Archivio del Tag ‘Paolo Gentiloni’
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Spaghetti-Trump cercasi: Emiliano, dopo Salvini e Grillo
I più spiazzati dalla vittoria di Donald Trump sono stati quelli che più avrebbero dovuto aspettarsela. Ma si sa, gli Dei rendono ciechi coloro che vogliono perdere. Da quando il fascistone è diventato presidente degli Stati Uniti, quaggiù s’è aperto il talent per la ricerca del “Trump all’italiana”, lo Spaghetti Trump. Salvini e Grillo sono in pole position da tempo, ma adesso persino il Pd ha il suo concorrente: Michele Emiliano. Nonostante il ruolo di populista di grana grossa che interpreta, però, la manovra con la quale il corpulento governatore della Puglia ha accompagnato fuori dal Pd quasi tutti gli altri antirenziani, suoi concorrenti diretti, per poi non seguirli è stata di rara sottigliezza. Adesso Emiliano è l’unico leader dell’opposizione interna al Pd (Orlando è solo un proxy di Napolitano) e quando Renzi si sarà schiantato definitivamente, potrà ereditare il partito. Renzi è un perdente che continuerà a perdere, a maggior ragione adesso che ha esaurito le cazzate da spacciare.Perderà sia le amministrative che l’eventuale referendum sui voucher. Persino le primarie aperte del Pd sono a rischio, da quando l’astuto Emiliano le ha indicate come nuova ordalia antirenziana, invitando a votare tutti coloro, dentro e fuori dal Pd, che vogliano infliggere al Cazzaro la disfatta definitiva. Per le elezioni politiche il Pd avrà quindi comunque disperatamente bisogno d’un altro leader spendibile che riesca nel compito fallito da Renzi: catalizzare il voto anti-establishment per convogliarlo nel principale partito dell’establishment. Di fronte agli elettori del Pd, Emiliano potrà vantare d’essere un oppositore leale che ha cercato di evitare la scissione per il Bene Supremo del partito, e che ora potrebbe ricomporla. Di fronte agli altri elettori, reciterà la sua solita parte di populista verace, che alle ultime regionali gli ha fruttato un vasto consenso trasversale. A prescindere dalla sua riuscita, la strategia di Emiliano per scalare il Pd è un notevole esempio della congenita doppiezza del cosiddetto centrosinistra.Non sono migliori gli scissionisti Dp, che pur continuando a sostenere il governo, progettano di raccogliere voti a sinistra del Pd, per poi rivenderli allo stesso Pd con la Grossolana Coalizione auspicata dal nefasto Scalfari, che va da Brunetta a Vendola in funzione anti-M5S. In realtà ognuna delle loro tortuose manovre avvicina al governo sia Grillo che Salvini. Che la parola “Sinistra” sia preda di certi grotteschi parassiti è una delle ovvie cause dell’avanzata delle destre. La protesta di ambulanti e tassinari inferociti davanti alla sede del Pd dove si celebrava l’ennesimo rituale bizantino è stata la perfetta rappresentazione plastica della situazione. Le bombe-carta che hanno fatto saltare in una pioggia di cocci tutti i vetri della strada non hanno scosso i piddini dalle loro procedure ossessivo-compulsive, che accelerano la rovina che vorrebbero scongiurare. Ma si sa, gli Dei rendono sordi coloro che vogliono perdere.(Alessandra Daniele, “Trump It”, da “Carmilla Online” del 26 febbraio 2017).I più spiazzati dalla vittoria di Donald Trump sono stati quelli che più avrebbero dovuto aspettarsela. Ma si sa, gli Dei rendono ciechi coloro che vogliono perdere. Da quando il fascistone è diventato presidente degli Stati Uniti, quaggiù s’è aperto il talent per la ricerca del “Trump all’italiana”, lo Spaghetti Trump. Salvini e Grillo sono in pole position da tempo, ma adesso persino il Pd ha il suo concorrente: Michele Emiliano. Nonostante il ruolo di populista di grana grossa che interpreta, però, la manovra con la quale il corpulento governatore della Puglia ha accompagnato fuori dal Pd quasi tutti gli altri antirenziani, suoi concorrenti diretti, per poi non seguirli è stata di rara sottigliezza. Adesso Emiliano è l’unico leader dell’opposizione interna al Pd (Orlando è solo un proxy di Napolitano) e quando Renzi si sarà schiantato definitivamente, potrà ereditare il partito. Renzi è un perdente che continuerà a perdere, a maggior ragione adesso che ha esaurito le cazzate da spacciare.
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Finto reddito di cittadinanza, verso il prossimo golpe dell’Ue
Il governo Gentirenzi e il Partito Democratico progettano, per la imminente campagna elettorale, di attribuirsi il merito dell’introduzione del reddito di cittadinanza, soffiandolo al M5S. Il programma è che il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker venga a Roma, probabilmente il 25 marzo, per i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unione Europea, e quivi annunci che l’Europa prescrive che i governi elargiscano un reddito universale di base, di importo sufficiente per una vita dignitosa, a tutti i cittadini. La notizia di questo annuncio è stata lanciata da “Reuters” all’estero alcuni giorni fa, ma in Italia pare nessuno voglia diffonderla – tanto per dire quanto sono liberi i nostri giornalisti. Renzi si vanterà di aver ottenuto tale successo in linea con il suo bonus di 80 euro mensili. Ne farà il suo cavallo di battaglia per le elezioni. Due quesiti essenziali. Primo: come finanziare questo reddito, dato che concedere 1000 euro al mese a tutti i cittadini italiani costerebbe circa 600 miliardi l’anno, un terzo del Pil?Anche se si limitasse l’importo del reddito e il numero dei beneficiati, il costo minimo sarebbe sui 150 miliardi. L’unico modo di trovare i fondi sarebbe tassare la creazione monetaria da parte delle banche, la quale va a casa ma non viene registrata come ricavo. Il tassarla non graverebbe sui bilanci delle banche, i quali anzi migliorerebbero, proprio perché si registrerebbero i ricavi, oggi non registrati, da creazione monetaria. Secondo: che scopo ha questo reddito di cittadinanza? intendo: che scopo vero? Ovviamente non è quello di rilanciare l’economia, dato che, se “l’Europa” volesse questo, avrebbe già da tempo cambiato il suo modello finanziario, il “Patto di stabilità e sviluppo” che, da quando è in vigore, ha portato dal 35 al 75% i paesi fuori dai parametri e ha generalizzato la stagnazione – cioè ha prodotto instabilità e blocco dello sviluppo. Quindi è chiaro che “l’Europa” vuole questo: destabilizzazione e impoverimento. Altrimenti avrebbe cambiato modello da tempo.Credo perciò che lo scopo vero del reddito universale sia quello di far perdere forza agli euro-scettici nelle prossime elezioni – soprattutto in Francia e in Italia – accontentando e tranquillizzando la gente nel breve termine, in modo che si lasci guidare e continui a credere del modello generale dell’Unione Europea. E, e nel medio termine, realizzare, proprio mediante gli squilibri finanziari che produrrà il costo di questo reddito universale, una destabilizzazione profonda, che crei le condizioni emergenziali per una profonda ristrutturazione autoritaria e tecnocratica degli assetti costituzionali.(Marco Della Luna, “Juncker, Renzi e il reddito di cittadinanza”, dal blog di Della Luna del 31 gennaio 2017).Il governo Gentirenzi e il Partito Democratico progettano, per la imminente campagna elettorale, di attribuirsi il merito dell’introduzione del reddito di cittadinanza, soffiandolo al M5S. Il programma è che il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker venga a Roma, probabilmente il 25 marzo, per i festeggiamenti del cinquantenario dell’Unione Europea, e quivi annunci che l’Europa prescrive che i governi elargiscano un reddito universale di base, di importo sufficiente per una vita dignitosa, a tutti i cittadini. La notizia di questo annuncio è stata lanciata da “Reuters” all’estero alcuni giorni fa, ma in Italia pare nessuno voglia diffonderla – tanto per dire quanto sono liberi i nostri giornalisti. Renzi si vanterà di aver ottenuto tale successo in linea con il suo bonus di 80 euro mensili. Ne farà il suo cavallo di battaglia per le elezioni. Due quesiti essenziali. Primo: come finanziare questo reddito, dato che concedere 1000 euro al mese a tutti i cittadini italiani costerebbe circa 600 miliardi l’anno, un terzo del Pil?
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L’Italia sogna l’uomo forte, ma ha soltanto leader deboli
«Così, fra i cittadini è cresciuto il distacco dalla dimensione pubblica», scrive Diamanti su “Repubblica”. «Al “senso civico” è subentrato il “senso cinico”». Mentre, per citare Bauman, si è diffusa «la solitudine del cittadino globale». Ed è così che «la prospettiva di “un Uomo Forte al governo” è divenuta tanto popolare. Che non significa populista. Ma lo può diventare, se non trova risposta nei partiti». A quel punto, «i cittadini restano soli», davanti ai loro monitor: «Dialogano, interagiscono e reagiscono con il mondo soprattutto attraverso la rete. Mediante i Pc, i tablet e, soprattutto, gli smartphone. Basta guardarsi intorno, nei luoghi pubblici, per trovarsi circondati da persone che camminano oppure stanno ferme, ma con gli occhi fissi sullo smartphone, mentre le dita battono sui tasti». Una “folla solitaria”, per echeggiare il noto saggio di David Riesman. «“Affollata” di persone che sono sempre in comunicazione con gli altri, con il mondo, ma sono sempre sole. Meglio non stupirsi, allora, se cresce la domanda di un Uomo Forte. “Autorevole”, non “autoritario”. Un “leader”, non un “dittatore”». Già, perché «questa società è allergica ai vincoli e alle regole: figurarsi se accetterebbe figure troppo “forti”. Basta vedere che fine ha fatto Silvio Berlusconi, o le difficoltà che incontra Matteo Renzi».Fino a pochi mesi fa, infatti, si marciava verso un bicameralismo “imperfetto”, con un Senato ridimensionato. E una legge elettorale a doppio turno, «a sostegno di una democrazia maggioritaria». Tutto a monte: prima la bocciatura imposta dal referendum, che ha confermato l’attuale Senato e dunque il bicameralismo classico. Poi la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio: se per vincere bisogna ottenere il 40% dei voti, l’Italia resterà senza maggioranze né leadership precise, annota Diamanti sempre su “Repubblica”. Se Renzi è il vero sconfitto dal referendum, i vincitori sono frammentati e incompatibili tra loro. «E in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria», dal momento che «non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno».Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono semmai il ritorno dei partiti, come ha suggerito con qualche ironia Giuliano Ferrara, intervistato dall’“Unità”. «D’altra parte – aggiunge Diamanti – gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli, lontani dalla società e dal territorio». Il Pd, ad esempio, ha visto dimezzarsi i suoi iscritti negli ultimi tre anni: erano 76.000 nel 2013, oggi sono appena 37.000. Ma non è solo un problema italiano: la sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su “Le Monde”. In Francia, in vista delle presidenziali, il Ps non è mai apparso tanto debole, stretto fra la sinistra di Mélenchon e il centro di Macron. Ma anche altrove: in Germania, in Spagna, in Gran Bretagna. E perché? Diamanti qui non lo spiega, ma la risposta sta emergendo in modo plateale: cooptata dall’élite neoliberista e privatizzatrice, l’ex “sinistra riformista” ha presentato ai cittadini ricette inevitabilmente “deludenti”, impopolari, che hanno gonfiato le fila dei cosiddetti “populisti”.In Italia, i personaggi teoricamente accreditati come uomini-contro sono Grillo e Salvini, il primo a capo di un “non-partito”, il secondo alla guida di una Lega che ieri era «il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa», mentre ora «si è a sua volta personalizzata», inseguendo con fatica «la prospettiva di una destra lepenista-nazionale», incarnata in Francia dall’unica figura “forte” sulla scena, Marine Le Pen, contraltare perfetto dell’altra lady di ferro europea, Angela Merkel: più che l’Uomo Forte, oggi, la politica europea propone la Donna Forte. E in Italia? «Dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti», conclude Diamanti. Partiti «dis-organizzati e poco radicati: anzi, s-radicati nella società e sul territorio». E così, «mentre si cerca – e insegue – un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti». Perché la forza del leader «sta nella capacità di dare volto e voce ai cittadini», che sono «in cerca di valori, ma anche di persone in cui riconoscersi: per non sentirsi deboli, e disorientati». Si guarda agli Usa? «Da noi, però, non c’è un Trump», comunque lo si valuti, «ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste». Sicchè, chiosa Diamanti, «due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato».Da Trump a Putin, l’Uomo Forte torna di moda. Niente a che vedere con i grandi leader del passato, i giganti della storia del secondo ‘900 – Mao e Fidel, i Kennedy, Gorbaciov. In Italia ogni tanto qualche intellettuale rimpiange personaggi come Adriano Olivetti ed Enrico Mattei, leader identitari come Berlinguer, statisti spericolati come Craxi. Poi vennero Bossi e Berlusconi. Dopo la meteora Renzi, oggi siamo tornati al modello Gentiloni, «un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare, lontano dall’icona del Capo», osserva Ilvo Diamanti, che segnala quanto sia diffusa, fra i cittadini, la domanda di un “uomo forte”. Dal lontano 2004, i sondaggi Demos ricostruiscono la tendenza di questo orientamento, mai così estesa: 8 italiani su 10. «Significa, praticamente, (quasi) tutti i cittadini». Un segnale inquietante? Non proprio: «L’Uomo Forte, che ottiene tanti consensi fra gli italiani, non è un nuovo Mussolini, un Duce. Non manifesta una richiesta di “autoritarismo”. Piuttosto: di “autorità”. Cioè: di una leadership dotata di legittimità». Domanda che si è pian piano “personalizzata”, concentrata sulle singole persone, dopo che i partiti hanno perduto i legami con la società, gestendo istituzioni sempre più “lontane”, burocrazie anonime e minacciose come quella dell’Ue.
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Soviet 5 Stelle, è il trucco perfetto per non governare mai
Avete presente quei vecchi film sulla guerra fredda, in cui i militari dell’esercito dell’Urss, anche i più alti in grado, agivano timidamente sotto l’occhio vigile dell’ufficiale politico, a cui bastava una parola per mandare chiunque nei campi di concentramento siberiani? Il nuovo diktat lanciato dal blog dell’ex comico diventato leader maximo è in pratica la stessa cosa: tutte le comunicazioni pubbliche degli eletti 5 Stelle, siano a mezzo stampa, tv o web, dovranno essere vagliate ed autorizzate dal sov, ehm, dagli addetti appuntati da Grillo in persona. Pena il “licenziamento”. Con buona pace della lotta di anni contro chi voleva mettere il bavaglio al web. Grillo, ai suoi, il bavaglio glielo mette prima che arrivino al web. «Com’è democratico, Lei…», direbbe Fracchia. L’imposizione arriva con la scusa delle trappole che i giornalisti cattivoni tendono ai giovani virgulti pentastellati. Ma forse a Grillo non sono andate giù le esternazioni degli europarlamentari del suo partito, che un paio di settimane fa erano rimasti sconcertati dalle manovre fatte alle loro spalle per portare via il partito dal gruppo degli euroscettici e farlo unire ai montiani di ferro.Alcuni europarlamentari avevano dichiarato il loro dissenso sui loro account social, e sono usciti dal partito dopo la votazione bulgara sulla piattaforma di Casaleggio, nonostante che poi i montiani dell’Alde hanno almeno avuto la coerenza di mandare Grillo a stendere. E così, tutti sottoposti a censura preventiva. Tutti tranne il capo, ovviamente, che poi spesso è quello che ne avrebbe più bisogno, viste certe sue uscite infelici. L’ultima delle quali è «la politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come Donald Trump e Vladimir Putin», frase che Grillo ha immediatamente smentito accusando i giornalisti di avere tradotto male le sue parole. Peccato solo che l’autore dell’articolo apparso su un giornale francese abbia, a quanto pare, una copia dell’articolo firmata da Grillo stesso dopo averlo riletto e approvato. Forse ha bisogno lui di un addetto personale che gli ficchi un tappo in bocca quando serve, più che ai suoi parlamentari. In realtà però anche queste spiegazioni sono insoddisfacenti. Chiunque abbia occhi non può non aver notato che i più grandi autogol del Movimento 5 Stelle non sono venuti dai parlamentari, anzi!Ciò che allontana sempre più persone dal sogno a 5 stelle è principalmente colpa dello stesso Grillo e dei suoi più intimi: le espulsioni dei dissidenti, poi il voltafaccia fallito in Europa, e ora la censura preventiva modello Stalin, sembrano proprio misure fatte apposta per perdere consensi. E in effetti dopo il fallimento di Renzi al referendum, i 5 Stelle corrono il rischio di essere il primo partito in ipotetiche elezioni. “Fortuitamente”, Gentiloni & Co. faranno in modo che si vada a votare il più tardi possibile, di modo che Grillo abbia tutto il tempo di ridurre i consensi dei 5 Stelle. D’altronde la strategia è chiara da anni: evitare il rischio di potere/dovere andare davvero al governo, e mantenere un contenitore del dissenso di dimesioni adeguate che sia formato il più possibile da individui fideizzati e poco critici. D’altronde Grillo stesso ha confermato che non farà mai alleanze con «i partiti che hanno devastato l’Italia», il che, a meno che i 5 stelle non prendano la maggioranza assoluta, significa che vuole stare all’opposizione pure dopo le prossime elezioni.I pentastellati di spicco blaterano di voler portare avanti il programma votato dai loro elettori nel 2013, ma come si fa a portare avanti un qualsiasi programma quando si è sempre in minoranza e non si fanno accordi? Se avessero voluto realmente portare avanti il programma, si sarebbero accordati con il debole Bersani all’epoca, potendo imporre molte condizioni; in quel modo di certo avrebbero avuto l’opportunità ed il peso per farne attuare almeno una parte. Si chiama democrazia, e la Costituzione che abbiamo appena difeso si basa proprio sul principio dell’ingovernabilità, ovvero è stata progettata per garantire che le varie fazioni si mettano d’accordo a tutti i livelli, i belli con i brutti, i santi coi peccatori, e nel periodo in cui è stata applicata ha funzionato benissimo. Invece la scelta infausta di 4 anni fa sembra che sarà ripetuta anche la prossima volta. E non ci sembra che in questi 4 anni siano state portate avanti parti rilevanti del programma grillino. La pena maggiore è per quei tanti bravi parlamentari che credevano veramente di stare partecipando ad una forza di cambiamento. Che hanno lavorato e lavorano sodo, ma che poi non vedono mai frutti realmente importanti.(Enrico Carotenuto, “Soviet a 5 stelle: tutte le comunicazioni dei parlamentari dovranno essere vagliate dagli ‘ufficiali politici””, da “Coscienze in Rete” del 25 gennaio 2017).Avete presente quei vecchi film sulla guerra fredda, in cui i militari dell’esercito dell’Urss, anche i più alti in grado, agivano timidamente sotto l’occhio vigile dell’ufficiale politico, a cui bastava una parola per mandare chiunque nei campi di concentramento siberiani? Il nuovo diktat lanciato dal blog dell’ex comico diventato leader maximo è in pratica la stessa cosa: tutte le comunicazioni pubbliche degli eletti 5 Stelle, siano a mezzo stampa, tv o web, dovranno essere vagliate ed autorizzate dal sov, ehm, dagli addetti appuntati da Grillo in persona. Pena il “licenziamento”. Con buona pace della lotta di anni contro chi voleva mettere il bavaglio al web. Grillo, ai suoi, il bavaglio glielo mette prima che arrivino al web. «Com’è democratico, Lei…», direbbe Fracchia. L’imposizione arriva con la scusa delle trappole che i giornalisti cattivoni tendono ai giovani virgulti pentastellati. Ma forse a Grillo non sono andate giù le esternazioni degli europarlamentari del suo partito, che un paio di settimane fa erano rimasti sconcertati dalle manovre fatte alle loro spalle per portare via il partito dal gruppo degli euroscettici e farlo unire ai montiani di ferro.
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Bella democrazia, se il popolo italiano non conta più niente
Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo. Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?A questo siamo. La Repubblica fondata sul lavoro non consente ai cittadini di pronunciarsi sulla legge che nega i diritti del lavoro. Perché? Perché la Consulta fa politica con le sentenze. Bisogna dirlo, gridarlo dai tetti. Una seconda sconfitta – questa volta sull’articolo 18 – avrebbe demolito definitivamente ogni pretesa di Renzi alla guida del paese. Il referendum andava fermato o depotenziato: chi doveva capire ha capito e votato – nell’organismo “impolitico” – secondo i desideri della politica: della maggioranza governativa, s’intende. E i cittadini? I cahier de doléances? Proteste, referendum vinti, mobilitazioni, referendum richiesti (con milioni di voti) non contano nulla. Il popolo – teoricamente sovrano – è ignorato. E impoverito: la disoccupazione cresce (vedi dati Istat), «l’occupazione crolla sotto i 50 anni e salgono i voucher». Camusso ha ragione: «Non c’è libertà nel lavoro senza diritti». Di più: non c’è democrazia reale senza attenzione ai bisogni primari dei cittadini: le persone non sono numeri.È una sentenza ingiusta, quella della Consulta, arrivata mentre il popolo è offeso anche su altri versanti: le banche, a cominciare da Montepaschi, sono state spolpate da imprenditori rapaci (che hanno abusato di Orazio: «Fai quattrini, onestamente, se puoi, e se no, come ti capita»). C’è da stupirsi se qualcuno s’incazza? Mi meraviglio piuttosto della capacità di sopportazione degli italiani. Decisivi i 5 Stelle: altro che Movimento anti sistema! Contengono la protesta nei binari della legalità. La sinistra renziana, ormai, è aliena rispetto al mondo operaio: può dirsi di sinistra un partito che salva Montepaschi ma non riesce a tutelare i diritti dei lavoratori né dalle truffe bancarie né dagli illegittimi licenziamenti del Capitale? È il nodo politico dei nostri giorni: la sinistra di governo – com’è stata ridotta – non rappresenta più l’universo del lavoro. Il M5S è percepito come il nuovo (diritti, partecipazione, democrazia diretta) ma deve evitare errori grossolani in politica estera: le giravolte dal gruppo anti all’iper europeista. Non presti il fianco a chi parla di “Setta dell’Altrove”. Non è così.Il Movimento è affidabile e combatte in Italia battaglie di civiltà, ma lo scivolone di Bruxelles c’è stato. Bisogna riconoscerlo e ripartire: con la consapevolezza che le vere “sette” nel nostro paese hanno spolpato Montepaschi (vogliamo la lista dei grandi debitori); influenzato la Consulta sul Jobs act; costruito governi anomali; demonizzato il popolo: il M5S ha il consenso necessario per spazzare via tutto questo. Non disperda le sue energie con scivoloni assurdi e cerchi alleanze nella società civile: ha bisogno di una classe dirigente preparata. Basta con la richiesta di denaro ai transfughi (ci sono sempre stati in tutti i partiti), il Movimento si pensi, adesso, come forza di governo. Nulla fa più paura, alla varie massonerie che ammorbano il paese, della normalità politica conquistata/conquistabile dai pentastallati. “La moderazione – a un certo punto – diventa la tattica preferibile”.(Angelo Cannatà, “Democrazia, se il popolo non conta più nulla”, da “Micromega” del 16 gennaio 2017).Quanto conta il popolo nella nostra democrazia? Molto sul piano teorico (“La sovranità appartiene al popolo”, non si poteva dir meglio); sul piano pratico, invece, nella politica e nei giochi di Palazzo, nulla, il popolo non conta nulla. Questa orribile dicotomia mostra – più di ogni cosa – la crisi in cui viviamo. Il popolo non conta nulla 1. Perché diritti, bisogni, proteste – e i movimenti che li rappresentano – sono tacciati di populismo e ghettizzati nell’irrilevanza: nell’universo politico delle oligarchie che affossano il paese non c’è posto per il demos. 2. Perché dopo la vittoria del 4 dicembre – per dirla in breve – resta al governo chi ha perso e ha provato (maldestramente) a riformare la Costituzione. 3. Perché, nonostante milioni di cittadini vogliano pronunciarsi sul Jobs Act, otto membri politicizzati della Consulta glielo impediscono: qualcuno può giurare, per dire, che Amato – l’amico di Craxi – non abbia espresso un voto politico dietro lo schermo (ipocrita) del neutralismo giuridico?
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Barnard: ci sveglieremo in altro pianeta, e nessuno ne parla
«Casaleggio vide lungo: voleva creare la società civile del click da casa, tutto si fa in casa sul divano, in rete», ma «era un principiante: Facebook-Vr sarà la più devastante paralisi civica dlla storia, un fenomeno che non sfiorò neppure i sogni del padre della paralisi civica programmata, Edward Bernays». Parola di Paolo Barnard, secondo cui il dilagare della cosiddetta realtà virtuale, da Zuckerberg a Oculus con i visori “Rift Headset”, ben fotografa i mutamenti epocali ormai dietro l’angolo: «Il mondo si sta letteralmente trasformando in un altro pianeta», mentre in Italia le news sono ancora firmate da Grillo e Formigoni, Mediaset-Vivendi, Gentiloni e Poletti. Il capo di stato maggiore dell’esercito britannico e il suo futuro omologo americano, scrive Barnard, stanno preparando gli eserciti alla guerra futura, che sarà “cyber”. Alla “Bbc” il generale Richard Barrons ha detto: «Non ci saranno più bombardieri e soldati, ma “cyber fighters”. La Russia di Putin ha fatto il primo passo, in questo, ed è avanti: hanno un milione di programmatori già affiliati a 40 reti illegali. Silicon Valley, Google e Nsa stanno arrancando dietro a Mosca».Le guerre, aggiunge il generale Barrons, saranno combattute «infiltrando le infrastrutture vitali di un paese avversario». Esempio: «Una notte le luci di tutta la Francia salteranno, e nel panico i francesi scopriranno che sono saltati anche i back-up, i server saranno tutti muti. Una potenza Nato messa in ginocchio in meno di un secondo, senza bombe». E che dire dell’energia? «Le rinnovabili uccideranno gli idrocarburi», scrive Barnard nel suo blog. «Questo lo si è capito ai massimi livelli in Usa, Cina, Arabia Saudita, ma soprattutto fra i colossi d’investimento. Chi segue “Carbon Tracker” si fa un’idea della furiosa corsa dei poteri mondiali per l’energia di domani, ma soprattutto del potenziale di conflitti mostruosi per la spartizione della torta. Tutti i paradigmi politici legati all’energia sono saltati, e l’energia è tutto. Miliardi di poveri del mondo rischiano di finire nelle mani degli investitori per accendere una lampadina, mille volte più di quanto non lo siano già oggi».Oltre ai conflitti “cyber”, poi, rimane l’atomica: «Se ci sarà conflitto nucleare sarà in due luoghi: il mar del Sud della Cina, dove gli Usa stanno tentando di tagliare le comunicazioni mercantili ed energetiche di Pechino; oppure nel Jammu-Kashmir, dove fra India e Pakistan la miccia atomica è letteralmente tutti i giorni a un centimetro dal fuoco», sostiene Barnard. Per non parlare della finanza: «Tutta Europa, e tutta la vita economica di ogni vivente oggi in Ue, è appesa al filo del “tapering” della Bce di Draghi. Il “tapering” è il momento certo e già annunciato nel quale la Bce finirà di tenere viva l’Europa comprandogli trilioni di euro di assets (statali e privati) che altrimenti nessuno vorrebbe o che avrebbero prezzi stracciati e tassi alle stelle». Il quantitative easing di Draghi «è oggi l’oggetto di discussione frenetica di tutti gli Ad di ogni singolo istituto finanziario del pianeta. C’è il totale panico, ed è panico vero», ma in Italia a tener banco sono solo la Raggi, Equitalia, i 104 indagati del Pd.Poche settimane fa, aggiunge Barnard, il più grande gruppo assicurativo del mondo, Ing, ha convocato un seminario con oltre 600 esperti mondiali sulla “glocalization”. Letteralmente, per Google: «Diffusione su scala mondiale, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, di elementi culturali, idee, stili di vita propri di realtà locali». Ma anche: «Strategia economica e politica volta a correggere gli aspetti più problematici della globalizzazione, sfruttandone le opportunità per valorizzare a livello mondiale il ruolo di governi, mercati o imprese locali». Per Wikipedia, il neologismo introdotto dal sociologo Zygmunt Bauman significa: «Adeguare il panorama della globalizzazione alle realtà locali, così da studiarne meglio le loro relazioni con gli ambienti internazionali». E quindi: «La creazione o distribuzione di prodotti e servizi ideati per un mercato globale o internazionale, ma modificati in base alle leggi o alla cultura locale», nonché «l’uso di tecnologie di comunicazione elettronica, come Internet, per fornire servizi locali su base globale o internazionale. Craigslist e Meetup sono esempi di applicazioni web glocalizzate». E infine: «La creazione di strutture organizzative locali, che operano su culture e bisogni locali, al fine di diventare multinazionali o globali. Questo comportamento è stato seguito da varie aziende e corporation, ad esempio dall’Ibm».Per Barnard, «è il fenomeno inverso della vecchia globalizzazione e dell’“outsourcing” dei posti di lavoro verso paesi a manodopera per pochi centesimi (Cina, Thailandia, Messico, Bangladesh)». Domanda: perché la “glocalization” sta diventando un altro tema di fibrillazione dei colossi e delle think-tank del mondo occidentale? «Perché anche qui tutti i paradigmi della produzione industriale sono saltati: siamo in un incubo d’incognite su cosa accadrà nel processo di “glocalization” ai nostri impieghi, alle nostre economie. Un intero mondo è di nuovo saltato in frantumi nel cosmo». Da noi chi ne parla? Nessuno. «Oggi le parole di filosofia politica e morale più impressionanti escono dalla bocca di uomini come Ray Dalio, Ceo di Bridgewater, hedge fund “monster”. O da Bill Gross, l’ex Re Mida di Pimco, il più grande gestore di “fixed income” del mondo», investitori in azioni private e titoli di Stato. «Parlano di informazione, di moralità nell’economia, delle strutture sociali, del senso della morte persino, ma lo fanno però con la conoscenza degli strumenti dei padroni del mondo, cioè con la conoscenza del motore che fa vivere o morire 7 miliardi di umani. Questo fa una differenza incredibile». Perfettamente inutili, dice Barnard, «gli sproloqui di filosofi o intellettuali contemporanei», perché «non sanno nulla del motore che fa vivere o morire 7 miliardi di umani». Conclusione: tutto sta cambiando alla velocità della luce, e nessuno ce lo spiega.«Casaleggio vide lungo: voleva creare la società civile del click da casa, tutto si fa in casa sul divano, in rete», ma «era un principiante: Facebook-Vr sarà la più devastante paralisi civica dlla storia, un fenomeno che non sfiorò neppure i sogni del padre della paralisi civica programmata, Edward Bernays». Parola di Paolo Barnard, secondo cui il dilagare della cosiddetta realtà virtuale, da Zuckerberg a Oculus con i visori “Rift Headset”, ben fotografa i mutamenti epocali ormai dietro l’angolo: «Il mondo si sta letteralmente trasformando in un altro pianeta», mentre in Italia le news sono ancora firmate da Grillo e Formigoni, Mediaset-Vivendi, Gentiloni e Poletti. Il capo di stato maggiore dell’esercito britannico e il suo futuro omologo americano, scrive Barnard, stanno preparando gli eserciti alla guerra futura, che sarà “cyber”. Alla “Bbc” il generale Richard Barrons ha detto: «Non ci saranno più bombardieri e soldati, ma “cyber fighters”. La Russia di Putin ha fatto il primo passo, in questo, ed è avanti: hanno un milione di programmatori già affiliati a 40 reti illegali. Silicon Valley, Google e Nsa stanno arrancando dietro a Mosca».
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Cuperlo: il Pd è morto, non ha ricette contro la catastrofe
Dopo le dimissioni del premier e le parole di dignità di quella notte ho visto un gruppo dirigente narcotizzato. La destra gioisce. È caduto il governo. Di bicameralismo si riparlerà tra qualche anno ed è iniziato il count down della legislatura senza che ci sia una legge elettorale. Intanto aumenta la sofferenza di chi vive sulla pelle la violenza di diseguaglianze sempre più grandi. Il referendum è stato soprattutto un voto politico che ha bocciato governo, classe dirigente e alcune riforme simboliche. Insegnanti, precari, giovani, Mezzogiorno, la fotografia reclama una svolta. Il Pd è senz’anima e se non lo capiamo è destinato a morire. La crisi peggiore del secolo dovrebbe spingere la sinistra a fare ciò che ha rinviato per anni, un ripensamento di sé, delle sue ricette. Flessibilità, liberalizzazioni, pareggio di bilancio sono stati un cedimento culturale che ha rimosso la lotta a disparità e discriminazioni sempre più odiose. Anche in Europa il risultato è una sinistra costretta a tifare Fillon o Merkel, senza una leadership e una strategia in grado di riscattare gli ultimi della fila. Se davanti a questa scena il primo partito della sinistra facesse come i proci a Itaca ci sarebbe da indignarsi.So riflettere sui miei limiti e anche sulle subalternità che vengono da prima. La norma sul pareggio di bilancio l’abbiamo votata noi quando Renzi era sindaco. Oggi il tema è come si ricuce con parti di società che hanno testa e cuore altrove. Sono stanco di sentire dal pulpito la scomunica dei caminetti e poi capire che si riuniscono in sacrestia. Ma quando deve discutere un partito segnato dalla sconfitta? Ho sentito capi corrente farsi di colpo paladini di una fase di decantazione per evitare altri traumi. Ma che opinione hanno dei circoli, dei nostri iscritti, di chi ci vota? Un congresso non si fa quando 10 persone decidono che sono pronti loro, lo si fa quando la realtà te lo chiede o te lo impone. Per me lo si deve fare prima delle elezioni e fissando regole nuove. Se la sinistra perde la fiducia verso le persone è difficile chiedere alle persone di avere fiducia in noi.Penso che Renzi abbia dato una scossa su temi importanti, dai migranti ai diritti civili, e che abbia commesso errori gravi, primo tra tutti aver coltivato l’isolamento sociale del Pd con riforme, dal lavoro alla scuola, vissute come schiaffo al nostro mondo. Per me, cambio di passo e del timoniere coincidono. Credo di avere coltivato la lealtà ed è quella stessa lealtà che mi porta oggi a denunciare cosa siamo diventati. Una confederazione di sotto-partiti. Il Pd rischia di esaurire la sua storia se non alza lo sguardo sulla realtà. Su cosa sia la grande crisi di questi anni, su come l’Occidente sta reagendo al venir meno del suo impianto spirituale, sulla fine delle politiche pubbliche che hanno dominato il ‘900, sul divario col Mezzogiorno che produce due nazioni in un corpo solo, sul bisogno di un modello alternativo di socialità e capitalismo. Se non abbiamo parole da dire su questo, il resto è ceto politico. Le norme sui voucher vanno cambiate. L’abuso è iniziato coi governi di prima e adesso la situazione è insostenibile. Penso che per primo Gentiloni ne sia consapevole. Poletti ha detto frasi scorrette e ora si è scusato. A me interessa l’inversione radicale di una politica sbagliata.(Gianni Cuperlo, dichiarazioni rilasciate ad Alessandra Longo nell’intervista “Non c’è anima né programma, senza congresso il Pd è morto”, pubblicata su “Repubblica” il 23 dicembre 2016).Dopo le dimissioni del premier e le parole di dignità di quella notte ho visto un gruppo dirigente narcotizzato. La destra gioisce. È caduto il governo. Di bicameralismo si riparlerà tra qualche anno ed è iniziato il count down della legislatura senza che ci sia una legge elettorale. Intanto aumenta la sofferenza di chi vive sulla pelle la violenza di diseguaglianze sempre più grandi. Il referendum è stato soprattutto un voto politico che ha bocciato governo, classe dirigente e alcune riforme simboliche. Insegnanti, precari, giovani, Mezzogiorno, la fotografia reclama una svolta. Il Pd è senz’anima e se non lo capiamo è destinato a morire. La crisi peggiore del secolo dovrebbe spingere la sinistra a fare ciò che ha rinviato per anni, un ripensamento di sé, delle sue ricette. Flessibilità, liberalizzazioni, pareggio di bilancio sono stati un cedimento culturale che ha rimosso la lotta a disparità e discriminazioni sempre più odiose. Anche in Europa il risultato è una sinistra costretta a tifare Fillon o Merkel, senza una leadership e una strategia in grado di riscattare gli ultimi della fila. Se davanti a questa scena il primo partito della sinistra facesse come i proci a Itaca ci sarebbe da indignarsi.
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Avevamo Olof Palme, poi sull’Europa hanno spento la luce
Nessuno sceglie, nessuno parla, nessuno denuncia. Nessuno decide: come se non fosse tempo di determinazioni importanti. Ciascuno, nel frattempo, gioca la sua partita, nelle retrovie, lontanissimo dal match decisivo. Gentiloni, Renzi, Grillo e tutti gli altri. Capitani e comparse, chi è di scena? Di chi è il turno? Beppe Sala? Virginia Raggi? I padri nobili del referendum che doveva salvare l’Italia o affossarla? Dopo esser riuscito solo in parte a esaudire i desideri del grande potere, fingendo di risollevare le sorti del paese, il piazzista Renzi prova a stilare il calendario del suo glorioso ritorno – ma senza smettere di scherzare, senza nemmeno provare a mettersi dalla parte giusta, quella degli italiani stritolati dalla morsa dell’oligarchia che ha affidato l’Europa (e l’Italia in paticolare) alle amorevoli cure della Bce e dalla Commissione Europea. Al governo non ci sono politici: c’è il Fiscal Compact, c’è il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione da Mario Monti con il voto bipartisan di Berlusconi e del silente Bersani, l’uomo secondo cui, misteriosamente, il Pd sarebbe qualcosa di diverso dal supremo potere cui obbedisce la nomenklatura di Bruxelles che taglia sovranità e democrazia, rottama e privatizza gli Stati, riduce i cittadini a sudditi.Gli italiani votano No al referendum, e prontamente viene sistemato a Palazzo Chigi l’ectoplasma del governo appena battuto, inutilmente bocciato dagli elettori. Nel frattempo un calendario provvidenziale scatena le tempestive bufere giudiziarie che scuotono le due città più importanti, dirompenti e chiassose, quasi come gli attentati dinamitardi che insanguinano la tenebrosa Turchia di Erdogan, sponsor Nato dell’Isis, o le bombe russe e siriane cadute su Aleppo, dove giornali e televisioni scoprono che una guerra devastante si è trasformata in un martirio di popolazioni, ma si guardano bene dal ricordare al pubblico chi l’ha iniziata, quella guerra, chi l’ha finanziata e armata, chi – dalla Casa Bianca – l’ha protetta con la menzogna quotidiana, con l’intelligence e i missili, con la disinformazione più cieca. L’Italia (governo) ha tifato per Hillary e Obama, ha fatto la òla per il Ttip, ha approvato le sanzioni alla Russia, ha belato ininterrottamente a Bruxelles, ha lasciato che la Germania macellasse la Grecia. E alla fine ha provato persino a recitare il copione della diversità, invocando – ma solo per finta, per scherzo – un allenamento dell’austerity, cioè della norma fisiologica adottata dal regime Ue per depotenziare l’Europa, riducendola a comparsa internazionale, nel momento in cui – caduto il Muro di Berlino – poteva finalmente giocare la protagonista.Il peccato originale? Fu commesso trent’anni fa, il 1° marzo 1986, con l’assassinio di Olof Palme in Svezia. Lo scrive Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”. Nella sua ricostruzione, Palme fu ucciso da un complotto rimasto oscuro, del quale però alcune tracce – anche scritte – portano a un certo Licio Gelli e al suo “principale”, il politologo americano Michael Ledeen, ancora in circolazione e più che mai influente, anche nel retrobottega del governo Renzi. Olof Palme, leader socialdemocratico, era il padre del moderno welfare europeo, il massimo profeta della filosofia politica dell’interesse pubblico, la promozione del benessere diffuso, l’estensione dei diritti, la democrazia avanzata in cui si coniugano libertà e socialismo, lavoro e dignità, pari opportunità per tutti. Era il prototipo, Olof Palme, di un’Europa diversa: un’Europa amica, autorevole, giusta. Un’Europa che non abbiamo mai visto, che mai avrebbe sprofondato gli Stati nella catastrofe della crisi, lasciandoli in balìa di incursoni e predoni, con mano libera nei palazzi del potere locale grazie a una piccola casta di governatori asserviti, di vassalli obbedienti, di mediocri traditori travestiti da algidi burocrati o, all’occorrenza, da sulfurei masanielli dal roboante eloquio (ma dall’innocuo agire). L’infima Italia del 2016, il paese dove nessuno propone vere vie d’uscita, sembra la fotografia perfetta di questa Europa pericolosamente in avaria.Nessuno sceglie, nessuno parla, nessuno denuncia. Nessuno decide: come se non fosse tempo di determinazioni importanti. Ciascuno, nel frattempo, gioca la sua partita, nelle retrovie, lontanissimo dal match decisivo. Gentiloni, Renzi, Grillo e tutti gli altri. Capitani e comparse, chi è di scena? Beppe Sala? Virginia Raggi? I padri nobili del referendum che doveva salvare l’Italia o affossarla? Dopo esser riuscito solo in parte a esaudire i desideri del grande potere, fingendo di risollevare le sorti del paese, il piazzista Renzi prova a stilare il calendario del suo glorioso ritorno – ma senza smettere di scherzare, senza nemmeno provare a mettersi dalla parte giusta, quella degli italiani stritolati dalla morsa dell’oligarchia che ha affidato l’Europa (e l’Italia in particolare) alle amorevoli cure della Bce e dalla Commissione Europea. Al governo non ci sono più politici: c’è il Fiscal Compact, ormai; c’è il pareggio di bilancio inserito nella Costituzione da Mario Monti con il voto bipartisan di Berlusconi e del silente Bersani, l’uomo secondo cui, misteriosamente, il Pd sarebbe qualcosa di diverso dal supremo potere cui obbedisce la nomenklatura di Bruxelles che taglia sovranità e democrazia, rottama e privatizza gli Stati, riduce i cittadini a sudditi.
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Disgustoso Poletti, avete fatto di noi i camerieri d’Europa
«Caro ministro Poletti, le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano». Comincia con queste parole la lettera aperta che Marta Fana, ricercatrice impegnata a Parigi, ha affidato a “L’Espresso” dopo la sconcertante uscita dell’ex dirigente LegaCoop, ora membro dell’esecutivo Gentiloni: «Centomila giovani in fuga dall’Italia? Conosco gente che è bene non avere tra i piedi». Poletti ha espresso in modo esplicito un pensiero che dimostra la ormai storica rassegnazione dell’ex sinistra al pensiero unico, quello del mercato, sancita da personalità come Tiziano Treu e Marco Biagi, che hanno firmato le tappe fondamentali della revoca dei diritti del lavoro, per poi arrivare allo scempio della riforma Fornero e al Jobs Act renziano. «Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più – scrive Marta Fana – non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci. Parlo dei voucher, ministro». L’Inps ha appena reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando Poletti è ministro, ne sono stati venduti oltre 265 milioni: «E’ sfruttamento. Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa».Marta Fana si riferisce a un ragazzo di 21 anni, senza indennità per malattia perché «faceva il saldatore a voucher». E aggiunge: «Oggi, senza quattro dita, lei gli offrirà un assegno di ricollocazione da corrispondere a un’agenzia di lavoro privata. Magari di quelle che offrono contratti rumeni, perché tanto dobbiamo essere competitivi». Quelli che sono rimasti, continua la lettera, sono coloro che per colpa di queste politiche si sono trovati in pochi anni da “generazione 1.000 euro al mese” a “generazione a 5.000 euro l’anno”. «Lo stesso vale per chi se n’è andato e forse prima o poi vi verrà il dubbio che molti se ne sono andati proprio per questo. Quelli che sono rimasti sono gli stessi che lavorano nei centri commerciali con orari lunghissimi e salari da fame. Quelli che fanno i facchini per la logistica e vedono i proprio fratelli morire ammazzati sotto un tir perché chiedevano diritti contro lo sfruttamento. Sono quelli che un lavoro non l’hanno mai trovato, quelli che a volte hanno pure pensato “meglio lavorare in nero e va tutto bene perché almeno le sigarette posso comprarle”».Sono gli stessi che «non possono permettersi di andare via da casa, o sempre più spesso ci ritornano», perché il governo, come i precedenti,«invece di fare pagare più tasse ai ricchi e redistribuire le condizioni materiali per il soddisfacimento di un bisogno di base e universale come l’abitare, ha pensato bene di togliere le tasse sulla casa anche ai più ricchi e prima ancora di approvare il piano casa». È lo stesso governo che «spende lo 0% del Pil per il diritto all’abitare», e che «si rifiuta di ammettere la necessità di un reddito che garantisca a tutti dignità». Marta Fana non si dichiara “redditista”, ma spiega: «A fronte di 17 milioni di italiani a rischio povertà, quattro milioni in condizione di povertà assoluta, mi pare sia evidente che questo passaggio storico per l’Italia non sia oggi un punto d’arrivo politico quanto un segno di civiltà». La colpa «è vostra», scrive la Fana: è colpa di voi politici, «che credete che siano le imprese a dover decidere tutto e a cui dobbiamo inchinarci e sacrificarci». Il capolavoro? «Spostare quasi 20 miliardi dai salari ai profitti d’impresa senza chiedere nulla in cambio – tanto ci sono i voucher», per poi ridurre le tasse sui profitti. «Così potrete sempre venirci a dire che c’è il deficit, che si crea il debito e che insomma la coperta è corta e dobbiamo anche smetterla di lamentarci».Il governo non crede nell’istruzione e nella cultura, vara “La Buona Scuola” ma taglia i fondi a scuola e università, e quindi spedisce il giovani a lavorare da McDonald’s: «Anche loro hanno un diploma o una laurea e se li dovesse mai incontrare per strada – scrive la Fana a Poletti – chieda loro com’è la loro vita e se sono felici. Le risponderanno che questa vita fa schifo. Però ecco: a differenza di quel che ha decretato il suo governo, questi giovani all’estero sono pagati». Ma il peggio, continua la lettera al ministro, «è che lei e il suo governo state decretando che la nostra generazione, quella precedente e le future siano i camerieri d’Europa, i babysitter dei turisti stranieri, quelli che dovranno un giorno farsi la guerra con gli immigrati che oggi fate lavorare a gratis». L’imbarazzante esternazione del ministro? «A me pare chiaro che lei abbia voluto insultare chi è rimasto piuttosto che noi che siamo partiti». E ancora: «Non ho capito che cosa voi offrite loro se non la possibilità di essere sfruttati, di esser derisi, di essere presi in giro con 80 euro che magari l’anno prossimo dovranno restituire perché troppo poveri». Tutto questo «rasenta l’ignobile tentativo di rendere ognuno di noi sempre più ricattabile, senza diritti, senza voce, senza rappresentanza».In Italia, ormai, studia solo «chi ha genitori che possono pagare e sostenere le spese di un’istruzione sempre più cara». Insiste la Fana, rivolta a Poletti: «Lei non ha insultato soltanto noi, ha insultato anche i nostri genitori che per decenni hanno lavorato e pagato le tasse, ci hanno pagato gli asili privati quando non c’erano i nonni, ci hanno pagato l’affitto all’università finché hanno potuto». Molti di questi genitori, poi, «con la crisi sono stati licenziati». Finito il sussudio di disoccupazione, «potevano soltanto dirci che sarebbe andata meglio, che ce l’avremmo fatta, in un modo o nell’altro. In Italia o all’estero. Chieda scusa a loro – insiste Marta Fana – perché noi delle sue scuse non abbiamo bisogno». E aggiunge: «Noi la sua arroganza, ma anche evidente ignoranza, gliel’abbiamo restituita il 4 dicembre, in cui abbiamo votato No per la Costituzione, la democrazia, contro l’accentramento dei poteri negli esecutivi». No alla supremazia del mercato. «Era anche un voto contro il Jobs Act, contro la “buona scuola”, il piano casa, l’ipotesi dello stretto di Messina, contro la compressione di qualsiasi spazio di partecipazione. E siamo gli stessi che faranno di tutto per vincere i referendum abrogativi contro il Jobs Act, dall’articolo 18 ai voucher, la battaglia è la stessa. Costi quel che costi, noi questa partita ce la giochiamo fino all’ultimo respiro. E seppure proverete a far saltare i referendum con qualche operazioncina di maquillage, state pur certi che sugli stessi temi ci presenteremo alle elezioni dall’estero e dall’Italia».«Caro ministro Poletti, le sue scuse mi imbarazzano tanto quanto le sue parole mi disgustano». Comincia con queste parole la lettera aperta che Marta Fana, ricercatrice impegnata a Parigi, ha affidato a “L’Espresso” dopo la sconcertante uscita dell’ex dirigente LegaCoop, ora membro dell’esecutivo Gentiloni: «Centomila giovani in fuga dall’Italia? Conosco gente che è bene non avere tra i piedi». Poletti ha espresso in modo esplicito un pensiero che dimostra la ormai storica rassegnazione dell’ex sinistra al pensiero unico, quello del mercato, sancita da personalità come Tiziano Treu e Marco Biagi, che hanno firmato le tappe fondamentali della revoca dei diritti del lavoro, per poi arrivare allo scempio della riforma Fornero e al Jobs Act renziano. «Noi, quei centomila che negli ultimi anni siamo andati via, ma in realtà molti di più – scrive Marta Fana – non siamo i migliori, siamo solo un po’ più fortunati di molti altri che non sono potuti partire e che tra i piedi si ritrovano soltanto dei pezzi di carta da scambiare con un gratta e vinci. Parlo dei voucher, ministro». L’Inps ha appena reso noto che nei dieci mesi del 2016 sono stati venduti 121 milioni e mezzo di voucher. Da quando Poletti è ministro, ne sono stati venduti oltre 265 milioni: «E’ sfruttamento. Sa, qualcuno ci ha rimesso quattro dita a lavorare a voucher davanti a una pressa».
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La fine del mondo per il Pd, l’Italia in crisi a sua insaputa
La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, decisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole utili al paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accento sullo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.A chi chiede timidamente se sia il caso di celebrare un congresso, creando così lo spazio necessario per sviluppare una riflessione profonda, Renzi risponde che non è ancora tempo di congressi, perché l’agenda richiede altre urgenze, la legge elettorale, le elezioni anticipate. Non è più epoca di congressi, da tempo: Forza Italia ha sempre e solo inscenato assemblee plebliscitarie, celebrative del Capo, e Grillo non è mai andato oltre i Vaffa-Day o le consultazioni online. Niente congressi, niente confronto di idee, nessuna analisi indipendente. Meglio correre, ferocemente divisi, nella stessa direzione: il baratro. Lo dimostra, una volta di più, la mancanza di timonieri alla guida del grosso barcone del Pd, una ciurma di naufraghi spaventati da quello che chiamano populismo, senza però riuscire a spiegarsi l’origine del fenomeno che – riconoscono – sta scuotendo come un brivido l’intero Occidente. Di tutto è lecito di parlare, tranne che di politica. Lo dice lo stesso Renzi, l’unico politico capace di auto-accusarsi di aver “politicizzato” il voto («la mia colpa non è stata la personalizzazione del referendum», dice, «ma la sua politicizzazione»).«Con questi dirigenti non vinceremo mai», sentenziò Nanni Moretti nel 2002, un milione di anni fa, pensando alla sua squadra di brocchi – D’Alema, Veltroni – e alla corazzata da battere, quella del Cavaliere. Ben lungi, Moretti, dall’intuire che il problema non era nemmeno la squadra, ma il campionato. Ci sono voluti anni, ma poi l’allenatore il suo campione l’ha messo in campo: solo che al massimo vince Renzi, non l’Italia. E Renzi è uno che vince comunque, anche quando perde, visto che di fronte non ha più nessuno. Non mantiene mai la parola data? Vero, ma anche questo è secondario: Renzi non ha mai nemmeno lontanamente sfiorato, neppure a parole, la verità nella quale è sprofondata l’Italia dopo che la sua classe dirigente, come ricorda Fassino, l’ha iscritta nel prestigioso campionato europeo del rigore e dell’austerity, dell’agonia del welfare, della morte della sovranità e quindi dell’economia. Nel Renzi-day, il Pd attacca la crisi romana dei grillini, il collasso politico della capitale dove – nessuno lo ricorda – fu proposto l’ingresso in municipio di un economista eretico come Nino Galloni, con in testa (lui sì) una soluzione per uscire dalla grande crisi inutilmente evocata da Fassino, la crisi che sta travolgendo l’Italia “a sua insaputa”, o almeno a insaputa di un partito che ancora acclama Renzi, così come i grillini acclamano Grillo. Il problema è ancora e sempre il leader, la squadra, e non il campionato? Se è così, i sabotatori dell’Italia possono dormire sonni tranquilli.La fine del mondo, ovvero: l’assemblea nazionale del Pd che incorona in trionfo il suo sovrano, Matteo Renzi, già tornato in cabina di regia dopo aver solennemente promesso che avrebbe lasciato la politica, in caso di sconfitta al referendum. Proprio la speranza di cancellarlo dagli schermi, trasversale a vari settori dell’elettorato, cominciando dai giovani, era stata la molla principale, per milioni di elettori, risoltisi a votare No. Tutto inutile, come da copione: Gentiloni a Palazzo Chigi insieme alla Boschi, e Renzi ancora lì. Soprattutto: è ancora lì il Pd, straordinario autoscatto di quest’Italia che sarebbe in crisi “a sua insaputa”. Dal palco romano dove si alternano i relatori è perfettamente inutile sperare di ascoltare parole spendibili per il paese, a parte le rituali e irrilevanti autocritiche sulle difficoltà del partito come macchina di consenso. Qualche accenno allo stato dell’arte proviene da esponenti come Cuperlo e Damiano, ma l’unico che fornisce una visione prospettica è il dinosauro Piero Fassino: la nostra, dice, è stata una sinistra cresciuta nel ‘900, nel fordismo, e oggi non difende più nessuno, non serve più. Fassino sfiora addirittura la verità dell’euro e dell’Ue, ma solo per ricordare quanto fu brava, la sinistra prodiana, a mobilitare gli italiani per convincerli ad affrontare i sacrifici necessari a entrare nel club della moneta unica.
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Un governo di spettri, guidato da un troll del Vaticano
Renzi “asfaltato” dai No, poi sarà il Vaticano a scegliere il nuovo capo del governo. Questa la profezia dell’ex ministro socialista Rino Formica, pronunciata con largo anticipo sull’esito del referendum che ha poi in effetti disarcionato il premier. Azzeccata anche la seconda parte della previsione? Parrebbe di sì, a leggere “Coscienze in Rete”, il blog del network creato da Fausto Carotenuto. Gentiloni, scrive oggi il newsmagazine, è «rampollo di una famiglia nota per ripetuti, secolari servizi al Vaticano nel campo dell’influenza nella politica italiana». Lo stesso Carotenuto definisce Gentiloni «di nobili, cattolicissimi lombi». Se il No del 4 dicembre ha rappresentato «un sospiro di sollievo», per quasi 20 milioni di italiani, felici di «non vedere più in tutti i media a ripetizione il bulletto toscano che pontifica sulla propria capacità di fare miracoli, con la faccia di tolla che spara bugie a raffica, circondato da un gruppetto di pretoriani invischiati con le peggiori lobbies», attenzione: «Stiamo attenti a non riaddormentarci subito. Perché il vero problema in effetti non era Renzi». Il fiorentino «non comandava e non decideva proprio nulla: era solo il “troll”, la maschera, il burattino del potere», che infatti «rimane intatto, come prima». Il vertice ha semplicemente “ordinato” al Quirinale di «nominare il suo nuovo troll». Gentiloni chi?«Già da un paio d’anni – scrive “Coscienze in Rete” – avvertiamo della presenza del Conte Paolo Gentiloni Siverij e delle sue fantasmagoriche imprese, dal Giubileo rutelliano o come ministro delle telecomunicazioni del governo Prodi, all’allegria con la quale, in qualità di ministro degli esteri di Renzi, si prostrava a John Kerry quando questi gli chiedeva soldi e uomini per le guerre americane in Medio Oriente». In guardia, dunque, da «un personaggio chiaramente schierato con i vincitori della corsa al potere negli ultimi anni». E non è un caso, aggiunge il blog, che «nel momento in cui serve l’ennesimo pretoriano per schiacciare i i redivivi, seppur flebili aneliti democratici di questo paese, ci mettano proprio lui». Forse, alla fine la scelta è caduta su Gentiloni per una questione d’immagine: «Uno come Padoan è troppo palesemente legato alla Troika, troppo chiacchierato. E le sue misure, tipo un eventuale ricorso al Mes per sovvertire l’esito referendario, avrebbero potuto creare malcontenti troppo estesi». Forse, «confidano che Gentiloni possa fare esattamente le stesse cose senza scatenare troppo putiferio: come cantava Mary Poppins, “Basta un poco di zuccero e la pillola va giù”».Quando «il conte» divenne ministro degli esteri per il governo Renzi, “Coscienze in Rete” lo accolse così: «Garantisce tutti i potenti, il Conte Paolo Gentiloni Siverij, di feudi e lombi marchigiani». Per conto di Rutelli sindaco di Roma «continuò la tradizione familiare e proprio lui fu nominato assessore al Giubileo, in contatto con la banda che se ne occupò». Uno dei principali esponenti di quella storica “impresa” fu «l’efficentista Bertolaso, “eroe” della mancata ricostruzione aquilana, del disastro della Maddalena e della trasformazione della Protezione Civile in comitato d’affari». Da ministro delle comunicazioni del governo Prodi, Gentiloni «fece la faccia cattiva di quello che doveva distruggere l’impero televisivo di Berlusconi, ma «in effetti la sua funzione si è poi risolta nel proteggerlo, magari a condizioni più utili ai veri circuiti di potere». Il “conte”, poi, «non si fa mancare nemmeno il fatto di essere vicinissimo ad ambienti israeliani e soprattutto americani», scriveva il blog. «E deve proprio essere stata qualche vocina gesuitico-massonica, supportata da manine statunitensi, ad averlo convinto ad essere uno dei primi a sostenere Renzi nel Pd, ben prima che si creasse l’onda opportunistica renziana di questi mesi».L’uomo giusto al posto giusto: al Giubileo, agli esteri, a Palazzo Chigi. «All’origine di ogni nobiltà materiale c’è un non detto, un qualcosa di inconfessabile e di indicibile compiuto al servizio di un potere oscuro più forte: lo stesso indicibile potere che mantiene certe famiglie nobili al potere per secoli», secondo “Coscienze in Rete”. Cosa farà ora questo «governo di spettri?». Se lo domanda Fausto Carotenuto, che saluta «il disgusto, unito al risveglio» degli elettori, che il 4 dicembre hanno mandato a casa «chi non lavorava per i cittadini, ma per altri poteri». Solo che, poi, se togli Renzi ti ritrovi Gentiloni. Missione del nuovo “troll” del potere: «Anestetizzare al massimo gli effetti politici del referendum». Al “conte” non manca il fisico giusto: ha «una faccia diversa» da quella di Renzi, «dimessa», nonché «un eloquio da confessionale, un portamento perfino un po’ contratto e ricurvo, l’espressione di chi è capitato lì per caso». E’ perfetto, per «dare alla gente l’impressione di una maggiore “innocuità”». Errore: «Non abbassiamo la guardia: anche lui continuerà a servire chi lo comanda, senza discussioni e con volontà ferrea. Nella costante ricerca della maggior possibile manipolazione e della riduzione al minimo della libertà di noi cittadini».Carotenuto ne è sicuro: «Con lui si cercherà di fare in modo che nulla cambi, ma questa volta senza nemmeno far finta di cambiare qualcosa. Ancora peggio del solito italico trasformismo descritto nel Gattopardo». Secondo le stime, l’apprezzamento della gente per il nuovo governo è sotto il 20 %: il più basso della storia. «Il che prelude chiaramente alla preparazione di scenari molto diversi di manipolazione della gente, non più affidati a questi gruppi di spettri ormai spenti ed inefficaci». Come dire: il peggio deve ancora arrivare. «Apparentemente il nuovo governo serve solo a fare la nuova legge elettorale. Ma non si è riempito di saggi costituzionalisti, bensì di un numero di “trolls” ancora maggiore del precedente, confermandone la maggior parte. In effetti il ruolo di questo governo è quello di non mollare la presa del potere nemmeno per un attimo sui veri scopi di ogni ministero, che i ministri di questo governo continueranno a perseguire con efficacia, facendo finta di dirigere ministeri che in effetti sono dominati da bande di burocrati inossidabili e inamovibili, di direttori generali e funzionari al soldo dei veri poteri di manipolazione». I ministri-troll? «Sono solamente degli spettri dotati di firma, che fanno solo da “copertura” ai lobbisti legati ai poteri oscuri». E l’orchestra è diretta – come annunciato da Formica – da un nobilissimo “amico” del Vaticano.Renzi “asfaltato” dai No, poi sarà il Vaticano a scegliere il nuovo capo del governo. Questa la profezia dell’ex ministro socialista Rino Formica, pronunciata con largo anticipo sull’esito del referendum che ha poi in effetti disarcionato il premier. Azzeccata anche la seconda parte della previsione? Parrebbe di sì, a leggere “Coscienze in Rete”, il blog del network creato da Fausto Carotenuto. Gentiloni, scrive oggi il newsmagazine, è «rampollo di una famiglia nota per ripetuti, secolari servizi al Vaticano nel campo dell’influenza nella politica italiana». Lo stesso Carotenuto definisce Gentiloni «di nobili, cattolicissimi lombi». Se il No del 4 dicembre ha rappresentato «un sospiro di sollievo», per quasi 20 milioni di italiani, felici di «non vedere più in tutti i media a ripetizione il bulletto toscano che pontifica sulla propria capacità di fare miracoli, con la faccia di tolla che spara bugie a raffica, circondato da un gruppetto di pretoriani invischiati con le peggiori lobbies», attenzione: «Stiamo attenti a non riaddormentarci subito. Perché il vero problema in effetti non era Renzi». Il fiorentino «non comandava e non decideva proprio nulla: era solo il “troll”, la maschera, il burattino del potere», che infatti «rimane intatto, come prima». Il vertice ha semplicemente “ordinato” al Quirinale di «nominare il suo nuovo troll». Gentiloni chi?
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Sicuri che Matteo Renzi si chiami davvero Matteo Renzi?
Il Cazzaro ha passato la campagna referendaria a promettere che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato dalla politica. Naturalmente non l’ha fatto. Indovinate perché. Vi do un aiutino. Perché è un cazzaro. È rimasto qualcuno che creda ancora alle parole di Matteo Renzi? A questo punto c’è persino da chiedersi se si chiami davvero Matteo Renzi. Invece di rendere conto della disfatta, mercoledì scorso ha liquidato la direzione del suo partito con un surreale comizietto trionfalistico pieno delle sue solite millanterie miste a spiritosaggini da cena aziendale, lasciando basiti i convocati, a cui è stato impedito di controbattere. Dopodiché ha ricominciato immediatamente a intrigare per restare al potere, personalmente come segretario del Pd, e al governo attraverso un suo fedelissimo, Paolo Gentiloni Silveri, rampollo dei Conti Gentiloni Silveri di Filottrano, Cingoli e Macerata, sessantottino pentito, ed ex delfino di Rutelli come Renzi. Quale migliore risposta all’incazzatura popolare che affidare la presidenza del Consiglio a un conte?Esecutore degli stessi mandanti, come pattuito il governo del conte Gentiloni è programmato per essere la fotocopia in bianco e nero di quello del Cazzaro, e durare almeno sei mesi. La scusa ufficiale è che occorrano soprattutto per rifare la legge elettorale. Indovinate un po’. Vi do un altro aiutino. È una cazzata. L’Italicum è una legge ordinaria, per abrogarla basta un voto parlamentare a maggioranza semplice, non c’è bisogno d’aspettare il parere della Consulta, volendo non ci vogliono sei mesi e nemmeno sei giorni. Abrogando l’Italicum, e ripristinando anche alla Camera il cosiddetto Consultellum, il proporzionale risultato dalle modifiche della Consulta al Porcellum, si potrebbe votare subito. Per quanto il Consultellum sia racchio, l’Italicum fa schifo al cazzo, come tutte le cose prodotte dal governo Renzi. È l’ultimo rimasuglio di quella controriforma fascistoide e golpista che abbiamo giustamente appena respinto a calci in culo.L’unico motivo per cui Grillo adesso sembra gradirlo, seppure corretto, è perché pensa di poterci vincere le elezioni. Originariamente confezionato dai renziani apposta per garantire il potere assoluto al loro spocchioso ducetto, l’Italicum s’è invece rivelato di fatto della taglia del M5S di Grillo. E i renziani danno degli incapaci ai grillini. Nei prossimi mesi, con l’aiuto dei berlusconiani più esperti di loro in riformaialate, i renziani cercheranno di scucire l’Italicum e ricucirlo di nuovo su misura del Cazzaro, che nel frattempo dovrà però faticare per non finire divorato dalle formiche carnivore della minoranza Pd che ha cercato di schiacciare per anni, e che ovviamente non vedono l’ora di vendicarsi. Se “Bastonare il Cazzaro che affoga” sarà il loro motto, per una volta avranno qualcosa da insegnarci. Infatti, benché la nostra del No al referendum sia stata una grande, epocale vittoria, finora è soltanto una mezza misura. No alla Cazzariforma, e anche alla sua continuazione con altri mezzi. No half measures.(Alessandra Daniele, “Il Patto Cazzaroni”, da “Carmilla online” dell’11 dicembre 2016).Il Cazzaro ha passato la campagna referendaria a promettere che in caso di sconfitta si sarebbe ritirato dalla politica. Naturalmente non l’ha fatto. Indovinate perché. Vi do un aiutino. Perché è un cazzaro. È rimasto qualcuno che creda ancora alle parole di Matteo Renzi? A questo punto c’è persino da chiedersi se si chiami davvero Matteo Renzi. Invece di rendere conto della disfatta, mercoledì scorso ha liquidato la direzione del suo partito con un surreale comizietto trionfalistico pieno delle sue solite millanterie miste a spiritosaggini da cena aziendale, lasciando basiti i convocati, a cui è stato impedito di controbattere. Dopodiché ha ricominciato immediatamente a intrigare per restare al potere, personalmente come segretario del Pd, e al governo attraverso un suo fedelissimo, Paolo Gentiloni Silveri, rampollo dei Conti Gentiloni Silveri di Filottrano, Cingoli e Macerata, sessantottino pentito, ed ex delfino di Rutelli come Renzi. Quale migliore risposta all’incazzatura popolare che affidare la presidenza del Consiglio a un conte?