni – a trascorrere moltissime ore sui social network. I risultati dello studio, pubblicati sull’autorevole rivista scientifica “Pnas”, seguono quelli di un’altra ricerca condotta dallo stesso Flynn, nella quale emerse che il Qi medio degli adolescenti britannici era sceso di 2 punti in 28 anni. Poi, la caduta è diventata ancora più vistosa: in soli dieci anni, fra il 1999 e il 2009, gli inglesi avrebbero perso 14 punti di quoziente intellettivo, mentre i francesi 4 punti. In base a uno studio della rivista “Intelligence”, i britannici avevano un Qi medio di 114 punti nel 1999, e oggi invece sono appena 100 (dal canto loro, i francesi sarebbero ancora più in basso: appena 98 punti).“Vox News” cita una recente segnalazione di Maurizio Blondet: tutti gli studi ormai confermano che il Qi medio delle popolazioni occidentali sta scemando vistosamente da una quindicina d’anni. «Il calo è tanto più allarmante – sottolinea lo stesso Blondet – perché tutto il ventesimo secolo, al contrario, ha visto un aumento del Qi in Occidente, forse a causa del miglioramento generale della salute e dell’accesso all’educazione». Sulle cause del fenomeno, però, non c’è ancora nessuna certezza scientifica. «C’è chi chiama in causa i perturbatori endocrini, molecole contenute nella plastica che hanno l’effetto (fra gli altri) di ostacolare l’azione dello iodio, così importante nello sviluppo cerebrale: ricordiamo il “cretinismo alpino” di un tempo, che colpiva popolazioni carenti di sale iodato». “Vox News” punta il dito contro l’immigrazione, sostenendo che staremmo “importando” individui dall’intelligenza meno pronta: «Il mulatto è mediamente più intelligente del subsahariano ma meno dell’europeo. Mischiate Europa e Africa e avrete le favelas brasiliane». Proprio sicuri, che la spiegazione possa essere etno-lombrosiana? «Quando ti stai instupidendo – scrive “Vox” – figurati se ti accorgi del tuo instupidimento».Paolo Barnard, impietoso analista della contemporaneità, nel saggio “Il più grande crimine” punta il dito contro quella che chiama “esistenza commerciale”, l’avvento della mercificazione universale che ha spazzato via di colpo molti valori fondanti del vivere civile. Risultato: il mondo distopico di oggi, fatto di mera apparenza e popolato di individui resi apatici, indifferenti a tutto e ormai incapaci di lottare, sul piano sociale e politico. La generazione ruggente della rivolta studentesca del Sessantotto? Liquidata con un sapiente dosaggio di droghe immesse sul mercato. Poi il resto l’hanno fatto la globalizzazione e i signori del Wto, ma anche il web di massa, lo smartphone, lo stupidario di Facebook. Si legge meno: per questo si diventa stupidi? «Ha vinto Walt Disney, quindi abbiamo perso tutti», ebbe a sentenziare il sempre laconico Bob Dylan. Come dire: il dominio dell’apparenza è ormai planetario, non abbiamo scampo. Davvero? Punti di vista, sostiene a “Border Nights” l’eccentrico Fausto Carotenuto, approdato allo spiritualismo dopo anni di ruvido lavoro nell’intelligence Nato. La sua tesi: se inorridiamo di fronte alle tante aberrazioni cui ci tocca assistere, è perché i grandi poteri ricorrono sempre più spesso ai colpi bassi, puntando alla manipolazione di massa. Ma la buona notizia è che lo farebbero perché preoccupati dal nostro “risveglio” collettivo.Da qualche anno, Carotenuto ripete – in solitaria – la medesima diagnosi: i padroni della Terra scatenano guerre anche per abbassare il tono vitale delle moltitudini che si starebbero letteralmente ribellando al mainstream. La riprova? Almeno un cittadino su tre non crede più a quello che gli viene raccontato, da chi comanda. Per questo, aggiuge Carotenuto, sta salendo l’intensità del “bombardamento” cui siamo sottoposti: terrorismo, stragi, cibo inquinato, vaccini imposti a tappeto, scie chimiche. Tutto fa brodo, per spegnere l’energia dei singoli (e magari abbassare anche la loro intelligenza, il famoso quoziente intellettivo). Una tesi originale ma mai convalidata, ad esempio, dal saggista Gianfranco Carpeoro, che si domanda: dove mai sarebbero tutti questi indizi di risveglio coscienziale? Prendiamo le elezioni: votiamo sempre con odio, contro qualcuno – mai per qualcosa. Dove pensiamo di andare, per questa strada? La caccia alle streghe è sempre in voga: il nemico è l’Uomo Nero, non il sistema che lo produce. Morto un mostro, se ne fa un altro. Ma difficilmente ci accorgiamo del trucco: ci basta poter sparare contro il cattivone del momento. E’ così che il sistema, la fabbrica dei mostri, finisce sempre per farla franca.Se Carotenuto evoca il ruolo di un antagonista esterno, annidato in quelli che chiama “mondi spirituali”, Carpeoro resta sul terreno del visibile: possibile, dice, che non ci rendiamo conto che facciamo tutto da soli? E dire che non ci mancherebbe niente. Le doti fondamentali sono già in noi: e si chiamano conoscenza, fiducia e coraggio. Siamo capaci di imparare e di amare. Il problema? Costa fatica. Bisogna impegnarsi, studiare, crescere. E per farlo ci serve la risorsa più preziosa: il tempo. Se corri dal mattino alla sera, non ti resta il tempo per niente. Hai bisogno di informazioni? C’è Google, sullo smartphone: tutto e subito, senza sforzo. Risulato immediato: la memoria si addormenta, e alla lunga si atrofizza. Un guaio: senza memoria non c’è conoscenza. Non puoi fare confronti tra ieri e oggi, finisci per ripetere gli stessi errori, non riesci a collegare fatti lontani nel tempo. Come uscirne? Lottando, per riconquistare il tempo. E’ l’unica chance, per diventare più consapevoli, quindi più liberi. E inevitabilmente, alla fine, anche più intelligenti.Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
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Il teletrasporto? Non è più fantascienza: lo insegna la Cina
Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.Il progetto russo costerà oltre 2 trilioni di dollari, spiega “Blasting News”, e applicherà tutte le tecnologie all’avanguardia, come la computazione quantistica e interfacce neurali (il diretto collegamento tra macchina e cervello umano). «Fino ad ora, il teletrasporto umano ha sempre rappresentato qualcosa di impossibile per la complessità di informazioni che una macchina dovrebbe “ricordare” e riuscire a riassemblare esattamente in ogni singolo frammento, nel luogo di destinazione». In realtà, scrive Fenris, qualcosa del genere si è già realizzato, ma con particelle molto semplici. Nel 2014, gli scienziati della Delft University of Technology, nei Paesi Bassi, hanno dimostrato che è possibile “teletrasportare” informazioni codificate in particelle sub-atomiche, a una distanza di tre metri con affidabilità del 100%. «Tra un essere umano e una particella sub-atomica c’è certamente una grande differenza, ma gli scienziati sono ottimisti e credono che presto tutto questo diventerà realtà». Secondo Elena Kovačič di “Sputink News”, gli scienziati dell’Istituto di Fisica e Tecnologia di Mosca (Mfti) hanno capito che «in futuro sarà possibile percorrere lunghe distanze senza l’applicazione di forza fisica ed essere contemporaneamente in due posti. Ad esempio, a Pechino o Mosca o in Siberia e nelle isole della Nuova Zelanda. Non è escluso il teletrasporto per l’esplorazione dello spazio».Il cosiddetto “entanglement quantistico” è la capacità di due o più sistemi quantistici di comportarsi allo stesso modo, rimanendo inseparabili, anche se distanziati l’uno dall’altro. I fisici russi «hanno trovato un modo per preservare l’“entanglement quantistico” nella trasmissione delle informazioni ad una distanza considerevole», spiega uno dei ricercatori, Sergej Filippov. «C’è una correlazione, come nel caso di una bobina: per cui, ciò che succede a una estremità della bobina è collegato a quanto sta succedendo nell’altra. Queste correlazioni possono essere inviate. Anche le persone, spostate in questo modo ad una certa distanza, saranno comunque correlate». I fisici hanno eseguito una “crittografia quatistica” per la trasmissione di un segnale su fibra ottica, trovando un algoritmo per la trasmissione di qualsiasi cosa. «In un certo senso, questo “assemblaggio”, ricorda l’olografia, ossia l’immagine ricostruita di oggetti tridimensionali usando un laser. La differenza è che questo non è solo un particolare tipo di fotografia: qui c’è la riproduzione di “carne e sangue”, con tutte le caratteristiche e abilità specifiche». Per ora, la scienza non ha ancora la capacità di raggiungere questo obiettivo: finora, i fisici hanno “teletrasportato” fotoni. Ma la stessa tecnica, dicono, consentirà di trasportare materia complessa, fino all’uomo. E nel giro di pochi anni.Molto lusinghieri, in questo campo, i risultati ottenuti dalla Cina: la “Bbc” conferma che alcuni ricercatori cinesi sono riusciti a “teletrasportare” fotoni dal deserto del Gobi fino allo spazio, sul satellite “Micius” in orbita a un’altitudine dalla superficie terrestre che varia dai 500 ai 2.000 chilometri. Una vera e propria operazione fantascientifica, resa possibile grazie a quello che la fisica definisce “entanglement quantistico”, un processo in cui due diverse particelle che, pur non essendo in contatto fisico tra loro, reagiscono come una singola unità. «Prende così forma il concetto di “esistenza condivisa”, per cui qualsiasi alterazione sulla prima particella influenza lo stato della seconda. Già nel 1990, infatti, gli scienziati avevano capito che questo legame poteva essere usato per trasferire uno stato quantistico da un punto a un altro dell’universo», racconta “105.Net”. Dal punto di vista pratico, l’esperimento cinese è durato 32 giorni, durante i quali i ricercatori hanno inviato milioni di fotoni dalla Terra al satellite, ottenendo esiti positivi in 911 casi. «Un risultato straordinario, che permette alla Cina di battere il record per la distanza più grande mai coperta. I cinesi si mostrano dunque dominatori in un campo da sempre guidato da europei e statunitensi. Resta solo da capire quale sarà la prima contromossa dell’Occidente».Stati Uniti, Canada e Unione Europea sono già in gara con russi e cinesi, scrive Elena Dusi su “Repubblica”. «Due esperimenti sono stati appena pubblicati su “Nature Photonics”. Descrivono singoli fotoni capaci di “viaggiare” lungo una normale fibra ottica cittadina, per 6 chilometri a Calgary e 12 a Hefei, vicino a Shangai, “trasportando” le loro informazioni come in una linea Internet tradizionale». Altro che chilometri: i collegamenti quantistici precedenti (il primo realizzato nel 1993) non superavano i centimetri di un tavolo di laboratorio. Laddove si arrivò al record di 143 chilometri, aggiunge “Repubblica”, fu necessario allestire una trasmissione in uno spazio vuoto per non disturbare la corsa delle particelle: il mare fra due isole delle Canarie. «Per la prima volta, invece, a Calgary ed Hefei, il teletrasporto quantistico ha seguito le stesse strade che faremmo noi in auto o in motorino». Questo particolare fenomeno, spiega la Dusi, non ha nulla a che fare con la smaterializzazione e il trasferimento di persone od oggetti: «Lo spostamento infatti non riguarda le particelle in sé, ma le loro caratteristiche e coordinate. Più che a “Star Trek”, il teletrasporto quantistico assomiglia alla spedizione di un fax». In realtà si sfrutta il cosiddetto “entaglement quantistico”, cioè il legame tra due particelle nate da una stessa reazione.Le caratteristiche intrinseche di queste particelle sono legate indissolubilmente: se si modificano quelle dell’una, simultaneamente cambieranno anche quelle dell’altra. E la mutazione non dipende dalla distanza che le separa. Così, due fotoni legati da “entanglement” possono essere inviati al mittente e al destinatario di un messaggio criptato su Internet. Il mittente “modifica” il suo fotone e quindi quello in possesso del destinatario, che così potrà essere usato come chiave per decrittare il messaggio. «I vantaggi riguardano soprattutto la sicurezza», sostiene Francesco Marsili, ingegnere in forza alla Nasa. «Il teletrasporto quantistico non è necessariamente più veloce, semplicemente cancella il rischio di essere spiati. Comunicazioni finanziarie o militari sono le sue ovvie applicazioni». Non è un caso che il “teletrasporto”, dal campo della meccanica quantistica si sia trasferito a quello della geopolitica. La Commissione Europea ha lanciato il suo “Quantum Manifesto”, finanziandolo con un miliardo di euro in dieci anni. Washington ha già realizzato una piccola rete su cui testare le trasmissioni. Altrettanto ha fatto la Cina, con una “autostrada quantistica” di un migliaio di chilometri tra Shanghai e Pechino.Il gigante asiatico, in realtà, ha fatto anche di più, ammette “Repubblica”. «Lanciando il suo primo satellite per le trasmissioni quantistiche dallo spazio, a fine agosto, la Cina ha spostato la corsa all’Internet quantistico dalla Terra al cielo». Proprio sicuri che non sarà possibile – entro vent’anni, come dicono i russi – smaterializzare qualcuno e rimaterializzarlo a migliaia di chilometri di distanza? Un sogno che si sta avvicinando sempre di più alla realtà, «grazie a una serie di esperimenti che nel prossimo futuro potrebbero trasformare il teletrasporto in una pratica comune», scrive Daniele Uva sul “Giornale”, citando il recentissimo record cinese. Dal satellite Micius è partito un fascio laser che ha trasmesso le particelle di luce correlate tra loro alle diverse stazioni a terra, dove sono state misurate. «I fotoni, dopo aver viaggiato per lunghe distanze, hanno mantenuto il loro legame pur trovandosi a più di 1.200 chilometri gli uni dagli altri. Un primato senza precedenti». La ricerca, pubblicata sulla prestigiosa rivista specializzata “Science”, ha fatto gridare al miracolo: per la prima volta nella storia, qualcosa di molto simile al “teletrasporto” sembra aver funzionato.Nel 2016, aggiunge il “Giornale”, un gruppo di ricercatori dell’Esa – l’Agenzia Spaziale Europea – ha tentato un esperimento simile a quello cinese: «I due fotoni si trovavano, però, entrambi sulla Terra, e a una distanza di soli 140 chilometri». Sempre nel corso del 2016, ad aprile, alcuni scienziati dell’esercito americano «hanno raccontato di essere riusciti a trasferire un’intera squadra di militari da un centro di ricerca e sviluppo del Massachusetts a una zona di addestramento della Nato in Germania». La notizia è stata addirittura confermata attraverso il “Natick Soldier System Center” dell’esercito statunitense, «nonostante un certo inevitabile scetticismo da parte degli addetti ai lavori». Bisogna andare più indietro nel tempo, al 2004, per trovare un altro tentativo: una squadra americana del National Institute of Standards and Technology e una austriaca dell’università di Innsbruck «riuscirono a spostare, con la tecnica del teletrasporto quantico, alcune proprietà di atomi di berillio e calcio», ricorda Uva sul “Giornale”. Insomma, la ricerca non si ferma. «E la comunità scientifica è convinta che, in assenza di intoppi, entro una decina di anni si potrebbe arrivare a ottenere immagini e filmati quasi in tempo reale da Marte».Addio petrolio e guerre? Fine dell’era delle auto e dei treni, delle navi e degli aerei? Sop all’inquinamento? La promessa – epocale, ai confini della realtà – si chiama teletrasporto. Per la precisione: entro 20 anni sarebbe possibile “teletrasportare” merci e perfino esseri umani. Non è pià fantascienza: «Il teletrasporto umano potrebbe presto diventare realtà», scrive Massimo Fenris su “Blasting News”. «Spostarsi da un punto all’altro del globo in maniera istantanea, poter essere dove si vuole in una manciata di secondi evitando le lunghe code in stazioni e aeroporti, poter lavorare ovunque non essendo costretti ad abbandonare i propri cari e le proprie radici: sarebbero solo alcuni dei vantaggi del teletrasporto». La grande sfida arriva direttamente dal Cremlino, con un progetto che richiederà un investimento miliardario. «Oggi sembra qualcosa di fantascientifico, ma a Standford ci sono riusciti con esperimenti molecolari. Se ci pensiamo, molta della tecnologia che abbiamo oggi a disposizione è stata pensata dalla fantascienza 20 anni fa», afferma Alexander Galitsky, uno dei principali investitori russi in termini di tecnologie all’avanguardia. Ma la sfida coinvolge ovviamente gli Usa e la Cina, che è riuscita a “telatrasportare” fotoni dalla Terra a un satellite in orbita.
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Armi di migrazione di massa, è il piano del super-potere
Non è che, francamente, avessimo bisogno delle controprove. Dal documento dell’Onu che parla esplicitamente, per primo, di migrazione selettiva dei popoli, passando per lo studio della Cornell University, “Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy”, – Armi di migrazione di massa: deportazione, coercizione e politica estera – che racconta dell’immigrazione come di una “nuova arma bellica non convenzionale”, una vera e proprio arma di migrazione di massa, fino ai progetti Ue di migrazione selettiva portati alla London School of Economics and Political Science dal vicepresidente della Commissione Europea in persona, nientemeno che Franco Frattini, che parla di vere e proprie campagne orchestrate dai governi per «incoraggiare i potenziali migranti a diventare europei», di prove ce ne sono a sufficienza per comprendere che la volontà politica di portare in Europa un numero elevatissimo di migranti non solo c’è, ma è determinata e alla luce del sole.Del resto, oltre alle continue ondate di migranti che dalle coste africane raggiungono l’Italia via mare, senza che nessuno cerchi di risolvere il problema alla radice, i primi esperimenti “ufficiali” sono stati realizzati in Germania, quando in conseguenza dell’onda pressoria di indignazione pubblica suscitata dalle immagini del corpo del piccolo di 4 anni buttato sulla spiaggia, lambito dalle onde del mare, Angela Merkel un anno fa ha aperto le porte ai rifugiati siriani (solo quelli con gli occhi azzurri, però), e la Repubblica Ceca ne ha immediatamente messi al lavoro almeno 5 mila (ma a condizioni che un europeo non avrebbe mai accettato, a meno che non ci fosse stato costretto – come dire – dalla concorrenza). Il motivo non era la tanto decantata solidarietà che i nostri quotidiani si sono affrettati a tributare al cancelliere tedesco, quanto (e qui si era scritto molto prima) la fretta di metterli al lavoro nel settore automobilistico. E chissà che lo scandalo Volkswagen non sia scoppiato anche per contrastare la competitività dell’industria automobilistica tedesca, nel momento in cui stava per disporre di forze fresche e a basso costo. Oltre che, naturalmente, come rappresaglia per l’ostilità di Berlino nei confronti del Ttip e nei confronti della necessità degli Usa di sostituire l’arsenale nucleare presente sul suolo tedesco.Ma, in caso voleste sentirvelo dire forte e chiaro, eccovi le dichiarazioni di uno-che-passava-di-lì, tale Peter Sutherland. Vi dice niente? I più attenti se lo ricorderanno: vent’anni presidente Goldman Sachs International, ex presidente British Petroleum e attualmente alto rappresentante per il segretariato generale della migrazione internazionale alle Nazioni Unite, oltre che a capo del Forum Globale su Migrazione e Sviluppo, al quale partecipano oltre 160 paesi. Uno che di politiche per regolare la migrazione se ne intende, dunque, uno che lavora per quella stessa organizzazione (l’Onu) che parlava appunti di migrazione sostitutiva dei popoli, uno che sulla Brexit il 25 giugno scorso ha detto: «In qualche modo, questo risultato va ribaltato». Bene, questo signore qui, nel 2012 ha detto alla Camera dei Lord (i nostri senatori, più o meno) che «l’Unione Europea dovrebbe fare del suo meglio per attaccare, indebolire l’omogeneità culturale degli Stati nazionali, perché la migrazione è una dinamica cruciale per la crescita economica in alcuni stati membri, per quanto difficile potrebbe essere spiegarlo ai cittadini di quegli Stati». [Fonte Bbc, mica miciomicio-baubau].Secondo Sutherland bisogna «costruire giocoforza Stati multiculturali», perché «è impossibile pensare che questo grado di omogeneità culturale possa sopravvivere, in quanto gli Stati devono diventare stati aperti». E ancora: «A differenza degli Stati Uniti, dell’Australia e della Nuova Zelanda, che rappresentano società frutto di migrazione e che sono più versatili nell’integrare chi viene da altre realtà, noi coltiviamo ancora un senso di omogeneità e differenza rispetto agli altri. Questo è precisamente ciò che l’Unione Europea, secondo me, dovrebbe distruggere». Senza nessun bisogno di scomodare Kalergi, probabilmente è per questo che Bruxelles sta cercando di abituarci a mangiare insetti.(Claudio Messora, “Siamo troppo uniti per i loro gusti: ci vogliono sminuzzare”, da “ByoBlu” del 16 settembre 2016).Non è che, francamente, avessimo bisogno delle controprove. Dal documento dell’Onu che parla esplicitamente, per primo, di migrazione selettiva dei popoli, passando per lo studio della Cornell University, “Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy”, – Armi di migrazione di massa: deportazione, coercizione e politica estera – che racconta dell’immigrazione come di una “nuova arma bellica non convenzionale”, una vera e proprio arma di migrazione di massa, fino ai progetti Ue di migrazione selettiva portati alla London School of Economics and Political Science dal vicepresidente della Commissione Europea in persona, nientemeno che Franco Frattini, che parla di vere e proprie campagne orchestrate dai governi per «incoraggiare i potenziali migranti a diventare europei», di prove ce ne sono a sufficienza per comprendere che la volontà politica di portare in Europa un numero elevatissimo di migranti non solo c’è, ma è determinata e alla luce del sole.
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Rodotà: 5 Stelle, unico voto utile contro il regime di Renzi
Renzi scherza col fuoco: intere categorie delegittimate giorno dopo giorno potrebbero ribellarsi, e metterlo con le spalle al muro. Giocherà il tutto per tutto al referendum sulla riforma costituzionale? Rischia: la maggioranza potrebbe non seguirlo più. Lui dirà: o me, o il populismo? Idem: l’Italia non è la Francia, e il Movimento 5 Stelle non è il Front National. Al contrario, potrebbe rivelarsi «l’unico voto utile, oggi», per sbarrare la strada al regime post-democratico di cui Renzi è alfiere: democrazia ancora formalmente in piedi, ma completamente svuotata, in modo che i cittadini non contino più niente. Lo sostiene Stefano Rodotà, intervistato da Andrea Fabozzi per il “Manifesto”, partendo dall’analisi del recente voto in Francia e in Spagna, dal quale il bipolarismo è uscito distrutto. «Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza».Il Front National «coltivava da tempo il disegno di sostituirsi ai due grandi partiti in crisi, ed è stato facilitato dalla rincorsa a destra di Sarkozy e Hollande, che hanno finito per legittimare Le Pen», osserva Rodotà. «In Spagna, Podemos ha interpretato un movimento reale, quello degli Indignados, e ha predisposto uno strumento di tipo partitico per raccogliere il fenomeno». Da noi, Renzi benedice la nuova legge elettorale italiana e sostiene che in Italia non ci sarà lo smottamento francese e spagnolo? «Non coglie il senso di quello che sta succedendo e, con la sua risposta, non fa che aumentare la distanza tra il partito e la società». Sostanzialmente, Renzi dice: “A me della rappresentanza non importa nulla, a me interessa la stabilità”. «Ma con un governo che rappresenta appena un terzo degli elettori ci sono enormi problemi di legittimazione, di coesione sociale e al limite anche di tenuta democratica», sottolinea Rodotà.L’ingegneria elettorale, continua il giurista, è solo «un modo per sfuggire alle questioni importanti». In questi anni è stato invocato il modello spagnolo, insieme a quello neozelandese e quello israeliano: «Sembrava di stare al supermarket delle leggi elettorali. Tutto andava bene per mortificare la rappresentanza, sulla base dell’idea che ciò che sfugge agli schemi è populismo. Invece è una legittima richiesta dei cittadini di partecipare ed essere rappresentati». Il nuovo sistema italiano? «Presenta il rischio di distorsioni spaventose: può aprire la strada a soluzioni pericolose, ma anche ad alternative interessanti. Penso per esempio alla stagione referendaria che abbiamo davanti: dal referendum costituzionale, a quelli possibili su Jobs Act, scuola e Italicum». Renzi è meno tranquillo di quanto dice? «È possibile, del resto le previsioni sul referendum costituzionale sono difficili, ancora non sappiamo esattamente come si schiereranno le forze politiche».Di certo la partita non è chiusa. Rodotà ricorda che nel 1974 una situazione elettorale che sembrava chiusa fu sbloccata proprio da un referendum, quello sul divorzio. «I cittadini furono messi in condizione di votare senza vincoli di appartenenza politica e l’anno dopo si produsse il grande risultato alle amministrative del partito comunista». Il fatto che Renzi abbia deciso di giocarsi tutto sul referendum costituzionale apre una serie di problemi: il primo è la questione dell’informazione. «C’è già un forte allineamento di giornali e tv con il governo, la riforma della Rai non potrà che peggiorare le cose. Renzi ha già impropriamente politicizzato tutto il percorso della riforma, il dibattito parlamentare è stato gestito in modo autoritario. In teoria quando si scrivono le regole del gioco il cittadini dovrebbero poter votare slegati da considerazioni sul governo, in pratica non sarà così».Per Rodotà, è assolutamente possibile superare il “bicameralismo perfetto” in maniera avanzata, favorendo la rappresentanza e la partecipazione, senza escludere la stabilità. Proposte avanzate e subito scartate, nemmeno discusse. «Alcuni di noi avevano denunciato il rischio autoritario della riforma costituzionale: siamo stati criticati. Poi abbiamo cominciato a leggere di rischi plebiscitari, “democratura” e via dicendo. Troppo tardi, ormai lo stile di governo di Renzi è già un’anticipazione di quello che sarà il sistema con le nuove regole costituzionali e la nuova legge elettorale. Il Parlamento è già stato messo da parte, addomesticato o ignorato, com’è accaduto sul Jobs Act per le proposte della commissione della Camera sul controllo a distanza dei lavoratori. Lo stesso sta avvenendo sulle intercettazioni». Secondo il giurista, «stiamo scivolando verso una democrazia scarnificata, rinunciamo pezzo a pezzo agli elementi sostanziali – la rappresentatività, i diritti sociali e individuali – in cambio del mantenimento di quelli formali – il voto, la produzione legislativa. La situazione è grave. Se questo orientamento proseguirà, non credo che il presidente della Repubblica distoglierà il suo sguardo».Renzi, invece, tira dritto. Il suo gioco è chiaro: se il referendum dovesse andargli male, «punterà alle elezioni anticipate con un messaggio del tipo: o partito democratico o morte, o me o i populisti». Per Rodotà, può essere un calcolo sbagliato: «L’Italia non è la Francia per almeno due ragioni. Il Movimento 5 Stelle non fa paura come il neofascismo del Front National. E la mossa dei candidati socialisti in favore di quelli di Sarkozy è stata seguita perché lì la dialettica politica restava aperta. Da noi al contrario si rischierebbe l’investitura solitaria, rinunciare significherebbe consegnarsi pienamente a Renzi. L’appello al voto utile non credo funzionerà anche perché l’Italia non solo non è la Francia, ma non è più neanche l’Italia di qualche anno fa. Renzi non può chiedere il voto a chi quotidianamente delegittima, negando il diritto di cittadinanza alle posizioni critiche. Infatti si comincia a sentire che il vero voto utile, quello che può servire a mantenere aperta la situazione italiana, può essere quello al Movimento 5 Stelle. Sono ragionamenti non assenti dall’attuale dibattito a sinistra, mi pare un fatto notevole».Renzi scherza col fuoco: intere categorie delegittimate giorno dopo giorno potrebbero ribellarsi, e metterlo con le spalle al muro. Giocherà il tutto per tutto al referendum sulla riforma costituzionale? Rischia: la maggioranza potrebbe non seguirlo più. Lui dirà: o me, o il populismo? Idem: l’Italia non è la Francia, e il Movimento 5 Stelle non è il Front National. Al contrario, potrebbe rivelarsi «l’unico voto utile, oggi», per sbarrare la strada al regime post-democratico di cui Renzi è alfiere: democrazia ancora formalmente in piedi, ma completamente svuotata, in modo che i cittadini non contino più niente. Lo sostiene Stefano Rodotà, intervistato da Andrea Fabozzi per il “Manifesto”, partendo dall’analisi del recente voto in Francia e in Spagna, dal quale il bipolarismo è uscito distrutto. «Il populismo è una spiegazione troppo semplice. I partiti tradizionali non riescono più da tempo a leggere la società. Non è populismo, è crisi della rappresentanza».
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Usa, elezioni e soldi: chi si compra il futuro presidente
Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?In un’analisi pubblicata da “The AntiMedia” e tradotta da “Come Don Chisciotte”, Anderson denuncia la pratica dilagante del ricorso ai “Super-Pac”, i nuovissimi “comitati di azione politica” costituiti da singoli, aziende e cartelli, con capacità di spesa praticamente illimitata e assolutamente non-trasparente: il candidato non è tenuto a tracciare pubblicamente il denaro ricevuto. «Inutile dire che si tratta di un’elezione in cui la maggior parte dei candidati sono alla ricerca di sostegno da parte dei donatori ricchi invece che dai cittadini che sarebbero chiamati a rappresentare», scrive Anderson. «Ci si sorprenderà nello scoprire chi è stato a donare soldi per il vostro candidato, e come tale contributo possa influenzare le posizioni politiche future». Guida la classifica Jeb Bush, che i sondaggi danno in calo perché “troppo moderato” per gli elettori repubblicani. L’ultimo rampollo della famigerata dinastia presidenziale super-guerrafondaia ha incassato 161 milioni di dollari dalla Golman Sachs, 65 da Neuberger Berman Llc, quasi 44 da Bank of America, 41,5 da Citigroup e quasi 40 da Tenet Healthcare.Secondo i reporter investigativi della Florida, per sostenere Jeb Bush si stanno attivando «signori texani del petrolio, banchieri d’investimento di New York, titolari di aziende sanitarie di Miami e perfino tre ex ambasciatori – due dei quali hanno servito sotto il fratello, l’ex presidente George W. Bush». Totale, 25 contributi da 1 milione di dollari ciascuno. Tre milioni invece sono arrivati da Mike Fernandez, miliardario cubano-americano fondatore di Coral Gables Mbf Healthcare Partners. Poi c’è Hushang Ansary, ambasciatore iraniano negli Stati Uniti dal 1967 al 1969, quindi Richard Kinder, boss della società di oleodotti e gasdotti Kinder Morgan. E Alfred Hoffman, ambasciatore statunitense in Portogallo dal 2005 al 2007, fondatore in Florida della società immobiliare Wci Community. Quindi NextEra Energy, società madre della Florida Power & Light, che fornisce il servizio elettrico a quasi la metà dello Stato. E Julian Robertson Jr., di New York, manager di fondi d’investimento (patrimonio personale di 3,4 miliardi, «ha fatto la sua fortuna investendo in campi da golf e vigneti in Nuova Zelanda»).A parte il corposo sostegno a Jeb, Wall Street pare schierata massicciamente dalla parte di Hillary, finora sempre sostenuta da Citigroup, Goldman Sachs, Dla Piper, Jp Morgan e Morgan Stanley. «Molti dicono che tali alleanze irrevocabilmente la incatenino a suddette istituzioni, rendendola incapace di regnare sopra la corruzione finanziaria di Wall Street», scrive Anderson. Tra gli attuali finanziatori figurano anche Morgan & Morgan, Sullivan & Cromwell, Akin, Gump, Yale University, Latham & Watkins. «E’ anche importante sottolineare che lo studio legale lobbista Akin, Gump, Strauss, Hauer & Feld, che impiega molti dipendenti di Hillary, ha preso le donazioni da due dei più grandi imprenditori delle carceri private, Corrections Corporation of America e Geo Group, con tasse incluse, per un totale di quasi 300.000 dollari». Si chiama “Priority Usa Action” il nuovissimo “Super-Pac” creato per sostenere la Clinton: 25 milioni di dollari in soli tre mesi. I più importanti super-donatori Pac sono George Soros e Steven Spielberg, ma la lista comprende 31 singoli donatori che hanno contribuito più di 200.000 dollari ciascuno. I progressisti contestano alla Clinton il ricorso ai miliardari, ma i sostenitori replicano che non c’è altra strada. Di recente, Hillary ha fatto notizia «abbracciando una tattica per rivelare pubblicamente – cosa che la nuova legge non richiede – i grandi donatori aziendali».Il terzo incomodo, Donald Trump, fa gara a sé: ha ribadito che sarà l’unico finanziatore della sua campagna elettorale e non accetterà donazioni. Secondo “Forbes”, il suo patrimonio ammonta a 4,5 miliardi. Trump assicura che si priverà di 100 milioni per auto-finanziarsi la campagna. Dovrà vedersela innanzitutto col super-finanziato Jeb Bush e gli altri due grandi sfidanti delle primarie, Marco Rubio e Ted Cruz, i cui cognomi ammiccano direttamente all’elettorato “latino”. Sostenuto dai “cubani”, Rubio ha finora raccolto quasi 32 milioni di dollari. Deve ringraziare Goldman Sachs, Steward Health Care, Titan Farms, Florida Cristalli e Oracle. Tra i supporter anche il miliardario Norman Braman e Laura Perlmutter, moglie di Isacco Perlmutter, Ceo di Marvel Entertainment. «La campagna gestita da Rubio è anche dotata di una notevole quantità di “denaro oscuro”», racconta Anderson. «La fonte è una norma su fondi senza scopo di lucro denominata Soluzioni Progettuali Conservatrici, che ha raccolto 15,8 milioni di dollari. Il no-profit, che naturalmente non è tenuto a rivelare i suoi donatori, ha lanciato una massiccia campagna pubblicitaria per attaccare l’accordo coll’Iran del presidente Obama».Altro outsider temibile, anche Ted Cruz ha contestato a Obama l’accordo con l’Iran. In più, si batte per tagliare i fondi a “Planned Parenthood”, i pro-abortisti ufficiali. Tra i suoi sponsor figurano la banca nazionale Woodforest, Morgan Lewis Llp, poi Gibson, Dunn & Crutcher, Pachulski e Stang, la Jennmar Corporation. «La campagna di Ted Cruz ha in realtà quattro “Super-Pac”, tutti finanziati da Robert Mercer, un magnate di Long Island (fondi d’investimento), negazionista del cambiamento climatico», spiega Anderson. «Insieme, hanno raccolto 31 milioni nelle prime quattro settimane della sua campagna». Hanno contribuito la rete politica dei fratelli Koch nonché i miliardari Farris e Dan Wilks, che devono la loro ricchezza al boom del fracking in Texas. Si rivolge invece agli elettori afroamericani il neurochirurgo Ben Carson, l’uomo nuovo dei repubblicani: «Ha sorpreso tutti suggerendo che se George W. Bush avesse iniziato un abbandono del petrolio sulla scia dell’11 Settembre, prendendo l’iniziativa diplomatica piuttosto che quella degli attacchi militari, la nazione poteva essersi evitata una guerra incredibilmente costosa contro il terrore».Con i suoi numeri da sondaggio in aumento, scrive Anderson, molti esperti si chiedono ora se Carson possa essere sfruttato come vicepresidente (di Jeb Bush, ovviamente). Carson è sostenuto da Coca-Cola, West Coast Venture Capital, Trailiner Corp, Ankom Tecnologia, Jea Senior Living. Il “dark money” proviene da “OneVote”, un “Super-Pac” guidato dallo stratega repubblicano Andy Yates, e da un altro cartello, “Run Ben Run”. Recentemente, Carson «ha raddoppiato la retorica anti-musulmana, che sembra aver portato le sue cifre raccolte ancora più in alto, innalzandole a 20 milioni in questo trimestre». Zero trasparenza sui fondi, ma non mancano informazioni indicative: pare che l’84% dei finanziamenti provenga da una folla di micro-donatori, assegni sotto i 500 dollari. Molto differenziato – ed estramamente “etico”, se paragonato agli altri – è il finanziamento di Bernie Sanders, l’unico democratico finora sceso in campo contro la Clinton. Socialista, capace di infiammare i progressisti, è finanziato quasi solo da sindacati, lavoratori, associazioni di categoria. Gli scettici temono che, come Obama, non avrebbe i muscoli necessari a opporsi al vero potere, Wall Street e il complesso militare-industriale.Oltre al libertario indipendente Rand Paul, con appena 3 milioni di dollari in tasca (e quindi ritenuto in procinto di abbandonare la gara), nelle retrovie repubblicane si muovo candidati minori, ancora in corsa, come Chris Christie, data all’1% nei sondaggi eppure forte di un budget di 11 milioni di dollari. Tra i suoi sostenitori figura la Winecup-Gamble, società del Nevada di proprietà dell’ex Ceo di Reebok, Paul Fireman, che ha dato al gruppo un milione di dollari. «Fireman, che vive vicino Boston, prevede un fantasmagorico profitto di 4,6 miliardi dai casinò a Jersey City se gli elettori dello Stato approveranno un emendamento costituzionale per permettere il gioco d’azzardo anche fuori Atlantic City». Altri supporter di Chris Christie sono Stephen Wynn, magnate dei casinò di Las Vegas, Steve Cohen (maganer di hedge funds), l’imperatrice del wrestlig Linda McMahon e la numero uno di Hewlett-Packard, Meg Whitman. Stesso budget (11 milioni) per John Kasich, governatore dell’Ohio, mentre è più povero il portafoglio di Mike Huckabee, ex governatore dell’Arkansas (3 milioni), così come quello di Carly Fiorina (1,6 milioni); presidente di Hp ed esponente dell’ultra-destra, la Fiorina è sostenuta dall’ex finanziere d’assalto Tom Perkins nonché da vari campioni della Silicon Valley, come Paul Otellini (già Intel) e Jerry Perenchio (ex Ceo di Univision).«Come potete vedere – conclude Jake Anderson – le elezioni presidenziali 2016 sono, per la maggior parte, una guerra tra donatori aziendali a tutto campo». Secondo l’analista, è importante ricordare che molti di questi “totali” sono già obsoleti, giacchè i team dei candidati possono strategicamente nascondere le quantità donate, grazie alle nuove disposizioni di legge per proteggere la raccolta fondi da qualsiasi legittima curiosità. «Insomma, noi non conosciamo la reale portata del “denaro oscuro”», derivante dal cosiddetto “non profit” e da associazioni imprenditoriali. «Quello che sappiamo è che questa sarà l’elezione più costosa della storia. I fratelli Koch da soli hanno un budget di 889 milioni di dollari. Una volta aggiunto alla spesa prevista dai democratici e dai repubblicani, stiamo parlando di un ticket totale di circa 5 miliardi di dollari».Chi più spende, meno spende. Il totale farà 5 miliardi di dollari, e in palio c’è la Casa Bianca. A chi dovrà dire grazie, portafoglio alla mano, il futuro presidente? Per puntare sul cavallo vincente non si bada a spese: a questo punto della gara siamo già a quota 25 milioni di dollari, cioè 5 volte l’importo versato, nello stesso periodo, durante il ciclo elettorale del 2012. A fare i conti in tasca ai candidati è Jake Anderson, quando mancano dieci mesi al traguardo, fissato per l’8 novembre 2016. Se il denaro è (quasi) tutto, nelle presidenziali Usa, è saldamente al comando Jeb Bush con oltre 114 milioni finora raccolti. Staccatissima Hillary Clinton, a quota 45 milioni, eppure data per super-favorita nonostante l’enorme divario di budget. Un’incognita assoluta è rappresentata da Donald Trump: dichiara che spenderà 100 milioni ma tutti suoi, senza richiedere un dollaro né ai cittadini né alle lobby che scommettono (e investono) sui concorrenti. Nelle immediate retrovie, intanto, tra i repubblicani si fanno largo Marco Rubio e Ted Cruz, con 30 milioni di dollari raccolti, seguiti dal democratico Bernie Sanders (26) e dal repubblicano Ben Carson (20). A seguire, altri 5 candidati, con un bilancio molto inferiore (tra il milione e mezzo e gli 11 milioni di dollari, per ora). Chi vincerà, il candidato migliore o quello più foraggiato?
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Volkswagen, scandalo made in Usa: guai se Berlino scappa
Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento riservato alla Grecia.Ein Volk, ein Wagen, ein Skandal: diesel e Germania fanno un distico, scrive Dezzani sul suo blog. «Se si volesse una terzina, allora sarebbe Diesel, Germania e Volkswagen». È nella febbricitante Germania guglielmina, apripista della seconda rivoluzione industriale, che Rudolf Diesel inventa un motore basato sulla compressione dell’aria: l’impiego non tarda nell’industria bellica ma bisogna attendere gli anni ’30 perché una vettura di lusso, la Mercedes-Benz W138, monti un pesante e costoso motore a gasolio. «Quando Adolf Hitler affida al geniale Ferdinand Porsche la progettazione di un’auto per la motorizzazione di massa, la scelta cade non a caso su un più economico motore a benzina: sono le versioni da 1,1-1,6 litri che monta la Volkswagen Typ 1, meglio nota come il “Maggiolino”. Per abbattere i costi di produzione e rendere il prezzo abbordabile, si adottano le più moderne tecniche fordiste e si erigono fabbriche ex-novo: attorno a loro nasce la cittadina di Wolfsburg, sede dell’attuale gruppo Volkswagen».La casa tedesca segue da subito le fortune della Germania: gli impianti, convertiti ad uso bellico, crollano sotto le bombe alleate del ’44-’45. Le forze d’occupazione inglesi, resistendo alle pressioni di chi vuole “ruralizzare” la Germania sconfitta, acconsentono ad un rapida ripresa dell’attività: esportare, per i tedeschi, significa tornare a vivere, nell’immediato dopoguerra. E il mito felice del Maggiolino si afferma solo col “miracolo economico”. Il decollo però coincide con l’inizio della parabola discendente per la Fiat e passa per la prima Golf del 1974, disegnata da Giorgetto Giugiaro. «Protetta dalla “legge Volkswagen” che ne impedisce le scalate ostili e blindata dai pacchetti azionari in mano al land della Bassa Sassonia ed i discendenti di Porsche – continua Dezzani – la casa di Wolfsburg fa da polo aggregante per l’industria meccanica, inglobando marchi (Audi, Seat, Skoda, Bentley, Bugatti, Lamborghini, Porsche, Ducati, Scania, Man) che consentono una diversificazione per prodotto, fascia di prezzo e paese».Sono le proprio le vetture di lusso e la trentennale presenza in Cina (oggi secondo mercato per il gruppo) a regalare un bilancio 2014 da record: un fatturato da 200 miliardi di euro, 14 miliardi di utili e il traguardo come primo produttore mondiale in vista. Quando nel marzo 2015 è presentato il bilancio consolidato, le azioni Volkswagen sono scambiate a 250 euro: «La casa di Wolfsburg è all’apice del successo, specchio di una Germania sempre più sicura della propria forza economica e dell’influenza politica derivante». Man mano che dalla Cina giungono segnali di rallentamento, le azioni Vw danno segnali di malessere, attestandosi a 170 euro a metà settembre. «Poi ha inizio il bagno di sangue, un assalto speculativo in grande stile che ricalca le recenti ondate ribassiste contro il rublo e la borsa cinese». Lunedì 21 settembre le azioni perdono il 20% del valore, bruciando 14 miliardi, e nell’arco di una settimana la capitalizzazione in borsa è pressoché dimezzata, con le azioni scambiate il 30 settembre a 95 euro. A innescare il crollo è la notizia che l’agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente (Epa) ha individuato un software nelle centraline delle Volkswagen che spegne il controllo delle emissioni durante la guida e lo riaccende per i test. Il gruppo tedesco, minaccia l’Epa, rischia una multa fino a 18 miliardi, 37.500 dollari per ognuna delle 480.000 auto turbodiesel incriminate.Immediata la campagna mediatica sul fallimento del sistema-paese della Germania, piuttosto che sui presunti danni all’ambiente: trascurando il fatto che i diesel ammontino solo al 24% delle vendite Volkswagen negli Usa e che l’inquinamento prodotto dal veicolo medio americano sia di gran lunga maggiore, viene «sferrato un tale bombardamento mediatico da obbligare la casa automobilistica a correre ai ripari: l’amministratore delegato Martin Winterkorn rassegna le dimissioni ed è annunciato uno “spietato repulisti” nell’azienda». Il Credit Suisse stima tra i 25 e i 75 miliardi di euro il costo dello scandalo, paventando la necessità di un aumento di capitale per la casa di Wolfsburg. La multa da 18 miliardi minacciata dall’Epa? «Un importo talmente alto da far pensare ad una provocazione, utile ad alimentare la tempesta mediatica». E’ la stessa somma appena pagata alle autorità americane dalla British Petroleum per il disastro ambientale della piattaforma Deepwater Horizon che nel 2010 causò la più grande fuoriuscita di petrolio della storia nel Golfo del Messico, con 500.000 tonnellate di greggio sversate in mare.«L’inflessibilità delle autorità americane e l’accanimento dei media sono poi doppiamente sospette se paragonate ad uno scandalo che ha recentemente coinvolto un’altra casa automobilistica, la General Motors», aggiunge Dezzani. Nel febbraio del 2014, Gm è stata costretta a richiamare 800.000 auto per un difetto al blocchetto d’accensione, che aveva provocato almeno 13 incidenti mortali. Per risparmiare pochi centesimi, la casa di Detroit aveva montato una molla difettosa che poteva ruotare la chiave sulla posizione di spegnimento ad auto in corsa, «spegnendo il motore, bloccando il servosterzo e disattivando gli airbag». Reazioni in Borsa? Nessuna. E una multa di appena 35 milioni di dollari. Fatte le debite proporzioni, la sanzione ipotizzate dall’Epa contro la Volkswagen equivarrebbero a «500 morti per avvelenamento da ossido d’azoto, peggio di una testata chimica su un centro abitato». Di certo non si ricorda un attivismo pari a quello prodigato oggi da Parigi e Londra sul caso dell’auto tedesca: il governo francese che invoca un’inchiesta europea, quello britannico definisce «inaccettabili le azioni di Vw», il “Financial Times” che alza il tiro, scrivendo che a casa di Wolfsburg è impunita, nell’Unione Europea sotto il tallone tedesco.«Lo scandalo Vw è una rappresaglia americana contro Berlino, che su troppi dossier, dall’eurocrisi alla Russia passando per il Medio Oriente, pecca di “eccesso di sicurezza”», scrive Dezzani, che denuncia anche la «strisciante retorica anti-tedesca», diffusa anche in Italia «dai media ossequiosi alle direttive d’Oltreoceano». Ovvero: «Man mano che l’eurocrisi evolveva differentemente da come preventivato, il marcescente estabilshment italiano è stato ben felice di scaricare su Berlino (a mezzo stampa) parte delle tensioni accumulate durante l’interminabile crisi economica». Dezzani invoca «un minimo di verità storica». E ricorda: «La Germania esce sconfitta dall’ultima guerra insieme all’Italia e al Giappone, e alla stregua di una potenza occupata è trattata: dispiegamento permanente di forze armate statunitensi, subalternità dell’apparato di sicurezza a quello angloamericano, pesanti limitazioni alla politica estera ed economica (vedi l’ostilità di Henry Kissinger alla Ostpolitik e gli accordi di Plaza del 1985 che, imponendo la rivalutazione del marco sul dollaro, misero a dura prova l’economia tedesca nel decennio successivo)».A differenza dell’Italia, continua Dezzan, la Germania è dotata di una classe dirigente «compatta, istruita e conscia degli interessi del paese». Mentre gli anni di piombo hanno messo in crisi l’Italia con lo smantellamento dell’economia mista, «tra bombe e assalti speculativi», la Germania è emersa nei primi anni ’90 con un manifatturiero accresciuto e «risorse tali da comprarsi la Ddr». Poi la Germania «subisce sì l’euro», ma mantiene una posizione di dominio sulla Bce. E ora «dispone di un mercato europeo senza barriere e di un enorme sistema a cambi fissi (l’euro) che consente di tosare le quote di mercato dei concorrenti (Italia in primis) ed accrescere l’attivo della bilancia commerciale». Perché gli Usa non solo acconsentono all’operazione ma addirittura la guidano? «Innanzitutto la Germania resta un paese militarmente occupato e le figure apicali dello Stato sono accuratamente selezionate in base ai criteri di Washington, poi la moneta unica non avrebbe dovuto essere fine a se stessa, bensì fonte presto o tardi di una crisi (quella attuale) che avrebbe dovuto sfociare negli Stati Uniti d’Europa, alter ego di Washington».«L’euro, come prevedibile, rende più ricca e sicura di sé la Germania, che almeno in tre riprese tenta di strappare agli angloamericani un nuovo status, non più potenza sconfitta e subalterna ma potenza alla pari», continua Dezzani. Prima, Deutsche Börse tenta di acquistare l’americana Nyse Euronext. Poi, nel 2003, Berlino cerca (senza riuscirci) di entrare nel super-esclusivo club di spionaggio “Five Eyes”, che riunisce i paesi anglosassoni (Usa, Uk, Nuova Zelanda, Australia e Canada). Infine c’è il tentativo, anch’esso fallito, da parte dell’editore tedesco Axel Springer (di provata fede atlantica) di acquistare nell’estate 2015 il pacchetto di controllo del “Financial Times”. «Il messaggio che gli angloamericani inviano alla Germania è chiaro: al tavolo con noi non vi sedete, restate nel mucchio con gli altri europei e pensate a risolvere la crisi dell’euro». Gli Usa restano scontenti di Berlino: approvano la svolta neoliberista dell’Ue, ma sanno che la moneta unica «è presto o tardi destinata a spezzarsi, se Berlino non accetta la condivisione dei debiti pubblici, la nascita di un Tesoro europeo e, a ruota, di un governo federale».Invece di imboccare la via delle federazione continentale, la Germania prima rifiuta gli eurobond nel 2011, poi si asserraglia sull’austerità che scarica tutto il peso dell’euro-regime sulla periferia: tagli ai salari e inasprimento fiscale per uccidere l’import e riequilibrare le bilance commerciali. «Quando Alexis Tsipras, che gode del palese appoggio di Washington e Londra, minaccia di rifiutare le politiche d’austerità, i falchi di Berlino non esitano a dire: bene, la porta è quella, esci dall’euro! Solo il clamoroso retromarcia di Alexis Tsipras (testimoniando quali interessi si celano dietro i vari Syriza e Movimento 5 Stelle) evitano che la Grecia abbandoni l’Eurozona, sancendo la reversibilità della moneta unica». Per Dezzani è sintomatico l’atteggiamento di Romano Prodi, il padre italiano dell’euro, che «da posizioni filo-tedesche ed anti-americane ai tempi della guerra in Iraq del 2003, si è riposizionato durante l’eurocrisi di 180 gradi ed abbraccia ora una linea anti-tedesca e filo-americana». In una recente intervista ad Eugenio Scalfari, dichiara: «I tedeschi non soltanto non credono negli Stati Uniti d’Europa, ma non li vogliono. Vogliono una Germania sola. Hanno accettato l’euro perché lo considerano soprattutto la loro moneta, il marco che ha cambiato nome, tant’è vero che la Bundesbank, la Banca centrale tedesca, si oppone alla politica di Draghi che invece considera l’euro come la vera moneta europea».Draghi, aggiunge Prodi, è uno dei pochissimi che vogliono gli Stati Uniti d’Europa, e utilizza gli strumenti a sua disposizione per spingere su quella strada. Lo stesso Prodi rincara la dose in un’intervista all’“Huffington Post”: «Il potere tedesco è arrogante. Quando arrivi a un livello di sicurezza, chiamiamola anche di arroganza, così forte, i freni inibitori sono a rischio. In Germania non c’è contraddittorio tra i vari attori sociali, c’è un sistema molto compatto. Oggi con il caso Dieselgate emerge una crisi di un sistema, molto più complicata di una crisi politica che interessa solo la Merkel. Non a caso le irregolarità legate alla Volkswagen sono state scoperte da un’autorità americana. La cosa è stata messa fuori da una struttura non europea». Come gli americani, anche Prodi «sa che l’euro è un aereo in stallo, sorretto solo dall’allentamento quantitativo di Mario Draghi e destinato a schiantarsi non appena verranno meno gli acquisti di titoli di Stato da parte della Bce (cui peraltro Berlino ha imposto che l’80% del debito acquistato finisse in pancia alle rispettive banche centrali nazionali)». Aggiunge Dezzani: «Quale investitore sano di mente acquisterebbe un Btp a 10 anni che rende l’1,6%, quando il paese flirta con la deflazione, ha un rapporto debito/Pil del 140% e istituti bancari appesantiti da 200 miliardi di crediti inesigibili?».Ma i motivi di tensione tra Berlino e Washington non si esauriscono qui e spaziano dalla questione del surplus commerciale tedesco all’Ucraina, passando per il Medio Oriente. Il primo a dissociarsi dall’appoggio garantito da Angela Merkel al cambio di regime a Kiev è stato il potentissimo mondo dell’industria, «che ha interessi da difendere a Mosca ben di più che a Kiev». Poi, continua Dezzani, è stato lo stesso governo tedesco a criticare i crescenti toni bellicistici contro la Russia del generale Philip Breedlove, responsabile del comando delle forze armate americane in Europa, con sede a Stoccarda. Non va meglio in Medio Oriente «dove la Germania, su posizioni sempre meno atlantiche e sempre più vicine ai Brics, prima si dichiara contro l’intervento militare in Libia (con la clamorosa astensione sulla risoluzione Onu 1973 che impone la “no-fly zone”) poi, è storia di questi giorni, quando la Russia opta per un intervento militare risolutivo in Siria, Berlino capovolge la politica finora seguita e afferma che Bashar Assad (la cui caduta è agognata da Washington e Tel Aviv sin dal 2011) è un interlocutore imprescindibile».Per Washington, occorre quindi “riportare all’ordine” la Germania. Come? «Ad agosto è aperta la via balcanica che, attraverso Macedonia, Serbia ed Ungheria, riversa in Austria e Germania decine di migliaia di persone nel lasso di poche settimane: benché Angela Merkel si dica pronta a ricevere 800.000 immigrati all’anno (esternazione che la fa precipitare nei sondaggi) il paese dà forti segnali di stress sotto l’improvvisa ondata migratoria (270.000 persone solo a settembre, più che nell’intero 2014). Non solo si moltiplicano gli attacchi dei gruppi di estrema destra contro le strutture d’accoglienza, dove peraltro aumenta la tensione tra immigrati, ma l’intero sistema di ricezione dei profughi si avvicina al punto di ebollizione: il presidente Joachim Gauck è costretto a rettificare le parole della cancelliera, chiarendo che c’è un limite all’accoglienza». Infine, arriva lo scandalo Volkswagen, «un vero attacco al sistema-paese». Domanda: «Basteranno queste rappresaglie a “riportare l’umiltà” in Germania?».Con l’attuale situazione internazionale, sempre più dinamica (l’intervento militare russo in Siria e il saldarsi dell’asse Mosca-Teheran-Baghdad-Damasco) la Germania «è il peso determinante, ovvero la potenza che sbilanciandosi verso uno schieramento (gli angloamericani e quel che resta della Francia) o l’altro (russi e cinesi) ne determina la vittoria». Se la Germania si saldasse con Russia e Cina, sostiene Dezzani, gli Usa sarebbero espulsi dall’Eurasia, e perderebbero la “testa di ponte” per proiettarsi nell’Hearthland. L’intervento di Putin in Siria «assegna, al momento, l’intero teatro mediorientale alla Russia, che spinge la propria influenza a latitudini così basse da stabilire un nuovo record». È molto difficile che Washington incassi in silenzio la sconfitta. «Più probabile, invece, è un contrattacco in Ucraina tramite le forze nazionaliste, con lo scopo di sottoporre Mosca al logorio di due fronti, oppure imboccare la via dell’escalation militare». Dalla risoluzione del dilemma di Berlino tra Mosca e Washington, conclude Dezzani, dipenderà l’esito del conflitto, che si sta spostando rapidamente dalla Borsa e dalla stampa ai teatri operativi.Anno movimentato per il gruppo Volkswagen: prima un bilancio dagli utili record ed il traguardo da primo produttore mondiale in vista, poi la notizia delle centraline manipolate che nel giro di pochi giorni brucia metà della capitalizzazione in borsa. Ad innescare lo scandalo è la statunitense Environmental Protection Agency che accusa i diesel tedeschi di emettere ossidi d’azoto oltre i limiti consentiti: le teste dei vertici di Wolfsburg cadono e l’affidabilità teutonica incassa un duro colpo. Scrupolosità ambientalistica delle agenzie americane? Sgambetto industriale? «No. Come lo scandalo Fifa, la “scoperta” di illeciti su cui si è sempre chiuso un occhio, ha finalità politiche. Berlino, nonostante la gestione di Angela Merkel, è per gli americani l’incognita dirimente», scrive Federico Dezzani. «Se la Germania si sganciasse dal blocco atlantico, Washington perderebbe il teatro europeo e, di conseguenza, l’egemonia globale». Per questo, sostiene Dezzani, è inevitabile individuare una precisa regia statunitense nell’esplosione dello scandalo che sta demolendo la credibilità di una Germania che si è fatta detestare per il trattamento disumano riservato alla Grecia.
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Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel
Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.«Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.
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Europei svegliatevi, o entro il 2018 siamo tutti in guerra
La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.La seconda fase è stata militare e ha avuto avvio nel 2011 con il bombardamento della Libia e l’uccisione di Gheddafi, seguita dall’inizio della guerra anti-Assad in Siria, compiuta dando sostegno militare a milizie islamiste sunnite che, come oggi vediamo, intendono colpire al cuore il dominio wahabita creando uno “Stato islamico” sunnita tra Iraq e Siria (non a caso l’Arabia Saudita ha schierato 30.000 soldati sul confine iracheno). La terza fase è la neutralizzazione di due nemici strategici dell’Occidente, Arabia Saudita e Iran, attraverso la manipolazione delle informazioni in entrambi i campi contrapposti, cioè sunniti e sciiti. Quest’ultima fase avrà una durata variabile – tra due e cinque anni – e intende dividere e distruggere il Medio Oriente, in modo tale che anche per la Cina, e più recentemente per la Russia, diventi poco conveniente fare commerci in quei territori. È prevedibile che alla fine, per necessità ma non senza difficoltà, Turchia, Iran e Kurdistan sceglieranno un legame più stretto con il “nuovo mondo” che si sta coagulando all’ombra della Russia e della Cina.In Ucraina è in corso una guerra che incide significativamente sulla ridefinizione del carattere politico dell’Eurasia. Come in altri teatri strategici, l’Occidente (anglo-americano) preferisce la frantumazione all’unificazione. Infatti, con la guerra in Ucraina, le potenze atlantiche (Usa, Uk e Francia) vogliono impedire la percorribilità della saldatura tra l’Unione Europea e la Russia, e più precisamente tra la potenza continentale europea, la Germania, e Mosca. La combinazione della potenza industriale tedesca con le materie prime e la forza militare russa avrebbe creato immediatamente un colosso che metteva a rischio il dominio, sebbene declinante, delle “potenze marittime”. La situazione è ancora piuttosto fluida, ma la decisione tedesca di isolare il Regno Unito nella designazione del nuovo presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Juncker, è un segnale politico di non poco conto. Infatti, le ultime mosse tedesche – dalle nomine europee alle scelte di orientamento delle politiche energetiche, monetarie e fiscali – indicano che più che una Germania europea stia rafforzandosi l’Europa tedesca.Questo spiega le parole di attrito con la Germania che sono emerse nei recenti discorsi del premier italiano, Matteo Renzi, che è corso a sostegno della linea “atlantica”, anche contro i propri interessi nazionali. Un primo segno di frantumazione dell’unità europea, rappresentata dalla grande coalizione socialisti-popolari-liberali, è emerso con la posizione del gruppo dei socialisti e democratici (S&D) che ha minacciato di non votare Juncker senza una “cambiamento di rotta sulla crescita”. Come abbiamo già riferito su queste pagine, dietro la magica parolina “crescita” si nasconde lo scontro tra due gruppi oligarchici occidentali. Il primo che sostiene “politiche monetarie e fiscali espansive” e il secondo che non cede su quelle rigoriste e d’austerità finalizzate alla difesa e conservazione del valore. A ben vedere sono due anime della sovranità e dell’esercizio del dominio occidentale: la prima è incline alla guerra finanziaria, la seconda a quella economica. Sull’uso della forza militare per difendere i propri interessi, le due oligarchie non differiscono granché. È possibile che la grande coalizione europea reggerà e che il Regno Unito riuscirà a non abbandonare completamente l’Ue. Se così sarà, non potendo trovare sfogo in Eurasia, la potenza tedesca si accrescerà in Europa continentale. Questo è il prezzo che Usa e Uk sono pronti a pagare per ridefinire il carattere politico dell’Eurasia ed evitare la disintegrazione dell’Ue. La conseguenza sarà un’Eurasia sempre più asiatica.A livello mondiale si profilano due blocchi: l’Occidente e il resto del mondo. Quest’ultimo è partito in ritardo, nell’ultimo ventennio, ma sta procedendo a una velocità elevata verso la creazione di infrastrutture e sistemi di scambio commerciale e finanziario progressivamente indipendenti dal dollaro americano. A giugno di quest’anno è stato concluso l’accordo di swap rublo-yuan, per semplificare il finanziamento del commercio tra i due paesi. Questo accordo è la base per la «creazione di un’istituzione di un sistema di scambi multilaterali che permetterà di trasferire risorse da un paese all’altro, se necessario. Una parte delle riserve valutarie potrà essere destinata a questo scopo [il nuovo sistema]» (“Prime News Agency”). Da questo scaturirà un “sistema quasi-Fmi”. I Brics utilizzeranno una parte (molto probabilmente la “parte del dollaro”) delle proprie riserve valutarie per sostenerlo, riducendo drasticamente la quantità di strumenti in dollari acquistati dai più grandi creditori esteri degli Stati Uniti.Anche in Europa cresce la convinzione che un accordo con la Cina e lo yuan sia improcrastinabile. Tra le ultime mosse in ordine di tempo spicca quella della Banca nazionale della Francia, che ha costituito una piattaforma per lo scambio euro-yuan. Il suo presidente, Christian Noyer, avrebbe dichiarato che come corollario a quanto gli americani hanno fatto alla Bnp Paribas (una multa di 10 miliardi di dollari per violazione delle sanzioni Usa), il commercio con la Cina deve essere gestito in yuan o euro. In contemporanea, Usa e Regno Unito stanno accelerando sulla conclusione di due enormi accordi commerciali che hanno la finalità di “consolidare” gli asset dell’Occidente. Sul Ttip, l’accordo di partenariato commerciale degli investimenti tra Ue e Usa, si attende la conclusione dei negoziati entro la fine dell’anno, sebbene ci sia stato qualche disaccordo sull’estensione del Ttip al settore dei servizi finanziari (fortemente sostenuto dal Regno Unito, ma non dalla Francia e dalla Germania).Sul secondo accordo, il Tisa, “Trade in service agreement”, si sa che è stato negoziato dal settembre 2013 a porte chiuse a Ginevra dai seguenti Stati: Australia, Canada, Cile, Taiwan, Colombia, Costa Rica, Unione Europea, Hong Kong, Islanda, Israele, Giappone, Liechtenstein, Messico, Nuova Zelanda, Norvegia, Pakistan, Panama, Paraguay, Perù, Corea, Svizzera, Turchia e Usa. Non riuscendo a inserire il settore dei servizi nel Ttip, il Tisa risolve il problema, allargandone lo scopo a tutte le attività di servizio, inclusi i servizi pubblici. Il settore dei servizi significa il 70% del Pil dei paesi industrializzati e l’ultima volta che fu trattato a livello multilaterale era il 1995 in ambito Gatts e poi Omc. Il 19 giugno scorso, Wikileaks ha rivelato uno dei protocolli del Tisa. Sulle conseguenze e la pericolosità sociale del Tisa si rimanda a un ottimo dossier pubblicato dal quotidiano francese “L’Humanité”.Secondo il quotidiano svizzero “Bilan”, già nell’aprile 2014 il testo finale del Tisa era «sufficientemente maturo» per essere approvato e sottoposto alla firma dei governi. I dirigenti dell’Ue tacciono, così come i governi degli Stati dell’Unione: nessuna informazione pubblica. Recentemente, Mauro Bottarelli, visti i dati finanziari in suo possesso, si interrogava su questo giornale se si stesse avvicinando una guerra. In considerazione di quanto abbiamo descritto sopra, tutto farebbe pensare a preparativi propedeutici a uno scontro tra i due blocchi. Tuttavia, l’eventualità di uno scontro armato potrebbe collocarsi dopo le elezioni presidenziali americane del novembre 2016. Inoltre, la maturazione del blocco non occidentale richiede ancora del tempo. Quindi, semmai si dovesse intraprendere la disgraziata via delle armi, l’area temporale sarebbe tra il 2018 e il 2020. Per evitare questo scenario da incubo – si ricorda che la proliferazione non convenzionale è molto cresciuta negli ultimi anni – l’unica possibilità sarebbe il risveglio degli europei.A iniziare dalla guerra in Ucraina, una soluzione sarebbe, come ha suggerito “Leap 2020”, da sviluppare in tre stadi: a) riconoscere in modo preliminare le responsabilità condivise; b) riprendere al più presto le relazioni euro-russe per creare le condizioni di una soluzione sostenibile per l’Ucraina; c) convocare una conferenza internazionale euro-Brics per risolvere la crisi ucraina. Per la situazione del Medio Oriente, né l’Europa né gli Usa devono intervenire, anche a causa del fardello storico che li farebbe sospettare, non a torto, di essere di parte. Quindi sarà una situazione che potrà trovare uno sbocco solo permettendo alle forze locali di misurarsi e di trovare un punto di equilibrio. Considerata la responsabilità storica, anche recente, che hanno l’Europa e gli Usa, la miglior soluzione sarebbe di evitare mediazioni e coinvolgimenti diretti o indiretti, finanziando invece sostanzialmente le organizzazioni internazionali. Quanto agli accordi Ttip e Tisa, l’Ue e i suoi Stati rischiano di accelerare l’integrazione del continente invece di prevenirla. Sarebbe forse il caso che tali accordi divenissero innanzitutto pubblici e poi che siano sottomessi a referendum popolare. Ma forse questo è il libro dei sogni e i dati di Bottarelli, nella loro crudezza, già indicano il futuro che ci attende.(Paolo Raffone, “Geo-finanza, gli accordi che avvicinano una guerra”, da “Il Sussidiario” del 7 luglio 2014).La divisione del mondo in due blocchi – l’Occidente e tutti gli altri – non è un’ipotesi pessimistica, ma una realtà che si sta concretizzando sotto i nostri occhi. Gufi e Cassandre non c’entrano. Contrapposizioni, blocchi oligarchici e pericolo di guerra sono reali. Seguono alcuni fatti che cerchiamo di interpretare, proponendo anche una possibile “uscita di sicurezza”. In Medio Oriente si sta compiendo l’ultima fase della dislocazione geopolitica del “mondo arabo”. Il lungo immobilismo imposto dagli europei e dagli americani – nel 1916 e poi dal 1945 al 2010 – non era più difendibile, anche perché insidiato significativamente dalla penetrazione commerciale cinese. La prima fase è stata quella di sostenere attivamente la divisione del mondo sunnita attraverso operazioni di promozione della “democrazia”, inaugurate da Obama al Cairo nel 2009 con il discorso sul “nuovo inizio”, e per la rinascita dei Fratelli Musulmani – che già negli anni ‘20 rifiutavano la dominazione wahabita – attraverso una serie di rivoluzioni che servivano a irreggimentare in nuovi regimi dal volto democratico le legittime rivolte popolari.
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Temo una rivolta, perché guadagno mille volte più di voi
«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.Una lettera che è anche una analisi/denuncia del livello estremo raggiunto dalla disuguaglianza nell’odierno capitalismo. E un avviso: così non può continuare. Arriveranno i forconi, contro di noi. Nick Hanauer, 55 anni, nonni immigrati dalla Germania di Hitler, è un classico uomo d’affari americano, uno che si è fatto da sé. Americano anche nel piglio con cui si esprime. «Nel 1992 a Seattle vendevo cuscini fabbricati dall’impresa della mia famiglia a negozi in giro per il paese e Internet era una goffa novità alla quale ci si collegava a 300 baud. Ma già allora mi sono accorto abbastanza rapidamente che molti grandi magazzini miei clienti erano condannati. Ho capito che non appena Internet fosse diventata abbastanza veloce e affidabile – e quel tempo non era così lontano – tutti si sarebbero buttati a comprare on line come pazzi. Realizzare questo, vedere oltre l’orizzonte un po’ più in fretta di tanti altri, è stata la parte strategica del mio successo. La parte fortunata è stata invece l’avere un paio di amici, entrambi di grande talento, anche loro intrigati dalle potenzialità della rete. Uno è un tizio di cui non avrete certo sentito parlare, Jeff Tauber, l’altro era Jeff Bezos (il fondatore di Amazon ndr). Ero così eccitato dal potenziale del web che ho detto ai due Jeff che volevo investire in qualsiasi cosa avessero deciso di lanciare».«Il secondo Jeff – Bezos – mi chiamò per primo, e lo aiutai a sottoscrivere la sua piccola libreria start up. L’altro Jeff partì con un negozio on line chiamato Cybershop, ma quando la fiducia nelle vendite via Internet era ancora bassa; era troppo presto per la sua idea, la gente non era ancora pronta ad acquistare on line cose costose senza vederle di persona (a differenza di oggetti semplici come i libri, la cui qualità non cambia – questa è stata la carta vincente di Bezos). Cybershop non è andato lontano, è stato uno dei tanti fallimenti di imprese dot-com. Amazon è andato meglio. E io ora possiedo un maxi-yacht. Ma lasciatemi essere franco. Non sono la persona più intelligente che avete conosciuto, o quello capace di lavorare più sodo. Ero uno studente mediocre, non sono un tecnico – non so ho mai saputo scrivere una riga di software. Quel che mi è servito, credo, è una certa propensione al rischio e un’intuizione su quel che accadrà in futuro. Intuire dove le cose stanno andando è l’essenza dell’imprenditorialità. E cosa vedo oggi nel nostro futuro? Vedo dei forconi».«Mentre persone come voi e me prosperano oltre i sogni di ogni plutocrate nella storia, il resto del paese – il 99,9% – resta molto indietro e arretra. Il divario fra quelli che hanno e quelli che non hanno peggiora sempre di più. Nel 1980 l’1% in cima alla piramide controllava l’8% del reddito nazionale degli Stati Uniti. Il 50% più in basso si divideva il 18% delle ricchezze. Oggi l’1% più ricco si divide il 20%, e il 50% della popolazione solo il 12%. Ma il problema non è la disuguaglianza in sé, qualche misura è intrinseca a ogni economia capitalista che funzioni. Il problema è che la disuguaglianza è a livelli storicamente mai visti e peggiora di giorno in giorno. Il nostro paese sta diventando una società sempre meno capitalista e sempre più una società feudale. A meno che le nostre politiche non cambino drammaticamente, la classe media scomparirà, e torneremo indietro alla Francia del 18° secolo. Prima della Rivoluzione. Così ho un messaggio per i miei colleghi oscenamente ricchi, per tutti coloro che vivono nelle bolle dei nostri mondi circondati da cancellate: svegliatevi, gente. Non durerà. Se non si fa qualcosa per sanare le clamorose diseguaglianze in questa economia, i forconi ci saranno addosso».«Nessuna società può tollerare una tale disparità. Non ci sono esempi nella storia in cui si sia verificata una tale accumulazione di ricchezza e i forconi non siano arrivati. Dove c’è una società altamente disuguale o c’è uno Stato di polizia, o un’insurrezione. Non ci sono altre possibilità. Il punto non è se, ma quando. Molti di voi pensano che siamo speciali perché “questa è l’America”, pensiamo di essere immuni alla forze che hanno dato vita alla Primavera Araba o alle Rivoluzioni in Francia e in Russia. Molti fra i colleghi dello 0,1% sfuggono questo argomento, molti mi prendono per matto, altri vedono un ragazzino povero con un iPhone e pensano che l’ineguaglianza sia una finzione. Vivete nel mondo dei sogni, vi dico. Volete credere che se ci sarà qualche segnale di destabilizzazione, ci sarà tempo per reagire e organizzarsi. Ma non funziona così, come sa qualsiasi studente di storia. Le rivoluzioni, come le bancarotte, si manifestano per gradi e poi precipitano di colpo. Un giorno uno si dà fuoco e improvvisamente la gente è in strada, prima che ci si renda conto il paese brucia. E non c’è tempo per salire sul nostro Gulfstream e scappare in Nuova Zelanda. Succede così. E se l’ineguaglianza peggiorerà, succederà».Sembrano le parole dei ragazzi di “Occupy Wall Street”, movimento che pare scomparso nel nulla. Ma il nostro capitalista niente affatto pentito non parla così per paura quanto per interesse. Del paese, della società, ma anche degli stessi ultraricchi dello 0,1%, a quanto cerca di dimostrare nell’analisi che segue. La cui tesi si può riassumere nel titolo dato al post da “Business Insider” (foto di persone in fila negli anni ’30 della Grande Depressione): “Spiacenti, gente, ma i ricchi non creano occupazione”. Hanauer se la prende con il punto di vista “ortodosso” dell’economia politica, e ne smonta alcuni presupposti di fondo: «Sono i ricchi che creano occupazione? Falso. E’ come dire che il seme crea l’albero: magari ne è il presupposto, ma provate a piantare un seme su Marte o nel Sahara. Senza terra buona, acqua, nutrienti non spunterà nulla e il seme morirà. La retorica per cui l’America è grande per via di uomini come me e Steve Jobs è finzione. Se entrambi fossimo nati in Somalia o in Congo saremmo rimasti a vendere frutta all’angolo della strada».L’economia non è un’astrazione, ma un ecosistema complesso di persone reali fra loro interdipendenti. Se i lavoratori hanno più denaro, le imprese hanno più clienti e hanno bisogno di più impiegati. A creare posti di lavoro in ultima istanza sono i clienti, i consumatori, vale a dire la classe media. Non sono i ricchi, come vuole uno dei luoghi comuni dell’economia ortodossa, non sono gli imprenditori, che pure sono una parte importante del processo. La classe media è stata la causa, non la conseguenza, della prosperità goduta nel passato dagli Usa. Alzare il salario minimo costa posti di lavoro, per la legge della domanda e dell’offerta? Falso. Lo aveva ben capito Henry Ford che nel 1914 raddoppiò la paga ai suoi operai (a 5 dollari al giorno, equivalenti a 120 di oggi) affinché potessero permettersi di comprare le auto che producevano. Lo ha capito la città di Seattle, che ha alzato per legge il salario minimo a 15 dollari l’ora da 9 – che era già il 30% in più della media Usa. Risultato: Seattle è con San Francisco la città col tasso di occupazione più alto negli Usa, ed è in assoluto la città che cresce di più.Il problema con la nostra economia – chiosa “Business Insider” – è che quella che una volta era la nostra potente classe media è stata lasciata impoverire da decenni di tagli ai costi e salari stagnanti, e oggi porta a casa una quota molto minore di 30 anni fa, mentre gente come Hanauer e i suoi amici dell’1% si accaparravano fette sempre maggiori di ricchezza, anche dopo la crisi del 2008. Dal 2009 al 2012 il 95% dei guadagni è andato all’1% mentre il 99% è rimasto al palo. Negli ultimi tre decenni i compensi per i Ceo (amministratori delegati, direttori generali, alti dirigenti) sono cresciuti 127 volte più rapidamente di quelli di altre categorie. Dal 1950 il rapporto tra la paga di un Ceo e quella di un lavoratore è aumentato del 1.000%: i Ceo guadagnavano 30 volte il salario medio, oggi il loro stipendio vale 500 volte il secondo. E nessuno ha eliminato i propri alti dirigenti senior, li ha esternalizzati in Cina o ha automatizzato il loro lavoro. Al contrario, ce ne sono molti più di prima.Intanto la classe media veniva falcidiata da politiche fiscali favorevoli all’1%, dalla globalizzazione e da miglioramenti tecnologici senza controlli. Ma veniva strozzata anche dalla nostra ossessione per il profitto a breve termine, dall’ethos prevalente nel mondo degli affari per cui gli impiegati sono visti come “un costo” e le società tengono i loro salari più bassi possibile. E’ un bene per l’economia che i ricchi siano sempre più ricchi? Falso. Il punto è che la classe media spende quasi tutto quello che guadagna, e questa spesa diventa ricavo per società avviate, finanziate o possedute da persone come Hanauer. Ma oggi, con i salari bassi come mai grazie all’avidità e alle corte vedute dell’1%, la classe media non è più in grado di farlo, e ciò si ritorce contro l’economia reale e gli stessi imprenditori. In America infatti i più ricchi – imprenditori, investitori e società – oggi hanno così tanto denaro da non riuscire a spenderlo. Così, invece di ri-pomparlo nell’economia creando guadagni e salari, quel denaro resta in conti di investimento.«Io guadagno all’anno 1.000 volte l’americano medio, ma non compro mille volte più roba. La mia famiglia negli ultimi anni ha comprato tre automobili, non 3.000. Io ho acquistato qualche paio di pantaloni e qualche camicia all’anno, come molti altri americani. Ho comprato due paia dei migliori pantaloni di lana, quelli che il mio partner Mike chiama “pantaloni da manager”. Ma non avrei potuto acquistarne 1.000. Invece ho messo via il mio denaro extra là dove non fa molto bene al paese». Se i 9 milioni di dollari di Hanauer in più dei 10 milioni di guadagni annuali fossero andati a 9.000 famiglie invece che a lui, sarebbero stati pompati di nuovo nell’economia attraverso il consumo. E avrebbero creato più occupazione. Invece stanno nei conti bancari di Hanauer o investiti in società che non hanno abbastanza clienti potenziali a cui vendere. Hanauer stima che se la maggior parte delle famiglie americane portasse a casa la stessa quota di reddito nazionale di 30 anni fa, ogni famiglia avrebbe altri 10.000 dollari di reddito da spendere.Con famiglie più ricche, lo Stato potrebbe davvero diventare più snello, risparmiando su assistenza pubblica, cure mediche gratuite, buoni pasto (oggi fruiti da 44 milioni di cittadini). E anche i più ricchi se ne gioverebbero. Il messaggio finale: «Cari 1%, molti dei nostri compatrioti cominciano a credere che il problema sia il capitalismo in sé. Non sono d’accordo, e credo non lo siate neppure voi. Ma il capitalismo lasciato senza controlli tende alla concentrazione e al collasso. Ecco perché gli investimenti nella classe media funzionano, e i tagli delle tasse ai ricchi invece no. Bilanciare il potere dei lavoratori con quello dei miliardari alzando il salario minimo non è male per il capitalismo, è uno strumento indispensabile per rendere il capitalismo stabile e sostenibile», conclude Hanauer (all’inizio invero esortava a prendere esempio dalle riforme di Franklyn Delano Roosevelt, un po’ più ampie di così). «O possiamo star seduti, non fare nulla e goderci i nostri yacht. Aspettando i forconi».L’analisi di Hanauer riguarda anche l’Italia? Sì, per tre motivi. Perché le disuguaglianze ci sono anche da noi, sia pure meno accentuate che negli Usa; perché le tendenze in America si riflettono altrove, a cominciare dall’Europa; perché, al di là delle riforme indispensabili al nostro paese fermo da decenni, l’economia italiana fa parte del sistema economico globale. Un sistema che fra debiti enormi e disoccupazione vertiginosa non sta affatto bene, come oggi ricorda la Banca dei Regolamenti Internazionali, mentre un rapporto della Banca Mondiale invita esplicitamente a prepararsi per la prossima crisi. Hanauer parla sicuramente nell’interesse dell’economia reale, dei cittadini e delle imprese piccole e medie. Ma alle banche e alle grandi corporations i luoghi comuni dell’ortodossia vanno benissimo. Finanza e multinazionali, compresi i costruttori di armamenti, i colossi dell’high-tech, i giganti della farmaceutica o del web hanno clienti globali, si tratti dell’1% del pianeta (dove addirittura 85 iper-ricchi – non 8.500, né 850, proprio 85 – detengono tanta ricchezza quanta ne possiede la metà della popolazione della Terra) o della classe media che a livello planetario comunque emerge fra varie contraddizioni. E multinazionali e banche & finanza hanno anche le lobby più potenti capaci di “convincere” i politici a fare leggi e norme a loro più favorevoli. Non resta che attendere i forconi, allora, o aspettare la prossima crisi?(Maria Grazia Bruzzone, “Svegliatevi plutocrati, i forconi ci saranno addosso”, da “La Stampa” del 4 luglio 2014).«Probabilmente non mi conoscete, ma come voi sono uno degli 0,1%, un fiero capitalista. Ho fondato, co-fondato e finanziato più di 30 società di ogni genere, da cose piccole come il night club con cui ho cominciato a vent’anni, a giganti come Amazon.com di cui sono stato il primo investitore esterno. Poi ho fondato aQuantitative, una società di pubblicità su Internet che nel 2007 è stata venduta a Microsoft per 6,4 miliardi di dollari. In contanti. Insieme ad amici possediamo una nostra banca. Racconto tutto questo per dimostrarvi che per molti versi non sono molto diverso da voi. Come voi ho una visione ampia degli affari e del capitalismo. E come voi sono stato oscenamente ricompensato per il mio successo, con una vita che gli altri 99,9% di americani non possono nemmeno immaginare. Molteplici case, aereo personale, ecc». Comincia così una sorprendente lettera aperta, pubblicata qualche giorno fa dal sofisticato “Politico.com” e rilanciata da siti di economia & politica come “Business Insider” e “Zero Hedge”, ogni volta con un gran numero di lettori e apprezzamenti.