Archivio del Tag ‘oligopolio’
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Ecco i nomi dei massoni golpisti che hanno creato la crisi
Puoi chiamarli neoliberisti. Monopolisti. Privatizzatori. C’è chi li ha definiti, anche, golpisti bianchi. Ma sono essenzialmente massoni. Attenzione: le obbedienze nazionali non c’entrano. Si tratta di supermassoni in quota alle Ur-Lodes, le oscure superlogge sovranazionali. Precisamente: quelle di segno neo-aristocratico, che detestano la democrazia e confiscano il potere dei cittadini, rimettendolo nelle mani di un’élite pre-moderna, pre-sindacale, ultra-padronale. E’ così che hanno costruito il nuovo medioevo in cui viviamo, il neo-feudalesimo regolato dall’Ue e dalla sua Commissione di non-eletti. Giochi di specchi: laddove si parla di finanza e geopolitica, citando banche centrali e governi, si omette sempre di scoprire chi c’è dietro. Sempre gli stessi, sempre loro: un club ristrettissimo di padreterni, di “contro-iniziati” che si credono onnipotenti e autorizzati, come per diritto divino, a manipolare in eterno il popolo bue, ridotto a bestiame umano. Lo ricorda Patrizia Scanu, segretaria del Movimento Roosevelt, sodalizio fondato dal massone progressista Gioele Magaldi proprio con l’intento di smascherare l’attuale governance europea finto-democratica, dopo la clamorosa denuncia contenuta nel saggio “Massoni”, edito nel 2014 da Chiarelettere. Una rivelazione: dietro ai principali tornanti della nostra storia recente ci sono sempre gli stessi personaggi, i medesimi circoli occulti: grazie a loro, in fondo, poi in Italia crollano anche i viadotti autostradali.
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Occhio ai “custodi” della democrazia non eletti da nessuno
Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».Salvini e Orbán, nondimeno, hanno dato ennesima sintesi alla loro polemica sull’Europa, incarnandola in un “barbaro” da combattere, anzi da espellere: si tratta del supermassone neo-aristocratico George Soros, finanziere di origine ungherese, noto fra l’altro per il devastante attacco speculativo alla lira italiana del 1992. E’ lui, scrive Berti, ad apparire un attendibile “cosmocrate” dei nostri tempi: un europeo trapiantato a Wall Street per lanciare dalla trincea americana la “guerra mondiale” della globalizzazione finanziaria, «quella che avrebbe brutalmente sostituito – principalmente in Europa – la politica con la tecnocrazia, finendo con l’assegnare all’oligopolio bancario apolide (travestito da “libero mercato”) le leve ultime sui destini degli ex Stati nazionali». Gestore di mega-hedge fund, nonché filosofo e mecenate di fondazioni politico-culturali mondialuste, rivestirebbe dunque con speciale verosimiglianza i panni del “dittatore” contemporaneo: il Grande Fratello di un capitalismo finanziario globalizzato «che non avrebbe più bisogno, come cent’anni fa, di un Hitler o di un Mussolini», dal momento che gli bastano un Obama truccato da progressista e l’ideologia politically correct «per preservare la propria egemonia dopo “l’incidente” del 2008 sui mercati finanziari».Chi è il vero barbaro? E chi può dare veramente del “barbaro” a chi? «Nell’Italia, nell’Europa, negli Usa del 2018 – scrive Berti – il solo porre la questione offre ormai il fianco ad accuse di connivenza con la “barbarie”». Ma la questione sostanziale, aggiunge l’analista, è questa: se il richiamo al primo dopoguerra mondiale è lecito, il rischio massimo risiede nel rifiuto di affrontare i nodi reali posti dalla storia. «Esattamente cent’anni fa l’Europa – dopo che tutti i contendenti continentali avevano più o meno perso la guerra – perse anche la pace, e in molti paesi la libertà, preparando un nuovo e più distruttivo conflitto. Questo – aggiunge Berti – avvenne perché governi ed establishment nazionali gestirono con categorie ottocentesche il dopoguerra, che segnava invece l’inizio del Novecento: sia all’interno dei sistemi-paese che nelle relazioni internazionali». Solo gli Stati Uniti, rileva l’analista, riuscirono ad attraversare il vero momento di passaggio, cioè la Grande Depressione del 1929, «senza stravolgere il loro sistema, e ridisegnando un archetipo di successo della democrazia mista di mercato».Il cambio di paradigma politico-economico del New Deal, sottolinea sempre Berti nella sua analisi, fu comunque drastico almeno quanto brutale fu la Grande Recessione: e sarebbe interessante rivedere chi, in quegli anni, dava del “barbaro” a chi, in America (al Congresso, sui media e nelle università). «Quarant’anni dopo, comunque, il paradigma fu di nuovo rovesciato su scala globale dal thatcherismo-reaganismo: e molti difensori odierni del “legittimismo democratico-liberista” erano fra i supporter del “sano sovversivismo” portato dalla nascente finanza di mercato (l’etichetta mediatica “barbarian at the gates” fu coniata in occasione dell’Opa Nabisco, il primo assalto riuscito da parte di hedge fund e junk bond all’industria tradizionale, alla fine degli anni Ottanta)». E’ in quella transizione “magnifica e progressiva”, continua Berti, che, fra l’altro, tre piccole agenzie private si affermano come decisori sovranazionali del rating, del merito finanziario di chiunque sul pianeta. «Dieci anni dopo il crack Lehman – il suo più clamoroso fallimento tecnico-politico – il rating detta ancora letteralmente legge: i voti delle tre agenzie di Wall Street, le stesse di allora, rimangono parte integrante della regolamentazione bancaria nell’Eurozona». Ma sono sempre più numerosi coloro che, per usare la terminologia di Cassese, denunciano come “mercato illiberale” quello creato dalla globalizzazione e oggi tenacemente difeso dai istituzioni finanziarie “too big” per essere controllabili dalle democrazie.«Roosevelt, il salvatore dell’Europa democratica – ricorda Berti – è stato l’unico presidente Usa ad essere stato eletto quattro volte: una “dittatura democratica” lunga 13 anni, successivamente vietata dalla legge». Gli succedette Eisenhower, che da militare aveva condotto la guerra di liberazione in Europa, e da presidente «governò con la guerra fredda e il terrore nucleare, tollerando inizialmente una “caccia alle streghe” nella politica interna». Kennedy? «Fu assassinato perché lottava per i diritti civili e l’integrazione razziale, ma aveva deciso anche la guerra in Vietnam». La “democrazia (sociale) di mercato” non è mai stata un “tipo ideale” neppure in quella che è considerata la sua patria, dice Berti. «E se deve guardarsi da scivolamenti e corruzioni non può neppure trasformarsi in ideologia né essere tutelata nella presunta ortodossia da custodi autonominati, né divenire arma di scontro politico». Ineccepibile, il ministro degli esteri Enzo Moavero Milanesi, nel ricordare – al meeting di Rimini – che l’Italia deve rispettare lo “Stato di diritto europeo”, partecipando al bilancio Ue. Gli fa eco il ministro dell’economia Giovanni Tria, sul rispetto dei parametri Ue per l’adesione all’Eurozona. Ma, aggiunge Berti, «non ha torto neppure chi sostiene che – proprio in democrazia – ogni norma è riformabile, anzi: è fatta per essere riformata. E non può essere imposto, dogmaticamente, un coefficiente numerico fissato un quarto di secolo prima». Il rapporto al 3% fra deficit e Pil? «Non è equivalente al 51% del principio democratico universale scolpito ad Atene 2.500 anni fa». Conmclude Berti: «La democrazia, fortunatamente, è antichissima. E, come sosteneva il “dittatore” britannico Winston Churchill, resta “il peggiore sistema politico, salvo tutti gli altri”».Dopo il summit Salvini-Orbán (e gli scontri etnici in Germania), Paolo Mieli ha ripetuto sul “Corriere della Sera” che i partiti populisti a caccia di leadership definitiva in Europa sono nulla più che sovversivi «barbari alle porte». Sulle stesse colonne, Sabino Cassese continua a vedere la coalizione di governo italiana come uno scivolo verso la «democrazia illiberale». L’immagine di fondo, cioè la sintesi storico-politica degli argomenti, rimanda puntualmente agli anni Venti e Trenta del secolo scorso in Italia, Germania, Ungheria e Austria, scrive Nicola Berti sul “Sussidiario”. La dittatura (“fascista” e prodromica alla guerra) è sempre in agguato, e si può fare strada senza difficoltà anche fra le urne: ogni suo simulacro più o meno presunto va quindi respinto e combattuto in via pregiudiziale, assoluta, dalla “democrazia legittima”. «E’ lo stesso atteggiamento dei politici, intellettuali e media Usa che da due anni osteggiano “a prescindere” la presidenza di Donald Trump», osserva Berti: l’establishment la dipinge infatti «come un incidente della storia, un pericolo mortale per la democrazia americana», un “mostro” «da annientare al più presto con ogni mezzo (a cominciare dalla via giudiziaria, rispolverando esplicitamente il modello italiano di Mani Pulite)».
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Sapelli: patriottismo laburista anti-Merkel, con l’aiuto Usa
«E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».Sapelli spera che – facendo leva sull’alleato americano, l’Italia possa comunque conservare «una sorta di limitata autonomia nei rapporti con la Russia al di là delle attuali, transitorie posizioni americane». Questo permetterebbe a Roma di reinterpretare la politica estera italiana già espressa durante la guerra fredda, «anche nei momenti più bui come la Guerra del Vietnam e il conflitto tra Israele e le organizzazioni palestinesi, e come si sta oggi verificando con la posizione degli Usa su Gerusalemme». Tradotto: l’Italia come attore mediterraneo, in grado di attutire i colpi e mediare tra le diverse posizioni. Nonostante le apparenze, osserva Sapelli, il momento potrebbe essere propizio: infatti, «non vi è mai stato un punto di flessione così acuto nelle relazioni tra Usa e Germania» come quello che si sta verificando in questi mesi, «a partire dal “diesel gate” per finire con il confronto sui dazi e e sul commercio estero in corso a livello mondiale». Per l’economista, «l’Italia può e deve dire la sua con due esponenti di spicco come Savona e Moavero Milanesi proprio sui temi che interessano in primo luogo i tedeschi e i francesi». In altre parole, «Roma deve parlare a voce chiara e distinta con la cancelliera Merkel e la figura oggi più importante della politica tedesca: il ministro degli interni Horst Seehofer, capo storico della Csu».La posta in palio è altissima: «Rinegoziare il Fiscal Compact, che non è nei trattati ma nei regolamenti». Per Sapelli «è possibile e si deve farlo subito, iniziando con contatti continui con Germania e Francia». Le ragioni, spiega, sono evidenti: «Nessun punto del programma “socialdemocratico” del governo Conte può reggersi con i vincoli di bilancio eurocratici esistenti, che debbono essere superati per creare crescita». L’elenco è pesante: eliminazione della legge Fornero, reddito di cittadinanza imperniato sull’agenzia del lavoro per far incontrare domanda e offerta e sulla qualificazione dei precari e dei disoccupati con offerte di lavoro non rifiutabili, riformulazione del carico fiscale con Flat Tax per le imprese e mantenimento della progressività dell’imposta sui redditi da lavoro. Sarà una lotta contro il tempo, sfoderando l’arte della mediazione: «La crescita può essere garantita, come ha affermato da sempre Pierluigi Ciocca, solo da una ripresa degli investimenti pubblici e privati, dall’edilizia alle nuove tecnologie. Non bisogna aver paura del progresso tecnico: è solo da esso che verrà l’occupazione sana, fondata sull’aumento dello stock di capitale e sulla ripresa della domanda interna, non dall’helicopter money e da vergognosi sgravi fiscali a pioggia». Inutile, aggiunge Sapelli, confidare solo nell’export, che alla lunga «ci uccide, noi e l’Europa».E’ questo, ribadisce l’economista, l’asse di intervento che ci consentirebbe di sopportare un aumento del debito «come hanno fatto sempre Francia, Germania e Spagna nei momenti di flessione del ciclo, senza preoccupare l’oligopolio finanziario internazionale», il quale peraltro «ha già ha dimostrato di apprezzare positivamente più la stabilità politica dell’austerity, che è ormai vista come un peste anche dalle cuspidi finanziarie che sanno che la deflazione è la morte dei profitti». Così, conclude Sapelli, «si potrà costruire una rete di alleanze per superare il Trattato di Dublino e instaurare una politica dell’accoglienza dei migranti fondata sempre sulla misericordia ma nel contempo sull’assunzione, anzi, la riassunzione da parte dello Stato (e nello Stato) delle politiche di sostenibilità migratoria». E’ questo l’atteggiamento che Sapelli chiama “patriottismo laburista”. Buono e giusto: «Può unire e non dividere le due anime del governo, ferme restando le differenze strutturali nella meccanica dei partiti e dei movimenti».«E’ bene dire sin da subito che l’unica speranza di sopravvivenza che questo governo possiede è quella di impugnare sin dall’inizio la bandiera di ciò che potremmo chiamare un “patriottismo laburista”». Parola di Giulio Sapelli, autorevole economista di formazione keynesiana. L’idea? Adottare la “mossa del cavallo” per agire sui due fronti, interno e internazionale, «provocando quella dissonanza cognitiva che ti fa vincere ogni partita di scacchi e quindi anche ogni battaglia politica». Per Sapelli, che affida la sua analisi al “Sussidiario”, il nuovo governo «sin da subito deve iniziare la negoziazione dei trattati europei». La Francia, del resto, si è già fatta avanti con la telefonata di Macron a Conte. «Una mossa anti-tedesca», anche se non bisogna farsi illusioni, dato che Parigi «ha mire annessionistiche sull’Italia in campo economico, come dimostra la storia recente e recentissima». Ma il governo Conte, sostiene Sapelli, ha un alleato prezioso contro l’austerity teutonica dell’ordoliberalismo: «Gli Usa prima di tutto, non lo si dimentichi mai. L’Alleanza atlantica è l’architrave della politica italiana e deve rimanerlo, agendo con intelligenza, come sempre storicamente si è fatto».
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L’opulenta macchina del fango di parassiti senza vergogna
Per una volta mi sforzerò di scrivere un articolo più breve in risposta ad una macchina del fango infinitamente più potente rispetto alla mia “penna”; breve, ma che esprime sincera solidarietà al professor Conte e soprattutto a M5S e Lega. Conte, diciamolo immediatamente, è a tutti gli effetti un politico, in quanto presentato da Di Maio come membro di quella potenziale squadra di governo che successivamente è stata votata dai cittadini il 4 marzo: una legittimazione più che sufficiente. Dalle mie parti usiamo dire “come la fai, la sbagli”: state certi, e lo dico pure col cuore, mettendo da parte un attimo quella “asettica professionalità” che un opinionista dovrebbe tenere, che chiunque Salvini e Di Maio avessero proposto come presidente del Consiglio (che non è un capo ma un “primo tra pari” perché non è un premier) non sarebbe andato bene a questa popò di servitù chiamata “stampa”, notoriamente mantenuta a cascata dall’“euromungitura”. Non solo! Conte non è un tecnico perché i tecnici sono legati a quei poteri forti che stanno operando per non vederlo in sella. Eppure il vero obbiettivo di questa campagna reazionaria ed oligarchica è Paolo Savona…L’economista è temuto per le proprie posizioni economiche, posizioni che non sono “euroscettiche”, come riferito erroneamente dalla combriccola dell’Ancien Régime (cui dobbiamo dire grazie per 40 anni di corruzione, macelleria sociale, parassitismo ed alto tradimento), bensì pro-italiani. E’ uomo di potere, certo, non è una novità politica; ma ben vengano figure di questo livello, rimaste indipendenti di fronte alle lusinghe del sistema finanziario internazionale (che ha in mano la nostra informazione), personalità che possano “dare del tu” e ricevere rispetto da Merkel e Macron. Come scrissi nel saggio che presentai alla Camera nel 2016 (collaborando con l’ex deputato 5S Massimiliano Bernini e con la deputata Ciprini), la stampa da “cane da guardia della democrazia” si è trasformata nel “dobermann del potere” (e forse non è casuale che il dobermann sia una razza tedesca). I media tuttavia stanno sottovalutando un fattore: non sempre i manipolatori delle emozioni umane vincono la partita. Sono certo che Lega e 5S abbiano accusato un contraccolpo in termini di consenso, in questi giorni; eppure allo stesso tempo spero che ai cittadini interessi altro: una ingente riduzione della pressione fiscale anche alla luce della tipologia di paese in cui viviamo(!); l’espulsione di tutti coloro, non profughi, che sono giunti e vogliono giungere in Italia senza un permesso di soggiorno, senza un contratto di lavoro “in tasca”; una reale flexicurity (flessibilità nei contratti unita a diritti sociali universali come il salario orario e il Reddito Minimo Garantito di Cittadinanza); il collocamento di una bella pietra tombale su corruzione, parassitismo e rendite speculativo-finanziarie, un salasso per il nostro paese.Pd e Silvio Berlusconi (Responsabili sì, ma del declino italiano!) non concederebbero mai riforme degne di questo nome; molto meglio per loro un paese di cittadini in difficoltà, perciò in svendita. Il “governo del cambiamento”, ricordo a lor signori, non ha mai parlato di “uscita dall’euro” (quanto mai opportuna) bensì di trattativa nell’interesse del nostro popolo, di rispetto della centralità della Costituzione: ciò significa centralità del nostro benessere. Gli altri paesi trattano e ottengono; all’Italia è vietato farlo perché chi ha preceduto il “governo del cambiamento” ha abituato i “partner” dell’Eurozona (in realtà competitors che non regalano niente) a una totale sottomissione, in cambio di quelle prebende personali che piovono dalla macchina finanziaria ad essi connessa. Il tutto mentre il cittadino è privato anche della dignità col combinato disposto “tasse, disoccupazione e assenza di diritti sociali universali”. L’ Articolo 1 è l’articolo fondamentale della Costituzione italiana; nel momento in cui venga dimostrato che qualche accordo internazionale generi perdita di posti lavoro (su cui siamo fondati), o/e macelleria sociale, è automaticamente anticostituzionale, si pone fuori dallo Stato di diritto e va ridiscusso finché non risulti coerente con la Carta, finché non si dimostri conveniente per gli interessi nazionali.Chi governa ha quindi l’obbligo istituzionale (non ha scelta) di aprire un tavolo con le altre nazioni; eppure questa prospettiva è ciò che soggetti multinazionali ed esteri non vogliono accada. L’articolo 1 recita che “la sovranità appartiene al popolo”, quindi essa non può emigrare e si esercita con il voto democratico, ergo non è possibile imporre “un Cottarelli” nel momento in cui la maggioranza del paese (5S e Lega) indichi un altro nome. La verità celata ai cittadini è che l’Italia, rispetto al proprio Pil, ha un livello di debito estero (peraltro generato proprio dalla moneta unica, a causa del rapporto-truffa di cui abbiamo GIA’ DETTO QUI già detto qui) più o meno pari a quello tedesco (vedi il “Sole 24 Ore”): per il resto è indebitata verso se stessa!!! Questo, unitamente alla solidità delle partite correnti, dovrebbe essere il criterio cui dovrebbero riferirsi (quando parlano di noi o di qualsiasi nazione al mondo) Fmi, Ue, Ue-M e i grandi giornalisti italiani e stranieri. Il famoso aumento dell’Iva, tanto desiderato dai parassiti cui dedico questo articolo, non serve nemmeno per idea a rendere sostenibili i conti pubblici, ma semmai a peggiorarli; genera un meccanismo (noto a tutti nell’ambiente economico) che, a cascata, trasferisce risorse dall’Italia a quelle banche private tedesche che devono essere salvate; e con esse emigra anche l’occupazione.Le cosiddette sinistre (italiane ed europee), i radicali, il noto possessore di grosse SpA e tutti i quotidiani (nessuno escluso, e domandatevi perché!) hanno dimostrato di essere pronti ad anteporre a milioni di cittadini i loro interessi privatistici (quando non addirittura aziendali) pur di portarci in un mondo globalista il quale, in nome di una finanza ordoliberista e di promesse fantasiose, renderebbe gli esseri umani pari a numerini privi di spinta individuale e creativa (privati della libertà). Concludo con una critica. In questa fase, se si vuole bene al proprio paese, di fronte a questo macello mediatico si ha l’onesto obbligo di rimanere compatti e non ci si presta alla strumentalizzazione, non ci si riposiziona politicamente (conosco i miei polli e ho sempre disprezzato l’opportunismo fino a non partecipare più alla politica attiva) anche se farlo, un domani, a qualcuno, potrebbe fare comodo. Soprattutto quando si ha ben chiaro che i nemici del popolo italiano non sono i leghisti ma ben altri…(Marco Giannini, “L’opulenta macchina del fango di parassiti senza vergogna”, pubblicato su “Libreidee” il 24 maggio 2018. Già attivista del Movimento 5 Stelle, Giannini è autore del saggio “Il neoliberismo che sterminò la mia generazione”, sottotitolo “Corso di sopravvivenza per chi non sa niente di economia”, edito da Andromeda nel 2015, presentato anche alla Camera. Nel gennaio 2017 Giannini si è distanziato dal movimento fondato da Grillo dopo la tentata adesione del M5S al gruppo ultra-europeista dell’Alde in seno al Parlamento Europeo).Per una volta mi sforzerò di scrivere un articolo più breve in risposta ad una macchina del fango infinitamente più potente rispetto alla mia “penna”; breve, ma che esprime sincera solidarietà al professor Conte e soprattutto a M5S e Lega. Conte, diciamolo immediatamente, è a tutti gli effetti un politico, in quanto presentato da Di Maio come membro di quella potenziale squadra di governo che successivamente è stata votata dai cittadini il 4 marzo: una legittimazione più che sufficiente. Dalle mie parti usiamo dire “come la fai, la sbagli”: state certi, e lo dico pure col cuore, mettendo da parte un attimo quella “asettica professionalità” che un opinionista dovrebbe tenere, che chiunque Salvini e Di Maio avessero proposto come presidente del Consiglio (che non è un capo ma un “primo tra pari” perché non è un premier) non sarebbe andato bene a questa popò di servitù chiamata “stampa”, notoriamente mantenuta a cascata dall’“euromungitura”. Non solo! Conte non è un tecnico perché i tecnici sono legati a quei poteri forti che stanno operando per non vederlo in sella. Eppure il vero obbiettivo di questa campagna reazionaria ed oligarchica è Paolo Savona…
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Mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce ci mangia le banche
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.
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Democrazia sovrana, il fantasma che spaventa questi partiti
Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.La piramide tecnocratica chiamata Unione Europea è solo l’interfaccia del sommo potere economico, che non ha altra bandiera che quella del denaro. Operazione ormai messa in chiaro: “Lotta di classe dei ricchi contro i poveri”, la chiamava il sociologo Luciano Gallino. Immenso trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, mai visto dall’avvento della modernità industriale. Neo-feudalesimo, al posto della democrazia ormai svuotata: lo Stato non ha più sovranità, è costretto a eseguire ordini. Per cosa votare, allora? Punti di vista. Nel famoso referendum del 4 dicembre si votò contro Renzi in modo ipocrita, dichiarando ufficialmente di voler difendere la Costituzione così com’era, cioè già irrimediabilmente lesionata dall’inserimento di un obbligo aberrante, quello del pareggio di bilancio. Una norma-killer, che equivale alla morte clinica dello Stato come comunità politica sovrana: se non posso più decidere come investire sulla società e sull’economia, dove finisce la mia teorica democrazia? Si riduce, come avviene oggi, allo spettacolo di estenuanti trattative attorno al nulla: alleanze “impossibili”, oppure l’ennesimo governo sottomesso “all’Europa”. All’orizzonte resta il mesto ritorno alle urne, con partiti che (tranne la Lega e Fratelli d’Italia) hanno tutti accuratamente evitato – prima, durante e dopo – di affrontare il vero, grande problema da cui discende la crisi italiana: cioè il vincolo capitale di Bruxelles, che impedisce agli elettori di decidere davvero del loro futuro.Destra e sinistra? Parole che avevano un senso nel ‘900, cioè in regime di relativa sovranità. Storicamente, di fronte a un’emergenza democratica, le estreme si alleano: in Italia accadde sotto l’occupazione nazifascista e, subito dopo, al momento di scrivere (insieme) la Costituzione. Poi, per mezzo secolo e oltre, destra e sinistra si sono confrontate apertamente. Oggi sono praticamente scomparse. Nella cosiddetta Seconda Repubblica, un’élite residuale della ex sinistra ha assunto il comando – non in proprio, ma per conto dei signori di Bruxelles – applicando alla lettera ogni diktat della destra economica privatizzatrice. Prodromi: il funesto divorzio fra Tesoro e Bankitalia, già negli anni ‘80 (all’origine dell’esplosione artificiosa del debito pubblico) e la drammatica rottamazione dell’Iri, che ha lesionato il sistema industriale italiano su input franco-tedesco. Andreatta, Ciampi, Prodi. E poi Amato e Visco, Bassanini e D’Alema, Padoa Schioppa. Una parabola infelice e rovinosa, conclusa con il crollo del grottesco Pd renziano, consegnatosi alla post-politica terzista, apparente protagonismo personalistico al servizio delle lobby.Dalla destra elettorale, messa all’angolo dalla “filiera del rigore” inagurata da Monti e proseguita con Letta, Renzi e Gentiloni, viene la nuova Lega di Salvini, alleata con Fratelli d’Italia nel mettere a fuoco l’identità del vero avversario, il potere che manovra la tecnocrazia di Bruxelles. Ma Salvini e Meloni, costretti per ragioni tattiche nella coalizione di centrodestra, si sono votati alla rinuncia: sapevano fin dall’inizio che il loro partner ingombrante, Berlusconi, non li avrebbe seguiti nella battaglia per difendere l’Italia dall’Ue. Peggio ancora l’ambiguo Movimento 5 Stelle, che ha saltato l’ostacolo Bruxelles evitando di parlarne: ha fatto il pieno di voti promettendo il reddito di cittadinanza (senza spiegare come finanziarlo) dopo aver mandato Di Maio nei santuari della finanza, per rassicurare i nemici dell’Italia: con lui al governo, le regole-capestro non sarebbero cambiate. L’aspirante premier venuto dal nulla oggi parla di “contratti”, come se le alleanze fossero merce in saldo. E affida a un oscuro docente universitario lo studio dei programmi dei vari partiti, per verificare possibili aree di convergenza.Sul piano estetico, la sensazione è devastante: là dove servirebbe la politica, si affollano maggiordomi e funzionari. Gli elettori di Di Maio saranno felici si scoprire che le sorti del prossimo governo italiano potrebbero dipendere dal professor Giacinto Della Cananea, ordinario di diritto amministrativo a Tor Vergata e allievo di Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale. Come se Di Maio, per il suo “contratto”, dovesse ricorrere all’inarrivabile sapienza di un super-consulente, un tecnocrate di rango. L’agenda politica, nel frattempo, resta in bianco: con Salvini o il Pd è uguale, l’importante è arrivare a Palazzo Chigi (o almeno, fingere di volerci arrivare). Se qualcuno voleva che gli elettori italiani si spazientissero, concludendo che le elezioni del 4 marzo sono state perfettamente inutili, ci sta riuscendo. La situazione non è solo bloccata dai veti incrociati: non esiste proprio orizzonte diverso da quello degli ultimi anni, in cui il paese è precipitato in una crisi che non ha eguali, dal dopoguerra. Le lingue sono tagliate, non dicono la verità: alle varie incarnazioni del demonio di comodo – Berlusconi, Renzi – si sono opposti esorcisti altrettanto improbabili, pronti a maneggiare qualsiasi slogan tranne quelli che servirebbero. Va bene tutto, persino la guerricciola contro i famigerati vitalizi, pur di non evocare lo spettro di cui tutti hanno paura: quello della sovranità democratica.Si fa presto a dire destra, così come a dire sinistra. Dopo cotanta campagna elettorale, l’Italia rischia di avere l’ennesimo governicchio incolore, magari “istituzionale”? Rischia di ritrovarsi a Palazzo Chigi qualcuno che non sia scelto né da Salvini né da Berlusconi, cioè i due alfieri della coalizione che ha vinto le elezioni? In molti, dopo il 4 marzo, hanno tifato per l’alleanza “impossibile” tra i due giovani portavoce del rinnovamento invocato dal 55% degli elettori. In tanti hanno incoraggiato il leader della Lega e il candidato dei 5 Stelle, come se davvero Salvini e Di Maio volessero (o potessero) cambiare qualcosa, nella “palude” italiana gestita sottobanco da un’oligarchia anfibia che lavora per conto terzi. E’ una casta fantasma, vassalla dell’élite privatistica internazionale – industriale, bancaria – che cura i propri affari fingendo di amministrare l’Europa tramite i suoi uomini, piazzati alla Bce e alla Commissione Europea. Una “spectre” efficientissima, che dispone di terminali in tutti i ministeri che contano, nelle banche centrali, nei think-tanks che dettano le regole del grande business oligopolistico, poi regolarmente tradotte in direttive europee. Dogmi inviolabili e nuove teologie come quella neoliberista: rigore per tutti, tranne che per l’élite finanziaria globalista e mercantilista.
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Magaldi: Di Maio, i barbagianni e l’utopia del diritto al lavoro
Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.«Giorno per giorno, le cose si sono complicate», premette Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. «C’è stato un deterioramento dei toni e un innalzamento delle antipatie, una sottolineatura delle cose che dividono anziché di quelle che possono unire». Serpeggia un pericolo: «Non vorrei che l’ipotesi di un governo con 5 Stelle, Pd e “Leu”, ammesso che i numeri ci siano, si traduca in una sorta di esecuzione delle suggestioni dell’Ocse, del Fmi e di altre entità economicistiche sovranazionali che hanno sbagliato tutto, negli scorsi anni, perché sento parlare troppo di tassazione e patrimoniali, di scetticismo anche rispetto alla utile proposta di Salvini (Flat Tax o qualcosa del genere)». Per Magaldi, la verità è che il Movimento 5 Stelle «deve fare i conti con i limiti della propria traiettoria». Le elezioni regionali molisane, considerate deludenti? «Non ho condiviso i trionfalismi del dopo-voto e non condivido adesso l’analisi secondo cui, avendo avuto il 32% in Molise, il M5S starebbe arretrando», precisa Magaldi: «E’ un dato locale, non traducibile a livello nazionale». Ma Di Maio e colleghi devono capire che il loro 32% a livello nazionale, ottenuto «nonostante la pessima performance nel governo di Roma e nonostante moltri altri dubbi che tanti dei loro stessi votanti nutrono», non è affatto un dato che si possa mettere in cassaforte. Al contrario: gli elettori potrebbero non rinnovare la fiducia accordata il 4 marzo.Lo scenario è confuso: in tanti sono indaffarati, non si capisce se «a cercare di fare un governo o solo a far finta di volerlo fare». A maggior ragione, il Movimento 5 Stelle «farebbe bene a chiarire ai suoi elettori che cosa vuole fare, a prescindere dagli alleati con cui lo farebbe», sottolinea Magadi, secondo cui «nelle ultime settimane si è appannato proprio il senso progettuale: non si è capito bene cosa farebbe, Di Maio, in un governo». Magaldi ripropone la prospettiva per la quale si batte il Movimento Roosevelt, lungo l’orizzonte della migliore tradizione social-liberale: «E’ il lavoro che deve diventare imprescindibile e garantito dalla Costituzione, pur nel rispetto del merito e dei talenti». Va bene anche «la libera economia di mercato del tanto vituperato capitalismo», purché non quello neoliberista: Magaldi pensa al capitalismo sociale rooseveltiano ispirato da Keynes e da John Rawls, l’ideologo del “welfare universale” europeo. Il capitalismo, aggiunge Magaldi, deve restare «la facoltà di investire capitali privati per trarne legittimo profitto, senza monopoli né oligopoli», ma a livello legislativo «occorre che nessuno sia privato del diritto di lavorare, e quindi del diritto di avere un reddito e accompagnare i propri sogni e le proprie aspirazioni, partecipando anche all’economia e rafforzandone i circuiti».Magaldi lo definisce «un orizzonte epocale», benché «sobrio e moderato, rispetto alle istanze palingenetiche e agli incubi del ‘900», neri e rossi. Chi auspicava il comunismo come “il paradiso in terra” oggi è spesso dalla parte dei capitalisti ultra-liberisti, «che credono alla divinità del mercato in termini integralisti e fanatici». Volevano l’abbattimento del capitalismo “borghese” e oggi «si sono trasformati in accompagnatori del dogmatismo di un’idea sola di capitalismo, e anche di una idolatria del mercato in quanto tale, senza più alcuna preoccupazione per i grandi ideali di giustizia sociale che, pure, nel ‘900 sono stati presenti». In parallelo, il “secolo breve” ha archiviato (dolorosamente) altri incubi speculari, fascisti e fascistoidi, che pur con altri presupposti «hanno spesso spacciato per interesse del popolo la loro vocazione oligarchica, alla pari di quella dei comunisti». Magaldi le definisce «distopie finite tragicamente», ricordando che «nel mezzo c’è stata una linea politica e ideologica che ha visto una parziale concretizzazione nei famosi “decenni d’oro”, il boom del dopoguerra in Europa, con le ricette keynesiane e un “welfare system” che ha garantito mobilità e giustizia sociale».Quello degli ‘70, però, «non era ancora l’orizzonte cui dobbiamo approdare», aggiunge Magaldi, che lavora per la sua “utopia moderata”. Ovvero: «Il diritto costituzionale all’occupazione». Una rivoluzione, che «risolverebbe molti problemi e preverrebbe qualunque crisi economica». Il reddito di cittadinanza del Movimento 5 Stelle? Una proposta «annacquata nei ragionamenti politici di questi giorni». Magaldi non lo vedrebbe come «un’alternativa al diritto al lavoro», ma piuttosto «come un accompagnamento, in una fase transitoria». Ovvero: «Dato che per arrivare al diritto al lavoro occorrerà convincere politicamente la maggioranza degli elettori, per avere (in Italia e altrove) maggioranze parlamentari capaci di approvare riforme costituzionali di questa portata, nel frattempo il reddito di cittadinanza può essere un modo per garantire la dignità di coloro che vivono in un contesto occupazionale complesso». E quindi «credo che sia una buona idea», conclude Magaldi, «se vista non come sostitutiva dell’orizzonte che mette il lavoro al centro della dignità delle persone, ma come un elemento di supporto, durante la transizione verso quel modello». Di Maio è in ascolto? Ha un’idea, in proposito? Pensa di riuscire a distinguersi dagli altri “barbagianni” della mala-politica italiana sottomessa al rigore Ue?Avrebbe la cortese compiacenza, Luigi Di Maio, di far graziosamente sapere, prima o poi, cosa intenderebbe fare, una volta al governo dell’Italia? I primi che vorrebbero saperlo, probabilmente, sono i suoi elettori – meglio ancora: i votanti che il 4 marzo hanno scelto i pentastellati magari «turandosi il naso», percependo comunque il Movimento 5 Stelle «come qualcosa di nuovo e diverso, rispetto agli altri “barbagianni”». Essere o non essere un’alternativa per il paese? Spieghi, l’amletico grillino, che idea ha in testa (se ce l’ha) per questo paese. Tutte le alleanze e tutte le idee possono essere utili, purché coraggiose e serie: a patto che non si scivoli verso i lidi collaudatissimi del rigore di bilancio, di cui finora è stato custode il Pd per conto dell’oligarchia privatizzatrice che presidia l’Unione Europea. A oltre un mese e mezzo dal voto, Gioele Magaldi avverte: così non si va da nessuna parte. «Non vorrei che poi ci ritrovassimo un programma della cosiddetta pseudo-sinistra più classica, quella che ritiene che tassando e ritassando si garantisce non si sa bene quale equilibrio sociale, mettendosi a pari coi burattinai di Bruxelles e con le altre entità sovranazionali: stiamo attenti, perché non è questa la via per chi voglia dirsi progressista». La strada maestra? Il lavoro, come baluardo della dignità individuale. L’orizzonte di un’utopia necessaria: rendere costituzionale il diritto all’impiego. Il reddito di cittadinanza? Una tappa intermedia e transitoria, nella lunga marcia per cambiare faccia all’Italia e all’Europa.
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Giannuli: i 5 Stelle guastati dal potere che volevano battere
C’eravamo tanto amati. O meglio: rispettati e stimati, in vista di un futuro che però non è sbocciato. Ora siamo all’addio: «Scusate, scendo a questa fermata». Il pullman è a 5 Stelle, il conducente è Di Maio. L’ex passeggero deluso risponde al nome di Aldo Giannuli: scende dal carro sul quale in tanti, oggi, fanno a gara a salire. Storico e politologo, un passato militante da post-comunista, Giannuli è uno dei pochi intellettuali di sinistra indipendenti, non ostili ai grillini. Anzi, fin da subito si era schierato – con simpatia dichiarata – tra gli “osservatori amici” del grande test rappresentato dal Movimento 5 Stelle. Fine dell’illusione, anche se – chiarisce l’interessato nel suo blog – il M5S «ha tre meriti storici che nessuno può negare: aver abbattuto il falso bipolarismo Fi-Pd, aver posto in termini politici e non solo giornalistici il tema della casta e aver impedito che la protesta che stava montando sfociasse in movimenti di estrema destra come Alba Dorata o il Front National». Per queste ragioni, sottolinea il professore, non è affatto pentito di aver «costeggiato e appoggiato il M5S – pur senza mai entrare a farne parte – dal 2013 ad oggi». Niente sconti, comunque, nemmeno in precedenza: «Non ho mai evitato di criticare singoli aspetti o scelte del movimento che, però, complessivamente ho sempre difeso». Come i lettori del suo blog hanno potuto constatare, però, negli ultimi due anni, i motivi di dissenso sono andati crescendo.Le critiche di Giannuli si sono fatte più frequenti e forse più aspre, per cui non è stato un caso che nelle recenti elezioni politiche, alla Camera non ha votato 5 Stelle ma “Potere al Popolo”. «Non sono io che mi sono man mano allontanato dal M5S: io sono rimasto fermo, è il M5S che ha preso altre strade». Per esempio, la guida “carismatica” dell’uomo solo al comando. «Il M5S al quale mi ero avvicinato era quello dell’“uno vale uno” che, pur non senza contraddizioni anche evidenti, rifiutava l’idea di un capo politico che decidesse tutto». In quelle “contraddizioni anche evidenti”, Giannuli evita di nominare Grillo, il designatore di Di Maio; non che ai tempi di Beppe, cioè quando sulla scena stava l’ex comico, contasse davvero l’“uno vale uno”: bastava un sospiro del Capo per esiliare chiunque avesse osato ragionare con la propria testa, da Pizzarotti in giù. Comunque la si veda, secondo Giannuli, le cose sono ulteriormente peggiorate: «Oggi, nel movimento vige un regolamento che nessuno ha mai approvato e che dà pieni poteri al capo politico, sino al punto di dargli la possibilità di nominare i capigruppo parlamentari non più eletti (cosa che non ha precedenti nella storia del Parlamento repubblicano)».Aggiunge Giannuli: «Il M5S al quale mi ero avvicinato parlava di democrazia diretta, anche con un’enfasi eccessiva che si traduceva in un discutibile rifiuto della democrazia rappresentativa; oggi di democrazia diretta non si parla più ed è restato solo un antiparlamentarismo ancora più inquietante di ieri». Nostalgia dichiarata: «Il M5S cui mi ero accostato miscelava temi di destra (come l’ostilità verso gli immigrati) con temi di sinistra (come la difesa dell’articolo 18) ma aveva una decisa avversione ai poteri finanziari (ricordiamoci le partecipazioni di Grillo alle assemblee degli azionisti Telecom)». Oggi invece Di Maio «dice che i governi devono tener conto dell’orientamento dei mercati finanziari». Sta cadendo un velo che in realtà esisteva già prima: Giannuli non se n’era accorto? «Il M5S con il quale iniziai a collaborare – aggiunge – si schierò decisamente per la legge elettorale proporzionale e contro la riforma renziana della Costituzione in difesa della Costituzione repubblicana del 1948». L’edizione più recente del movimento, invece, «ha fatto non poche concessioni nel dibattito sulla legge elettorale (in particolare quando si parlò di metodo tedesco) e, con ogni evidenza, si appresta a sostenere il ritorno ad una qualche forma di maggioritario».Quanto alla Costituzione, la pretesa di avere la presidenza del Consiglio sulla base della maggioranza relativa ottenuta nel voto per l’elezione della Camera «è solo la premessa logica di una riforma di indirizzo presidenziale», sostiene Giannuli. «Ma allora, perché ci si è opposti alla riforma di Renzi?». Il professore ha combattuto il ras del Pd in quel referendum perché era «contrario alla sua riforma», non per fini reconditi. «Mi viene il dubbio – dice – che qualche altro ha combattuto quella riforma solo perché voleva togliere di mezzo Renzi». Di fatto, ribadisce Giannuli, cinque anni fa il Movimento 5 Stelle «entrò nelle stanze del potere per ribaltarle», mentre quello oggi capitanato da Di Maio «non si sottrae all’abbraccio mortale del potere consolidato». Non hanno cambiato il potere, scandisce il professore: al contrario, è il potere che ha cambiato loro. «Non sono mai le persone a fare progetti di potere: è il potere che fa progetti sulle persone», sostiene il saggista Gianfranco Carpeoro, altro estimatore della base grillina – ma severo censore del vertice: «Di Maio – dice – era la peggior scelta possibile, per i 5 Stelle: un uomo inconsistente e condizionato dalla finanza anglosassone, sovragestito da un personaggio ambiguo come il politologo statunitense Michael Ledeen, supermassone del B’nai B’rith, legato ad ambienti sionisti del massimo potere mondiale, specialisti in manipolazione geopolitica».Visto dal punto di vista di Giannuli (che, a differenza di Carpeoro, con i 5 Stelle ha interagito direttamente) il paesaggio è ingombro di macerie: «Il M5S con cui ho collaborato – racconta il professore – fece un’epica battaglia parlamentare contro la “riforma” della Banca d’Italia che ne faceva dono alle principali banche nazionali. La legge prevedeva tre anni di tempo per mettere sul mercato le azioni possedute in eccesso dai pochi oligopolisti, il limite è scaduto nel 2017 senza che sia avvenuto niente: e il M5S non dice niente, preferendo posare occhi vogliosi sulla Cassa Depositi e Prestiti, in perfetto stile “spoil system”. Certo, sin qui è stata gestita malissimo, ma quale è il rimedio? Piazzare qualche amico? Non so». Altrettanto preoccupante il rapporto con Bruxelles, capitale dell’austerity: «Oggi non solo non si parla proprio più di uscita dall’euro – scrive Giannuli – ma si fa dell’oltranzismo filo Ue, e si prospetta l’adesione al gruppo più eurista del Parlamento Europeo, “En Marche”». Il movimento grillino delle origini si diceva “né di destra né di sinistra”, certo, «ma in realtà ospitava nel suo seno sia destra che sinistra», rileva il politologo. E oggi? «Quella ambiguità è sciolta», ma nel modo peggiore: «Pur continuando a dirsi né di destra né di sinistra, il Movimento sta imboccando una strada decisamente di destra».Fatemi scendere, dice Giannuli. E spiega: «Io ero e sono sempre rimasto di sinistra», dunque la convergenza verso lo “xenofobo” Salvini sarebbe quanto mai indigesta. «Potevo convivere con l’ambiguità iniziale, ma non con una cosa esplicitamente di destra». Dopo aver lungamente tollerato la non-chiarezza dei grillini, ora Giannuli vota contro la spiacevole franchezza di Di Maio e soci. Per cui, aggiunge, non stupitevi: «Sapete che sono anticonformista». Ovvero: «In un paese in cui (quasi) tutti salgono sul carro del vincitore, io scelgo di scendere». Precisa: «Sarò grato ai conduttori televisivi che non mi presenteranno più come “vicino al Movimento 5 stelle” ma come persona “che è stata a lungo vicina al M5S». Intendiamoci, niente di personale: «Nessuna acrimonia e nessuna ostilità preconcetta». Distacco nel giudizio, serena equanimità: «Quando il M5S farà scelte condivisibili lo difenderò, quando ne farà di segno opposto lo criticherò». Ma sempre nel merito, assicura Giannuli. Perché, «nonostante tutto», cioè malgrado Di Maio, il Movimento 5 Stelle «è ancora oggi una importante risorsa per il paese». E quindi «sarebbe altamente auspicabile che correggesse questa discutibile rotta». Benvenuto tra noi, potrebbero dire a Giannuli alcuni milioni di italiani, tra il 27% degli aventi diritto, che il 4 marzo hanno valutato inevitabile l’astensionismo elettorale, dopo aver visto Di Maio inchinarsi ai santuari della finanza-canaglia.C’eravamo tanto amati. O meglio: rispettati e stimati, in vista di un futuro che però non è sbocciato. Ora siamo all’addio: «Scusate, scendo a questa fermata». Il pullman è a 5 Stelle, il conducente è Di Maio. L’ex passeggero deluso risponde al nome di Aldo Giannuli: scende dal carro sul quale in tanti, oggi, fanno a gara a salire. Storico e politologo, un passato militante da post-comunista, Giannuli è uno dei pochi intellettuali di sinistra indipendenti, non ostili ai grillini. Anzi, fin da subito si era schierato – con simpatia dichiarata – tra gli “osservatori amici” del grande test rappresentato dal Movimento 5 Stelle. Fine dell’illusione, anche se – chiarisce l’interessato nel suo blog – il M5S «ha tre meriti storici che nessuno può negare: aver abbattuto il falso bipolarismo Fi-Pd, aver posto in termini politici e non solo giornalistici il tema della casta e aver impedito che la protesta che stava montando sfociasse in movimenti di estrema destra come Alba Dorata o il Front National». Per queste ragioni, sottolinea il professore, non è affatto pentito di aver «costeggiato e appoggiato il M5S – pur senza mai entrare a farne parte – dal 2013 ad oggi». Niente sconti, comunque, nemmeno in precedenza: «Non ho mai evitato di criticare singoli aspetti o scelte del movimento che, però, complessivamente ho sempre difeso». Come i lettori del suo blog hanno potuto constatare, però, negli ultimi due anni, i motivi di dissenso sono andati crescendo.
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Ilaria Bifarini: di rigore si muore. Lo sanno, e così insistono
Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».In pratica, si continua con la stessa ricetta – mortale – che ha ridotto il malato in fin di vita. Secondo uno studio della stessa Oxfam, aggiunge Bifarini, «se le misure di austerità continueranno, entro il 2025 l’Europa potrebbe avere da 15 a 25 milioni di poveri in più». Ma il mainstream politico e giornalistico «preferisce ignorare queste verità che trapelano ogni tanto dai documenti ufficiali delle organizzazioni internazionali e propagandare quelli conformi al pensiero unico economico». Nel silenzio generale dei media è uscita questa notizia: è ormai a rischio povertà anche chi lavora, quasi 1 su 8. «La colpa è proprio di questo sistema, che premia la disuguaglianza», spiega Bigarini. «Il futuro ci prospetta una società sempre più polarizzata, con una ristretta cerchia di privilegiati sempre più ricchi e il resto della popolazione, lavoratrice e non, che continuerà a impoverirsi». D’altronde, aggiunge, il fenomeno dei “working poors” è già diffuso in Germania, dove il problema della disoccupazione non è “mostruoso” come in Italia. Eppure, anche in Germania «la deflazione salariale è una colonna portante del modello neoliberista».Inversioni di rotta? Siamo alla vigilia di un cambiamento? Fa pensare, sostiene “Lospeciale”, che il Movimento 5 Stelle oggi parli di natalità e soldi alle coppie con figli: dirlo solo cinque anni fa avrebbe creato polemiche su un presunto “ritorno al fascismo”, in relazione al primitivo welfare nazionalista mussoliniano. «Sicuramente è iniziata una svolta nel sentimento della popolazione», sostiene Ilaria Bifarini, secondo cui il voto del 4 marzo «ha dimostrato la forte volontà e speranza di cambiamento da parte dei cittadini». Politicamente parlando, per l’economista «andrà avanti chi manterrà le promesse e non deluderà gli elettori». E questo, aggiunge, «perché c’è più consapevolezza, anche grazie all’informazione indipendente», che si è progressivamente sviluppata sul web. «Lavoro e famiglia sono senz’altro prioritari: il problema della denatalità non può essere risolto né aggirato con l’accoglienza indiscriminata, ma va affrontato seriamente». Proponendo reddito minimo e Flat Tax, Di Maio e Salvini dimostrano di sapere che occorre dare (o lasciare) più soldi a famiglie e aziende: il contrario dei tagli, che l’Ue – al servizio dei grandi oligopoli globalizzati – continua a raccomandare, fingendo di non conoscene le conseguenze.Pura idozia? No, peggio: è sadismo. Sanno benissimo che i tagli sono una catastrofe, ma insistono col rigore di bilancio: è il loro unico programma, il loro dogma. Lo ricorda la “bocconiana redenta” Ilaria Bifarini, autrice del saggio “Neoliberismo e manipolazione di massa”. «I danni dell’austerity sono noti allo stesso Fmi», scrive, su Twitter. «Il consolidamento del debito aumenta il livello di disoccupazione di lungo termine e il tasso di disuguaglianza. Eppure continuano a prescrivere la stessa letale ricetta». E’ come somministrare un farmaco letale a un paziente moribondo, dichiara l’economista, intervistata da “Lospeciale”. «Le stesse organizzazioni economiche internazionali fautrici della dottrina neoliberista hanno più volte ammesso la fallimentarietà delle loro teorie», premette. «Gli economisti del Fondo Monetario Internazionale ad esempio, con uno studio del 2016, hanno calcolato gli effetti deleteri delle politiche di austerity in termini di aumento della disoccupazione di lungo periodo e del tasso di disuguaglianza. Eppure, proprio oggi è stato diffuso un working paper dello stesso Fondo Monetario in cui vengono raccomandati ulteriori tagli alla spesa pubblica, in particolare nel settore sanitario, che in Italia ha subito tagli draconiani, raggiungendo livelli considerati allarmanti per la salute pubblica, e nel sistema previdenziale, nonostante la famigerata riforma Fornero».
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Magaldi: Salvini e Di Maio scelgano l’Italia, non il rigore Ue
Le regole del rigore europeo «non stanno scritte sul tavole del monte Sinai: si possono e si devono cambiare». La domanda è: ce la faranno, Salvini e Di Maio, a indossare fino in fondo i panni dell’eresia per violare il dogma eurocratico? «Certo sarebbe interessante se i pentastellati e i leghisti trovassero il grande coraggio di unire il meglio dei rispettivi programmi», dice Gioele Magaldi: «Il reddito di cittadinanza e il taglio delle tasse sono di gran lunga le due proposte più gettonate dagli italiani che il 4 marzo si sono recati alle urne». Un verdetto a due facce – il centro-sud ai 5 Stelle, il nord alla Lega – ma dal tono univoco: rottamare i partiti della Seconda Repubblica, incarnata in modo bipartisan dal suo capostipite Berlusconi (ormai al tramonto) e dall’ultimo epigono di quella stagione così infausta per l’Italia, cioè il Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Riusciranno i nostri eroi a coniugare la “missione impossibile” di far stare, nello stesso governo, posizioni ritenute a lungo inconciliabili? Difficile fare previsioni, ammette Magaldi a “Colors Radio”: «Non è neppure certo che Di Maio e Salvini abbiano chiaro, loro per primi, il da farsi». Ma una cosa è certa: reddito di cittadinanza e Flat Tax non si possono applicare appieno senza prima scontrarsi con Bruxelles. Ed è esattamente di quello scontro, sostiene Magaldi, che l’Italia (come anche il resto dell’Europa) ha un disperato bisogno.Non da oggi, il presidente del Movimento Roosevelt (autore del saggio “Massoni”, che svela il ruolo mondiale delle 36 Ur-Lodges che dominano ogni aspetto della politica economica planetaria) presenta l’Italia non come periferia irrilevante dei giochi europei, ma come futuro campo di battaglia tra l’opzione dell’austerity e il Piano-B, cioè il recupero – decisivo – dell’impostazione keynesiana: la leva del deficit, in tempi di crisi, come volano dell’economia. Premessa: è proprio il rigore di bilancio ad aver provocato l’euro-crisi. Tra i gran sacerdoti della “teologia” affermatasi dagli anni ‘70 figurano gli economisti “neoclassici”, fautori nel neo-mercantilismo globalizzato basato sul super-export, ottenuto svalutando i salari e scatenando una guerra senza quartiere tra gli ex partner europei, trasformati in “competitor”. A truccare le regole ha provveduto l’ideologia neoliberista di Milton Friedman, che predica il taglio della funzione pubblica e la privatizzazione universale di cui si è fatta “gendarme” l’Unione Europea, dominata da oligopoli privati. Uno spettacolo dell’orrore, che ha precarizzato il vecchio continente: profitti stellari all’élite finanziaria e crollo dei diritti del lavoro, fino alla drammatica erosione del ceto medio che oggi si difende ricorrendo al “populismo”, tradotto in Italia nelle versioni grillina e leghista.«In questo quadro – aggiunge Magaldi – suscita sconcerto l’atteggiamento dei “giornaloni”, che oggi si affrettano a dare consigli (non richiesti) a Di Maio e Salvini: i grandi media, gli stessi che per vent’anni hanno sorretto Berlusconi e il sedicente centrosinistra, oggi continuano a ripetere che “non ci sono le coperture finanziarie” per procedere con le due riforme uscite vincitrici dalle urne, il reddito di cittadinanza e il dimezzamento del carico fiscale». Ovvio che non ci sono, oggi, le coperture. «La sfida, infatti, sta nel generarle domani, attivando lo strumento strategico del deficit: superando cioè il tetto di spesa del 3% che, dal Trattato di Maastricht, l’Ue impugna come un dogma, nemmeno fosse una vera regola economica. E’ solo una decisione politica: e i media mainstream continuano a fingere di non saperlo, nonostante l’esito delle elezioni». Sono gli stessi media che accusano Putin di essere il nuovo Zar, aggiunge Magaldi, anziché interrogarsi sulla “vita eterna” di Angela Merkel, sinonimo di crisi perenne per i non-tedeschi, sottoposti all’ordoliberismo teutonico. Il fantasma dello spread? «Ad annullarlo basterebbero gli eurobond garantiti dalla Bce, se solo si trovasse il coraggio di pretenderli». Salvini e Di Maio? Due punti interrogativi, ma comunque diversi dai loro predecessori. Non temano di sfidare Bruxelles: è esattamente quanto devono fare, se vogliono davvero rianimare l’economia resuscitando consumi e aziende, con il reddito sociale e il taglio delle tasse.Le regole del rigore europeo «non stanno scritte sul tavole del monte Sinai: si possono e si devono cambiare». La domanda è: ce la faranno, Salvini e Di Maio, a indossare fino in fondo i panni dell’eresia per violare il dogma eurocratico? «Certo sarebbe interessante se i pentastellati e i leghisti trovassero il grande coraggio di unire il meglio dei rispettivi programmi», dice Gioele Magaldi: «Il reddito di cittadinanza e il taglio delle tasse sono di gran lunga le due proposte più gettonate dagli italiani che il 4 marzo si sono recati alle urne». Un verdetto a due facce – il centro-sud ai 5 Stelle, il nord alla Lega – ma dal tono univoco: rottamare i partiti della Seconda Repubblica, incarnata in modo bipartisan dal suo capostipite Berlusconi (ormai al tramonto) e dall’ultimo epigono di quella stagione così infausta per l’Italia, cioè il Pd di Letta, Renzi e Gentiloni. Riusciranno i nostri eroi a coniugare la “missione impossibile” di far stare, nello stesso governo, posizioni ritenute a lungo inconciliabili? Difficile fare previsioni, ammette Magaldi a “Colors Radio”: «Non è neppure certo che Di Maio e Salvini abbiano chiaro, loro per primi, il da farsi». Ma una cosa è certa: reddito di cittadinanza e Flat Tax non si possono applicare appieno senza prima scontrarsi con Bruxelles. Ed è esattamente di quello scontro, sostiene Magaldi, che l’Italia (come anche il resto dell’Europa) ha un disperato bisogno.
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La piovra del rating: ecco chi ha vinto (davvero) le elezioni
La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.L’effetto immediato del voto negativo è un aumento dei tassi di interesse per “ricomprare” la fiducia dei sottoscrittori di obbligazioni e di altre forme di credito, per cui tutto il debito pubblico e privato di una nazione costa subito di più, con ricadute negative sul bilancio statale e con l’aggiunta di ulteriori tagli alla spesa sociale. Per le nazioni più deboli, queste decisioni provocano anche una caduta del valore di scambio della moneta, con effetti devastanti sulle importazioni (che costano di più), sulle esportazioni (che valgono di meno) del paese, sul suo bilancio statale e sui livelli di vita della popolazione; con la deregolamentazione dell’economia, soprattutto dall’inizio degli anni Novanta, queste agenzie sono diventate il “grande fratello” finanziario e hanno progressivamente accumulato un potere immenso, superiore a quello degli Stati e delle banche centrali, sia nella valutazione delle politiche dei governi che dell’andamento economico di qualsiasi entità privata, determinando le decisioni di tutti gli attori economici.All’inizio le agenzie offrivano, a pagamento, ai detentori di titoli di credito i loro giudizi sul comportamento dei debitori. Adesso persino i debitori pagano per avere un “voto” prima di emettere un’obbligazione o attingere a qualsiasi altra forma di credito. Senza il voto delle agenzie, economicamente non si esiste più. Per poter comprare o vendere, per prendere o dare a prestito, bisogna pagare il “pizzo” per ricevere la protezione o il semplice riconoscimento da parte di questi nuovi potentati. Ora le tre maggiori agenzie di rating sono delle entità private strutturate come società per azioni e quindi parte della logica di mercato e sottoposte al principio del massimo profitto possibile; inoltre le agenzie in questione hanno partecipazioni dirette, anche attraverso i membri dei loro consigli direttivi, board of directors, nelle più grandi corporation internazionali e delle più grandi banche internazionali, pesantemente coinvolte nelle operazioni di finanza derivata, cioè in quelle speculazioni finanziarie principalmente responsabili delle bolle speculative e dell’attuale crisi finanziaria sistemica globale.La Standard & Poor’s (S&P) è sussidiaria della multinazionale McGraw-Hill Companies, con sede centrale a New York, colosso delle comunicazioni, dell’editoria, delle costruzioni e presente in quasi tutti i settori economici. La multinazionale, proprietaria anche di “Business Week”, nel 2005 vantava un fatturato di 6 miliardi e un profitto di 844 milioni di dollari. Il presidente di McGraw-Hill è Harold McGraw III, che è, tra le altre cose, contemporaneamente membro del Board of Directors della United Technology (multinazionale degli armamenti) e della ConocoPhillips (petrolio ed energia). È stato anche membro del “Transition Advisory Committe on Trade” del presidente George W. Bush, padre dell’ex capo della Casa Bianca. Tra i membri del Board of Directors della McGraw-Hill, che decidono quindi anche dell’attività della S&P, figurano: sir Winfried Bishoff, presidente della Citigroup Europa e uomo di punta della Henry Schroder Bank di Londra; Dougals N. Daft, presidente della Coca Cola Co.; Hilde Ochoa-Brillenmbourg, alto responsabile della Credit Union del Fmi-World Bank; James H. Ross, della British Petroleum; Edward B. Rust Jr., presidente dell’assicurazione State Farm Insurance Company (gigante del settore assicurativo, bancario e immobiliare, sotto scrutinio per le politiche troppo disinvolte dopo l’urgano Katrina), direttore della Helmyck & Payne, colosso del settore petrolifero e già membro del Transition Advisory Team Committee on Education della presidenza di George W. Bush (padre); Sidney Taurel, presidente della farmaceutica Eli Lilly (che in passato ha vantato tra i suoi dirigenti anche Kenneth Lay, condannato per la bancarotta della Enron) ex direttore dell’Ibm, già membro nel 2002 dell’Homeland Security Advisory Council.L’agenzia di rating Fitch di New York è sussidiaria della multinazionale dei servizi finanziari Fimalac, con sede centrale a Parigi. Nel 2005 la multinazionle americana delle comunicazioni Hearst Corporation ha rilevato il 20 per cento del pacchetto azionario. Il suo presidente è Marc Ladreit de Lacharriere, uomo della Renault e della Banque Suez. Tra i membri del Board of Directors figurano: David Dautresme della banca Lazard Freres; Philippe Lagayette della Jp Morgan & Cie; Bernard Mirat della Cholet-Dupont (finanza); Bernard Pierre della Fremapi (metalli preziosi). La Fimalac vanta anche un International Advisory Board per dare più lustro e potere alla multinazionale, che nel 2002 annoverava tra gli altri: Felix Rohatyn della Lazard Freres, l’uomo che ha recentemente smantellato l’industria americana dell’auto, Sholley della Ubs Warburg, Reimnits della Kommerz Bank, Peberan della Paribas, rappresentanti della Nestlè, della Bentelsmann e anche l’ex presidente della Federal Reserve americana Paul Volker e l’italiano Lamberto Dini.L’agenzia di rating Moody’s è sussidiaria della Moody’s Corporation, con sede centrale a New York. Il presidente è Raymond W. McDaniel Jr. Tra i membri del Board of Directors figurano: Basil L. Anderson della Stables Inc. e della Hasbro Inc (due giganti del settore vendite e servizi); Robert Glauber della Ing Group (settore bancario e assicurativo con base in Olanda), già sottosegretario del ministero delle finanze americano nel periodo 1989-92; Henry Mc Kinnell, della multinazionale farmaceutica Pfizer e della Exxon Mobil (petrolio); Nancy S. Newcomb della Citigroup e della Sysco Corporation (settore alimentare); John K. Wulff, della multinazionale chimica Herculer, della Kpmg (la multinazionale di consulenza finanziaria e di certificazione dei bilanci), della Sunoco (petrolio) e della Fannie Mae (che, insieme alla Freddie Mac, detiene quasi per intero il pacchetto ipotecario immobiliare americano).Le suddette tre agenzie americane di rating non sono solamente l’espressione dell’intreccio dominante delle multinazionali, ma in particolar modo sono una struttura organizzata delle principali banche del pianeta che controllano il sistema finanziario e debitorio delle nazioni e di tutti i settori dell’economia sia privata che pubblica. Le tre agenzie in questione non solo non sono qualificate nella pretesa di valutare la solidità economica e finanziaria degli Stati e delle imprese, ma sono parte integrante del problema sta portando il mondo economico verso il crack e la crisi sistemica con conseguenze devastanti per l’intera vita economica, sociale e politica del pianeta.(Gianni Lannes, “Grullini o grulloni?”, dal blog “Su la Testa” del 6 marzo 2018).La questione cruciale elusa da tutti: l’Italia non ha più alcuna sovranità. Come stabilito all’estero nei piani alti del sistema di dominio, la colonia Italia ha votato con una legge truffaldina (incostituzionale) e ora si ritrova alcuni aspiranti inquilini di Palazzo Chigi senza arte né parte, razzisti e analfabeti funzionali che in economia si sono affidati ai soliti esperti allineati di regime. Così dalla padella del piddì si cadrà nella brace. Le agenzie di rating, nate agli inizi del Novecento negli Stati Uniti, analizzano la solidità finanziaria di soggetti quali Stati, enti, governi, imprese, banche, assicurazioni. Le principali agenzie sono tutte statunitensi: Moody’s, Standard & Poors e Fitch. Il 19 ottobre 2006, due delle tre agenzie di rating internazionali che agiscono in regime di oligopolio, avevano deciso di declassare l’Italia, dando un voto negativo alla capacità dell’Italia di gestire la sua economia. Non era la prima volta che questo accadeva, anche in presenza di governi di differente orientamento politico e le motivazioni della “pagella” sono sempre di una ripetitività e di una banalità quasi disarmanti: i tagli nelle spese di bilancio non sono sufficienti e la “riforma delle pensioni” (leggi privatizzazione delle pensioni) va troppo a rilento.
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Magaldi: a casa, con Renzi, tutti i dirigenti dell’ipocrita Pd
E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale: «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».Le elezioni? Tutto come previsto: il grande sconfitto è Renzi, che ha solo finto di alzare la voce con l’Ue. L’altro perdente annunciato è Berlusconi, «quindi esce sconfitto quell’auspucio, caldeggiato anche da ambienti sovranazionali, che è stato uno dei moventi di questa legge elettorale». Sipario sul “Renzusconi”, cioè sulle larghe intese «convergenti verso questa melassa centrista infeconda che ha caratterizzato anche le passate legislature, da Monti in poi: esecutivi che hanno fatto tutti lo stesso mestiere, a quanto pare inviso agli italiani, che questa volta hanno dato una bella bastonata a questa prospettiva». Così Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio” il giorno dopo il voto. Una tornata ricca di conferme: «Come immaginato, nessuno ha vinto davvero: grandi exploit da Salvini e dai 5 Stelle, ma nessuno di loro ha i numeri per governare da solo». Terza previsione azzeccata: «Nulla sarà più come prima», ma siamo piombati in una palude: «E le paludi sono feconde, come il concime». Mattarella darà la precedenza al centrodestra, la coalizione meglio piazzata, o ai 5 Stelle primo partito? Un’alleanza tra grillini e Pd de-renzizzato «sarebbe un abbraccio singolare, dopo che il Pd ha demonizzato i 5 Stelle come fossero gli Unni». Eppure, «questa alleanza potrebbe vedere il favore di Mattarella, ed è quella verso cui si è mosso Di Maio». Per contro, escludere i 5 Stelle, cioè i più votati in assoluto, «sarebbe una beffa: impensabile, ai tempi della Prima Repubblica».Per Magaldi «cambieranno molte cose di giorno in giorno: ciò che oggi appare improbabile potrebbe mutare prospettiva, oltre questo scenario così ostico». Emergeranno soluzioni «difficili da concepire con gli schemi di prima del voto». Alla fine, «sulle difficoltà politiche prevarranno le possibilità numeriche». Molto dipenderà dal presidente della Repubblica: nel 2013, Napolitano dette a Bersani solo un incarico esplorativo ufficioso. «Constatando l’eccezionalità della situazione», aggiunge Magaldi, «anziché lasciare tutto all’interno nel Palazzo», il Quirinale potrebbe passare la palla al Parlamento, «per vedere chi ci sta, sulla base di un programma, a formare un governo». Certo, la “palude” è infida. Ma almeno, il voto ha stabilito una tendenza: ha reso chiaro «quello che gli italiani non vogliono». Ovvero: «C’è il desiderio di affrancarsi da un corso politico: direi che l’ingloriosa storia della Seconda Repubblica finisce qui». C’è da rivalutare semmai la tanto vilipesa Prima Repubblica, «in cui un paese in ginocchio dopo la guerra, dopo la sconfitta della barbarie nazifascista, in pochi decenni era diventato una grande potenza industriale». Ma c’era un paradigma vigente – la spesa pubblica strategica, chiave del successo storico del “made in Italy”: paradigma abbattuto dal ‘92 in poi. «E questi signori, che sono venuti a raccontarci le “magnifiche sorti e progressive” che con la Seconda Repubblica si sarebbero avverate in Italia e in Europa, oggi escono di scena», sintetizza Magaldi. «Compaiono altri attori, dalle prospettive incerte».Un voto “utile”, comunque, a ramazzare via gli orpelli polverosi. Come “Liberi e Uguali”, che Magaldi definisce «una follia pianificata». E spiega: «Solo l’immaginazione malsana e l’assenza di senso della realtà e lungimiranza di Bersani e D’Alema, Civati e Speranza, poteva immaginare che Grasso potesse essere il portavoce carismatico e ricco di appeal per un elettorato di sinistra critico verso il Pd». Se in Grasso e Bersani prevale l’ipocrisia, nel dirsi “di sinistra” sottoscrivendo il protocollo dell’euro-austerity, in Emma Bonino versione 2018 ha invece stravinto il delirio: «Sconcertante, la Bonino, nel venirci a proporre “più Europa”. Un messaggio thatcheriano: lo statista come il buon padre di famiglia che deve preoccuparsi di ripagare i debiti, come se il debito pubblico fosse il debito privato, che va ripagato perché c’è la cambiale che scade». In una macroeconomia, cioè in un sistema economico complesso, il debito pubblico – insieme all’inflazione, agli investimenti a deficit – è uno dei fattori da maneggiare con oculatezza, «sapendo che uno Stato con sovranità monetaria gestisce le cose non come una famiglia privata (che non può stampare i soldi in cantina): uno Stato più fare deficit per aumentare il Pil e diminuire così, anziché coi tagli alla sanità, il rapporto malsano tra debito e Pil».Da Emma Bonino abbiamo sentito assurdità mostruose: bloccare la spesa pubblica per i prossimi due anni, alzare l’Iva. «Questo è un paese martoriato dalle tasse, dove i consumi sono crollati e c’è l’esigenza di far circolare moneta e tenere più bassa la pressione fiscale», puntualizza Magaldi. «Soltanto dei pazzi potrebbero pensare di tagliare ancora la spesa e aumentare ulteriormente le tasse». E in campagna elettorale questo delirio ha avuto libero corso, «complice anche un linguaggio mediatico alterato». Già, infatti: «A che livello è scesa la comunicazione giornalistica, in Italia? Rappresenta le cose per come non sono. E’ lo stesso giornalismo che aveva fatto credere a Mario Monti di avere un consenso maggioritario nel paese, nel 2013, quando i giornaloni titolavano che finalmente l’Italia eta governata da illuminati professori. Monti e la Fornero ci sono stati proposti come sacerdoti del “vero” economico, per settimane, da quell’altro bel tomo di Giovanni Floris». Oltre al vecchio ceto politico, insiste Magaldi, «dovremmo rottamare un ceto mediatico corporativo, con giornalisti che si intervistano a vicenda, elevando la figura del giornalista a grande intellettuale e politologo – ma spesso è gente che non conosce nemmeno i rudimenti della storia patria, non parliamo dell’economia internazionale».Altra mistificazione: gli apostoli della Costituzione “più bella del mondo” che si professano nemici della massoneria – Di Maio in primis – dimenticando il massone conclamato Meuccio Ruini, presidente della “Commissione dei 75” incaricata di redigerne il testo (e il capo di gabinetto di Ruini era il grande economista Federico Caffè, insigne keynesiano). «Se vuole governare l’Italia – dichiara Magaldi – Di Maio dovrà affrancarsi dalle proprie fobie e immaturità illiberali e anticostituzionali. Nella lista di possibili ministri che ha presentato ci si richiama a John Maynard Keynes, altro notorio massone al pari di Franklin Delano Roosevelt: colonne portanti del mondo post-bellico, cioè di ciò che ha consentito il ritorno della libertà in Europa e nel mondo. Quindi merita riconoscenza quella corrente maggioritaria di massoneria che ha prima costruito e poi difeso le società aperte, liberali, parlamentarizzate e democratiche». Sono verità storiche che per Magaldi vanno finalmente acquisite, se si vuole fronteggiare davvero questa Disunione Europea «in cui vige il mercantilismo più spudorato da parte della Germania».Mercantilismo: dottrina econonica (superata dal libero mercato) secondo cui la ricchezza della nazione sta nel surplus di esportazioni. «La Germania ha violato anche i pessimi trattati vigenti, che pur essendo pessimi non consentirebbero il mercantilismo», insiste Magaldi. «Siamo al di là del pessimo: abbiamo una costruzione europea non democratica, nata dalla Dichiarazione Schuman scritta dall’ex progressista Jean Monnet convertito all’idea economicistica dell’Europa, sulle idee di Kalergi, ideatore di una costruzione quasi neo-feudale dell’Europa», a imitazione del feudalesimo carolingio. E’ un’Europa pericolosa, «fondata su un’idea di sfiducia verso la democrazia e verso la politica». Orrore: «O il potere spetta al popolo sovrano, oppure spetta a sedicenti illuminati – poco importa che utilizzino strumenti finanziari, diplomatici, militari, religiosi o mediatici. O il popolo è sovrano, o è sovrano qualcun altro», aggiunge Magaldi. «Dovremmo avere un Parlamento Europeo che rappresenta il popolo sovrano, con una potestà legislativa piena, con facoltà di fiduciare o sfiduciare un esecutivio europeo reale, al posto di questa barzotta Commissione Europea. Juncker e Tajani? Figure stucchevoli, a cui non lascerei gestire neppure un condominio, e invece sono ai vertici. Dovremmo avere un dipartimento del Tesoro e buoni del Tesoro europei che taglino alla radice qualunque cataclisma da spread, vero o presunto». Di Maio e Salvini presentati come antieuropeisti? Errore: «I veri antieuropeisti sono quelli che oggi infestano le cancellerie europee e gli organi tecnocratici di questa Unione Europea». Ma i neo-vincitori sapranno cambiare passo, verso Bruxelles?«Non vorrei che le istanze euro-critiche del Movimento 5 Stelle si andassero appannando, nel percorso politico che si avvia con queste consultazioni», dice Magaldi. «Mi piacerebbe che tutti gli schieramenti in Parlamento avessero un nuovo modo di guardare all’Europa». C’è anche un problema di legittima rappresentanza delle istanze nazionali: «L’Italia è un grande contraente dell’Ue e dell’Eurozona, eppure ha visto sfumare anche un riconoscimento simbolico come l’attribuzione dell’Ema, l’Agenzia Europea del Farmaco. E’ finita in farsa, l’Italia è stata defraudata anche di questa piccola cosa. E il peggio è che si è vista la latitanza delle istituzioni italiane nel far valere le ragioni del nostro paese». Disunione Europea, appunto: «Un equilibrio di cancellerie, che perseguono scopi nazionali mascherati da un’impalcatura burocratica. Spero che tutti – non solo i vincitori relativi di queste elezioni – ripensino il modo in cui l’Italia deve stare in Europa». L’Italia? «Deve essere più autorevole: non lo è stata affatto quando è venuto il tecnocrate Mario Monti, inviato direttamente dai salotti buoni europei. L’elemento più sublime della sua narrazione era che dovessimo fare quel che ci diceva “l’Europa”, perché l’avevamo interiorizzato. Uno scenario da Grande Fratello orwelliano: abdicare al proprio libero pensiero critico e fare qualcosa che viene imposto da altri, perché eseguire senza discutere è cosa buona e giusta».Nei fatti, alla “teologia” dell’Ue si è sottomesso anche Renzi, che ora trasforma in farsa le sue dimissioni, dopo aver corso a capofitto verso la disfatta. «Sarebbe passato quasi per eroe – dice Magaldi – se solo avesse avuto il coraggio di inserire nel fatale referendum almeno il pareggio di bilancio in Costuzione, lasciando esprimere gli italiani». L’obbligo costituzionale del bilancio in pareggio, afferma Magaldi, «riporta il sedicente centrosinistra egemonizzato dal Pd alla destra storica di Quintino Sella, che conseguì il pareggio di bilancio nella seconda metà dell’800, quando al governo c’era il liberismo storico più bieco e spietato, che mandava Bava Beccaris a massacrare contadini, operai e povera gente che manifestava contro la tassa sul macinato e per le condizioni sociali allora davvero inique». Attenzione: su un tema come il pareggio di bilancio, di importanza capitale per la vita di tutti, non c’è stato uno straccio di dibattito mediatico: «Questo è un paese che parla a reti unificate solo di questioni irrisorie, mentre quando si votata il pareggio di bilancio gli eletti in Parlamento hanno agito come soldatini obbedienti, senza nessuna eccezione». Dov’era, il Pd? In aula, a votare: uso obbedir tacendo. «Via Renzi, il nuovo che avanza sarebbe Gentiloni, che ha fatto un governo renziano in linea con quelli di Monti e Letta? E gli altri che stanno nel Pd? Quando mai hanno levato la loro voce per proporre una traiettoria diversa? Sono tutti responsabili di questa bastosta. E’ una classe politica, quella del Pd, che deve andare a casa».Vale anche per l’Europa, aggiunge Magaldi: il Pd sta nell’alleanza dei socialisti democratici, e in tutta Europa «i socialisti sono chiaramente in regressione perché non hanno nessuna proposta socialista». Magaldi si definisce liberalsocialista: «L’elemento socialista ci deve essere: è la capacità di costruire un contesto di giustizia e mobilità sociale, in cui lo Stato abbia un ruolo dinamico e complementare a quello del libero mercato (e dove ci sia davvero libero mercato, senza monopoli, oligopoli e conflitti d’interesse)». Tutto ciò è mancato: poi qualcuno si lamenta se “la sinistra” è in estinzione. «E poi c’è il grande rimosso: John Maynard Keynes. Oggi, in tanti dicono che vogliono riscoprirlo: li aspettiamo al varco». L’eventuale Pd post-renziano? Può avere un senso solo a una condizione: che si dimetta, insieme a Renzi, chiunque abbia avuto un ruolo dirigente. «E se si deve eleggere un nuovo segretario, lo si faccia con un dibattito corale e democratico molto ampio, molto lungo e molto doloroso», perché la sincerità è una medicina amara. Sempre che ne valga la pena, di salvare il Pd: i tempi stanno cambiando velocemente. E Magaldi (promotore dell’ipotesi Pdp, Partito Democratico Progressista) è fra quanti pensano che forse sia il caso di «costruire qualcosa di nuovo, da offrire a un paese vistosamente lacerato».E dire che l’aveva avvertito: Matteo, cambia politica o vai a sbattere. Oggi, a previsione regolarmente avveratasi, Gioele Magaldi rilancia: se Renzi va a casa, dopo essersi sottomesso ai diktat dell’oligarchia di Bruxelles, dovrebbe dimettersi l’intero gruppo dirigente del Pd. Non si salva nessuno, hanno tutti tradito qualsiasi idea di giustizia sociale. Il pareggio di bilancio? Lo fece Quintino Sella, all’epoca in cui la destra mandava Bava Beccaris a sparare sulla folla. «Il sedicente centrosinistra italiano egemonizzato dal Pd ha rinnegato l’anima stessa del socialismo liberale keynesiano, calpestata dall’ordoliberismo dell’Ue, il brutale mercantilismo degli opposti nazionalismi competitivi su cui si fonda la Disunione Europea». Con buona pace dei recenti deliri di Emma Bonino, giustamente punita – insieme a Renzi – dagli elettori italiani, stanchi della finzione falso-europeista del rigore “teologico” imposto come dogma. E a proposito: c’è da sperare che Luigi Di Maio e Matteo Salvini, «vincitori relativi» del 4 marzo, non deludano chi li ha appena votati. Guai se dimenticano che l’Italia non può continuare a stare in Europa in questo modo, subendo qualsiasi decisione «presa a tavolino da Macron, dalla Merkel e dai loro satelliti nord-europei». Deve rialzarsi in piedi, l’Italia, e dire la sua per mettere fine a questa pseudo-Europa antidemocratica, «concepita come il Sacro Romano Impero di Carlo Magno, con i tecnocrati al posto dei vassalli feudali».