Archivio del Tag ‘plastica’
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Il peggiore dei mondi possibili, nutrito dalla nostra paura
Sembrava il migliore dei mondi possibili, quello che l’Europa aveva di fronte a sé fino al 2001, precisamente il 20 luglio, quando al G8 di Genova esplose la follia opaca della violenza e a lasciarci la pelle fu Carlo Giuliani, immortalato mentre col suo estintore minaccia i carabinieri intrappolati in un gippone. Ma Genova era solo l’antipasto dell’inferno: due mesi dopo, crollarono di colpo le Torri Gemelle di Manhattan. Tremila vittime l’11 settembre, e altre 12.000 negli anni seguenti a causa dei tumori provocati dalla nube d’amianto. Nel 2003, in Italia, le prime ipotesi sul possibile auto-attentato vennero avanzate da Giulietto Chiesa, nel bestseller “La guerra infinita”, ignorato dai media. Nel 2005, a “Matrix”, in prima serata su Canale 5, Enrico Mentana ebbe il coraggio di trasmettere “Inganno globale”, esplosivo documentario in cui Massimo Mazzucco dimostra che la versione ufficiale (terrorismo islamico) è integralmente falsa. Era già cominciata, la grande retromarcia dell’Occidente, ma pochissimi se n’erano accorti. Tra questi Bettino Craxi, che da Hammamet spiegò che l’euro-finanza avrebbe spolpato l’Italia. E prima ancora l’economista keynesiano Federico Caffè, sparito nel nulla nel 1987. E così Olof Palme, l’inventore del welfare svedese, ucciso l’anno prima a Stoccolma. Doveva aver capito tutto anche Aldo Moro, minacciato di morte da Henry Kissinger poco prima che di lui si occupassero, teoricamente, le Brigate Rosse.
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Stiamo diventando sempre più stupidi: crolla il Qi in Europa
Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.Secondo gli studiosi norvegesi, le ragioni dell’incremento nell’intelligenza fino agli anni ‘70 sarebbero legate a un miglioramento di diversi fattori e condizioni di vita, dall’istruzione alla sanità, passando per l’alimentazione e il benessere generale. Ma a cosa è dovuto il preoccupante crollo del Qi avviatosi negli anni ‘70? Secondo gli scienziati di Oslo, la colpa sarebbe principalmente dei media, che avrebbero allontanato i giovani dalla lettura “intrappolandoli” davanti alla televisione e ai videogiochi, fino a indurli – negli ultimi anni – a trascorrere moltissime ore sui social network. I risultati dello studio, pubblicati sull’autorevole rivista scientifica “Pnas”, seguono quelli di un’altra ricerca condotta dallo stesso Flynn, nella quale emerse che il Qi medio degli adolescenti britannici era sceso di 2 punti in 28 anni. Poi, la caduta è diventata ancora più vistosa: in soli dieci anni, fra il 1999 e il 2009, gli inglesi avrebbero perso 14 punti di quoziente intellettivo, mentre i francesi 4 punti. In base a uno studio della rivista “Intelligence”, i britannici avevano un Qi medio di 114 punti nel 1999, e oggi invece sono appena 100 (dal canto loro, i francesi sarebbero ancora più in basso: appena 98 punti).“Vox News” cita una recente segnalazione di Maurizio Blondet: tutti gli studi ormai confermano che il Qi medio delle popolazioni occidentali sta scemando vistosamente da una quindicina d’anni. «Il calo è tanto più allarmante – sottolinea lo stesso Blondet – perché tutto il ventesimo secolo, al contrario, ha visto un aumento del Qi in Occidente, forse a causa del miglioramento generale della salute e dell’accesso all’educazione». Sulle cause del fenomeno, però, non c’è ancora nessuna certezza scientifica. «C’è chi chiama in causa i perturbatori endocrini, molecole contenute nella plastica che hanno l’effetto (fra gli altri) di ostacolare l’azione dello iodio, così importante nello sviluppo cerebrale: ricordiamo il “cretinismo alpino” di un tempo, che colpiva popolazioni carenti di sale iodato». “Vox News” punta il dito contro l’immigrazione, sostenendo che staremmo “importando” individui dall’intelligenza meno pronta: «Il mulatto è mediamente più intelligente del subsahariano ma meno dell’europeo. Mischiate Europa e Africa e avrete le favelas brasiliane». Proprio sicuri, che la spiegazione possa essere etno-lombrosiana? «Quando ti stai instupidendo – scrive “Vox” – figurati se ti accorgi del tuo instupidimento».Paolo Barnard, impietoso analista della contemporaneità, nel saggio “Il più grande crimine” punta il dito contro quella che chiama “esistenza commerciale”, l’avvento della mercificazione universale che ha spazzato via di colpo molti valori fondanti del vivere civile. Risultato: il mondo distopico di oggi, fatto di mera apparenza e popolato di individui resi apatici, indifferenti a tutto e ormai incapaci di lottare, sul piano sociale e politico. La generazione ruggente della rivolta studentesca del Sessantotto? Liquidata con un sapiente dosaggio di droghe immesse sul mercato. Poi il resto l’hanno fatto la globalizzazione e i signori del Wto, ma anche il web di massa, lo smartphone, lo stupidario di Facebook. Si legge meno: per questo si diventa stupidi? «Ha vinto Walt Disney, quindi abbiamo perso tutti», ebbe a sentenziare il sempre laconico Bob Dylan. Come dire: il dominio dell’apparenza è ormai planetario, non abbiamo scampo. Davvero? Punti di vista, sostiene a “Border Nights” l’eccentrico Fausto Carotenuto, approdato allo spiritualismo dopo anni di ruvido lavoro nell’intelligence Nato. La sua tesi: se inorridiamo di fronte alle tante aberrazioni cui ci tocca assistere, è perché i grandi poteri ricorrono sempre più spesso ai colpi bassi, puntando alla manipolazione di massa. Ma la buona notizia è che lo farebbero perché preoccupati dal nostro “risveglio” collettivo.Da qualche anno, Carotenuto ripete – in solitaria – la medesima diagnosi: i padroni della Terra scatenano guerre anche per abbassare il tono vitale delle moltitudini che si starebbero letteralmente ribellando al mainstream. La riprova? Almeno un cittadino su tre non crede più a quello che gli viene raccontato, da chi comanda. Per questo, aggiuge Carotenuto, sta salendo l’intensità del “bombardamento” cui siamo sottoposti: terrorismo, stragi, cibo inquinato, vaccini imposti a tappeto, scie chimiche. Tutto fa brodo, per spegnere l’energia dei singoli (e magari abbassare anche la loro intelligenza, il famoso quoziente intellettivo). Una tesi originale ma mai convalidata, ad esempio, dal saggista Gianfranco Carpeoro, che si domanda: dove mai sarebbero tutti questi indizi di risveglio coscienziale? Prendiamo le elezioni: votiamo sempre con odio, contro qualcuno – mai per qualcosa. Dove pensiamo di andare, per questa strada? La caccia alle streghe è sempre in voga: il nemico è l’Uomo Nero, non il sistema che lo produce. Morto un mostro, se ne fa un altro. Ma difficilmente ci accorgiamo del trucco: ci basta poter sparare contro il cattivone del momento. E’ così che il sistema, la fabbrica dei mostri, finisce sempre per farla franca.Se Carotenuto evoca il ruolo di un antagonista esterno, annidato in quelli che chiama “mondi spirituali”, Carpeoro resta sul terreno del visibile: possibile, dice, che non ci rendiamo conto che facciamo tutto da soli? E dire che non ci mancherebbe niente. Le doti fondamentali sono già in noi: e si chiamano conoscenza, fiducia e coraggio. Siamo capaci di imparare e di amare. Il problema? Costa fatica. Bisogna impegnarsi, studiare, crescere. E per farlo ci serve la risorsa più preziosa: il tempo. Se corri dal mattino alla sera, non ti resta il tempo per niente. Hai bisogno di informazioni? C’è Google, sullo smartphone: tutto e subito, senza sforzo. Risulato immediato: la memoria si addormenta, e alla lunga si atrofizza. Un guaio: senza memoria non c’è conoscenza. Non puoi fare confronti tra ieri e oggi, finisci per ripetere gli stessi errori, non riesci a collegare fatti lontani nel tempo. Come uscirne? Lottando, per riconquistare il tempo. E’ l’unica chance, per diventare più consapevoli, quindi più liberi. E inevitabilmente, alla fine, anche più intelligenti.Gli esseri umani starebbero diventando sempre più stupidi. Il nostro quoziente intellettivo (Qi), infatti, risulta letteralmente in caduta libera rispetto a quello misurato nei giovani degli anni ‘70. Basti pensare che dal 1975 ad oggi, in media, sono andati perduti 7 punti per ogni generazione. Una vera e propria ecatombe di materia grigia, scrive “Fanpage”: a portarla alla luce sono due ricercatori norvegesi del Centro Ragnar Frisch per la Ricerca Economica di Oslo, Bernt Bratsberg e Ole Rogeberg. I due hanno condotto un approfondito studio statistico sui dati di 730.000 giovani uomini, raccolti tra il 1970 e il 2009. «Tutti i partecipanti si preparavano a iniziare il servizio militare per il paese nordico, e sono stati così sottoposti ai test standard per valutare il loro quoziente intellettivo», spiega “Fanpage”. «Mettendo a confronto i risultati dei test, è emerso che i ragazzi di oggi sono sensibilmente più “stupidi” di quelli di 40-50 anni fa». In pratica, gli scienziati hanno dimostrato una inversione a U del cosiddetto “effetto Flynn”, dal nome del professor James Flynn: è lo scienziato (statunitense, emigrato in Nuova Zelanda) che per primo osservò l’aumento nel valore medio del quoziente intellettivo nella popolazione di alcuni paesi, che era salito di circa tre punti ogni decennio a partire dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
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Galloni: Greta e i Gretini sono come la Corazzata Potemkin
Vi ricordate Fantozzi con la Corazzata Potemkin? Alla cinquantesima proiezione del noto film di Eisenstein al circolo dei nostalgici della Rivoluzione Russa ebbe il coraggio di urlare: è una boiata pazzesca! Con ciò nessuno voleva insultare né la rivoluzione né i bolscevichi, ma solo il culto, il rito che niente ha a che fare con lotte e rivendicazioni. Del pari, oggi, tutti abbiamo piena consapevolezza della centralità della questione ambientale; ma la piccola scienziata, che improvvisamente raggiunge l’attenzione di centinaia di televisioni e giornali, non l’ha bevuta quasi nessuno. O meglio, nessuno che abbia un minimo di esperienza in materia ignora che dietro c’è ben altro. Prima di cercare di capire cosa è questo ben altro, vediamo di fare il punto su due aspetti: la situazione ambientale e cosa potrebbe bollire nella pentola di chi controlla mass media e non solo. Allora: il surriscaldamento del pianeta c’è, ma varia notevolmente da zona a zona; inoltre, ciascuno sa che il pianeta stesso ha affrontato numerosissime volte surriscaldamenti e raffreddamenti estremi. Meno noto, ma non ignoto, è che l’anidride carbonica prodotta dall’azione dell’uomo (che è raddoppiata dalla rivoluzione industriale a oggi) rappresenta circa il 2% del totale dei gas serra, che con l’uomo c’entrano ben poco, ma senza i quali la vita sulla Terra non sarebbe possibile.Il surriscaldamento, quindi, non attenta alla vita sulla Terra e non è causato dall’uomo, ma attenta alla vita dell’uomo perché la cosiddetta antropizzazione ha raggiunto livelli e intensità e caratteristiche che non si erano mai registrate in precedenza. Quindi non si tratterà di fermare il surriscaldamento (cosa impossibile) come dicono Greta e i suoi seguaci Gretini, ma di affrontarlo coordinando e predisponendo tutta la immensa strumentazione tecnologica disponibile senza farci perdere altro tempo, cosa che stanno facendo Greta, Gretini e vari pseudoscienziati candidati a qualche improbabile premio internazionale. Al contrario, è molto grave che latitino le iniziative contro l’invasione delle plastiche e l’inquinamento, così nocivo per la salute (speriamo che l’esempio della Puglia e di altri che stanno bandendo le plastiche sia seguito); né è accettabile che ancora si parli di rifiuti invece che di risorse, e che l’economia circolare sia guardata solo come una curiosità. Eppoi di che parliamo, se da decenni case e uffici vengono costruiti utilizzando materiali che si surriscaldano al primo raggio di sole e gelano al primo vento freddo? Non dico di tornare ai trulli e ai nuraghi, ma insomma…E veniamo all’altro aspetto. Visto che a nessuno è sfuggita la concomitanza tra successo mediatico dell’operazione Greta e momento-prospettive di crisi del sistema economico finanziario (crisi che richiede cambi di paradigma che metterebbero all’angolo i poteri forti), perché non pensare che questi ultimi temano l’introduzione di tecniche che produrrebbero energia, cibo e quant’altro a costo zero? Anche l’ultimo velo della scarsità monetaria sta per saltare e, con esso, la supremazia dei potenti; allora risulta chiaro che il freno allo sviluppo appare un utile diversivo, per chi vuole contrastare un’evoluzione della dinamica storica che pone le basi per il superamento dei vecchi equilibri tra popoli sottomesssi e oligarchie dominanti.(Nino Galloni, “Greta, Gretini e la Corazzata Potemkin”, da “Scenari Economici” del 16 marzo 2019).Vi ricordate Fantozzi con la Corazzata Potemkin? Alla cinquantesima proiezione del noto film di Eisenstein al circolo dei nostalgici della Rivoluzione Russa ebbe il coraggio di urlare: è una boiata pazzesca! Con ciò nessuno voleva insultare né la rivoluzione né i bolscevichi, ma solo il culto, il rito che niente ha a che fare con lotte e rivendicazioni. Del pari, oggi, tutti abbiamo piena consapevolezza della centralità della questione ambientale; ma la piccola scienziata, che improvvisamente raggiunge l’attenzione di centinaia di televisioni e giornali, non l’ha bevuta quasi nessuno. O meglio, nessuno che abbia un minimo di esperienza in materia ignora che dietro c’è ben altro. Prima di cercare di capire cosa è questo ben altro, vediamo di fare il punto su due aspetti: la situazione ambientale e cosa potrebbe bollire nella pentola di chi controlla mass media e non solo. Allora: il surriscaldamento del pianeta c’è, ma varia notevolmente da zona a zona; inoltre, ciascuno sa che il pianeta stesso ha affrontato numerosissime volte surriscaldamenti e raffreddamenti estremi. Meno noto, ma non ignoto, è che l’anidride carbonica prodotta dall’azione dell’uomo (che è raddoppiata dalla rivoluzione industriale a oggi) rappresenta circa il 2% del totale dei gas serra, che con l’uomo c’entrano ben poco, ma senza i quali la vita sulla Terra non sarebbe possibile.
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India, reddito universale in arrivo. L’Italia può sognarselo
In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».Il Sikkim ha un’economia basata sul un turismo di élite e sulla vendita dell’energia derivante dalle risorse idriche di cui dispone, alimentate dai ghiacciai dell’Himalaya. Lo Stato inolte garantisce la casa a tutti i cittadini, a cui ora darà anche un reddito. «La finalità della decisione è quella di accorciare il gap economico fra i cittadini, con la speranza che, almeno localmente, non segua il trend mondiale che vede i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri», spiega Guido da Landriano. “Scenari Economici” fa notare che esistono altri esperimenti in corso, nel mondo, sul reddito universale o reddito di cittadinanza: a Stockton, in California, tutti cittadini senza lavoro hanno ricevuto 630 dollari per 18 mesi. «Solo che nel Sikkim a ricevere il denaro saranno tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che ricevano un reddito o meno». Proprio la difficoltà nel dedurre l’identità degli aventi diritto ha invece paralizzato il governo italiano, a cui l’Unione Europea ha peraltro accorciato ulteriormente la “coperta” disponibile per soccorrere le fasce sociali più deboli.«A questo punto, viste le affermazioni dei politici italiani – chiosa “Scenari Economici” – ci sarà da attendere un boom di vendite della catena “Divani & Divani”, perché tutti i cittadini cesseranno di lavorare». Aggiunge, Guido da Landriano: «Tutti, poveri e ricchi, smetteranno di lavorare perché avranno un reddito minimo». C’è da sperare che, su quei divani, «si trasferiscano un po’ di deputati di Forza Italia e del Pd che, purtroppo, infestano il dibattito politico italiano». Se la cosiddetta opposizione spara a man salva sui provvedimenti sociali dell’esecutivo Conte, va però ricordato che gli stessi gialloverdi – dopo aver promesso un vero reddito di cittadinanza, nel “contratto di governo” – non hanno osato resistere al diktat neoliberista dell’Ue, votato al rigore più suicida: prima hanno proposto nel Def 2019 un timidissimo deficit al 2,4% (inferiore al tetto del 3% fissato arbitrariamente da Maastricht) e poi hanno rinunciato pure a quello, ripiegando sull’umiliante 2,04%. Tradotto: l’Italia non può fare come il Sikkim. Anche perché l’India è un paese sovrano, dotato di propria moneta: non deve rispondere a nessuna Ue, né tantomeno pagare per avere il denaro che le serve.In India sta partendo un esperimento di reddito universale da far impallidire il nostro misero reddito di cittadinanza: succede nello Stato himalayano del Sikkim. Si tratta della seconda più piccola entità statale della federazione indiana, al confine con la Cina. Nel Sikkim, all’avanguardia socialmente, tutti i 610.577 abitanti riceveranno un reddito-base universale, come riportato dal “Washington Post”. «Al posto di un insieme anche piuttosto confuso di contributi sociali, tutti riceveranno una somma di denaro», scrive Guido da Landriano su “Scenari Economici”. In questo, modo nessuno dovrà più preoccuparsi dei propri bisogni di base: saranno “stipendiati” tutti, indipendentemente dal reddito. Il Sikkim è un paese avanzato, per molti aspetti: «Con un tasso di alfabetizzazione del 98%, da diversi anni ha bandito completamente le borse di plastica: di recente è diventato il primo paese “biologico” al mondo, avendo messo al bando anche pesticidi e concimi chimici». Il piccolo Sikkim, aggiunge “Scenari Economici”, ha anche un tasso di povertà piuttosto basso, «soprattutto se comparato con il resto dell’India, in quanto solo l’8% della popolazione è in uno stato di indigenza, contro il 30% dell’India e il 10% dell’Italia».
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Cosa sono quelle scie bianche che imbrattano i nostri cieli?
La trattativa con Bruxelles sul bilancio, d’accordo. E i migranti, e Salvini, e Battisti. E Tria, e Macron, e i Gilet Gialli. D’accordo. Ma quelle scie lassù in cielo, esattamente, cosa sono? Le rilasciano gli aerei. Una volta, vent’anni fa, le scie svanivano subito dopo il passaggio del velivolo. Succede ancora oggi, ma è raro. Il più delle volte, queste nuove scie restano sospese a mezz’aria. E lentamente si espandono, e si abbassano. Diventano nuvole e velano l’azzurro, facendo impallidire il sole. Cosa sono? Non si sa, esattamente. Se qualcuno lo sa, non lo dice. Non lo spiega. Dice, al massimo: è aumentato il numero dei voli (che però, da qualche anno, è in diminuzione). Dice che forse è cambiato il tipo di carburante, e parla di vapore acqueo. Davvero? Ma il vapore, si sa, si dissolve subito. Non siamo noi a irrorare i cieli, assicura l’aeronautica militare. O meglio, dice questo: che gli aerei militari italiani non disperdono nell’aria sostanze misteriose. Un altro militare, il generale Fabio Mini, già comandante della Nato in Kosovo, dice un’altra cosa. Sostiene che i cittadini dovrebbero pretendere risposte esaurienti, su questo fenomeno così strano e visibile. Risposte esaurienti non sono state date neppure al Parlamento, di fronte a puntuali interrogazioni: cosa sono, quelle scie che restano per ore nel cielo fino a trasformarsi in nubi? Già: perché non rispondere, nemmeno ai parlamentari?Tutti le vedono, le strisce, ma in quanti ci fanno caso? Qualcuno le chiama scie chimiche, suscitando l’ilarità di altri, che prendono in giro quelli che “credono nelle scie chimiche”. Credere? Non c’è bisogno di coltivare una fede: basta alzare gli occhi al cielo, in qualsiasi momento. Si vedrà l’azzurro costantemente rigato dalle scie bianche e poi “sporcato”, quando le stesse scie – una volta allargatesi – avranno assunto un colorito grigiastro. Sono veleni? Sono sostanze che rendono l’atmosfera più riflettente per le onde radio, a scopo militare? Sono un velo pietoso che tenta di schermare la Terra, che si sta surriscaldando sotto l’azione del sole? Sono amiche o nemiche, queste scie? Contengono alluminio, come qualcuno dice, o invece sono cariche di ioduro d’argento, come quello che in tanti paesi – tra cui Israele e la Cina – viene normalmente usato, nelle zone aride, per provocare precipitazioni? Quelle sarebbero, appunto, le scie amiche. Di quelle nemiche ha invece parlato il giornalista Gianni Lannes, spiegando che nel 2001 – su richiesta di Bush – Berlusconi autorizzò l’impiego dello spazio aereo italiano per condurre test di modificazione climatica mediante aviodispersione (arosol) di sostanze prodotte in laboratorio. Gli esperimenti sarebbero poi stati avviati nel 2003.Da circa 15 anni, infatti, la rete bianca delle scie si è andata progressivamente infittendo, senza che nessuno – a livello ufficiale – si sia mai preso la briga di spiegare un fenomeno quotidiano così vistoso. E’ talmente smisurata, la dose quotidiana di scie, che dopo un po’ ci si fa l’abitudine. Quando sono veramente tante, poi, e molto concentrate, dopo qualche ora assomigliano a vere formazioni nuvolose. E invece sono sempre loro: un prodotto artificiale, creato dal transito degli aerei. Solo talmente consuete, ormai – e così tante – che in molti non ci fanno neppure più caso. Sono diventate parte del paesaggio. Per non perderle di vista basta alzare gli occhi al cielo: sono sopra la nostra testa, sempre. Sopra tutti e tutto: sopra Salvini e il reddito di cittadinanza, le elezioni europee, il decreto sicurezza, le pensioni, le tasse. Sugli oceani, galleggiano miliardi di tonnellate di plastica, rifiuti ridotti a poltiglia. Si sa perché sono lì: perché siamo una civiltà un po’ folle. Sono lì – le isole di plastica, grandi quanto continenti – perché non abbiamo voluto spendere i soldi necessari a smaltirle. Hanno una spiegazione, le isole di plastica. Le strisce in cielo, invece, ancora no. Non si sa perché stanno lassù. E a dire il vero, non si sa nemmeno cosa siano. Perché nessuno l’ha ancora voluto spiegare.La trattativa con Bruxelles sul bilancio, d’accordo. E i migranti, e Salvini, e Battisti. E Tria, e Macron, e i Gilet Gialli. D’accordo. Ma quelle scie lassù in cielo, esattamente, cosa sono? Le rilasciano gli aerei. Una volta, vent’anni fa, le scie svanivano subito dopo il passaggio del velivolo. Succede ancora oggi, ma è raro. Il più delle volte, queste nuove scie restano sospese a mezz’aria. E lentamente si espandono, e si abbassano. Diventano nuvole e velano l’azzurro, facendo impallidire il sole. Cosa sono? Non si sa, esattamente. Se qualcuno lo sa, non lo dice. Non lo spiega. Dice, al massimo: è aumentato il numero dei voli (che però, da qualche anno, è in diminuzione). Dice che forse è cambiato il tipo di carburante, e parla di vapore acqueo. Davvero? Ma il vapore, si sa, si dissolve subito. Non siamo noi a irrorare i cieli, assicura l’aeronautica militare. O meglio, dice questo: che gli aerei militari italiani non disperdono nell’aria sostanze misteriose. Un altro militare, il generale Fabio Mini, già comandante della Nato in Kosovo, dice un’altra cosa. Sostiene che i cittadini dovrebbero pretendere risposte esaurienti, su questo fenomeno così strano e visibile. Risposte esaurienti non sono state date neppure al Parlamento, di fronte a puntuali interrogazioni: cosa sono, quelle scie che restano per ore nel cielo fino a trasformarsi in nubi? Già: perché non rispondere, nemmeno ai parlamentari?
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Tutta la verità, sempre. Grazie a Mazzucco, giornalista vero
«Ragazzi, ricordarvi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpini spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.Quella mattina, infatti, l’intera difesa aerea degli Stati Uniti sulla costa orientale era affidata a due soli intercettori armati di missili e pronti a decollare, più altri due di riserva. Tutti gli altri – centinaia – erano impegnati in esercitazioni concomitanti in Canada, Alaska e California: fatto fino ad allora mai verificatosi, nella storia degli Usa, né più ripetutosi in seguito. Il cielo della superpotenza mondiale era più sguarnito di quello del Burkina Faso. Questo (e molto altro) ha messo insieme, Massimo Mazzucco, dopo anni di impegno ininiterrotto alla ricerca della verità. A partire dal primo documentario, “Inganno globale”, mandato in onda da Mentana a “Matrix” su Canale 5 in prima serata, nel 2006, di fronte a milioni di attoniti telespettatori, il video-reporter più scomodo d’Italia ha dedicato alla truffa dell’11 Settembre anche il maxi-documentario del 2013, “11 Settembre, la nuova Pearl Harbor”, raccogliendo prove e testimonianze che smentiscono la versione ufficiale sull’attentato alle Torri Gemelle. Tante le teorie: le Twin Towers abbattute da armi speciali ad energia, demolite con la nano-termite, incenerite con mini-atomiche? Mazzucco non sposa nessuna tesi: «Non spetta a me stabilire cosa sia stato usato per far crollare le Torri, a me basta dimostrare che non possono esser stati quegli aerei», ha ripetuto, anche in web-streaming su YouTube il sabato mattina con Fabio Frabetti di “Border Nights”.Anzi, aggiunge: «Il parteggiare per una tesi o per l’altra finisce per produrre contraddizioni tecniche utili solo a chi vuol farla dimenticare, quella storia, squalificando di fronte all’opinione pubblica chi ricerca la verità con serietà e impegno, come i tremila architetti e ingegneri americani che, mettendo a repentaglio il proprio posto di lavoro, sono riusciti a dimostrare in modo definitivo la “demolizione controllata” delle Torri Gemelle». Cercare la verità, appunto, senza trarre conclusioni affrettate: nel suo ultimo lavoro, “American Moon”, Mazzucco si avvale dei maggiori fotografi internazionali per dimostrare che le immagini del mitico allunaggio del ‘69 non sono state realizzate sulla Luna, ma in studio. «Il che non significa che non siamo mai stati sulla Luna: significa che le immagini mostrate al mondo erano false». Il potere statunitense è finito nel mirino di Mazzucco in svariate occasioni: nel 2007 ha firmato il documentario “L’altra Dallas – Chi ha ucciso Robert Kennedy?”. Un giallo tutt’altro che chiuso, quello che circonda la morte del fratello di Jfk, assassinato il 6 giugno 1968 nelle cucine dell’Hotel Ambassador di Los Angeles per fermare la sua corsa alla Casa Bianca: «Nonostante vi siano almeno venti persone che hanno visto Sirhan Sirhan sparare a Kennedy, sono emersi nel corso del tempo svariati elementi che tendono decisamente a scagionarlo».Lo chiamano Deep State, ed è qualcosa che affonda le sue radici nella nebulosa che tiene insieme esponenti della supermassoneria sovranazionale neo-oligarchica messa a nudo da Gioele Magaldi nel bestseller “Massoni”, con propaggini nella Cia e nell’Fbi, al Pentagono, alla Casa Bianca, in centri di comando assoluti come il Council on Foreign Relations. Da quegli ambienti scaturì il Pnac, Piano per il Nuovo Secolo Americano, attraverso cui i neocon – i Bush e Cheney, Wolfowitz, la Rice, Donald Rumsfeld – pianificarono apertamente la “guerra infinita” a cui il maxi-attentato dell’11 Settembre avrebbe spianato la strada. Massimo Maazzucco ne parla nel documentario “Il nuovo secolo americano”, uscito nel 2008 per illuminare «tutti i retroscena storici, politici, economici e filosofici che avrebbero portato agli attentati dell’11 Settembre per vie ben diverse da quelle che ci sono state raccontate». Non è possibile, infatti, comprendere gli attacchi alle Torri «se non si conosce la storia che c’è alle loro spalle». Ma lo sguardo di Mazzucco – giornalista vero – si estende anche oltre l’agenda geopolitica: nel video “I padroni del mondo”, uscito sempre nel 2008, esplora il territorio misteriosamente ibrido che comprende avvistamenti Ufo, ruolo dei militari e pericolo atomico.“I padroni del mondo”, spiega, non è un classico film sugli Ufo, ma «un film che cerca di comprendere il motivo per cui tutte le informazioni raccolte fino ad oggi sugli Ufo ci vengano tenute nascoste dai militari del Pentagono». E’ forse trovando questa risposta, ipotizza il video-reporter milanese, che si può scoprire qualcosa anche sull’esistenza di «esseri provenienti da altri pianeti, e sulle loro eventuali intenzioni». Tanto per essere espliciti: l’ufologo Roberto Pinotti, da decenni in contatto l’aeronautica militare italiana, ricorda che i gesuiti hanno speso milioni di dollari per allestire sul Mount Graham, in Arizona, un potente osservatorio astronomico dedicato allo studio dell’esobiologia, cioè la vita aliena. “L’extraterrestre è mio fratello”, titolò clamorosamente “L’Osservatore Romano” intervistando padre José Gabriel Funes, astronomo e gesuita, direttore della Specola Vaticana: un centro «che possiede anche un telescopio ad alta tecnologia e vanta un team di scienziati che fa invidia a quello della Nasa», ricorda Agnese Pellegrini su “Famiglia Cristiana”. Ma se padre Funes scruta il cielo in attesa dello sbarco dei “fratelli dello spazio”, Massimo Mazzucco – al solito – scava dietro le verità ufficiali, prendendo per le corna il toro del potere: perché i militari non ci raccontano tutto quello che sanno?Inutile sperare che sui giornali si riscontri altrettanto impegno, nella ricerca delle notizie che contano, anche – per dire – in un settore delicatissimo come quello della salute. E’ del 2009 la dirompente indagine sulle cure alternative per il tumore (“Cancro, le cure proibite”), nel quale Mazzucco mette a nudo il silenzio assordante che copre i clamorosi risultati già ottenuti da decine di medici, in tutto il mondo, per i quali il cancro non è più una malattia incurabile. Negli ultimi 100 anni, riassume il trailer del documentario, dozzine di scienziati, medici e ricercatori hanno trovato diverse cure valide per il cancro, spesso supportate anche da migliaia di testimonianze di pazienti guariti – ma noi non lo abbiamo mai saputo: perché? Statistiche: cent’anni fa si ammalava di cancro solo una persona su 20, oggi invece una su 3 (e negli Usa, un individuo su 4 muore di cancro). Chi sopravvive, viene semi-distrutto dalla chemio: dolori, gonfiore, febbre, nausea, vomito e svenimenti, senza contare l’abbattimento delle difese immunitarie e quindi il rischio elevatissimo di contrarre altri tumori, di cui l’organismo ormai indifeso diviene facile preda. Quando mai se ne parla, sui giornali, di cure di successo contro lo stramaledetto cancro?«Da cent’anni – dichiara Mazzucco – la medicina ufficiale nega che esista una cura risolutiva». Il video mostra sanitari come Max Gerson, che guarisce pazienti considerati “terminali”, così come il collega Harry Hoxsey. Medici per i quali il cancro non è più invincibile: da Tullio Simoncini a René Caisse. Racconta un anziano paziente: «Mi avevano detto che sarei morto in 24 ore, e invece eccomi qua». L’elenco di medici anti-cancro è lungo quasi quanto il Novecento: Chas Ozina e Josef Issels, Emanuel Revici, Royal Rife. E poi Gaston Naessens e Linus Pauling, senza contare Wilhelm Reich e Ryke Hamer. «Perché tutti coloro che hanno proposto una nuova cura, negli ultimi cento anni, sono stati sistematicamente ignorati, derisi, combattuti e spesso anche messi in prigione?». Nel video, rispondono operatori della sanità: «Il cancro è un grosso affare, uno dei più grandi che ci siano». Nel solo 2004, Big Pharma ha fatturato oltre mezzo “biliardo” (“550 billion”, cioè 550 miliardi di dollari). I medici intervistati da Mazzucco parlano di «inviti a pranzo, cene gratis, Champagne». Scandisce il norvegese Per Lonning, dell’Haukeland Hospital di Bergen: «Arriveremo a trovare la cura? La questione non è “se”, ma “quando”». Solo questione di volontà politica, in altre parole. E di soldi, tanto per cambiare.Dice Mark Abadi, psicologo: «La farmaceutica è l’industria di maggior successo nel mondo. Quello che non vogliono è che tu guarisca». Chiosa un’anziana, fissando la telecamera: «Se i medici sanno che c’è una cura, eppure mandano i pazienti a casa a morire, quella è un’atrocità peggiore dell’Olocausto». Tra i rimedi anti-cancro recentemente ammessi c’è anche la marijuana, le cui infiorescenze sono ricchissime di Tch, un principio attivo (già usato da Big Pharma in modo non dichiarato) che in molti casi distrugge le cellule tumorali, oltre ad alleviare le sofferenze dei pazienti. Mazzucco ne parla nel documentario “La vera storia della marijuana”, uscito nel 2010. Domanda: «Che cosa si nasconde dietro alla ossessiva, incessante e terrificante guerra alla droga?». La realtà che si cela sotto la proibizione di questa pianta è «qualcosa di assolutamente impressionante e sconvolgente, con una portata storica che condiziona in modo determinante la vita quotidiana di tutti noi, compreso chi non ha mai visto da vicino nemmeno uno spinello». Tanto per dire, in tutte le civiltà, la marijuana è stata la pianta più utile per l’intera umanità: se ne ricavano carta e tessuti per abiti, olio, corde, medicine. Dalla canapa è possibile produrre anche un’ottima plastica naturale. Ecco il punto: il boom della cannabis avrebbe tagliato le gambe all’industria (sanguinosa) del petrolio.La cannabis, aggiunge Mazzucco nel suo video, è stata usata fin dall’antichità per combattere malaria, reumatismi e dolori mestruali, epilessia, coliche e anche gastriti, anoressia e tifo. Non ci credete? Il medico personale della regina Vittoria, Sir John Russell Reynolds, nel 1890 la definì «una delle medicine più importanti a disposizione dell’uomo». Poi, da un giorno all’altro, questa pianta miracolosa è diventata il frutto proibito, la radice di ogni male: fonte di peccato, perversione e immoralità. Una pericolosa scorciatoia verso la devianza e la follia. Una demonizzazione devastante, improvvisa e sospetta, proprio in prossimità del boom del petrolio. Mazzucco ricorda che Harry Anslinger, del Federal Bureau of Narcotics, fece proibire la marijuana in tutto il mondo: chi lo finanziava? Lo spiega il suo filmato, ora proposto anche come strenna – in cofanetto – insieme a tutti gli altri: un’ottima occasione per fare scorta di informazioni serie, comprovate da documentazioni a prova di bomba.A Mazzucco, naturalmente, il mainstream dà del complottista: un modo facilotto per tentare di sbarazzarsene. Se c’è una dote nella quale l’autore eccelle è proprio la prudenza. Regola numero uno: verificare le notizie in modo da avere sempre almeno 3-4 conferme incrociate. Cosa che i giornalisti hanno smesso di fare da secoli, limitandosi per lo più a passare veline governative. A lettori e telespettatori rifilano quasi solo robaccia, semplice gossip politico, guardandosi bene dall’impensierire il potere. Mazzucco rimpiange il Mentana dei bei tempi, che a suo modo era coraggioso. «Poi, col tempo, si è integrato nel sistema. Arrivato a La7, poteva diventare “il primo degli ultimi”. Invece, si è accontentato di essere “l’ultimo dei primi”». A chi ha fame di notizie vere, naturalmente, resta il web: «Oggi sulla Rete troviamo informazioni impensabili, dieci anni fa, grazie al lavoro tenace e paziente di migliaia di attivisti». Lavoro che “dà fastidio”, come auspicava l’anziano Nuto Revelli, tant’è vero che la politica – italiana, europea – continua a tentare di imbavagliare i blog. E i giornalisti? Silenti, su tutta la linea. Si consolino: se vogliono scoprire come sono andate davvero le cose, in molti tornanti dell’attualità, possono sempre guardarsi i dvd di Massimo Mazzucco. Vere e proprie miniere di notizie.(Tutti i dvd ideati, prodotti e diretti da Massimo Mazzucco sono acquistabili singolarmente, on-line, attraverso il sito “Luogo Comune”. Per il Natale 2018, è anche possibile acquistarli in un’unica soluzione – versione cofanetto – al prezzo scontato di 49 euro).«Ragazzi, ricordatevi di dare fastidio, sempre, a chi comanda». Furono le ultime parole che lo scrittore Nuto Revelli rivolse agli studenti delle scuole che spesso visitava. Autore di memorabili libri-denuncia come “La guerra del poveri” sulla ritirata di Russia e “Il mondo del vinti” sull’agonia delle valli alpine spopolate dall’era industriale, Revelli rappresentò una voce importante (e scomoda, quindi isolata) nella coscienza italiana del dopoguerra. Il suo lascito: cercare la verità, ad ogni costo. Quello che, in teoria, dovrebbe fare ogni giornalista degno di questo nome. Quanti ce ne sono, oggi, in circolazione? Pochissimi, secondo il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh: «Se i reporter avessero fatto il loro dovere, in questi decenni, avremmo avuto meno guerre e meno stragi, perché il potere non avrebbe osato mentire così spudoratamente all’opinione pubblica». La madre di tutte le stragi, quella dell’11 settembre 2001, colse il milanese Massimo Mazzucco nella sua abitazione di Los Angeles, dove lavorava come sceneggiatore per la Dino De Laurentiis, dopo aver fatto la sua brava gavetta in Italia in qualità di fotografo, assistente di Oliviero Toscani. Quel giorno, Massimo vide – come tutto il resto del mondo – l’impatto del primo aereo. E vide che trascorse un intervallo interminabile prima che avvenisse l’urto del secondo velivolo, senza che nel frattempo si fosse levato in volo un solo caccia a presidiare i cieli.
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Stare lontani dalla natura: è una sindrome, causa malattie
Noi tutti soffriamo di quella che Richard Louv, autore di “L’ultimo bambino nei boschi” (Rizzoli, 2006) ha denominato “disturbo da deficit di natura”. Due o tre generazioni fa si viveva molto più a contatto con la natura. Le nostre radici agricole furono precedute da millenni di caccia, raccolta, allevamento e pesca. Tutte queste attività richiedevano una connessione innata con l’ambiente naturale. Dovevamo saper decifrare i canti degli uccelli, interpretare le nuvole, conoscere la direzione del vento, seguire le correnti, riconoscere gli insetti nocivi e curare una mucca malata. La nostra stessa sopravvivenza era legata a quelle forme di sapere e i nostri antenati hanno risalito la catena alimentare padroneggiando quelle preziose abilità. Provavano un rispetto sacro e profondo per la natura, perché comprendevano il legame di nutrimento vitale che essa offriva… La nostra memoria genetica e la nostra linea di ascendenza ci vedevano vicini alle erbe, agli alberi, al suolo e agli elementi. Ricevere una quantità sufficiente di pioggia era una questione di vita o di morte. Si conservava l’acqua perché qualcuno, quella mattina presto, aveva dovuto fare 3 chilometri a piedi per procurarla.Quando si trovava del cibo, ci si rallegrava e si rendeva grazie: se cadeva a terra, si soffiava via la polvere e lo si mangiava. Non c’erano margini di spreco. Gli scarti finivano nel concime e le ossa andavano ai cani che proteggevano il nostro territorio e ci aiutavano nella caccia; perfino esse avevano uno scopo e un senso. Oggi molti di noi vivono in aree in cui la terra è ricoperta di asfalto e il nostro unico e vero modo di entrare in contatto con essa è offerto da quegli “zoo della natura” che chiamiamo parchi. Dai parchi locali alle foreste nazionali, abbiamo imprigionato Madre Terra nel tentativo di preservarla e proteggerla da noi. Noi violiamo, distruggiamo, inquiniamo. Siamo arrivati a identificarci in “quell’animale che cammina attraverso il Giardino e lo distrugge”. Nell’arco di solo un paio di generazioni abbiamo sviluppato tecnologie e sostanze chimiche sintetiche che ci hanno permesso di isolarci dal mondo naturale e di scollegarci da questo legame vitale. Eliminiamo i germi con gli antibiotici; abbiamo l’aria condizionata nelle nostre auto veloci; bruciamo il combustibile naturale che proviene da terre lontane anziché tagliare la legna per tenere calde le nostre case, e il nostro cibo è pensato nei laboratori e prodotto nelle fabbriche.Un tempo mangiavamo le piante. Oggi mangiamo schifezze prodotte negli impianti industriali. Tutto questo ha un prezzo sia fisico sia psicologico per noi. Ora ci sono tizi come Ethan che se ne vanno in giro per le grandi città bevendo bibite strane che li rendono più assetati e mangiando barrette avvolte nella plastica. Si combattono guerre per assicurarsi il petrolio che permette di costruire quella plastica, e si combatte il cancro che proviene dal mangiare il cibo finto che viene venduto dentro quella plastica. Poi ci si lamenta di essere stanchi, grassi, malati e depressi e ci si chiede quale medico o guru detenga il segreto per sbloccare i nostri problemi, mentre non dovremmo far altro che guardare al passato. Abbiamo dimenticato da dove veniamo. Abbiamo perso la connessione con la fonte di tutta la vita e con il nutrimento che ne traiamo, e questo sta creando un vuoto nella nostra capacità di guarire noi stessi e di connetterci con la vita che ci circonda. Perdere il contatto tra il nostro corpo e il cibo che mangiamo ha rappresentato un potente cuneo che ha frantumato l’umanità in una massa di fantasmi affamati che incespicano alla ricerca di automobili, borsette, diete, pillole o di un partner per sentirsi felici e integri nella vita.(Pedram Shojai, “Che cos’è il disturbo da deficit di natura?”, dal blog “La Crepa nel Muro” del 22 dicembre 2017; estratto da “Il Monaco Urbano”, saggio che Shojai ha scritto per Macro Edizioni – 355 pagine, 14 euro).Noi tutti soffriamo di quella che Richard Louv, autore di “L’ultimo bambino nei boschi” (Rizzoli, 2006) ha denominato “disturbo da deficit di natura”. Due o tre generazioni fa si viveva molto più a contatto con la natura. Le nostre radici agricole furono precedute da millenni di caccia, raccolta, allevamento e pesca. Tutte queste attività richiedevano una connessione innata con l’ambiente naturale. Dovevamo saper decifrare i canti degli uccelli, interpretare le nuvole, conoscere la direzione del vento, seguire le correnti, riconoscere gli insetti nocivi e curare una mucca malata. La nostra stessa sopravvivenza era legata a quelle forme di sapere e i nostri antenati hanno risalito la catena alimentare padroneggiando quelle preziose abilità. Provavano un rispetto sacro e profondo per la natura, perché comprendevano il legame di nutrimento vitale che essa offriva… La nostra memoria genetica e la nostra linea di ascendenza ci vedevano vicini alle erbe, agli alberi, al suolo e agli elementi. Ricevere una quantità sufficiente di pioggia era una questione di vita o di morte. Si conservava l’acqua perché qualcuno, quella mattina presto, aveva dovuto fare 3 chilometri a piedi per procurarla.
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Avete idea di cos’era l’Italia, quando aveva la Montedison?
Probabilmente ci sarebbero un milione di posti lavoro in più in Italia, se non fosse stata “suicidata” la Montedison di Raul Gardini. Era il primo gruppo industriale privato italiano, ricorda Mitt Dolcino: la Fiat, all’epoca, era ben lontana dalle vette dei grandi gruppi di Stato come Eni, Stet (Telecom), Enel e forse la stessa Sme (agroindustriale). «Oggi che si è insediato il primo governo eletto non a seguito di influenze esterne – inclusa l’ingerenza della magistratura (ossia Tangentopoli) – dobbiamo ragionare freddamente su cosa successe veramente con Raul Gardini», scrive Dolcino su “Scenari Economici”. «La situazione oggi è talmente grave che qui ci giochiamo l’italianità». Infatti non è un caso – aggiunge l’analista – che Montedison alla fine fu conquistata e spolpata proprio dai francesi, guardacaso gli stessi che, secondo il giudice Rosario Priore, attentarono alla sovranità italiana durante “l’incidente” di Ustica, e che oggi «sembrano distribuire la Legion d’Onore ad ogni notabile italiano che va contro gli interessi del Belpaese». Caduto il Muro di Berlino, di fatto, l’Italia perse la protezione degli Usa. «E l’Europa, la stessa che oggi ci bastona, organizzò il banchetto dato dalle privatizzazioni italiane a saldo (con Draghi, che casualmente fece una fulgida carriera, ad organizzare il piano sul Britannia)».
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Salvare il mondo: la Macchina di Majorana (vivo, nel 2006)
“Smontare” la materia e ricostruirla ovunque, azzerando lo spazio-tempo. Primo obiettivo: medicare l’atmosfera, per riparare il clima e salvare la Terra. E ancora: creare energia infinita a costo zero, senza più petrolio e carbone. «So come si fa», direbbe il protagonista del film. «E chi ti credi di essere, Dio?». Non proprio, ma quasi: «Io sono Ettore Majorana, lo scienziato ufficialmente scomparso nel 1938». Immaginatevi la faccia dell’ingegner Rolando Pelizza, industriale bresciano, il giorno che si sentì rispondere in quel modo, nel lontano 1959, da quell’uomo giovanile dall’età indefinibile. Majorana? Il baby-genio che sbalordiva i suoi maestri Fermi, Amaldi e Pontecorvo, scappati negli Usa e in Urss per sottrarre a Hitler la ricerca sull’atomica. Lui, Majorana: il giovanissimo fenomeno venuto dalla Sicilia a incantare i “ragazzi di via Panisperna”, cioè i migliori cervelli del mondo, all’epoca, nel campo della fisica. «Ho capito cos’è la materia e come funziona. E tu, Rolando, devi aiutarmi a costruire un dispositivo sperimentale». La Macchina: la scatola “magica” che fa sparire le cose, qualsiasi cosa, e ne cambia la natura fisica. Possibile? Eccome: Giulio Andreotti prese molto sul serio la faccenda, passando il dossier a Kissinger.Da allora, gli invadenti servizi segreti di mezzo mondo vegliarono sulla Macchina e sul suo costruttore, l’ingegner Pelizza, proteggendo il silenzio che avvolgeva il genio ispiratore. Ettore Majorana era ancora vivo nel 2006. Aveva cent’anni. E ancora aspettava di vedere la Macchina in azione, nella missione suprema per la quale era stata concepita: salvare il mondo. Bellissima fiaba, ricorda la storia del Graal. Peccato sia la pura verità. Con un finale rimasto in sospeso: la Macchina non risponde agli ordini della Cia. Ha bisogno di un codice segreto, matematico. In più serve un “pin” aggiuntivo, spirituale: un comando “mentale”. Lo custodice Rolando Pelizza, che oggi ha ottant’anni. Per decenni – prima che la notizia fosse passata ai servizi segreti – è stato l’unico a sapere, insieme ai monaci che lo ospitavano in Calabria, che non era un frate qualsiasi quel taciturno Ettore, rifugiatosi in convento nel 1938, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. L’aveva indovinato Leonardo Sciascia, quando nel ‘75 scrisse “La scomparsa di Majorana”, varcando la porta dei cistercensi di Serra San Bruno. Ci mise vent’anni, lo Scomparso, a incontrare Pelizza. E attese altri dodici mesi prima di rivelargli la sua vera identità.Majorana, il genio. Lo scopritore di una nuova matematica, di nuova fisica in cui il tempo non esiste, dove la materia è “ricostruibile” liberamente. Come? Accedendo alla “matrice invisibile” di ogni cosa. Sembra il rebus dei Sigilli Ermetici di Giordano Bruno. Il Mondo delle Idee immaginato da Platone, tradotto in numeri dopo due millenni e mezzo. Pazzesco? Sì, ma vero. Parola di Rolando Pelizza, uomo pratico e imprenditore a sua volta geniale, capace di inventare una spugna speciale che assorbe il petrolio sversato in mare, neutralizzando i disastri ambientali causati dalle petroliere. Ne parlano a “Border Nights”, con commossa devozione, l’ingegner Francesco Alessandrini, docente dell’università di Udine, e la paleografa Roberta Rio, “visiting professor” negli atenei di mezza Europa. “La Macchina”, ovvero “il ponte tra la scienza e l’oltre”, è il libro in cui svelano la storia, segreta e meravigliosa, di quel singolare sodalizio. Ettore e Rolando, nomi suggestivi: l’eroe omerico, il paladino coraggioso. Francesco Alessandrini è un geotecnico, progetta grandi opere ma conosce anche le cosiddette “energie sottili”. Roberta Rio ha elaborato una teoria sulla “scienza storica del terzo millennio” e pubblicato saggi come “La Fisica del Terzo Millennio”, ovvero “scienza e spiritualità di nuovo unite”, edito da Bautz.Nella favolosa Macchina di Pelizza ispirata da Majorana, Francesco e Roberta sono “inciampati” leggendo i libri di Alfredo Ravelli (“Il dito di Dio”, “Il segreto di Majorana” e “2006: Majorana era vivo!”). Si sono entusiasmati: hanno intuito che “l’impossibile” era a portata di mano. Così hanno contatto Rolando, il paladino, e ne hanno conquistato la fiducia. «Non sappiamo nemmeno se Majorana sia ancora vivo o, nel caso, quando sia morto: su questo punto – dicono – Rolando glissa sempre». Le ultime tracce del genio siciliano sono due: la famosa lettera del 2006 e una foto scattata il 5 agosto 1996: Majorana è ritratto con Pelizza nel giorno del novantesimo compleanno di Ettore, nato a Catania nel 1906. L’immagine è stata periziata dall’ingegner Giovanni Vitiello. «La perizia antropometrica dimostra che si tratta proprio di Majorana», racconta Roberta Rio. «I parametri corrispondono con le foto di Ettore prima della scomparsa – zigomi, impronta del padiglione auricolare, altri dettagli. Ettore e Rolando sono accanto, ma Ettore sembra più giovane di Rolando (che adesso ha 80 anni)». Eppure è lui, conferma il geriatra Claudio Castoldi: uno splendido novantenne in ottima salute, nonostante i capelli bianchi e qualche ruga.Il loro fatale incontro avviene il 1° maggio del 1958, nella Certosa di Serra San Bruno, sulle alture di Vibo Valentia. Rolando Pelizza – uomo pio, dedito a opere caritative – ha raggiunto il convento per consegnare scarpe ai monaci. Finisce, subito, nel mirino di Majorana. Quello strano frate gli passa un foglietto, un problema con dei numeri: «Risolvi questa cosa, non far passare troppo tempo e fammi avere la soluzione». Così, racconta Roberta, Pelizza capisce che quello è l’uomo che stava cercando. Ettore gli propone un apprendistato: gli avrebbe insegnato i principi di una nuova fisica e di una nuova matematica. Un anno dopo, nel ‘59, gli rivela finalmente la sua identità. Majorana è un fisico teorico, sul piano pratico ha bisogno di Pelizza. L’apprendistato dura 6 anni, fino al ‘64. In una lettera, poi, Majorana si congratula con Rolando. E gli propone una nuova fase: costruire la Macchina. Con un’unica raccomandazione: fare presto, perché la Terra potrebbe autodistruggersi. Il cambiamento climatico non è uno scherzo: una minaccia esiziale, che Majorana considera imminente già negli anni ‘70. Era infatti il 1976, rivela Roberta Rio, quando il grande fisico indicò date precise: il 2022, al massimo il 2024. Letteralmente: «Sarà a rischio la sopravvivenza della specie umana sulla Terra, scossa da sconvolgimenti sempre più visibili. Un cambiamento in atto dal 2000 e percepibile a partire dal 2010. In arrivo eventi così sconvolgenti da costituire un punto di non ritorno per il nostro clima».Il primo esemplare funzionante della Macchina, racconta Francesco Alessandrini, vede la luce nel 1963: «Produceva una “annichilazione controllata” della materia». Ovvero: «Si può far sparire qualcosa, in modo controllato. Posso scegliere io cosa distruggere, in modo selettivo: un razzo, ad esempio. O le parti murarie di una casa, ma non le parti in legno». Miglioramenti progressivi, verso la seconda fase: riscaldamento della materia. «Con un raggio posso portare qualsiasi cosa a fusione, anche facendo sì che l’oggetto ceda temperatura all’esterno. Vuol dire: s’è trovato il modo di produrre energia in modo non inquinante, a costo irrisorio. Energia infinita, pressoché gratuita». Addio petrolio e carbone, ma anche solare, eolico, idroelettrico. Terza fase, decisamente alchemica: «Trasmutazione della materia, pur mantenendo forma e posizione». Esistono svariati video che comprovano il successo degli esperimenti: «Un oggetto di gomma o di plastica viene trasferito in un oggetto metallico, mantenendo quasi perfettamente la forma iniziale».Sembra fantascienza, ma è tutto documentato. E’ talmente vero, che il problema principale – per l’intelligence di mezzo mondo – diventa l’impiego della Macchina, della cui potenza i suoi creatori sono perfettamente consapevoli: «Si possono “annichilire” carri armati e missili, o invece si può cancellare una montagna di immondizia inquinante», dice Francesco. «Dipende da chi possiede la Macchina, dall’uso che intende farne». C’è un patto di ferro, tra Majorana e Pelizza: mai utilizzare quella macchina contro il bene dell’umanità. «Quando a Rolando è stato chiesto di usarla per distruggere carri armati o satelliti, si è rifiutato», racconta sempre Francesco Alessandrini. «E, con un trucchetto che aveva predisposto nel dispositivo, faceva sì che la Macchina non funzionasse – sparisse, si distruggesse». Proprio per questo, Pelizza «ha eseguito molti esperimenti, ma senza mai un contenuto distruttivo o bellico, come quelli richiesti dai padroni della Terra». Vere e proprie complicazioni: un’attrezzatura come quelle darebbe un vantaggio esponenziale alla potenza militare che la possedesse.Per questo, spiegano Roberta e Francesco, non si è ancora riusciti a presentare ufficialmente la macchina, per metterla a disposizione dell’umanità. Impiego immediato: produrre energia “pulita” a costo zero. Enorme interesse, da parte di diplomazie e governi. L’implicazione più straordinaria? La capacità di risolvere, in un colpo solo, il problema climatico. Come? Intervenendo direttamente nell’atmosfera. Sembra un sogno. Ma non lo è, dice Francesco: «C’è un gruppo, su questa Terra, che ormai ha un po’ tutte le conoscenze che servono, per costruire la Macchina. E sa anche come risolvere il problema climatico. Il problema nasce dal fatto che questo gruppo non ha finora messo a disposizione di Rolando le macchine che ha, per farle funzionare da Rolando». Pelizza è ancora l’unico (per fortuna) a conoscere «un trucchetto particolare, in grado di far funzionare la Macchina nel modo corretto». Aggiunge l’ingegner Alessandrini: «Finché questo gruppo non lascerà Rolando libero di agire come crede, di fatto non si farà nulla. Se invece questo gruppo decide di coinvolgere Rolando nell’esecuzione di qualche esperimento, e nel trattamento che immaginiamo debba venir eseguito sull’atmosfera, allora le cose potrebbero radicalmente cambiare».Stiamo parlando di qualcosa di rivoluzionario, inimmaginabile: agire sull’invisibile, per condizionare la realtà visibile. «La Macchina dimostra che la scienza, così come si è sviluppata fino ad oggi, è sulla strada sbagliata», conferma Roberta Rio. «Soprattutto, la scienza non ha compreso la natura. E questo è l’approccio meraviglioso che ci propone Majorana, assieme a Rolando: una fisica, una matematica che lavorino in armonia con la natura, avendone compreso le leggi. Quindi non c’è bisogno di manipolare la natura, o addirittura di farle violenza; basta saper interagire con essa. Ma serve un approccio scientifico radicalmente nuovo». E’ il grande insegnamento di questa storia, che per Roberta Rio e Francesco Alessandrini ha aperto sviluppi prima impensabili, come «il ruolo del pensiero nei processi di creazione, che ci portano a una comprensione diversa del ruolo dell’uomo nell’ambito dell’evoluzione e della creazione stessa». Decisamente sconvolgente: «Non siamo più vittime o semplicemente passivi, ma siamo co-creatori, siamo responsabilizzati: la realtà discende proprio dai nostri pensieri e da come ci poniamo nei confronti delle cose», aggiunge Roberta.Ed è proprio un pensiero, infatti, a bloccare misteriosamente la Macchina quando non è nelle mani giuste. A proposito, come è fatta? «E’ un semplice cubo, ultimamente in alluminio, che nella sua versione più piccola ha una cinquantina di centimetri di lato. All’interno – spiega Francesco – ci sono altre “scatole”, via via più interne, che creano un ambiente isolato rispetto all’esteno, per arrivare poi alla parte centrale dove ci sono una serie di motorini e dispositivi in grado di creare, contemporaneamente, per lo meno due campi elettrici, due campi magnetici e un campo anti-gravitazionale, che riescono tutti insieme a lavorare per produrre uno stato, nel centro della macchina, in cui ci si connette con quello che io chiamo “l’oltremateria”, cioè uno stato del nostro universo in cui c’è qualcosa, ma non è più qualcosa di materiale». Secondo l’ingegner Alessandrini «ci si connette, sostanzialmente, agli schemi della materia che stanno dietro alla materia». E attenzione: «Quando si riesce a raggiungere quello stato lì, si può andare a cambiare qualche informazione nello schema; dopo, come conseguenza, questo cambiamento viene riportato nella materia, nel mondo fisico che noi conosciamo così bene».Tutto questo, grazie a Majorana. «Ettore era considerato un genio silenzioso, aveva scritto pochissimo», ricorda Roberta Rio. «Iniziò a insegnare all’università per un periodo brevissimo, il 13 gennaio dello stesso anno in cui scomparve. Era una persona molto schiva, gli interessava andare al sodo e scoprire l’essenza delle cose». I suoi scritti? «Cominciano solo ora a essere compresi». Con basi matematiche diverse, «Majorana è riuscito a calcolare quella che sarebbe stata la direzione evolutiva dell’essere umano». Scomparve per non partecipare alla realizzazione della bomba atomica? «C’era molto di più, in gioco: mettere a disposizione dell’umanità una macchina in grado di produrre energia a costo zero, risolvendo il problema economico delle risorse e il problema sociale delle guerre per il petrolio o per l’acqua». Dedizione infinita alla causa: «Lungimiranza, saggezza e umiltà l’hanno portato a dedicare l’intera vita alla possibilità odierna di risolvere il problema climatico, che all’epoca della sua scomparsa non era ancora così evidente. Se l’uomo avesse preso la strada della “free energy”, aggiunge Francesco, questi ulteriori sviluppi della Macchina non sarebbero stati necessari». Sono stati comunque raggiunti, grazie a Pelizza e al genio siciliano, capace di lavorare in incognito per decenni.Quanti sapevano dove fosse, Majorana? Tante persone: quelle che contano. «C’è una storia ufficiale – quella della scomparsa – e una storia più ampia, non ufficiale, dove avvengono i fatti veri e propri. Poi – dice Francesco – si racconta una storia che viene condivisa e che passa sui manuali di storia». Ma se Majorana ha lasciato credere di essere sparito per sempre, diventando l’Uomo Invisibile, anche per Pelizza non è stato facile lavorare alla causa: «Rolando stesso ha vissuto una vita terribile, i servizi segreti gli hanno reso la vita molto difficile». Pelizza è stato in contatto coi governanti italiani fin dalla prima presentazione pubblica della sua macchina. «Governanti molto interessati, all’inizio – famosi politici, che hanno avuto a che fare con lui: Andreotti diede mandato a un professore, allora a capo dell’energia nucleare italiana, di studiare la Macchina di Rolando. Indagini, esperimenti, quindi una relazione: disse che ciò che faceva la Macchina era frutto di una tecnologia assolutamente al di fuori di tutte quelle allora conosciute».«Da quel momento, non si sa perché, gli italiani hanno ceduto la cosa ad altri governi, soprattutto Belgio e Usa, che hanno preso in mano la situazione», continua Francesco. «Abbiamo dei cablo di Wikileaks con la chiara testimonianza di documenti segreti che evidenziano come Kissinger, allora segretario di Stato del governo Ford, diede l’ok per seguire da vicino la vicenda di Rolando, ritenuta di estremo interesse per il governo americano». Per un po’ l’hanno lasciato fare, aggiunge Alessandrini, «ma ogni volta che Rolando si costruiva una macchina in grado di fare quegli esperimenti, gli veniva confiscata – e lui doveva ricominciare da zero a costruirla». Ne avrà fabbricate 300, in questi anni – tutte regolarmente portate via non appena messe in funzione. «Gli impedivano di fare quello che lui voleva veramente fare». E cioè: preservare l’umanità dall’autodistruzione. Le varie vicissitudini di Rolando, dice Roberta Rio, sono state raccolte (con documenti periziati e catalogati) da Alfredo Ravelli, cugino di Rolando e autore di tre libri su questa vicenda, che ha aspetti anche molto intricati.Il nome di Ettore Majorana apparve relativamente tardi, nella periodizzazione di questa collaborazione con Rolando, che venne a sapere l’identità di questo frate già nel ‘59. Ma solo il 7 dicembre 2001, attraverso una lettera, Ettore diede il permesso a Rolando di divulgare finalmente l’informazione che dietro alla Macchina e a queste sue nuove conoscenze c’era lui. Prima, Rolando parlò sempre di “un gruppo internazionale di studiosi”, che stava rappresentando e con i quali collaborava. «In quella lettera, però, Ettore chiese a Rolando di mantenere il segreto su due punti: il convento dov’era nascosto e i principi di questa nuova fisica, di questa nuova matematica – che, se divulgati, potrebbero far fare un salto di qualità straordinario all’umanità, ma se messi nelle mani sbagliate ci potrebbero portare alla distruzione in un battibaleno». Ettore Majorana? «Un uomo di una fede enorme, se pensiamo che si è ritirato dal mondo per dedicarsi solo a questo: aveva visto l’immensa possibilità e l’enorme pericolo».Francesco Alessandrini ammette che non è facile spiegare cosa può fare, questa fisica rivoluzionaria. Il primo concetto base è sconvolgente: «Dietro questo nostro mondo fisico c’è una specie di immagine, di schema di ciò che si realizza nel mondo fisico – che non è fisico, ma ha la capacità di organizzare e far funzionare il mondo fisico in un certo modo. Per cui, nel momento in cui riusciamo a capire come intervenire su questo schema, il cambiamento che provochiamo nello schema si ripercuote automaticamente nel mondo fisico». Attenzione: «Significa che abbiamo una possibilità di trasformazione della realtà fisica praticamente infinita». Problema immediato: «Questo concetto è di una grandiosità tale che non può venire accettato dalla fisica attuale, che invece parte dalla fisica stessa, dal mondo materiale, analizzandolo dal di dentro. Finché non si fa il salto, e si va al di fuori del mondo fisico per capire cosa c’è dietro, non riusciremo mai a comprendere pienamente ciò che si fa nel mondo fisico», aggiunge Francesco. «La visione prospettica di questa fisica è talmente al di là di ciò che si sfa facendo attualmente, da aprire prospettive assolutamente incredibili su ciò che può essere la vita umana, e su come si può interagire con la vita del mondo fisico nel suo complesso».In primissimo piano, la forza (segreta) del pensiero: «Il pensiero è il veicolo – lo strumento, il mezzo – che permette di andare a modificare lo schema, non fisico, che c’è dietro alla realtà fisica», spiega l’ingegner Alessandrini. «Con un certo tipo di pensiero (ben costruito, ben focalizzato, ben indirizzato e ben strutturato) si è di fatto in grado di modificare – e di creare, proprio – la realtà fisica, la nostra vita nel mondo fisico». Aggiunge Roberta Rio: «La cosa affascinante, di questi principi – che appartengono ad una fisica per il futuro, potremmo dire – in realtà sono già apparsi sulla Terra migliaia di anni fa in antichi scritti come i Veda, che solo ora riusciamo a interpretare in questa direzione». Mentre per alcuni i Veda sono soltanto racconti mitologici della tradizione induista, «per altri – noi compresi – sono veri e propri manuali di fisica». Sono libri scritti in sanscito, migliaia di anni fa. Ebbene, sì: rappresentano «un viaggio affascinante nella conoscenza, e proprio alcuni passi dei Veda parlano della qualità del “pensiero che crea”, che deve avere determinate caratteristiche per avere la capacità di creare, o meglio di manifestare, di portare sulla Terra, nella materia, quell’immagine corrispondente che esiste in un mondo oltre la materia, in una dimensione – uno spazio – oltre la materia».In questo senso, aggiunge Roberta, le indicazioni sono straordinarie, per l’uomo, in termini di responsabilità: l’idea che noi siamo i co-creatori della realtà nella quale viviamo. «E’ una fisica che si intreccia anche con la spiritualità: è questa la novità, o comunque l’intuizione. Un docente della John Hopkins University diceva che l’universo non è materiale, ma mentale e spirituale. Questa è la nuova frontiera della conoscenza, e anche dello sviluppo dell’umanità». Finalmente, dice Francesco, grazie a queste scoperte di Ettore Majorana «si torna a collegare la ragione con l’intuizione, la materia con l’oltremateria, la scienza con lo spirito, l’uomo con Dio. Il grande passo che stiamo facendo – rivela – è quello di tornare a unire scienza e spiritualità, come gli uomini del passato facevano, sapendo che era la vera completezza della vita nella quale ci troviamo a vivere». Pensieri che azionano la materia? «Esattamente». La Macchina? Un’invenzione prodigiosa: non solo per quello che può fare, ma per la rivoluzionaria conoscenza da cui proviene.«Quando si riesce, con la Macchina, ad andare in questo “oltremateria”, si entra in un ambito in cui, di fatto, il tempo scompare. O meglio: scompare il tempo come lo pensiamo noi», spiega Francesco. Normalmente, infatti, pensiamo il tempo come una successione di istanti, e nel mondo fisico visibile viviamo solo l’attimo presente: il passato e il futuro esistono, ma non appartengono all’attimo presente. «Quando ti trasferisci invece in quest’ambito “oltremateria”, lì non c’è più discontinuità tra passato, presente e futuro. E’ come se fosse un ambiente unico, in cui puoi andare, istantaneamente, in un punto del tempo che corrisponde a un punto del nostro passato». Una prospettiva vertiginosa, capace di rivoluzionare – in modo definitivo – la stessa concezione della vita sulla Terra. Ad una condizione: che si agisca rapidamente, senza più perdere tempo. «Ettore ha delineato il 2022-24 come data-limite per la vita sul pianeta, ma gli altri scienziati climatologi non sono lontani, le previsioni più pessimistiche parlano del 2030-2040», insistono Roberta e Francesco. «Ne resta poca, di vita sulla Terra, se non si fa qualcosa subito. E non lo dice solo Majorana, ma altri grandi scienziati come ad esempio Steven Hawking, che a gennaio 2017 disse: sbrigatevi ad andare ad abitare su Marte, perché la vita sulla Terra sta per finire».Oggi, l’ottantenne Rolando Pelizza – il custode del codice segreto della Macchina – invecchia con pazienza. «Mostra i primi segni di affaticamento, ma la sua immensa bontà è intatta», assicurano Roberta e Francesco. «Finché avrà fiato continuerà a fare queste cose, a cui ha dedicato 50-60 anni della sua vita». E Majorana? «Rolando dice che Ettore è sempre stato un tipo giovanile. L’ha visto un po’ invecchiare, ma dimostrando sempre molti meno anni». Ha usato la Macchina su di sé, per restare giovane? «Può darsi che abbia scoperto qualche utilizzo del pensiero per mantenersi in buona forma», dice Francesco. E’ ancora vivo? Oggi avrebbe 112 anni. «Non lo sappiamo», ammettono i due ricercatori: Rolando Pelizza si rifiuta di dare notizie precise. L’ultima traccia certa risale al 2006, quando Majorana aveva 100 anni. La Macchina, invece, non è più un mistero: sul web ci sono i progetti completi. Quello che manca è la formula per farla funzionare: il segreto di Pelizza. Che fare? «Il nostro obiettivo è chiaro: convincere chi possiede la Macchina a entrare finalmente in rapporto con Rolando e permettergli di fare quell’aggiustamento del clima che ci auguriamo venga fatto», tramite il favoloso dispositivo “dettato” da Majorana. «Anche se non ce ne rendiamo conto – concludono Roberta Rio e Francesco Alessandrini – siamo veramente in un momento critico per la sopravvivenza dell’uomo sulla Terra». Non lo accettiamo, eppure ci stiamo avvicinando alla nostra fine: «Se non c’è un intervento immediato – e l’unico che conosciamo è quello attraverso questa Macchina – saltiamo tutti quanti».(Il libro: Francesco Alessandrini e Roberta Rio, “La Macchina. Il ponte tra la scienza e l’oltre”, edito in self-publishing da “Il Mio Libro”, 160 pagine, euro 15,50 – oppure 4,99 in versione digitale, formato ePub. Su “Border Nights” la trasmissione integrale dell’intervista, in onda l’8 maggio 2018).“Smontare” la materia e ricostruirla ovunque, azzerando lo spazio-tempo. Primo obiettivo: medicare l’atmosfera, per riparare il clima e salvare la Terra. E ancora: creare energia infinita a costo zero, senza più petrolio e carbone. «So come si fa», direbbe il protagonista del film. «E chi ti credi di essere, Dio?». Non proprio, ma quasi: «Io sono Ettore Majorana, lo scienziato ufficialmente scomparso nel 1938». Immaginatevi la faccia dell’ingegner Rolando Pelizza, industriale bresciano, il giorno che si sentì rispondere in quel modo, nel lontano 1959, da quell’uomo giovanile dall’età indefinibile. Majorana? Il baby-genio che sbalordiva i suoi maestri Fermi, Amaldi e Pontecorvo, scappati negli Usa e in Urss per sottrarre a Hitler la ricerca sull’atomica. Lui, Majorana: il giovanissimo fenomeno venuto dalla Sicilia a incantare i “ragazzi di via Panisperna”, cioè i migliori cervelli del mondo, all’epoca, nel campo della fisica. «Ho capito cos’è la materia e come funziona. E tu, Rolando, devi aiutarmi a costruire un dispositivo sperimentale». La Macchina: la scatola “magica” che fa sparire le cose, qualsiasi cosa, e ne cambia la natura fisica. Possibile? Eccome: Giulio Andreotti prese molto sul serio la faccenda, passando il dossier a Kissinger.
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Pallante: come salvarci dalla catastrofe globale della crescita
Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.L’unica terapia? Fermare la crescita tumorale delle merci. Serve qualcosa di enorme, paragonabile alla Rivoluzione Industriale, ma di segno opposto. Valori da capovolgere: il “tanto-avere” è il grande nemico del “ben-essere”. Nel suo ultimo saggio, che definisce “un manifesto politico e culturale”, Pallante denuncia il capitalismo industriale degli ultimi 250 anni. Una forza tellurica eversiva, segnalata da Marx come pericolo: se prima il denaro era solo un mezzo per scambiare merci, è diventato l’unico fine dell’intero ciclo economico. E’ Keynes, nel 1931, il primo a parlare di “disoccupazione tecnologica”: scopriamo sempre nuovi sistemi per «risparmiare forza lavoro», senza riuscire a ricollocarla. Succede perché siamo avidi, dice Pallante: riducendo l’orario di lavoro, l’innovazione di processo non comprometterebbe l’occupazione. Al contrario: sarebbero le macchine a lavorare per noi. Il guaio? Il nostro obiettivo non è vivere bene, in armonia con gli altri e con il pianeta. Vogliamo solo avere tanti soldi, costi quel che costi. Alle conseguenze, semplicemente, non pensiamo: la guerra sociale, la predazione globale delle risorse, il collasso della biosfera. Il paziente è grave: consuma più di quanto la Terra possa dargli. Ogni anno la “deadline” si accorcia: prima del Duemila la linea rossa veniva superata a ottobre, poi a settembre. Ora siamo “in riserva”, ogni anno, già dal mese di luglio.Non ci vuole un indovino per intuire che di questo passo andremo a sbattere. L’emissione di anidride carbonica non smaltibile dalla fotosintesi vegetale è quasi raddoppiata, sugli oceani galleggiano “continenti” di plastica, il pesce s’è dimezzato, il clima terrestre sta per raggiungere i 2 gradi sopra la soglia di sicurezza. E non abbiamo ancora visto niente: si calcola che interi paesi, come il Bangladesh, saranno sommersi. Noi che facciamo? Niente. Anzi, peggio: acceleriamo la corsa verso lo schianto. La globalizzazione violenta del mercato, dice Pallante, riproduce su scala mondiale quanto avvenne con la Rivoluzione Industriale: masse ingenti di contadini e artigiani sradicate dai loro territori e trasformate in folle di profughi economici. Obiettivo: accrescere la platea dei consumatori di merci superflue. Esaurite le capacità dell’Occidente, si punta al resto del mondo. Interi continenti da depredare di materie prime a basso costo, attraverso guerre coloniali permanenti. Decine di paesi devastati, dai quali non resta che scappare. Il sistema li accoglie a braccia aperte, i migranti che ha messo in fuga: diventeranno nuovi consumatori e contribuenti, in termini di tasse e versamenti pensionistici, senza contare il loro sfruttamento schiavistico e il business criminale che specula sull’accoglienza, mortificando la solidarietà di migliaia di volontari.Proprio la mano tesa, offerta ai rifugiati, rivela che la vittoria del mostro (da noi stessi alimentato ogni giorno) non è ancora definitiva. Sopravvivono religioni, cresce a vista d’occhio la fame di spiritualità. In modo spesso confuso, si va in cerca di valori. «Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica – scrive Pallante – la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile». Consente di recuperare la solidarierà «non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi», e arricchisce la pulsione all’uguaglianza di un profilo anche esistenziale. Cosa manca? Una politica, capace di aggregare milioni di individui per invertire il corso degli eventi, scongiurando la catastrofe. Destra e sinistra? Un lungo equivoco. E’ lo stesso Hayek, nume tutelare dei criminali architetti dell’austerity europea, a chiarire che il liberalismo non è stato conservatore, ma rivoluzionario. La sinistra ha arrancato dietro al capitale, cercando solo di distribuirne i profitti in modo più largo. Ma, secondo Pallante, persino l’ossigeno del deficit teorizzato da Keynes è controproducente: siamo al punto in cui – come predetto dal Club di Roma, cioè dal Mit di Boston – ogni espansione dei consumi ci accorcerebbe ulteriormente la vita.Come se ne esce? In un solo modo: tagliando il Pil. Decrescita infelice? No: selettiva. Nel mirino, gli sprechi. Non la barzelletta delle auto blu, ma cifre spaventose, che valgono intere finanziarie: la sola riconversione ecologica degli edifici farebbe crollare di 2/3 la spesa energetica nazionale, creando un oceano di posti di lavoro (utili) e abbattendo in modo vertiginoso l’impatto ambientale. Nel gelido Nord Europa c’è chi vive in “case passive” tecnologicamente avanzate, senza riscaldamento convenzionale, a emissioni zero. Noi invece siamo ancora impelagati nelle guerre geopolitiche per i gasdotti, come se vivessimo all’inizio del ‘900. Le ultime elezioni italiane hanno rottamato la vecchia politica e in particolare la sinistra? Ovvio: proprio la sinistra ha abbandonato i territori che storicamente si era candidata a tutelare. In ordine sparso, si va organizzando localmente un arcipelago di comunità fondate sulle filiere corte, ancora senza rappresentanza istituzionale. Riuscirà a nascere un partito che punti alla sostenibilità dell’economia, anziché all’impossibile “sviluppo sostenibile”? Matematica: benché “sostenibile”, cioè con minor impatto immediato sull’ecosistema, qualsisasi “sviluppo” (crescita illimitata) diventa comunque insostenibile alla distanza, perché farà crescere consumi superflui e veleni.«E’ l’equivoco delle rinnovabili: sono meno impattanti oggi, ma quell’energia “verde” aggraverà il bilancio ecologico domani, se ci sarà ancora “sviluppo”». L’alternativa? Vivere benissimo e diventare tutti ricchissimi: non per forza di denaro, ma di beni (prodotti con “valore d’uso”, anziché merci “usa e getta”). Nel suo libro – densamente argomentato e documentato, numeri alla mano – Pallante ammette che il suo pensiero è necessariamente eretico, di fronte al non-pensiero del “mercato”. «La decrescita selettiva degli sprechi – insiste – è l’unica via d’uscita a una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime». Mentre la disoccupazione ci devasta, nessuno mette in cantiere le attività utili, quelle adatte ad affrontare la crisi sociale e l’emergenza ambientale. «Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e non commissiona i lavori più necessari, che ripagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del Pil. Prima ce ne liberiamo e meglio sarà».Inutile spiegarlo agli oligopolisti del denaro, i ras della finanza che stanno schiantando il pianeta alla velocità della luce. Dovranno essere i molti, non i pochi, a disertare dall’esercito del Pil, additando questo “sviluppo” come il vero nemico di un’umanità ancora intenzionata ad abitare la Terra. E’ in arrivo un cataclisma definitivo o sarà ancora possibile metter mano al nostro destino, fermando la corsa verso il baratro? Dipende da noi, secondo Pallante, che intanto propone di uscire dal grande imbroglio della fiction mainstream. Svegliarsi: rottamare il culto di vocaboli-totem come progresso, modernità e innovazione. Continuare a scambiarli per sinonimi di miglioramento, sostiene, significa restare prigionieri di un inganno saguinoso, ormai esiziale per le sorti della società e del pianeta. Tornare all’antico? Al contrario: «Occorre utilizzare l’enorme patrimonio scientifico e tecnologico delle società industriali», non più per incrementare la produttività e la produzione di merci, ma «per sviluppare le tecnologie che aumentano l’efficienza con cui le risorse della Terra vengono trasformate in beni». Raffinate tecnologie, che riducono gli sprechi, tagliano le emissioni e recuperano i rifiuti.Oggi, insiste Pallante, difendere la democrazia significa affrontare i problemi creati dalla gobalizzazione: «Occorre porre al centro della politica economica l’autosufficienza alimentare ed energetica». Filiere corte, dall’energia al cibo. Parola d’ordine: «Rilocalizzare tutte le attivitù produttive che rispondono ai bisogni fondamentali della vita e possono essere svolte più vantaggiosamente a livello nazionale che a livello globale». Settori d’impiego teoricamente infiniti: basterebbe «ristrutturare ecologicamente il patrimonio edilizio, rinaturalizzare il paesaggio, ripulire i fiumi, rifare le reti idriche che perdono mediamente il 65% dell’acqua». Solo così, conclude Pallante, si può rianimare l’economia creando lavoro “utile”, che risana l’ecosistema. Serve un nuovo umanesimo, un patto tra comunità consapevoli: «Occorre ridare slancio alla convinzione che il lavoro di ognuno può contribuire in maniera determinante al benessere di tutti», restituendo un futuro ai giovani e alle generazioni a venire. Utopia? Sì, necessaria e urgente. Non c’è più tempo per i sogni, serve una politica operativa basata su un paradigma opposto a quello della crescita, cieca e suicida. Anche perché l’alternativa è già scritta: siamo noi, il famoso tonno da tagliare con un grissino.(Il libro: Maurizio Pallante, “Sostenibilità equità solidarietà”, sottotitolo “Un manifesto politico e culturale”, Lindau, 185 pagine, 16 euro).Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.
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Incolore e insapore: la teologia Ikea, glaciazione dell’anima
Lo sguardo cade oltre l’enorme finestra, sulla balaustra con i colori aziendali della multinazionale: azzurro e giallo. Ormai anche nel Mediterraneo ci sono chiari segni di imminente glaciazione importata dal nord. Le dimensioni delle nostre finestre, una volta modeste in relazione al parallelo, oggi aumentano a dismisura come se l’effetto serra al suo interno fosse quello auspicato alle latitudini polari. I colori stessi sono slavati, spenti. Giallino e azzurrino, appunto. Siamo ben distanti dal bianco accecante delle case del sud o dalle colorite case pastello di San Francisco. Anche lì i colori non sono vivaci, ma quelle tinte pastello così varie non possono che mettere buonumore. Parola questa preclusa a giallini e azzurrini, a cui associo piuttosto noia e fastidio. Giallo noia e azzurrino fastidio, abbinamento perfetto per il ristorantino Ikea in cui mi trovo. Uscito dalle casse rigorosamente cashless con la libreria in kit nel carrello avevo visto quell’invitante immagine di fish and chips. “Perchè no?”, mi ero detto. Mi veniva in mente quell’abbuffata di fish and chips in quella bettola vicino a Londra, in quel fast food popolare, trafficato e senza pretese. Le porzioni erano abbondanti e unte, e avevo ancora in bocca quel gusto inesplicabile di merluzzo fritto assieme alle patate fresche. Perchè no?Mi armo quindi di buona volontà e mi avvicino al totem automatico. In teoria le cose erano semplici: con il touch screen si seleziona ciò che si vuole, si paga e si da lo scontrino all’assistente dietro al bancone. Tocco con l’indice il terminale che cambia schermata. Adesso devo pagare. Poco sotto c’è la feritoia dentro cui bisogna far scorrere la banconota. Certo, potrei anche pagare con il bancomat, ma ho una specie di idiosincrasia verso i pagamenti di spiccioli via banca: non ce la faccio, lo trovo di una miseria inenarrabile. Cerco prima con calma poi con un crescendo di disperazione di infilare la banconota ma non c’è verso. Il meccanismo pare rifiutare qualsiasi tentativo. Mi guardo intorno. C’è una coppia di coetanei a cui chiedo lumi. Mi dicono di non saperne granché, osserviamo imbarazzati quel macchinario infernale che mi nega la possibilità di pagare. Poi la signora vede la luce: bisogna dare un consenso via touchscreen.I computer hanno sempre qualche cazzo di meccanismo prioritario che non esiste nelle relazioni tra noi umani. Vogliono sempre qualcosa in più che noi non siamo abituati a dare. Addirittura la meccanica è più umana: l’auto mica ti domanda “sei sicuro che mi vuoi spegnere?” (o che vuoi accendere il tergicristallo e che ne hai diritto) al contrario del computer. Se devo pagare un cassiere non esiste motivo per cui quest’ultimo mi chieda se voglio davvero pagare e resti in attesa che io pigi un preciso tasto che non riesco ad individuare. Se mi trovo davanti a lui è solo per un motivo: devo pagare. Lui incassa e lì finisce la storia. Con i computer questa banale e ampiamente consolidata razionalità non fa parte dell’insieme di logiche perverse che lo animano. A questa incongruenza si somma il delirio del touchscreen. Mi torna in mente quella coppia di turisti a Firenze che mi chiedono se posso fare loro una foto con lo smartphone di ordinanza. No problem, I’m happy to help you. Certo, come no? Ogni volta che lo toccavo quell’oggetto insensato si trasformava in lettore Mp3, client di posta elettronica o qualsiasi altra diavoleria. Niente foto. Alla fine ho dovute passare l’ordigno multifunzione a mia figlia, che ha saputo domarlo.Ecco, quelle logiche non mi appartengono, lo voglio affermare con tutto me stesso. Purtroppo la società digitale non ne può più fare a meno. Lo scopo fu dichiarato nel lontano 1933 alla World’s Fair di Chicago: «Science finds, industry applies, man conforms». Lo scontro è epocale: i comportamenti umani devono fare i conti con procedure di astrazione sempre maggiori voluti da scienza e messi in opera dalla tecnologia. Millenni di consuetudini sociali vanno riviste in funzione dei desiderata di banchieri, tecnologi e scienziati. Maledicendo il momento in cui avevo deciso di dedicarmi alla ristorazione nordica e incapace di accettare la sconfitta inflittami dalla tecnologia cashless, riesco finalmente ad inserire la banconota nella fessura, opportunamente apertasi dopo il complicato comando touchscreen. L’inserviente strappa il biglietto emesso dal totem e in cambio mi porge l’agognata vaschetta. Lascio il carrello fuori ed entro nell’area ristorazione. L’ambiente è anonimo in stile ecochic. Fanno bella mostra di sé l’arredamento in pseudo legno stile nordico dai colori slavati, l’angolo per la raccolta differenziata del pattume ed il finestrone di cui sopra. Nessun accenno ad una qualsiasi vivacità. Alzo lo sguardo oltre la balaustra: anche il mondo lì fuori sembra accogliere il diktat svedese. Un viavai di grigi camion e auto che rallentano per entrare in autostrada, o accelerano per uscirne. Trasporto gommato di merci che vanno a riempire magazzini piccoli e grandi come l’Ikea e agenti di commercio che propongono tali merci. Non riesco ad immaginare altro in quel traffico.Mi appoggio ad un tavolo alto senza sedermi e inizio a mangiare. Nessun gusto particolare, evitiamo le cose definite quindi anche i gusti decisi come capperi e acciughe. Niente che mi ricordi quel fish and chips dei britannici. Eppure anche loro sono ben al nord. Ma hanno le cabine del telefono rosso acceso, scusa se è poco. Per curiosità sono andato a vedere come sono le cabine telefoniche svedesi. Che ci crediate o meno sono colorate sempre in stile “evitiamo ogni entusiasmo”. Tipico il verde affanno, variante del verde marcio. Non se ne esce vivi. Mi viene sete e con un euro si ha la possibilità di bere fino a scoppiare (non di salute, non preoccupatevi). La scelta è enorme: un sacco di distributori automatici. Peccato che i relativi gusti non siano poi così differenti. A parte la base sostanziosa di aspartame (ci scommetto che per dare un bel po’ di gusto dolce non usano lo zucchero) ci sono vari coloranti. Me ne verso un dito alla volta per tipo dentro al bicchiere di carta riciclabile e decido che della semplice acqua è mille volte meglio di quegli intrugli chimici. Ma l’acqua non è presente nei distributori, la vendono solo in bottiglie di plastica (riciclabile) e bisogna fare un altro biglietto al totem. No, grazie. Per oggi basta così. Butto la vaschetta ed il bicchiere di carta nel bidone del riciclo ed esco da quel posto sconsolato.“Ma se ti fa così schifo perché ci vai, allora?”. Giusta domanda. La risposta è semplice: con gli stipendi che girano il risparmio è d’obbligo. Non sarei mai riuscito a comprare l’arredamento della camera di mia figlia da un artigiano senza vendermi un rene. Per carità, paragonare il lavoro di un falegname mobiliere al prodotto industriale svedese è una bestemmia urlata in chiesa alla domenica mattina durante la messa. Diciamo che se mi serve un letto con cassettoni ed un armadio laccato bianco e sono disposto a sorvolare sul fatto che la laccatura in realtà è un deposito di plastica melaminica su strato di avanzi di legno e cartone pressati questa soluzione economica e presuntuosamente ecochic (sempre di riciclo si tratta) può andare bene. Ed il mio rene rimane sempre lì, a mia disposizione. In realtà la multinazionale in questione ha catapultato il gusto verso l’amore (dettato da necessità economiche) per il falso. Anche i poveri possono permettersi il lusso, basta che sia apparente. E qui non c’entrano per nulla i cinesi: è tutta roba made in Eu. Inesorabilmente la nostra percezione, telecomandata dalle lobbies, sta sviluppando un interesse morboso verso l’estetica dimenticandosi l’anima delle cose.Il telefonino è diventato oggetto di culto in quanto virtualizza esteticamente ogni relazione con il reale. La virtualità è oggi la parola d’ordine: gli amici non si incontrano a casa ma su Facebook, i contanti spariscono per lasciare spazio al cashless, il legno viene sostituito da melaminico stampato con venature di varie essenze, il succedaneo dei musicisti si chiama sequencer e via elencando. E’ il trionfo del ready made: i centri commerciali devono essere zeppi di cheap solutions predisposte ad hoc per chi non ha tempo né soldi da perdere in lente operazioni e pianificazioni. E il ready made è l’esatta contrapposizione all’animismo: nulla ha più anima, esiste solo un’unica ontologia digitale. Il trionfo del monoteismo virtuale ed astrattivo. Sconfitta l’idea antica che anche gli oggetti possano avere una propria ontologia con un preciso senso del Sé a cui possiamo essere legati, la postmodernità ci ha consegnato una panoplia di insensatezze il cui unico riferimento è la fenomenologia del digitale. Pensateci un momento: se togliete il digitale dalla vostra vita, cosa resta oggi? Niente Internet, niente computer, niente telefonini, niente tv. Non si salvano neanche le auto: senza il digitale spariscono praticamente tutte quelle che si vedono in giro.In realtà le nostre vite sono comandate dal digitale: la noiosissima e lunghissima serie di zeri ed uno ha preso il sopravvento sull’analogico, ovvero la variazione infinita tra un minimo ed un massimo, capace di sfumature quasi impercettibili. L’oggetto analogico ha un’anima che la mente digitale non riesce più ad individuare e riconoscere. Viviamo in un universo on-off e la narrazione primaria (Big Bang) ci vuole figli casuali di una fluttuazione quantistica. Il ready made nato esattamente un secolo fa come denuncia di un sistema di valori senz’anima (urinoir di Duchamp) è diventato oggi il riferimento culturale primario. L’osservanza delle procedure ha soppiantato la comprensione del disegno generale che non appartiene più all’uomo. Siamo oggetti a disposizione delle macchine e del caso, dice Heisenberg. Triste epilogo della Res Cogitans cartesiana. «I believe that the horrifying deterioration in the ethical conduct of people today stems from the mechanization and dehumanization of our lives. A disastrous by-product of the development of the scientific and technical mentality» (Albert Einstein).(Tonguessey, “Ikea”, da “Come Don Chisciotte” del 24 ottobre 2017).Lo sguardo cade oltre l’enorme finestra, sulla balaustra con i colori aziendali della multinazionale: azzurro e giallo. Ormai anche nel Mediterraneo ci sono chiari segni di imminente glaciazione importata dal nord. Le dimensioni delle nostre finestre, una volta modeste in relazione al parallelo, oggi aumentano a dismisura come se l’effetto serra al suo interno fosse quello auspicato alle latitudini polari. I colori stessi sono slavati, spenti. Giallino e azzurrino, appunto. Siamo ben distanti dal bianco accecante delle case del sud o dalle colorite case pastello di San Francisco. Anche lì i colori non sono vivaci, ma quelle tinte pastello così varie non possono che mettere buonumore. Parola questa preclusa a giallini e azzurrini, a cui associo piuttosto noia e fastidio. Giallo noia e azzurrino fastidio, abbinamento perfetto per il ristorantino Ikea in cui mi trovo. Uscito dalle casse rigorosamente cashless con la libreria in kit nel carrello avevo visto quell’invitante immagine di fish and chips. “Perchè no?”, mi ero detto. Mi veniva in mente quell’abbuffata di fish and chips in quella bettola vicino a Londra, in quel fast food popolare, trafficato e senza pretese. Le porzioni erano abbondanti e unte, e avevo ancora in bocca quel gusto inesplicabile di merluzzo fritto assieme alle patate fresche. Perchè no?
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Indagine-choc: fibre di plastica nell’acqua del rubinetto
Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».Yunus, il fondatore della banca di microcredito Grameen Bank, progetta di lanciare un’iniziativa contro lo spreco di plastica nei prossimi mesi. Ricerche sempre più numerose, aggiungono Morrison e Tyree, dimostrano la presenza di microscopiche fibre di plastica negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria: «Questo studio è il primo a provare l’esistenza di una contaminazione da plastica nell’acqua corrente di tutto il mondo». Attenzione: «Gli scienziati non sanno in che modo le fibre di plastica arrivino nell’acqua di rubinetto, o quali possano essere le implicazioni per la salute. Qualcuno sospetta che possano venire dai vestiti sintetici, come gli indumenti sportivi, o dai tessuti usati per tappeti e tappezzeria. Il timore è che queste fibre possano veicolare sostanze chimiche tossiche, come una sorta di navetta che trasporta sostanze pericolose dall’acqua dolce al corpo umano». Negli studi su animali, «era diventato chiaro molto presto che la plastica avrebbe rilasciato queste sostanze chimiche, e che le condizioni dell’apparato digerente avrebbero facilitato un rilascio piuttosto rapido», racconta Richard Thompson, direttore della ricerca all’università di Plymouth, Gran Bretagna.Dalle osservazioni sulla fauna selvatica e l’impatto che sta avendo questa cosa abbiamo dati a sufficienza per essere preoccupati, aggiunge Sherri Mason, una delle pioniere della ricerca sulla microplastica, che ha supervisionato lo studio della “Orb Media”: «Se sta avendo un impatto sulla fauna selvatica, come possiamo pensare che non avrà un impatto su di noi?». La contaminazione, scrive “Repubblica”, sfida le barriere geografiche e di reddito: il numero di fibre trovate nel campione di acqua di rubinetto prelevato nei bagni del Trump Grill, il ristorante della Trump Tower a New York, è uguale a quello dei campioni prelevati a Quito, la capitale dell’Ecuador. “Orb Media” ha rilevato fibre di plastica persino nell’acqua in bottiglia, e nelle case in cui si usano filtri per l’osmosi inversa. Le autorità sono spiazzate: gli Usa non hanno nemmeno inserito le particelle di plastica nella lista delle possibili sostanze contaminanti rintracciabili nell’acqua di rubinetto. Dei 33 campioni d’acqua prelevati in varie città degli Stati Uniti, il 94% è risultato positivo alla presenza di fibre di plastica. E’ la stessa media dei campioni raccolti a Beirut, Libano. Fra le altre città monitorate figurano Delhi (India, 82%), Kampala (Uganda, 81%), Giacarta (Indonesia, 76%), nonché Quito (Ecuador, 75%) e varie città europee (72%).La ricerca, precisa “Repubblica”, è stata progettata dal dipartimento di geologia e scienza ambientale dell’università statale di New York, e i test sono stati eseguiti dalla ricercatrice Mary Kosuth, della scuola di salute pubblica dell’università del Minnesota. «E’ la prima indagine a livello globale sull’inquinamento da plastica nell’acqua di rubinetto», afferma la Kosuth. I risultati rappresentano «un primo sguardo sulle conseguenze dell’uso e dello smaltimento della plastica». I campioni sono stati raccolti da scienziati, giornalisti e volontari addestrati, seguendo i protocolli stabiliti. «Questa ricerca si limita a scalfire la superficie, ma ha l’aria di essere una questione molto seria», ammette Hussan Hawwa, amministratore delegato della società di consulenze ambientali Difaf, che si è occupata della raccolta dei campioni in Libano. «La ricerca sulle conseguenze per la salute umana è appena agli inizi», dice Lincoln Fok, studioso dell’ambiente presso l’Education University di Hong Kong. In ogni caso, la ricerca «solleva più interrogativi di quelli che risolve», secondo Albert Appleton, già commissario alle acque del Comune di New York. «C’è un bioaccumulo? Influisce sulla formazione delle cellule? È un vettore per la trasmissione di agenti patogeni nocivi? Se si scompone, che cosa produce?».Il mondo, riassume “Repubblica”, sforna ogni anno 300 milioni di tonnellate di plastica. Oltre il 40% di questa massa «viene usato una volta soltanto, a volte per meno di un minuto, e poi buttato via». Ma la plastica «rimane nell’ambiente per secoli». Secondo un recente studio, dagli anni ‘50 a oggi sono stati prodotti in tutto il mondo oltre 8,3 miliardi di tonnellate di plastica. Sono migliaia di miliardi le scorie plastiche disseminate sulla superficie dell’oceano: fibre di plastica sono state ritrovate «dentro i pesci venduti nei mercati, nel Sudest asiatico, nell’Africa orientale e in California». E la plastica dal rubinetto di casa? «È una cosa brutta: si sentono così tante cose sul cancro», ha detto Mercedes Noroña, 61 anni, dopo essere stata informata che un campione di acqua prelevato dal suo rubinetto di casa, a Quito, conteneva fibre di plastica. «Forse esagero, ma ho paura delle cose che ci beviamo con l’acqua». Non è sola, nella sua inquietudine: un recente sondaggio Gallup svela che il 63% degli americani è «fortemente preoccupato» per l’inquinamento dell’acqua potabile.Tra le fonti inquinanti, aggiungono Dan Morrison e Chris Tyree, c’è anche l’abbigliamento: gli indumenti sintetici emettono fino a 700.0006 fibre a lavaggio, ma gli impianti di depurazione delle acque ne intercettano solo la metà (il resto finisce nei corsi d’acqua, per un totale di 29 tonnellate di microfibre di plastica al giorno, secondo l’università di Plymouth). E poi l’aria: uno studio del 2015 calcolava che a Parigi, ogni anno, si depositano sulla superficie fra le 3 e le 10 tonnellate di fibre sintetiche. Laghi e fiumi possono essere contaminati da deposizioni atmosferiche cumulative, afferma Johnny Gasperi, professore dell’università di Parigi-Est Créteil: «Nelle ricadute atmosferiche è presente un’enorme quantità di fibre». Questo, osserva “Repubblica”, potrebbe spiegare perché si trovano fibre di plastica anche in sorgenti idriche sperdute, in tutto il mondo. Ma la “Orb” ha trovato fibre di plastica anche in acque di rubinetto provenienti da falde sotterranee. Tante le incognite: quanto è grande il pericolo se le fibre di plastica assorbono “perturbatori endocrini” che alterano i nostri sistemi ormonali? «Non abbiamo mai veramente preso in considerazione questo rischio prima», ammette Tamara Galloway, ecotossicologa all’università di Exeter.Le città stanno appena cominciando a fare i conti con l’inquinamento da fibre di plastica e con il ruolo che giocano in tutto questo le lavatrici di casa, continua il report su “Repubblica”. Rallentare il processo di trattamento delle acque reflue consentirebbe di intercettare una maggior quantità di fibre di plastica, dice Kartik Chandran, ingegnere ambientale della Columbia University. Ma potrebbe anche accrescere i costi. «I grandi marchi dell’abbigliamento dicono che stanno lavorando per migliorare i loro tessuti sintetici in modo da ridurre l’inquinamento da fibre. E sta venendo fuori tutta una serie di filtri, di prodotti da inserire nel cestello della lavatrice durante il lavaggio e di altri prodotti per ridurre le emissioni di fibre durante i lavaggi. Test indipendenti mostreranno quale di questi metodi è più efficace». Sherri Mason, la prima ricercatrice a scoprire la forte presenza di inquinamento da microplastica nella regione americana dei Grandi Laghi, si dice «sconvolta» dai risultati dei test sull’acqua potabile: «La gente mi chiedeva sempre: “Ma queste cose ci sono anche nell’acqua che beviamo?”. Io rispondevo sempre che non lo sapevo». Ora invece, purtroppo, lo sa.Quanta plastica beviamo? Molte ricerche ormai mostrano la presenza di fibre plastiche, praticamente ovunque: negli oceani, nelle acque dolci, nel suolo e nell’aria. E oggi uno studio americano prova l’esistenza di una contaminazione da plastica persino nell’acqua corrente domestica, spiegano Dan Morrison e Chris Tyree in un report su “Repubblica”. «Dai rubinetti di casa di tutto il mondo, da New York a Nuova Delhi, sgorgano fibre di plastica microscopiche», secondo una ricerca originale di “Orb Media”, un sito di informazione no-profit di Washington. Insieme ai ricercatori dell’università statale di New York e dell’università del Minnesota, “Orb Media” ha testato 159 campioni di acqua potabile di città grandi e piccole nei cinque continenti. L’83% dei campioni contiene microscopiche fibre di plastica: compresa l’acqua che esce dai rubinetti del Congresso degli Stati Uniti. E se la plastica è nell’acqua di rubinetto, probabilmente sarà presente anche nei cibi preparati con l’acqua, come pane, pasta, zuppe e latte artificiale. «È una notizia che dovrebbe scuoterci», dice Muhammad Yunus, Premio Nobel per la Pace 2006. «Sapevamo che questa plastica tornava da noi attraverso la catena alimentare. Ora scopriamo che torna da noi attraverso l’acqua potabile. Abbiamo una via d’uscita?».