Archivio del Tag ‘Pretoria’
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Björkdahl: il Sudafrica sa chi è il vero killer di Olof Palme
Il caso Dag Hammarskjöld mi ha collegato a Olof Palme. Due leader svedesi, entrambi sostenitori di piccole nazioni sulla scena mondiale, entrambi restii ad essere controllati dai superpoteri globali, entrambi morti di morte violenta: su mandato dei medesimi superpoteri? Per 11 anni ho indagato sul misterioso incidente aereo che uccise l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld. Indagine riassunta nel documentario “Cold Case Hammarskjöld”. Nel 2014, durante un viaggio di ricerca per il documentario, il caso dell’assassinio dell’ex primo ministro Olof Palme mi cadde letteralmente in braccio quando, alla fine di una cena, il giornalista De Wet Potgieter mi passò i documenti del cosiddetto dossier Deepsearch. I documenti, preparati dal defunto generale Tai Minnaar, descrivono come il Sud Africa definisse Palme “nemico dello Stato” e forniscono i nomi di persone presumibilmente coinvolte nel decidere, pianificare e attuare il suo assassinio. Più tardi capii che questi documenti erano ritenuti falsi da molti in Svezia. Ma l’anno successivo, a Pretoria, incontrai il generale in pensione Chris Thirion, ex capo dell’intelligence militare (Mi) del Sud Africa, e lui dichiarò nella mia telecamera che quei documenti nel dossier Deepsearch sembravano autentici. Egli affermò anche di essere personalmente convinto che il Sudafrica avesse compiuto quell’assassinio.Attraverso l’indagine Hammarskjöld avevo costruito una vasta rete di contatti: ex agenti dell’intelligence, ex-militari, storici e giornalisti. Per il caso Palme, uno dei contatti più utili fu un ex general-maggiore, Tienie Groenewald, che al momento dell’omicidio di Palme era stato responsabile del ramo Interpretazione della National Intelligence in Sudafrica. Egli mi raccontò storie affascinanti su come l’intelligence militare sudafricana collaborava con la Cia, come gli israeliani aiutarono il Sudafrica ad acquisire la bomba nucleare, ma non mi fu di grande aiuto per il caso Palme. Dopo il nostro ultimo incontro, lo chiamai e gli dissi che lui, più di chiunque altro, era in grado di aiutare a risolvere il caso Palme. Menzionai la ricompensa di 50 milioni di corone svedesi (circa 5 milioni di euro) e avanzai l’idea di un accordo in cui la Svezia avrebbe concesso l’immunità dall’accusa e il Sudafrica avrebbe convinto i suoi cittadini coinvolti nell’assassinio a diventare puliti.Il giorno seguente, un dipendente dell’intelligence militare sudafricana mi chiamò e mi invitò a un incontro con un generale nella sezione segreta (non lo nominerò ma in seguito verificai la sua identità). Mi disse di andare all’hotel Hyatt a Sandton, Johannesburg. Era il 1 ottobre 2015. Da lì fui scortato in un ristorante quasi vuoto, lì vicino, dove incontrai il generale. Lui andò dritto al nocciolo della questione, dandomi i nomi di quelli che disse fossero coinvolti nella morte di Palme – e mi disse che il Sudafrica era disposto ad aiutare la Svezia ad arrivare alla verità. In cambio, il Sudafrica sperava in relazioni più strette con la Svezia. Una condizione per un tale accordo sarebbe stata l’immunità dall’azione penale per tutti coloro che agirono per ordine dell’ex governo sudafricano. Il generale suggerì che il motivo avrebbe potuto essere sia politico (Palme e la Svezia avevano sostenuto l’Anc – il movimento patriottico di Nelson Mandela, NdT) che economico, anche se non elaborò ulteriormente questo punto. Egli affermò che l’intelligence militare sudafricana era disposta a iniziare una discussione, ma solo con le sue controparti svedesi: politici e media dovevano essere esclusi dal dialogo.Io dissi che il motivo centrale di una simile iniziativa sarebbe stato renderne pubbliche le conclusioni, in modo che sia la famiglia Palme che il popolo svedese potessero mettere la parola fine. Dopo un’intensa discussione, concordammo di consentire alle agenzie di intelligence di avviare la discussione, partendo da quel nostro incontro. Il generale era stupito che io stessi indagando sull’omicidio di Palme come hobby. Sottolineò che stavo correndo enormi rischi e che i cospiratori mi avrebbero semplicemente ucciso se si fossero sentiti minacciati. Nel novembre 2015 consegnai il materiale all’intelligence nazionale svedese (Säpo), che a sua volta lo passò all’unità di polizia che indagava sulla morte di Palme. Per i successivi due anni e mezzo non sentii più nulla e, nell’aprile 2018, cercai un incontro con il nuovo procuratore per il caso Palme, Krister Petersson. Gli raccontai la mia storia e mi fece piacere notare che ne era già a conoscenza. Non solo, Petersson mi chiese di far sapere al generale del Mi che lui era disposto ad andare in Sudafrica per incontrarlo.Non fui mai più in grado di ristabilire il contatto con il generale sudafricano, ma a giugno 2018 riuscii a consegnare il messaggio al Mi tramite un altro contatto. Di nuovo ci fu silenzio, fino a poche settimane fa quando una fonte di intelligence in Sudafrica mi informò che il 18 marzo si era tenuto a Pretoria un incontro tra rappresentanti dei due governi per discutere del caso Palme. In un normale caso giudiziario in Svezia, l’immunità dall’azione penale sarebbe impensabile. Ma il caso dell’assassinio di Olof Palme è unico. Perciò spero che le autorità svedesi possano fare un’eccezione, a condizione che i responsabili dell’assassinio confessino. Penso che sarebbe un gesto rispettabile da parte loro aiutare il popolo svedese a chiudere quel caso. Penso che il bisogno di sapere sia più importante del bisogno di punire.(Göran Björkdahl, “Il Sudafrica sa chi assassinò Olof Palme”, da “Tlaxcala” del 9 giugno 2020, ripreso da “Come Don Chisciotte” con traduzione dall’inglese di Leopoldo Salmaso. Per la morte del premier socialista svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma il 28 febbraio 1986, si è appena concluso un processo che, dopo tanti anni, ha lasciato l’amaro in bocca agli svedesi: si accusa un estremista di destra, Stig Engstrom, senza tuttavia dissipare i molti dubbi ancora aperti sul caso. L’economista Dag Hammarskjöld è stato invece un diplomatico, già presidente della Banca di Svezia, poi segretario generale delle Nazioni Unite; carica ricoperta per due mandati, dal 1953 fino alla sua morte nel 1961, occorsa a causa di uno strano incidente aereo avvenuto in Africa meridionale durante una missione di pace. Gli fu conferito postumo il Premio Nobel per la Pace per la sua attività umanitaria. Il saggista Gianfranco Carpeoro, massone, ricorda che Palme era un 33esimo grado del Rito Scozzese: secondo Carpeoro, il carismatico leader svedese, punto di riferimento per i socialisti europei con le sue politiche di welfare, è stato assassinato da servizi segreti agli ordini dell’élite massonica reazionaria e neoliberista che vedeva in Palme un ostacolo insormontabile per l’affermarsi del globalismo post-democratico e dell’Unione Europea così come sarebbe nata a Maastricht. Lo stesso Carpeoro lo ha ricordato nella primavera 2019 a Milano, in occasione del convegno che il Movimento Roosevelt ha dedicato alla figura di Palme, insieme a quelle di Carlo Rosselli e del leader africano Thomas Sankara. A essere implicato nell’omicidio Palme, secondo le fonti di Björkdahl, è ovviamente il regime sudafricano dell’apartheid, durato fino al 1991).Il caso Dag Hammarskjöld mi ha collegato a Olof Palme. Due leader svedesi, entrambi sostenitori di piccole nazioni sulla scena mondiale, entrambi restii ad essere controllati dai superpoteri globali, entrambi morti di morte violenta: su mandato dei medesimi superpoteri? Per 11 anni ho indagato sul misterioso incidente aereo che uccise l’ex segretario generale delle Nazioni Unite Dag Hammarskjöld. Indagine riassunta nel documentario “Cold Case Hammarskjöld”. Nel 2014, durante un viaggio di ricerca per il documentario, il caso dell’assassinio dell’ex primo ministro Olof Palme mi cadde letteralmente in braccio quando, alla fine di una cena, il giornalista De Wet Potgieter mi passò i documenti del cosiddetto dossier Deepsearch. I documenti, preparati dal defunto generale Tai Minnaar, descrivono come il Sud Africa definisse Palme “nemico dello Stato” e forniscono i nomi di persone presumibilmente coinvolte nel decidere, pianificare e attuare il suo assassinio. Più tardi capii che questi documenti erano ritenuti falsi da molti in Svezia. Ma l’anno successivo, a Pretoria, incontrai il generale in pensione Chris Thirion, ex capo dell’intelligence militare (Mi) del Sud Africa, e lui dichiarò nella mia telecamera che quei documenti nel dossier Deepsearch sembravano autentici. Egli affermò anche di essere personalmente convinto che il Sudafrica avesse compiuto quell’assassinio.
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Fioramonti, guru 5 Stelle, tra Rothschild, Soros e Rockefeller
Caro Di Maio, sei sicuro di sapere con chi te ne vai a spasso, a Londra? E voi, grillini militanti e simpatizzati, avete idea di chi sia, davvero, il vostro nuovo guru in materia di economia? Sembra di leggere “Alice nel paese delle meraviglie”, e invece è la pagina Facebook di Nicolas Micheletti, economista sovranista con ufficio in Svizzera, oggi tra i sostenitori della “Lista del Popolo” di Ingroia & Chiesa. Fioramonti, chi è costui? I veri uomini del grande potere, secondo Paolo Barnard, sbucano sempre dal nulla: o meglio, hanno alle spalle anni di carriera in istituzioni finanziarie di vertice, ma restano a lungo nell’ombra, al riparo dai riflettori. Da lì lavorano sodo, in modo formidabile e spesso con un unico obiettivo: mettere in ginocchio gli Stati, imponendo il rigore neoliberista che impoverisce il 99% arricchendo solo l’élite. Come? Con il solito sistema: tagliare la spesa pubblica e alzare le tasse. Ne è un esempio l’Italia uscita con le ossa rotte dalla “cura” Monti, secondo la dottrina dell’avanzo di bilancio: lo Stato che incamera più soldi, dai contribuenti, di quanti ne spenda per i cittadini (sotto forma di deficit postivo). E in piena crisi, col paese allo stremo proprio a causa dell’austerity, chi vanno a pescare i 5 Stelle? Lorenzo Fioramonti, autorevole esponente della scuola più dogmatica, quella del super-rigore.«Ho cercato per giorni di capire da dove cavolo fosse spuntato fuori il punto programmatico del M5S di tagliare il rapporto debito/Pil del 40% in 10 anni», scrive Micheletti sulla sua pagina Facebook: «Ho chiesto in giro, ovunque». Amputare la spesa pubblica del 4% ogni anno? Secondo gli economisti keynesiani è l’autostrada per l’inferno, spacciata per “comportamento virtuoso”: da una parte lo Stato con “i conti in ordine”, dall’altra aziende che licenziano e chiudono, e famiglie alla canna del gas dopo aver bruciato i risparmi di una vita. Uno schema monotono: il teorema “teologico” neoliberista. «I grillini dicono sempre che il programma è tutto scelto dagli attivisti, ma io non ho trovato da nessuna parte alcuna prova (e so cercare bene le info)», scrive Micheletti. «Non sembra essere esistita alcuna votazione al riguardo di questo punto del programma: è chiaramente un punto preso e messo lì dall’alto», quindi «non molto nello stile democratico di cui parlano tanto». Poi, la scoperta: l’obiettivo del massimo rigore ammazza-Italia «l’ha messo lì Fioramonti». Ebbene sì: «Tra tutti gli economisti italiani che il Movimento 5 Stelle poteva scegliere, ha scelto proprio lui». Ma chi è, il professor Fioramonti? Micheletti lo definisce «un simpatico personaggio con un passato molto interessante», in una geografia punteggiata da nomi che tutti conoscono, dalla casata Rothschild a George Soros.Ordinario di economia politica a Pretoria, Sudafrica, Fioramonti insegna «in una università il cui capo è Wiseman Nkuhlu, chairman dei Rothschild» (e il cognome Nkulu, ironizza Micheletti, «è pertinente alla nostra situazione politica»). Noto per gli studi sull’innovazione della governance e per la critica al Pil, da sostituire con altri indicatori di salute, Fioramonti è presidente, nonché unico professore, del progetto Jean Monnet, con specializzazione in studi sull’Ue, in Africa (brutto nome, Monnet: sinonimo di rigore europeo imposto ideologicamente dai padrini storici dell’attuale oligarchia, nemica della democrazia sociale e del benessere diffuso). Non solo: la prefazione dei libri di Fioramonti, continua Micheletti, è a cura di Enrico Giovannini, esponente del Club di Roma e dell’Aspen Institute, due santuari dell’élite finanziaria mondialista. Libri, peraltro, «recensiti dalla London School (Evelyn Rothschild)». In più, aggiunge ancora Micheletti, Fioramonti scrive articoli per la “Open Democracy” di Soros. «E per far felici anche gli immigrazionisti, ha una cattedra in “Integrazione regionale, Migrazione e libera circolazione delle persone”». Chi manca? Rockefeller. «Per chiudere in bellezza», chiosa Micheletti, il buon Fioramonti «ha lavorato anche per la Fondazione Rockefeller. Insomma, un personaggio libero e indipendente da ogni vincolo e intrallazzo con il potere».Caro Di Maio, sei sicuro di sapere con chi te ne vai a spasso, a Londra? E voi, grillini militanti e simpatizzati, avete idea di chi sia, davvero, il vostro nuovo guru in materia di economia? Sembra di leggere “Alice nel paese delle meraviglie”, e invece è la pagina Facebook di Nicolas Micheletti, attivista sovranista vicino a Paolo Barnard. Fioramonti, chi è costui? I veri uomini del grande potere, secondo Barnard, sbucano sempre dal nulla: o meglio, hanno alle spalle anni di carriera in istituzioni finanziarie di vertice, ma restano a lungo nell’ombra, al riparo dai riflettori. Da lì lavorano sodo, in modo formidabile e spesso con un unico obiettivo: mettere in ginocchio gli Stati, imponendo il rigore neoliberista che impoverisce il 99% arricchendo solo l’élite. Come? Con il solito sistema: tagliare la spesa pubblica e alzare le tasse. Ne è un esempio l’Italia uscita con le ossa rotte dalla “cura” Monti, secondo la dottrina dell’avanzo di bilancio: lo Stato che incamera più soldi, dai contribuenti, di quanti ne spenda per i cittadini (sotto forma di deficit postivo). E in piena crisi, col paese allo stremo proprio a causa dell’austerity, chi vanno a pescare i 5 Stelle? Lorenzo Fioramonti, autorevole esponente della scuola più dogmatica, quella del super-rigore.
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Presi per il Pil? Noi no: storie di italiani che non ci stanno
Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.Il blackout della politica, ormai colonizzata dall’oligarchia tecno-finanziaria che manipola l’immaginario collettivo attraverso il ferreo controllo dei media, non ha impedito il diffondersi di esperienze individuali di resistenza libertaria. Messe assieme, fanno rete. Specie se vengono spiegate, mostrate, raccontate. Come accade nel documentario “Presi per il Pil”, realizzato da Stefano Cavallotto col giornalista Andrea Bertaglio, su soggetto elaborato da Lorenzo Fioramonti, economista dell’università sudafricana di Pretoria. Tema: come vivere «senza più essere schiavi dei soldi», peraltro sempre meno abbondanti. Lo spiegano Marta e Giorgio, che hanno deciso di trasferirsi coi figli in valle Maira, sulle montagne di Cuneo, allevando capre e producendo formaggi. E poi Roberto, che si è «dimesso da avvocato» lasciando Cagliari per il natio borgo selvaggio, dove – insieme alla famiglia – ha imparato ad auto-prodursi «tutto quello che gli serve per vivere». Non mancano le comunità organizzate: come quella degli abitanti di Pescomaggiore, alle porte dell’Aquila, che – con l’aiuto volontari italiani e stranieri – costruiscono un eco-villaggio modello, seguendo i metodi della bioedilizia.«Storie sorprendenti ed emblematiche», che aiutano a capire «il desiderio di liberarsi dal dogma del Pil», per immaginare «un mondo più giusto, iniziando dalle nostre vite». Quelle incrociate dal documentario sono «persone che hanno scelto di vivere senza più inseguire il mito della crescita infinita imposto dal sistema», liberandosi dell’ideologia dominante. Il narratore è lo stesso Bertaglio, autore di saggi sulla decrescita (l’ultimo si intitola “Generazione decrescente”, edizioni L’Età dell’Acquario). Tutto nasce quando Andrea, incuriosito dal progetto energetico “Coltiviamo il sole”, decide di partecipare a una riunione dell’associazione che l’ha ideato. Lì incontra Giorgio, interessato all’installazione di un impianto fotovoltaico per la propria stalla. Da quel momento, Andrea inizia «un viaggio fisico e soprattutto interiore» tra questi «pionieri della decrescita», nel loro caso sicuramente “felice”. Morale: specie in un momento di crisi devastante, sorprende la facilità con cui è possibile dribblare il disastro, rimboccandosi le maniche. Purché si abbiano le idee chiare: massima sobrietà, minime esigenze, autosufficienza alimentare. A quel punto, può anche crollare il Pil: lo sostituisce una nuova economia di prossimità, fondata sullo scambio alla pari.Non mancano voci eterodosse, a spiegare perché tutto questo accade, e accadrà sempre di più: da Enrico Giovannini, già a capo dell’Istat e poi ministro del governo Letta, favorevole a «elaborare indicatori di benessere alternativi al Pil», fino a battitori liberi (e famosi) come l’inglese Rob Hopkins, fondatore del movimento delle “Transition Towns”, e il francese Serge Latouche, padre del moderno pensiero decrescista, insieme all’italiano Maurizio Pallante. Parlano docenti universitari come Mario Pianta, tra i promotori della campagna “Sbilanciamoci!”, attivisti e scrittori come Giulio Marcon, già coordinatore del Servizio Civile Internazionale, e autrici come Helena Norberg-Hodge, studiosa dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sull’agricoltura a livello mondiale. La Hodge, fondatrice dell’Isec (International Society for Ecology and Culture) è anche produttrice e co-regista del documentario “L’economia della felicità”. Ed è esattamente di questo – economia e felicità – che parla l’ex avvocato Roberto, 45 anni, “scappato” dal capoluogo sardo per farsi coltivatore, nella casa della sua infanzia: «Paradossalmente – dice – oggi ho molti meno problemi economici dei colleghi che mi sono lasciato alle spalle, rimasti schiavi di mutui, finanziamenti e orari di lavoro ormai insostenibili».Stessa musica in Abruzzo, tra i ragazzi di Pescomaggiore, molti dei quali rimasti senza casa dopo il terremoto del 2009. La soluzione si chiama Eva, eco-villaggio interamente auto-costruito, col materiale meno consueto e più ecologico: la paglia. «La manodopera ce la mettiamo noi, riscoprendo la comunità». Un’esperienza umana che cambierà per sempre la loro vita: «Famiglie che si ritrovano, padri e figli che lavorano insieme con un obiettivo comune». Parole come sostenibilità e benessere diventano all’improvviso realtà. «I giovani di Pescomaggiore, molti dei quali precari che hanno trovato una dimensione sociale e lavorativa proprio in questo eco-villaggio, si aiutano nel lavoro, mangiano e parlano insieme, organizzano le proprie giornate in un clima di cooperazione e convivialità», racconta Andrea, che traccia anche un parallelo con l’esperienza – stavolta metropolitana – dei ragazzi del circolo torinese Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice: «Si impegnano a vivere una città come Torino quasi come se fosse un paese, a cominciare dai trasporti – la bicicletta in primis – promuovendo uno stile di vita ecologico, basato sul consumo critico». Orti urbani, per esempio, da impiantare anche nelle scuole e attraverso progetti speciali, alcuni dei quali in collaborazione con associazioni come Slow Food».Il documentario, montato da Roberto Allegro e sorretto da musiche originali degli Yo-Yo Mundi, si arrampica anche sulle Alpi, scovando i silenzi incontaminati del Puy, dove pascolano le capre bianche di Marta e Giorgio, marito e moglie, «due tra le persone più lucide che si possa avere la fortuna di incontrare nel corso di un’intera vita», garantisce Andrea. «Vivono e lavorano con i loro cinque figli e pochi buoni amici nel comune di San Damiano Macra, dove sono arrivati da Torino nel 1995». Lei è medico e lavora part-time in zona. Lui, laureato in filosofia e originario della vicina valle Po, per lavoro traduceva libri per case editrici. Nel 1999, la grande scommessa: recuperare un’intera borgata abbandonata per poi avviare un’azienda di capre da latte, che col tempo è diventata anche agriturismo. «Nonostante si possa pensare il contrario, Marta e Giorgio non sono degli “alternativi”», spiega Andrea. «Hanno solo capito prima di altri che per vivere sereni non c’era bisogno di puntare sui soldi». I loro figli – tutti musicisti – ora crescono in un paradiso verde, e tra le vecchie case di pietra è tornata la vita. E’ una strana impresa, super-sostenibile: niente mangimi industriali, farmaci o gasolio. E funziona benissimo: «E’ uno schiaffo a chiunque si rassegni a dire che non è possibile, che oggi il mondo non ti permette di fare certe scelte».(Il documentario: “Presi per il Pil”, Italia 2014, 65 minuti. E’ possibile promuovere la proiezione del film, una produzione low-budget di Settembre Film, e acquistare il filmato in formato dvd, al prezzo di 10 euro, mediante il sito del progetto).Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.