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5 Stelle, l’inganno mortale taglia le gambe al cambiamento
Alzi la mano chi non ha mai pensato, neppure per un attimo, che i grillini potessero fare sul serio. A prima vista, la loro sembrava una rivolta democratica genuina: che infatti ha attratto migliaia di sinceri attivisti, prima ancora che milioni di elettori. C’è chi ricorda che, in Italia, la discesa in campo di Grillo ha rotto l’equilibrio stagnante dei finti avversari, centrodestra e centrosinistra, imponendo un nuovo tipo di lessico nuovista (senza il quale, per dire, non sarebbe mai nato nemmeno il populismo rottamatore di Renzi, a sua volta erede del populismo paternalistico di Berlusconi). Non mancarono però le voci profetiche come quelle di Paolo Barnard, fin dall’inizio avverso ai pentastellati: servì loro su un piatto d’argento l’agenda della Modern Money Theory di Warren Mosler per il recupero della sovranità nazionale, ma li vide fuggire atterriti non appena i loro padroni Grillo e Casaleggio mostrarono di non gradire l’idea che qualcuno potesse affrontare davvero i nodi della tragedia economica nazionale. In piccolo, il parmense Federico Pizzarotti – cacciato a pedate – fornì per primo, a sue spese, un bel compendio della democraticità del MoVimento, al di là del mitico “uno vale uno” fischiettato dai ragazzi del coro. E questo, quando ancora non avevano cominciato a deludere nel modo più sfacciato i loro elettori, imboccando il viale del tramonto che li ha portati oggi a diventare gli sparring partner di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, insieme al loro finto premier osannato dagli anti-italiani di tutta Europa.L’ingloriosa agonia del Movimento 5 Stelle – 17% alle europee, votato da meno di un italiano su dieci e letteralmente sparito dai radar alle regionali – è da ascrivere all’impietoso confronto tra le mirabolanti promesse del 2018 e l’incresciosa cronachetta gialloverde, impregnata di codardia verso Bruxelles e costellata di tradimenti sfrontati. Leggasi obbligo vaccinale, F-35 e spese militari, Muos di Niscemi e Ilva di Taranto, gasdotto Tap, trivelle petrolifere in Adriatico, Tav Torino-Lione in valle di Susa. «Avete mai avuto la sensazione di essere presi per il culo?», domandò il rocker Johnny Rotten. «Affermativo», rispondono oggi i milioni di italiani che – dall’Alpe al Lilibeo – hanno smesso di votare 5 Stelle. Perché lo fecero, nel 2018, pur vedendo benissimo che le iperboliche fanta-promesse di Di Maio non sarebbero mai state realizzabili, se non in minima parte? Probabilmente speravano proprio in quella “minima parte”, non immaginando che si sarebbero invece ridotte a zero. C’era un equivoco, alla base dell’epocale malinteso. Ovvero: la speranza che, da qualche parte, i soldi necessari alle riforme sociali (le famose coperture) potessero spuntare. Dove? Nell’unico posto possibile: in un deficit adeguato, strappato in un energico negoziato con Bruxelles. Sarebbe stato il minimo sindacale, per avvicinare l’Italia alla generosissima flessibilità concessa alla Francia. Per non parlare del debito-fantasma cui attinge la Germania, truccando i bilanci alla faccia dell’austerity altrui.Di che pasta fosse, la fermezza grillina, lo si è visto con Di Maio, Conte e Tria. Ma c’erano precedenti allarmanti: come il trasloco tentato da Grillo nel 2016 per trasferire il gruppo europarlamentare pentastellato tra gli ultra-euristi dell’Alde, gli amici di Mario Monti, dopo aver sbandierato in Italia lo spauracchio di un referendum sull’euro. Acquattato nel suo apparente buen retiro di Genova, l’Elevato si sveglia sempre al momento opportuno per impartire i suoi diktat indiscutibili: l’idea di piazzare Conte a Palazzo Chigi, l’ordine di far eleggere Ursula von der Leyen alla Commissione Europea e lo sdoganamento improvviso del Pd renziano come alleato di governo. Un atto politico violento, quest’ultimo, come di consueto imposto dal centralismo di stampo sovietico con cui il signor Grillo, proprietario del marchio 5 Stelle, gestisce i sottoposti. Sapeva di poter contare sulla docilità dei parlamentari, terrorizzati dai sondaggi di fronte all’incubo delle elezioni anticipate. E non ha esitato a esibire lo spettacolo dell’amore per le poltrone, inflitto ai militanti che parlamentari non sono e, a differenza di deputati e senatori, non hanno stipendi d’oro a rischio di evaporazione. Ancora una volta, il pastore ha portato le pecore dove voleva. E l’ha fatto a reti unificate: tutta l’Europa ha visto di che sostanza è fatto il nostro ribellismo all’amatriciana in salsa pentastellata.Il colpo inferto dai 5 Stelle alla dolente democrazia italiana non è irrilevante: hanno dimostrato che si possono maneggiare valori forti – giustizia sociale, trasparenza, condivisione – facendone tranquillamente strame, dopo aver ingannato gli elettori. Al punto da indurre molti osservatori a ritenere che l’abbaglio collettivo del MoVimento non sia mai stato altro, fin dall’inizio, che un’abile operazione di gatekeeping per dirottare con sapienza il malcontento sociale verso lidi innocui. Malcontento peraltro esasperato dal neoliberismo globale, la “lotta di classe a rovescio” che ha drenato risorse dal basso verso l’alto, interpretato in Europa da politici come Angela Merkel e la sua candidata Ursula von der Leyen, a cui non a caso è giunto in soccorso proprio il partito-caserma di Grillo. Neoliberismo feroce, altro che “reddito di cittadinanza”: Stato minimo, tagli al welfare, erosione dei risparmi, fine della classe media, precarizzazione del lavoro. In cambio, piccole battaglie di cartapesta come quella sulla riduzione dei parlamentari (funzionale, anche quella, alla diminuzione della rappresentatività democratica). Amara lezione, dai 5 Stelle: gli italiani che sognavano il cambiamento hanno imparato a non fidarsi più di chi lo promette, chiunque sia, specie se alza la voce nelle piazze. Un vero capolavoro politico, per la gioia dell’oligarchia che detesta la sovranità democratica.Alzi la mano chi non ha mai pensato, neppure per un attimo, che i grillini potessero fare sul serio. A prima vista, la loro sembrava una rivolta democratica genuina: che infatti ha attratto migliaia di sinceri attivisti, prima ancora che milioni di elettori. C’è chi ricorda che, in Italia, la discesa in campo di Grillo ha rotto l’equilibrio stagnante dei finti avversari, centrodestra e centrosinistra, imponendo un nuovo tipo di lessico nuovista (senza il quale, per dire, non sarebbe mai nato nemmeno il populismo rottamatore di Renzi, a sua volta erede del populismo paternalistico di Berlusconi). Non mancarono però le voci profetiche come quelle di Paolo Barnard, fin dall’inizio avverso ai pentastellati: servì loro su un piatto d’argento l’agenda della Modern Money Theory di Warren Mosler per il recupero della sovranità nazionale, ma li vide fuggire atterriti non appena i loro padroni Grillo e Casaleggio mostrarono di non gradire l’idea che qualcuno potesse affrontare davvero i nodi della tragedia economica nazionale. In piccolo, il parmense Federico Pizzarotti – cacciato a pedate – fornì per primo, a sue spese, un bel compendio della democraticità del MoVimento, al di là del mitico “uno vale uno” fischiettato dai ragazzi del coro. E questo, quando ancora non avevano cominciato a deludere nel modo più sfacciato i loro elettori, imboccando il viale del tramonto che li ha portati oggi a diventare gli sparring partner di Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, insieme al loro finto premier osannato dagli anti-italiani di tutta Europa.
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Truffa 5 Stelle, il giocattolo preferito dei nemici dell’Italia
Dopo aver esibito l’intero campionario della peggior politica – la cialtroneria distintiva della Seconda Repubblica fondata sulla fuffa e sull’imbroglio del nuovismo – ora i 5 Stelle (avvinghiati alle poltrone) mettono in mostra anche il peggio della Prima, il trasformismo. Ai parlamentari grillini è severamente vietato cambiare casacca? Niente paura, basta traslocare in blocco l’intero “moVimento”, facendogli fare esattamente il contrario di quanto aveva promesso a quei fessi degli elettori. Persino l’impensabile: andare a nozze con l’odiato Renzi e la sua “banda di ladroni”, quella che avrebbe “distrutto il paese”, stando sempre al soave lessico grillino. In questa corsa cieca e suicida verso l’abisso, deputati e senatori arruolati dal partito-caserma di Grillo e Casaleggio non hanno freni: sono pronti anche a tenere in ostaggio gli italiani, scongiurando le elezioni anticipate e preparandosi a sorreggere un esecutivo “istituzionale” iper-governista, barbaricamente alleato degli euro-killer come Ursula von der Leyen, non a caso giunta alla guida della Commissione Europea con il contributo determinante degli ex rivoluzionari all’amatriciana, eccitati dall’ex comico genovese e “selezionati” via web dalla rinomata piattaforma privata della Casaleggio & Associati.Per pesare lo spessore politico del loro attuale, pericolante portavoce, basta ricordare la disinvoltura con cui Luigi Di Maio nella primavera 2018 tendeva la mano indifferentemente alla Lega e al Pd, pur di far nascere un governo quale che fosse. Lo si è visto brillare puntualmente, Di Maio: prima amico dei Gilet Gialli e poi devoto ad Angela Merkel, socia della bestia nera dei Gilet Janunes, Emmanuel Macron. Una conversione folgorante, sulla via di Bruxelles, come quelle – altrettanto mistiche – sull’Ilva di Taranto, sul Tap pugliese, sulle trivelle petrolifere in Adriatico. Anticamente, i 5 Stelle blateravano di un referendum consultivo sull’euro. Poi, guidati dal loro padrone Beppe Grillo, hanno chiesto asilo a Strasburgo agli ultra-euristi dell’Alde. Mossa non riuscita al primo colpo, ma ora insaponata alla perfezione dall’operazione-Ursula: tra i nazi-euristi, oggi i 5 Stelle si sono aggregati tra gli applausi di chi l’Italia l’ha distrutta per davvero. Sono riusciti in un’impresa da record: tradire ogni tipo di promessa. Non volevano gli F-35 né l’obbligo vaccinale, ma si sono rimangiati tutto. Persino il Tav Torino-Lione è finito nella spazzatura grillina, con l’aggiunta della farsa parlamentare inscenata per recitare per l’ultima volta la commedia degli oppositori, in realtà allineati ai diktat indiscutibili del loro premier Conte e del solito padrone Grillo.Fondato nel 2009, il Movimento 5 Stelle non ha mai sentito il bisogno – in dieci anni – di confrontarsi in un regolare congresso, per misurare idee e verificare tesi e impostazioni. Ha offerto di sé uno spettacolo indecoroso, particolarmente rassicurante per il grande potere economico: una belante scolaresca al guinzaglio, al posto di quella che, nell’Europa devastata dall’austerity, doveva essere l’avanguardia di un riscatto popolare democratico. Non hanno solo tradito ogni aspettativa: hanno diserbato il terreno dove poteva crescere una protesta seria fino a tradursi in proposta concreta. Sono il giocattolo perfetto per chiunque abbia cattive intenzioni, e quindi interesse a disinnescare il dissenso, convogliandolo verso lidi innocui. Appena è comparso un concorrente – non un eroe omerico, solo il modesto Salvini – l’elettorato ex-grillino ha dato inizio all’emorragia, riconoscendo nel capo della Lega molte delle parole d’ordine del grillismo delle origini, messe in campo però con ben altra coerenza. Non appena Salvini ha accennato a contestare Bruxelles, cioè i dominatori che ci fanno la guerra da decenni, il potere ha prontamente usato i grillini per neutralizzare il potenziale disturbatore.Se si votasse oggi, dicono i sondaggi, i 5 Stelle scenderebbero attorno al 10% dei consensi. Se invece sorreggessero il governo anti-italiano al quale stanno affanosamente lavorando, per loro l’estinzione sarebbe garantita. Ma non importa, perché a questo dovevano servire: a disarmare il paese, mantenendolo debole e vulnerabile, dopo aver abilmente finto di raccogliere le migliore istanze degli italiani. Quello infatti era il pericolo: che avesse uno sbocco politico la rabbia di milioni di italiani, esasperati dalla “democratura” finanziaria gestita dall’establishment neoliberista col supporto dei collaborazionisti domestici. Più che servizievoli, i 5 Stelle hanno gareggiato in zelo con le peggiori maschere del vecchio potere italiano ed eurocratico. E ora eccoli – con Matteo Renzi – a progettare un esecutivo con un’unica missione: sabotare Salvini, cioè l’unico politico che mostri (in modo larvale, almeno) una specie di visione del futuro, avendo chiaro che lo status quo – i “signor no” della Commissione che tagliano i viveri all’Italia – può voler dire solo una cosa, e cioè crisi infinita. Gettata la maschera, contro l’Italia ora combattono a viso aperto anche i grillini, disperatamente avvinghiati ai loro seggi parlamentari: capiscono perfettamente che gli elettori, ferocemente traditi, non li perdoneranno mai.Dopo aver esibito l’intero campionario della peggior politica – la cialtroneria distintiva della Seconda Repubblica fondata sulla fuffa e sull’imbroglio del nuovismo – ora i 5 Stelle (avvinghiati alle poltrone) mettono in mostra anche il peggio della Prima, il trasformismo. Ai parlamentari grillini è severamente vietato cambiare casacca? Niente paura, basta traslocare in blocco l’intero “moVimento”, facendogli fare esattamente il contrario di quanto aveva promesso a quei fessi degli elettori. Persino l’impensabile: andare a nozze con l’odiato Renzi e la sua “banda di pidioti”, quella che avrebbe “distrutto il paese”, stando sempre al soave lessico grillino. In questa corsa cieca e suicida verso l’abisso, deputati e senatori arruolati dal partito-caserma di Grillo e Casaleggio non hanno freni: sono pronti anche a tenere in ostaggio gli italiani, scongiurando le elezioni anticipate e preparandosi a sorreggere un esecutivo “istituzionale” iper-governista, barbaricamente alleato degli euro-killer come Ursula von der Leyen, non a caso giunta alla guida della Commissione Europea con il contributo determinante degli ex rivoluzionari all’amatriciana, eccitati dall’ex comico genovese e “selezionati” via web dalla rinomata piattaforma privata della Casaleggio & Associati.
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Borrelli: che disastro, dopo Mani Pulite (che risparmiò il Pci)
Rispetto di fronte alla morte, ma anche un sereno giudizio (severo, nel caso) su un personaggio pubblico che ha contribuito a sconvolgere la storia del paese. Gianluigi Da Rold si riferisce a Francesco Saverio Borrelli, capo del pool Mani Pulite. Probabilmente, scrive Da Rold sul “Sussidiario”, la popolarità di Mani Pulite è sempre alta. Eppure, rispetto ai risultati ottenuti «con l’abbattimento della Prima Repubblica e l’avvento di altre ipotetiche repubbliche variamente numerate», si nota qualche ripensamento e anche qualche critica. «Quando nel 1992 iniziò Tangentopoli chiudemmo un occhio sulle esagerazioni e gli eccessi, nella certezza che la mannaia avrebbe colpito indistintamente a destra quanto a sinistra», ha detto Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”. «Poi a un certo punto – ha ammesso – ci siamo accorti che alcuni erano stati risparmiati o avevano ricevuto un trattamento di riguardo, creandosi una situazione di disparità francamente imbarazzante: chi in galera e chi al potere». Più impressionante quella sorta di “pentimento” che lo stesso Borrelli consegnò a Marco Damilano, oggi direttore dell’“Espresso”, vent’anni dopo l’esplosione della grande inchiesta: abbiamo combinato un bel guaio, ammise il magistrato.Nel saggio “Eutanasia di un potere”, edito da Laterza nel 2013, Borrelli dice a Damilano: «Se fossi un uomo pubblico di qualche paese asiatico, dove è costume chiedere scusa per i propri sbagli, chiederei scusa per il disastro seguito a Mani pulite». E aggiunge: «Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale». Nel libro citato, annota Da Rold, il pensiero di Borrelli viene riproposto un altro paio di volte, «e probabilmente offre la misura della delusione provata anche dal capo del pool di fronte alla parabola politica che parte con Berlusconi, passa dai comprimari del “nuovismo” di sinistra per poi approdare a “Giggino”, “Dibba” e al “Capitano”». Pesa la pochezza culturale dei nuovi leader, peraltro inaugurata da Berlusconi col suo partito-azienda e seguita a ruota dall’altrettanto personalistico Renzi, fino ad arrivare alla “caserma” pentastellata. Fu comunque Berlusconi – poi vittima a sua volta delle “toghe rosse” – il primo ad approfittare dello tsunami di Tangentopoli: tutti ricordano le dirette non-stop di Emilio Fede, con Paolo Brosio in pianta stabile davanti al palagiustizia milanese, ad applaudire i giustizieri. Il resto è cronaca, lo si sconta da trent’anni ma molti se ne accorgono solo oggi: Mani Pulite sguarnì il Belpaese di fronte all’offensiva dei superpoteri europei – industriali e finanziari – che fecero dell’Italia un sol boccone, dal Trattato di Maastricht in poi.In Borrelli e nel suo vitalissimo e popolarissimo pool – scrive Da Rold – c’era purtroppo «il vecchio spirito inquisitorio che l’Italia non vuole abbandonare». In più «c’era, in quei tempi, un’intesa tra magistratura inquirente e mass media che portò molti giornalisti quasi al “disgusto”, alle dimissioni di fronte a certe carte che passavano da una mano all’altra e a certe rivelazioni clamorose ed esclusive». Il 14 luglio 1994, ricorda Da Rold, sugli schermi televisivi apparvero i Pm del pool per affossare il cosiddetto decreto Conso, che tentava di porre un argine all’improvvisa esuberanza di una magistratura per mezzo secolo s’era ben guardata dal “vedere” gli illeciti amministrativi della politica. «Un simile spettacolo di invadenza giudiziaria nella vita politica non sarebbe immaginabile neppure oggi, nemmeno nella piuttosto sgangherata vecchia Gran Bretagna in preda alla Brexit», scrive Da Rold. Da noi, invece, «naturalmente vinsero i “pm” che avrebbero “pulito” l’Italia». Ma quello che più stupisce, aggiunge l’analista, è l’ipocrisia: tutti sapevano che il finanziamento pubblico ai partiti era stato illecito fin dal 1946. «Dati alla mano, si è dimostrato che tutti i bilanci firmati dai presidenti delle Camere, sin dal 1946, erano falsi e che nessun politico e nessun magistrato aveva mai sollevato obiezioni, tranne poi scatenare la “grande lotta alla corruzione”».Inoltre, aggiunge Da Rold, il “nuovismo” politico si è pure rifiutato di creare su Tangentopoli commissione d’inchiesta – doverosa, almeno da quello che appariva. Ora ci risiamo, con le bufale velenose del Russiagate salviniano? Dato che siamo in tema di “Russopoli”, Da Rold ricorda Stephane Courtois, autore de “Il libro nero del comunismo”, che scrive: «L’assordante silenzio che ha accompagnato in Italia le rivelazioni sulla dimensione criminale di quasi un secolo di comunismo, cioè sugli 85 milioni di morti ammazzati, non è nulla rispetto al silenzio, come dire?, rimbombante che è stato steso su quello che riguardava la ‘question financière’, cioè l’oro di Mosca». Alla vigilia della guerra di Corea, nel 1950 – riassume Da Rold – Stalin dava incarico all’armeno Vagan Grigorian di costituire un fondo per finanziare sistematicamente i partiti comunisti di opposizione in Occidente. Il nome che fu stabilito era questo: “Fondo sindacale di assistenza alle organizzazioni operaie di sinistra”. Cose vecchie? Mica tanto: secondo i calcoli di Courtois, sino alla caduta del Muro di Berlino, il Pci – sotto varie forme – intascò il 25% per cento dei finanziamenti di Mosca «anche dopo Stalin, dopo Kruscev, dopo Breznev e dopo le “ultime mummie” del Cremlino». Totale: mille miliardi di vecchie lire. E i magistrati, Borrelli e colleghi? «Non si è mai capito – conclude Da Rold – perché ancora alla fine degli anni Settanta, e forse anche dopo, il Pci avesse a disposizione sulla Bank of Cyprus di Londra il conto numero 100203939/560. Erano archiviate tutte queste possibili inchieste? Forse Borrelli e i suoi “ragazzi” se ne erano dimenticati».Rispetto di fronte alla morte, ma anche un sereno giudizio (severo, nel caso) su un personaggio pubblico che ha contribuito a sconvolgere la storia del paese. Gianluigi Da Rold si riferisce a Francesco Saverio Borrelli, capo del pool Mani Pulite. Probabilmente, scrive Da Rold sul “Sussidiario”, la popolarità di Mani Pulite è sempre alta. Eppure, rispetto ai risultati ottenuti «con l’abbattimento della Prima Repubblica e l’avvento di altre ipotetiche repubbliche variamente numerate», si nota qualche ripensamento e anche qualche critica. «Quando nel 1992 iniziò Tangentopoli chiudemmo un occhio sulle esagerazioni e gli eccessi, nella certezza che la mannaia avrebbe colpito indistintamente a destra quanto a sinistra», ha detto Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”. «Poi a un certo punto – ha ammesso – ci siamo accorti che alcuni erano stati risparmiati o avevano ricevuto un trattamento di riguardo, creandosi una situazione di disparità francamente imbarazzante: chi in galera e chi al potere». Più impressionante quella sorta di “pentimento” che lo stesso Borrelli consegnò a Marco Damilano, oggi direttore dell’“Espresso”, vent’anni dopo l’esplosione della grande inchiesta: abbiamo combinato un bel guaio, ammise il magistrato.
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Renzi azzoppato, all’élite non serve più. E intorno, il nulla
Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).Il Pd resta primo partito, ma senza più la spinta propulsiva che sembrava farne il perno del vagheggiato “partito della nazione”, formula peraltro davvero ridicola nel momento in cui la “nazione” risulta poco più di una macroregione che deve rispettare i “patti di stabilità” elaborati dai funzionari dell’Unione Europea. Renzi doveva sbaragliare i “populismi” facendo il populista. E ha perso questa partita in modo netto. Si salva momentaneamente solo per l’assenza di un vero progetto politico alternativo. Doveva coagulare intorno al proprio modo di apparire e fare una “fiducia” acritica, empatica, insomma una delega in bianco. Nonostante la sterminata legione di mass media schierati in suo favore non c’è riuscito. Doveva spazzare via ciò che restava del vecchio “riformismo” compromissorio. Ed è l’unico successo che può per ora vantare. Il laboratorio ligure gli consegna una “sinistra” troppo fragile e inconsistente per ambire alla vittoria – neanche uno straccio di programma alternativo – ma sufficentemente radicata da farlo perdere.Da quella parte non possono arrivare veri pericoli, perché il personale politico che esprime porta il marchio di infamia di centomila scelte di “austerità”, cancellazione dei diritti (pacchetto Treu, tre riforme delle pensioni – da Dini a Fornero, ecc), corruzione. Al contrario, può esser perfino utile per impedire l’emersione di una soggettività politica indipendente e radicale. Ma Renzi non convince più. E ora i suoi autori devono scegliere: insistiamo su un cavallo zoppo, incapace di creare una nuova “classe politica” minimamente credibile, oppure cambiamo cavallo e discorso dominante? Non c’è fretta, dal loro punto di vista. La botta è dura, ma si può tirare avanti qualche mese mettendo il ronzino al passo, usando questo tempo per costruire figure nuove. Ma cambiare discorso pubblico è più complicato. Quel mix tra “nuovismo senza motivazioni”, rapidità decisionista, battute in dialetto, ammiccamenti e tweet, sembrava davvero una mossa vincente e duratura. Bisognerà inventarsene un altro. I “creativi” vengono pagati per questo…A livello parlamentare non c’è problema. La massa di nominati è tale da non porre dubbi sulla composizione di una maggioranza purchessia. Anzi, la battuta d’arresto del guitto di Pontassieve può compattare ulteriormente una banda di mercenari che vede a questo punto la scadenza della legislatura come la fine delle vacche grasse e il ritorno al grigio lavoro. Ma la faglia tra “politica istituzionale” e soggetti sociali si va allargando a dismisura. Quell’astensionismo che è stato persino incoraggiato, negli ultimi anni, non contiene più soltanto la neutralità indifferente di chi si estranea dal contendere politico. Nasconde ormai un “mugugno” collettivo, potente, incontrollato, che è in cerca di espressione. Su questo fronte si gioca la partita per il cambiamento radicale. Ma non è una partita adatta per chi soffre di “braccino corto”, autoreferenziale, atrofizzato. Serve il cambio di passo, prima possibile.(Alessandro Avvisato, “Nemmeno Renzi convince più”, da “Contropiano” del 1° giugno 2015).Anche questo meccanismo si è rotto. E ora chi “ha messo lì” Renzi e il suo staff di grembiulini creativi starà interrogandosi se vale la pena di insistere su un cavallo che ha portato a casa, sì, numerosi risultati reazionari (Jobs Act, Italicum, abolizione del bicameralismo, distruzione scuola pubblica, emarginazione dei sindacati, ecc), ma appare incapace di costruire un vero consenso attorno alle politiche dettate dalla Troika. La macchina da corsa trionfante un anno fa alle europee è diventata un carrozzone ansimante, che perde visibilmente olio e pezzi. La pensata degli 80 euro non ha avuto eredi. Il Tfr in busta paga, che doveva replicare quel successo di pubblico, si è rivelato un flop assoluto. Il trucco “ti dò più soldi subito, me li riprendo con gli interessi un po’ alla volta” è stato capito e bocciato da oltre metà della popolazione. Ovvero da quelli che a votare non ci sono proprio andati (solo il 53% e spiccioli ha infilato la scheda nell’urna) più quelli che hanno espresso un voto “contro” (per Salvini o per Grillo).
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Finalmente elezioni a risultato immediato, han votato in 36
Forse è questo che intende Matteo Renzi quando dice che sogna un paese dove la sera stessa delle elezioni si possa sapere chi ha vinto e chi ha perso. Giusto. Bello. Basterebbe che votassero in trentasei: poche schede da contare, percentuali presto fatte, seggi assegnati e seccatura archiviata. Rito antico e democratico, novecentesco, polveroso, retorico, che noia, che vecchiume. Perché poi, di tutte le spiegazioni, le sottili analisi, le elaborate elucubrazioni di questi giorni sul clamoroso astensionismo (soprattutto in Emilia) se ne dimentica una che non è un dettaglio: il valore del voto degli italiani è piuttosto in ribasso. La riforma delle Province, di cui si parla da quando Matteo faceva il boy scout, si è tradotta in una semplice abrogazione del voto. Cioè, le Province sono ancora lì, con i loro presidenti e i loro consiglieri, ma nominati (anche in seguito a vergognosi accordi tra partiti) e non più eletti. Al Senato peggio mi sento: anche lì resteranno gli scranni, il mirabile palazzo, i senatori che potranno legiferare persino sui temi etici (in soldoni: la vita e la morte), ma non ce li manderà l’elettore italiano. Saranno nominati anche loro, su base regionale. Ecco.Assistiamo dunque allo spettacolo d’arte varia di gente – commentatori politici, corsivisti, esponenti di questa o quella corrente – che si rammarica per l’astensionismo dopo aver applaudito sonoramente due riforme che toglievano il diritto di voto agli italiani per istituzioni fondamentali. Si aggiunga che senatori e consiglieri provinciali verranno nominati proprio dalle Regioni (e dai sindaci), dunque avremo, per dire, un Senato nominato da consigli regionali eletti da un’esigua minoranza di cittadini. Siccome la cultura politica da queste parti somiglia a quella calcistica, il giovane premier ha fatto notare che l’importate è la vittoria. Al novantesimo, con gol di mano, in fuorigioco, con due avversari a terra, ma che importa, conta vincere. E dunque l’astensione è diventata un problema “secondario”. Sarà. Resta il fatto che l’aria è un po’ cambiata. Qualcuno ricorderà (ok, va bene il paese senza memoria, ma sono passati solo sei mesi!) il garrulo entusiasmo con cui Renzi e il renzismo vennero accolti dal paese. Primarie affollate, urne piene alle europee, il mitico 41% ripetuto come un mantra ad ogni uscita pubblica dei giannizzeri del re.Un paese ipnotizzato e innamorato, ansioso di vedere la realizzazione delle sorti luminose e progressive che si promettevano ad ogni passo. Ora, quell’entusiasmo sembra in fase calante. Faremo questo in febbraio, questo in marzo, questo in aprile. Poi passano febbraio, marzo, aprile e tutti gli altri mesi del calendario, e non si vede granché, e soprattutto quel che si vede non piace. Sarebbe questo, tutto il nuovo che si diceva? Mah. Fosse ancora vivo, quell’entusiasmo della prima ora, alle urne ci si sarebbero precipitati, emiliani e calabresi. E invece no. In più, dopo aver discettato per mesi su renziani della prima e della seconda ora, ecco spuntare un nuovo soggetto, che sarebbe l’anti-renziano della seconda ora. Quello diventato più critico, quello che così come ha dato credito ora se lo riprende, o lo congela, che frena gli entusiasmi. Comunque sia, è vero: settecentomila voti che se ne vanno su un milione e duecentomila potrebbero essere un problema secondario, ma solo se avranno voglia di tornare. Se invece se ne staranno fuori, a guardare, sconsolati e orfani, il problemino potrebbe diventare primario.(Alessandro Robecchi, “Finalmente elezioni a risultato immediato, hanno votato in 36”, da “Micromega” del 27 novembre 2014).Forse è questo che intende Matteo Renzi quando dice che sogna un paese dove la sera stessa delle elezioni si possa sapere chi ha vinto e chi ha perso. Giusto. Bello. Basterebbe che votassero in trentasei: poche schede da contare, percentuali presto fatte, seggi assegnati e seccatura archiviata. Rito antico e democratico, novecentesco, polveroso, retorico, che noia, che vecchiume. Perché poi, di tutte le spiegazioni, le sottili analisi, le elaborate elucubrazioni di questi giorni sul clamoroso astensionismo (soprattutto in Emilia) se ne dimentica una che non è un dettaglio: il valore del voto degli italiani è piuttosto in ribasso. La riforma delle Province, di cui si parla da quando Matteo faceva il boy scout, si è tradotta in una semplice abrogazione del voto. Cioè, le Province sono ancora lì, con i loro presidenti e i loro consiglieri, ma nominati (anche in seguito a vergognosi accordi tra partiti) e non più eletti. Al Senato peggio mi sento: anche lì resteranno gli scranni, il mirabile palazzo, i senatori che potranno legiferare persino sui temi etici (in soldoni: la vita e la morte), ma non ce li manderà l’elettore italiano. Saranno nominati anche loro, su base regionale. Ecco.