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Ingroia: l’astensionismo è un progetto politico del potere
Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.Nei toni dell’assemblea costitutiva della lista, svoltasi a Roma il 16 dicembre, si coglie ormai la piena consapevolezza della catastrofe incombente: «Non è affatto escluso il rischio, per l’Italia, di essere commissariata in modo anche formale, esattamente come la Grecia». C’è un Rubicone da varcare: «Adesso o mai più, perché domani sarebbe tardi», sostiene Ingroia, spronando i volontari verso quella che appare una missione quasi impossibile: raccogliere da subito migliaia di firme, in pochissimi giorni, sperando di riuscire a presentare effettivamente la lista in tempo per le politiche del 4 marzo. Alla guida di “Rivoluzione Civile”, nel 2013 Ingroia fallì l’obiettivo: raccolse solo il 2% dei suffragi, restando al di sotto della soglia di sbarramento. Stavolta è diverso, sostiene: la crisi morde, la situazione italiana è peggiorata in modo drammatico. Per questo, dice l’ex magistrato, sarà più facile trovare interlocutori. Lo stesso Ingroia è pervenuto a conclusioni ben diverse da quelle di quattro anni fa: oggi infatti dichiara che, senza sovranità monetaria e sotto il peso perdurante dei trattati europei, nessun partito potrebbe mantenere quello che promette. Lui cosa annuncia? L’abolizione della legge Fornero, la rimozione del pareggio di bilancio della Costituzione, la cancellazione del Jobs Act. Smarcarsi dalla Nato, ma soprattutto da Bruxelles: rinegoziare i trattati-capestro, o addio Unione Europea.Prodi e D’Alema? «Sono proprio loro ad aver sottoscritto il Trattato di Lisbona», dice Ingroia: sono i veri responsabili del disastro, nascosti dietro un’etichetta “di sinistra” che, tagliando i viveri allo Stato, espone l’Italia al massacro sociale, alla fine del welfare e dei diritti del lavoro, alla carneficina delle privatizzazioni selvagge. «Siamo un paese impaurito, preda della paura, e questo nostro progetto politico è soprattutto un atto di coraggio», dichiara Ingroia, citando Paolo Borsellino: «Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola». Insiste Ingroia: «Ci vogliono audacia e coraggio per affrontare un’impresa che, non possiamo nascondercelo, è molto difficile». Primo step: riuscire davvero a presentare le liste. Poi: superare lo sbarramento del 3%. «Non ce la faranno mai», è la profezia televisiva di Maurizio Crozza. Ovviamente Ingroia non è dello stesso avviso: «Puntiamo a crescere fino al 60%, rispondendo alla maggioranza degli italiani che ormai ha smesso di votare. L’astensionismo? Fa comodo al potere: meno saremo, e più sarà facile controllarci». Il nemico? «Un sistema politico-finanziario corrotto e mafioso». I partiti? Nessuno affronta il toro per le corna. E in più «hanno tutti paura di noi», dice Ingroia, convinto che il mainstream politico stia sottovalutando la sua “Mossa del Cavallo”.«Vogliono ricacciarci nell’astensionismo – insiste l’ex magistrato – perché è perfettamente funzionale all’élite internazionale, che intende continuare a utilizzare, per i suoi scopi, la piccola élite rappresentata dalla classe dirigente nazionale», che a sua volta agisce «attraverso un’élite di elettori-militanti schierati, quindi controllabili». Aggiunge: «Il crescere dell’astensionismo è un progetto politico, che mira a ridurre il numero dei votanti: meno sono, e meglio sono controllabili». Ingroia spera di «trasformare la disperazione in rivoluzione, la rabbia in progetto». Il mitico 60%? «Un sogno, ovviamente, che però – non domani – potrebbe anche trasformarsi in realtà, a patto di riuscire a infondere fiducia in questa Italia spaventata». A proposito di coraggio, Ingroia cita il massone Martin Luther King, riprendendo la frase che lo stesso eroe americano dei diritti civili prese da un altro massone progressista, lo scrittore tedesco Johann Wolfgang Goethe: «Un giorno la paura bussò alla porta, il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Con le parole di un terzo massone, il rosacrociano Gandhi, Ingroia formula il suo auspicio: «Prima ti ignorano, poi ti deridono, poi ti combattono, poi vinci».Emergenza Italia: urge un programma di salvezza nazionale. Era il 2011 quando Paolo Barnard pubblicava, inascoltato, il suo esplosivo saggio-denuncia “Il più grande crimine”, scritto l’anno precedente il drammatico commissariamento dell’Italia da parte di Monti e Napolitano, su input dei poteri oligarchici incarnati dalla Bce di Jean-Claude Trichet e Mario Draghi. Una predicazione nel deserto, quella di Barnard, inutilmente contattato da personaggi come Tremonti, da gruppi come Fratelli d’Italia, dagli stessi grillini – che Barnard mise in relazione diretta con Warren Mosler, traduttore della “Modern Money Theory” e autore di un piano salva-Italia da due milioni di posti di lavoro. Di mezzo, dopo Monti, ci sono stati Letta e Renzi. Il menù? Sempre lo stesso: rigore, imposto da Bruxelles. Oggi il timone (si fa per dire) è nelle mani di Gentiloni, che vanta come un successo lo slittamento del Fiscal Compact al 2019, mentre i 5 Stelle hanno definitivamente rinunciato a qualsiasi rivendicazione sovranista esattamente come la Lega, condizionata dall’alleanza elettorale col Cavaliere. Addirittura surreale la discesa in campo di Grasso, cioè Bersani (che votò l’obbligo del pareggio di bilancio in Costituzione) e D’Alema, recordman delle privatizzazioni quand’era a Palazzo Chigi. Alternative, sulla carta? Una, in teoria: la “Lista del Popolo” capitanata da Antonio Ingroia e Giulietto Chiesa. Parole d’ordine: quelle lanciate da Barnard sette anni fa.
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Ma il nemico è comodo, per gli oligarchi del Medio Oriente
Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.Sarebbe un bel sogno, dice Magaldi, veder sorgere la democrazia sia in Europa che in Medio Oriente: un’Europa «unita e finalmente democratica al posto dell’attuale Europa matrigna», e sull’altra sponda del Mediterraneo una convivenza-modello tra due Stati che si rispettano, Israele e Palestina. Ma se oggi questo sogno resta nel cassetto, aggiunge, è anche per colpa degli europei, dei loro leader inconsistenti: «L’alto commissario per gli affari esteri Ue è Federica Mogherini, scelta perché non avrebbe fatto ombra a nessuno. Ma non è che gli altri brillino per carisma e personalità: l’Ue è inesistente, lo si è visto nella crisi dell’ex Jugoslavia e lo si vede oggi nell’assoluta incapacità di fornire una voce univoca per la soluzione del problema israelo-palestinese». Magaldi si definisce filo-israeliano nella misura in cui resta minaccioso il fronte anti-istraeliano: «Quel piccolo Stato, un fazzoletto di terra, lo considero la maggior garanzia, anche psicologica, per tutti gli ebrei nel mondo: la sua esistenza certifica che non accadrà mai più quello che è accaduto in secoli e millenni, con persecuzioni e vessazioni materiali incise nella carne viva di tanti ebrei».Al tempo stesso, però, Magaldi è favore della costituzione di uno Stato palestinese che possa convivere pacificamente con Israele «e che però sia guidato, a differenza di quanto accaduto sin qui, da autorità governative garanti di un equilibrio democratico, laico e liberale». Ma attenzione: «Spesso gli attori del Medio Oriente non sono quello che sembrano e non pensano davvero di voler fare quello che dicono: c’è una narrazione infedele, spesso da decodificare, fatta di avvertimenti incrociati». Se la bandiera della pace ancora non sventola, fra Tel Aviv e Ramallah, è soprattutto per colpa di classi dirigenti caratterizzate da una visione «bieca e spregiudicata, spesso d’intesa con quelli che appaiono nemici». Troppe volte, insiste Magaldi, «tra settori israeliani e settori apparentemente anti-istraeliani ha pesato una segreta e occulta connivenza nel senso dello sfascio, attraverso progressive provocazioni che poi consentono agli uni e agli altri di perseguire propri interessi inconfessabili». Una politica a doppio fondo, nutrita di sangue (per lo più palestinese) e perfettamente impunita, anche grazie alla vergognosa assenza del vicino più potente, l’Europa.Quando la smetteranno, israeliani e palestinesi, di fornire alibi a chi campa da decenni speculando comodamente sul loro drammatico conflitto? Un accordo diretto e spettacolare che puntasse a una pace definitiva, oggi impensabile, spiazzerebbe di colpo tutte le diplomazie, regionali e mondiali, da sempre abituate a dare per scontata l’impossibilità di risolvere una buona volta quello scontro ormai antico, degenerato in cancrena. «Ci provò il massone progressista Yitzhak Rabin, ma sappiamo come finì». Fu assassinato a Tel Aviv il 4 novembre del ‘95 da un ebreo fondamentalista, contrario al processo di pace e spaventato dalla determinazione del primo ministro, un uomo che la pace la voleva davvero. «Gli eroi come Rabin, però, illuminano il percorso di quelli che verrano dopo», dice Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, a colloquio con David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della decisione di elevare Gerusalemme al rango di capitale dello Stato ebraico, con il placet della Casa Bianca, nonostante il prevedibile terremoto in corso, fatto di proteste e tensioni. «Deploro la metodologia utilizzata», chiarisce Magaldi: non è con simili alzate d’ingegno che si può trovare una soluzione, tantomeno nell’assenza (catastrofica) di una politica europea in grado di far sedere israeliani e palestinesi allo stesso tavolo.
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Il compasso, la mitra e la corona: i veri burattinai del Duce
Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.La pubblicistica più recente sta mettendo a fuoco il ruolo della massoneria nella storia italiana, sempre liquidata in poche righe nei libri scolastici (alla voce “carboneria”) tra le pagine del Risorgimento. L’ideale illuministico – libertà, uguaglianza e fraternità, in antitesi al sistema di privilegi dell’Ancien Régime incarnato dalla teocrazia vaticana – era tra le componenti ideologiche dei massoni libertari che, al netto delle contingenze geopolitiche (il ruolo strategico dello Stivale nel Mediterraneo, crocevia degli interessi anglo-francesi) alimentarono in modo decisivo la spinta unitaria, fino alla Breccia di Porta Pia. Ma poi, come sempre, le cose non andarono come i più idealisti avevano sperato, secondo Carpeoro anche e soprattutto per la perdita prematura di una mente come quella di Cavour. L’Italia nacque zoppa, dopo la feroce repressione del Sud affidata ai generali sabaudi Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini. Un altro generale di sua maestà, il pluridecorato Fiorenzo Bava Beccaris, prese a cannonate la folla milanese affamata dalle tasse. Due anni dopo, nel 1900, l’anarchico Gaetano Bresci fece giustizia a suo modo, assassinando il sovrano, Umberto I di Savoia. L’Italia dei notabili liberali stava per esplodere, sotto la spinta del proletariato rurale e industriale: sulle barricate innanzitutto i socialisti, guidati da un leader come Filippo Turati, massone anche lui, e poi dal giovane giornalista Benito Mussolini, tumultuoso direttore dell’“Avanti”.A scommettere sul fascismo, racconta la storiografia, furono gli agrari, i latifondisti del Sud e il grande capitale industriale del Nord. Obiettivo: arrestare l’onda rossa del socialismo, “comprando” un leader di cui il popolo socialista si fidava. E faceva male, sottolinea Carpeoro, rivelando che Mussolini era da tempo a libro paga degli inglesi, come loro agente regolarmente stipendiato. Per gradi, è emerso il ruolo della massoneria all’ombra del primo fascismo, quello ancora “sociale” e anticlericale di Piazza San Sepolcro: era imbottito di massoni il vertice fascista, anche in lizza tra loro – da una parte il Grande Oriente, ancora anticlericale, e dall’altra la Gran Loggia, più vicina al tradizionalismo cattolico. Un errore ottico, quello di molti massoni, costretti a pentirsi amaramente di aver sostenuto il Duce, fino a puntare ben presto a sostituirlo con un altro massone, Italo Balbo, poi caduto a Tobruk alla guida del suo velivolo colpito “per errore” dalla contraerea italiana. Non ha portato fortuna, a Mussolini, il divorzio dalla massoneria, giunta infine a schierarsi con la Resistenza, fino a trasformare in atroce rituale (pena del contrappasso) il macabro scempio di Piazzale Loreto, con “l’imperatore” rovesciato e simbolicamente capovolto come l’Appeso dei tarocchi.Già decenni prima, si domanda Carpeoro, cosa sarebbe successo se Mussolini non fosse riuscito ad allontanare i massoni dal partito socialista? Se quel braccio di ferro l’avesse vinto il massone progressista Matteotti, contrario all’interventismo, l’Italia sarebbe entrata lo stesso nella tragedia della Prima Guerra Mondiale, da cui poi nacquero le tensioni sociali all’origine del fascismo? E cosa sarebbe accaduto se il Duce non avesse scaricato una seconda volta la massoneria, mettendo le logge addirittura fuorilegge per ingraziarsi il Vaticano con cui avrebbe firmato i Patti Lateranensi, mettendo fine al limbo giuridico in cui l’ex Stato Pontificio era rimasto confinato, dal 1861? Per contro, lo stesso potere vaticano non esitò a emarginare il nascente impegno politico dei cattolici, il neonato partito di Sturzo, pur di non ostacolare il nuovo Duce del fascismo, brutale con gli oppositori ma improvvisamente munifico con le gerarchie dell’Oltretevere. Così il regime transitò dal masso-fascismo iniziale al catto-fascismo concordatario, ma – ancora una volta – rimasero fuori dai riflettori i fili più segreti, destinati a collegare in modo insospettabile l’élite di potere, attraverso personaggi come il massone monarchico Badoglio e figure ancora più invisibili come quella dell’inafferrabile Filippo Naldi, primo finanziatore dell’ex socialista Mussolini con i soldi dei gruppi Eridania, Edison e Ansaldo, spaventati dalle crescenti rivendicazioni operaie.Proprio a Naldi, sopravvissuto a tutte le tempeste e intervistato nel dopoguerra da Sergio Zavoli, Carpeoro dedica svariate pagine del suo saggio: «Naldi era il Licio Gelli dell’epoca, capace di passare indenne da un tavolo all’altro, nel frattempo accumulando fortune economiche». Massone, Naldi, in contatto con gli alleati, con la Corona e con il Vaticano. Uno dei registi della liquidazione di Mussolini, il leader che proprio lui aveva aiutato ad emergere, e che – il 25 luglio del ‘43 – aveva tentato (fuori tempo massimo) di uscire dalla tragedia della guerra e dall’alleanza con Hitler, facendosi mettere in minoranza dal Gran Consiglio del Fascismo. Il piano: far nascere, a Salò, un’entità “sociale”, di nome e di fatto, non più monarchica né così generosa con il clero. Un progetto sabotato da manovre diplomatiche sotterranee: a informare i nazisti furono emissari vaticani, imbeccati da Naldi. Di fronte alla rivelazione di retroscena inediti, c’è chi storce prontamente il naso: la storia, si sostiene, più che da singoli dettagli (magari occulti) è determinata da condizioni molteplici, che coinvolgono milioni di persone, idee, eventi e progetti. Già, ma una cosa non esclude l’altra: sapere ad esempio che era massone l’eroe socialista Giacomo Matteotti, primo vero martire dell’antifascismo, può regalare più profondità di sguardo, evitando di cadere nei più classici stereotipi che dividono il mondo in buoni e cattivi.Carpeoro – all’anagrafe Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso – è un intellettuale di formazione anarco-socialista: idealmente anarchico e vicino al socialismo “utopistico” pre-marxista nel quale risuonano le speranze dei primissimi manifesti rosacrociani, che già all’inizio del ‘600 sognavano un mondo senza più sfruttati, senza più proprietà privata né confini tra le nazioni. Di quell’habitat culturale – esoterico, meta-storico – Carpeoro si è occupato a lungo, come esperto simbologo, fino a sviluppare un progetto editoriale come “Summa Symbolica”, di cui è uscito il primo volume. Anche quest’ultimo lavoro sui retroscena “velati” del Ventennio, cioè la strana alleanza provvisoria tra massoneria e Vaticano all’ombra del Duce, in fondo conferma la tesi di fondo che Carpeoro sostiene: il potere, quale che sia, adotta sempre modalità magico-illusionistiche nel creare leader e uomini del destino, condannati a poi a essere puntualmente rottamati dal momento in cui diventano inutili, e magari ingombranti come Mussolini. Inglesi e americani, massoni e cardinali? Certamente, ma il vero potere resta uno schema astratto, pronto a cambiare maschera all’occorrenza, evitando anche di esporre troppo i suoi esponenti più prossimi e più decisivi: come il Re, vero dominus della parabola mussoliniana.(Il libro: Giovanni Francesco Carpeoro, “Il compasso, il fascio e la mitra”, Uno Editori, 141 pagine, euro 12,90).Il compasso, il fascio e la mitra. Ma anche la corona: probabilmente è stato proprio l’elusivo Vittorio Emanuele III il vero arbitro segreto delle sorti di Benito Mussolini, passato dal socialismo al fascismo, dal neutralismo all’interventismo più acceso, e poi dall’appoggio occulto della massoneria a quello, meno occulto ma forse più insidioso, del Vaticano, impegnato – a partire dal Patto Gentiloni – a rientrare (dapprima in sordina) nel grande gioco della politica italiana, dal quale era stato estromesso nel 1861 ad opera del nuovo Stato unitario, liberale e anticlericale, messo in piedi dai massoni Garibaldi, Mazzini e Cavour. Scorci di una storia di cui si occupa Gianfranco Carpeoro, già “sovrano gran maestro” della Serenissima Gran Loggia d’Italia, espressione del Rito Scozzese. Carte alla mano, Carpeoro ricostruisce il ruolo spesso decisivo del Re nella vicenda mussoliniana: prima il non-intervento di polizia ed esercito nella Marcia su Roma, quindi l’incarico a Mussolini, poi addirittura il ruolo (finora inedito) del sovrano nel delitto Matteotti: il leader socialista aveva scoperto, a Londra, che proprio al Savoia era stata concessa una cospicua partecipazione azionaria della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense targata Rockefeller, alla quale il governo fascista aveva elargito enormi privilegi nell’estrazione del greggio in Italia e nelle ricerche di giacimenti in Libia.
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Amazon, Ikea, Fca: miliardari grazie al sangue degli schiavi
Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.Il padrone e fondatore di Ikea si chiama Ingvar Kartman, in gioventù è stato nazista, ora ha superato i novant’anni e ha lasciato la gestione del gruppo ai figli. Assieme sono una delle famiglie più ricche del mondo, che ha abbandonato la Svezia per pagare meno tasse in Svizzera. Anche Ikea fa pubblicità simpatiche e progressiste, a favore di tutti i tipi di famiglie. Le sue dipendenti però la famiglia fanno fatica anche a vederla. Una madre di due figli, uno dei quali disabile, è stata licenziata a Milano perché non poteva far fronte a un cambio di turni che le rendeva impossibile occuparsi dei suoi figli. Questo atto feroce non è un caso isolato, ci ha pensato la stessa azienda a chiarire che esso è parte di un sistema organico di vessazione del lavoro. Infatti neanche una settimana dopo, a Bari, Ikea ha licenziato un dipendente per un ritardo di 5 minuti. E altri soprusi simili stanno finalmente venendo alla luce.John Elkann è l’ultimo padrone della Fiat, ora Fca, erede e socio della grande e numerosa famiglia miliardaria, anch’essa indisponibile a pagare le tasse nel suo paese. La gestione concreta del gruppo come si sa è affidata a Marchionne, che ha aumentato enormemente i guadagni suoi e i profitti della famiglia. Nel 2019 l’amministratore delegato se ne andrà, ma la famiglia Agnelli continuerà ad accumulare miliardi. Lo ha sempre fatto, anche quando la Fiat non vendeva un’auto. I profitti di famiglia sono sempre stati la sola rigidità dell’impresa, tutto il resto è sempre stato flessibile, il lavoro prima di tutto. Oggi poi la flessibilità è in tempo reale. Così alla fine di ottobre la Fca di Cassino ha lasciato a casa 530 operai assunti a termine, con un semplice Sms. Perché sprecare un colloquio, una parola per delle merci sostituibili in qualsiasi momento? Questo sono e così vengono trattati i lavoratori di Fca. Questi supermiliardari sono vezzeggiati e incensati dai mass media e dagli intellettuali di regime. La politica si prostra i loro piedi. Così Bezos e compagnia controllano il mondo e le nostre vite. Sono straricchi perché in tanti sono poveri e sfruttati.(Giorgio Cremaschi, “Bezos, Kartaman e Elkann: miliardari e schiavisti”, da “L’Antidipomatico” del 30 novembre 2017).Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.
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Galloni: dire no ai boss dell’euro, creato per uccidere l’Italia
Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.Sono passi indispensabili, per poterne uscire. Come? Restituendo allo Stato la sua piena sovranità operativa, monetaria e finanziaria, senza la quale ogni soluzione di rilancio non è credibile, è pura propaganda elettorale. Renzi e Berlusconi fanno a gara nel promettere bonus e sgravi fiscali? Stanno semplicemente barando: sanno benissimo che, se prima non si rovescia il tavolo europeo del rigore (che non è tecnico-economico ma solo politico, ideologico), non ci si saranno soldi per sostenere gli italiani. Era il 2014, quando Galloni – dopo aver denunciato il piano di “deindustrializzazione” dell’Italia pianificato via Eurozona dal nostro maggiore competitor, la Germania – ricordava la trama del film horror proiettato in Europa negli ultimi tre lustri. «Dalla fine della primavera del 2001 i grandi ecomomisti, i Premi Nobel, i centri di ricerca, i grandi esperti avevano previsto che “dal prossimo trimestre ci sarà la ripresa”, e che questa ripresa “slitterà al semestre successivo”, poi “all’anno successivo” e poi ancora a quello venturo, senza alcuna spiegazione sulle logiche che avrebbero dovuto guidare questa ripresa». Ma della ripresa, ovviamente, «nemmeno l’ombra», sintetizza tre anni fa Gianluca Scorla, sul “Giornale delle Buone Notizie”.E vi pare possibile che, di trimestre in trimestre, da allora, le banche abbiano emesso 800.000 miliardi di dollari di titoli derivati e altri 3 milioni di miliardi di dollari di derivati sui derivati, quindi di titoli tossici? Già nel 2014 il totale sfiorava i 4 quadrilioni di miliardi di dollari, cifra pari a 55 volte il Pil del mondo. Lacrime e sangue: quante ne hanno davvero versate gli italiani, obbedendo ai diktat degli ultimi governi euro-diretti, da Monti a Gentiloni passando per Letta e Renzi? «Nella fase storica in cui la politica è stata superata dall’economia e le scelte operate seguono il paradigma della speculazione internazionale piuttosto che del rilancio dello sviluppo», riassume Scorla, Galloni racconta come stanno realmente le cose, indicando anche la via da percorrere per risalire la china: utilizzare ogni mezzo (compresi quelli esistenti, non soppressi da Maastricht) per riattivare lo Stato come soggetto necessariamente protagonista dell’economia nazionale: per esempio emettendo moneta metallica o anche “moneta fiduciaria”, non a corso legale fuori dai confini nazionali, ma valida ad esempio per pagare le tasse. «Già solo questo – ricorda Galloni, in un recente intervento al convegno promosso a Roma dal Movimento Roosevelt sulla Costituzione – basterebbe a rimediare allo scellerato obbligo del pareggio di bilancio, introdotto dal governo Monti con i voti di Berlusconi e Bersani».“Chi ha tradito l’economia italiana” (Editori Riuniti) è uno dei recenti saggi ai quali Galloni ha affidato la sua circostanziata denuncia. In estrema sintesi: i 35 anni che vanno dal 1944 al 1979, riassume Scorla, sono lo specchio di uno stabile modello di capitalismo espansionista keynesiano che ha centrato l’obiettivo di massimizzare le vendite, i profitti complessivi e l’occupazione. Nel 1979, in concomitanza con il G7 di Tokyo, l’uscita dal sistema della solidarietà internazionale dà luogo alla genesi di un nuovo tipo di capitalismo, definito di “rivincita dei proprietari”, che durerà fino agli inizi degli anni ’90 con l’avvento della crisi del sistema monetario europeo. «Dalla fine degli anni ’70, la svolta liberista anti-keynesiana trova il suo apice devastatore nella logica del salvataggio bancario, che spinge le istituzioni e le banche stesse ad assoggettarsi, nel tempo, al sistema ultra-speculativo voluto dalla grande finanza». Dal 2001, quindi, «le banche affondano l’acceleratore nell’emissione di derivati e dei derivati sui derivati, generando così i titoli tossici. L’obiettivo raggiunto coincide con la massimizzazione del guadagno, non sul rendimento del titolo ma sul numero delle emissioni».Meglio di chiunque altro, Galloni ha spiegato come – tra il 1980 e l’anno seguente – lo sviluppo del paese fu letteralmente sabotato dal divorzio tra Bankitalia (Ciampi) e il Tesoro (Andreatta): prima ancora dell’euro, la banca centrale abdicò al suo ruolo istituzionale di “prestatore di ultima istanza”, cessando di fungere da “bancomat” del governo, a costo zero. Da allora, il deficit cominciò a essere finanziato – al prezzo di interessi salatissimi – da investitori finanziari privati: cosa che fece letteralmente esplodere, di colpo, il debito pubblico italiano, problema poi impugnato come una clava dal potere neoliberista, fin dall’inizio impegnato a fare la guerra allo Stato. Oggi, dice Galloni, la buona notizia è che l’Italia sta resistendo in modo imprevedibile al massacro sociale imposto da Bruxelles per via finanziaria. E senza alcun intervento da parte della politica: i lavoratori, semplicemente, hanno smesso di andare a votare, gonfiando l’oceano dell’astensionismo. Potremmo vivere un’accelerazione positiva esponenziale, aggiunge Galloni, se solo la politica si decidesse a dire la verità sull’accaduto, a denunciare i nemici del sistema-Italia e a mettere in campo politiche nuovamente espansive, fondate su investimenti strategici sorretti dall’emissione monetaria diretta. Premessa: innanzitutto, è urgente compiere una mossa semplice e drastica, di cui hanno paura tutti – dal Pd a Berlusconi, fino ai 5 Stelle. E cioè: mandare a stendere i poteri che manovrano i fantocci di Berlino, Bruxelles e Francoforte. Dicendo loro: se non si rinegozia tutto, da cima a fondo, l’Italia sospende la vigenza dei trattati europei. Funzionerebbe: perché, senza più il nostro paese, il bunker antieuropeo chiamato Unione Europea crollerebbe un minuto dopo.Poniamo il caso che un grande economista italiano vi dicesse che l’euro è stato inventato per impedire all’Italia di rafforzarsi: ci credereste? Vi conviene farlo, dice Gianluca Scorla, se questo economista risponde al nome di Nino Galloni, già ricercatore a Berkeley e poi docente universitario a Modena, Milano e Roma. Di scuola post-keynesiana, tra il 1981 e il 1986 è stato collaboratore del professor Federico Caffè, il genio europeo dell’economia progressista. Nell’ultima stagione governativa di Andreotti, il “Divo Giulio” chiamò a sé proprio Galloni per aiutare l’Italia a non rimetterci le penne, in vista del Trattato di Maastricht. Risultato: l’allora cancelliere Kohl ingiuse al nostro governo di allontanare quel funzionario “ribelle”, che si ridusse – in ufficio – a comunicare con Andreotti mediante “pizzini”, per aggirare il rischio di intercettazioni ambientali. Galloni ha lavorato al ministero dell’economia e in quello del lavoro, all’Inpdap e all’Ocse, nonché presso gruppi come Agip, Nuova Satin, Fintext Corporation. E’ stato impegnato nell’Inps, poi nell’Inail. Oggi è vicepresidente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi. Obiettivo: costringere la politica italiana a leggere la crisi in modo corretto, capendo chi l’ha creata e perché.
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Magaldi: l’Italia è salva, grazie a Grasso e ai D’Alema-boys
Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.«C’è da ridere per non piangere, se il rinnovamento deve partire da Grasso», dice Gioele Magaldi a David Gramiccioli di “Colors Radio” all’indomani della convention romana dei fuoriusciti dal Pd renziano, alleati degli ex-Sel e di gruppi ancora più esigui della sinistra, come quello di Civati. «Già magistrato dignitoso, Grasso è un signore di 72 anni che è stato miracolato da alcune poltrone, come la presidenza del Senato: si è dimesso, tra virgolette, dal Pd, ma non ricordo che si sia erto a difensore della democrazia e dei diritti quando tutti quanti, da destra a sinistra, avallavano il Fiscal Compact varato dal governo Monti, anche con i voti di Bersani, D’Alema, Speranza e compagni, tutti provenienti dalla filiera Pci». Insiste Magaldi: «L’aver pienamente sottoscritto le peggiori le politiche di rigore è davvero il peccato originale di questa sedicente sinistra italiana». E aggiunge: «Chi può pensare, davvero, che il rinnovamento del paese possa venire da un personaggio come Grasso? Non direi che sia stato un presidente del Senato memorabile: e oggi il popolo “de sinistra” dovrebbe entusiasmarsi, plaudire? Immagino quanta eccitazione e quanti fremiti, alla vista di Grasso che arringa le folle. C’è davvero da piangere, da singhiozzare».Per il dopo-elezioni, non c’è bisogno di profezie: sondaggi alla mano, Renzi e il Cavaliere saranno “costretti” a una riedizione del Patto del Nazareno. Larghe intese, ma dalla vita breve: Magaldi prevede «crisi parlamentari sempre più ravvicinate, nei prossimi tempi, perché la situazione è insostenibile: c’è una decadenza dell’Italia che ormai questa classe dirigente nel suo complesso non è in grado di fronteggiare», men che meno «gli spaventapasseri della convention romana della sinistra, vecchi notabili variamente riciclati, che oggi ci vengono a cantare questa canzone stonata: e sono più aristocratici loro, nei rapporti umani e anche nella visione politica, di altri che vengono collocati a destra». Magaldi pensa al futuro Pdp e ragiona da allenatore: «Basta con questa finzione, noi lavoriamo per un partito davvero popolare: non ci interessa la rappresentazione populista, demagogica e squinternata che fa del popolo una macchietta, vogliamo una politica finalmente all’altezza dell’Italia, fondata su sovranità, dignità e diritti». Si tratta di ripartire da zero, per una «credibile rigenerazione politica di un paese malgovernato per 25 anni dai sedicenti centrodestra e centrosinistra». Il punto si svolta? Dire no alla truffa del rigore, dogma ideologico imposto dall’élite finanziaria. E’ la parola d’ordine su cui, promette Magaldi, si costruirà il Pdp, già partire dalla prossima legislatura, parlando anche a parlamentari «disgustati» dello spettacolo in arrivo.Sicché sarebbe Pietro Grasso, detto Piero, il formidabile anti-Renzi? O meglio l’anti-Renzusconi, l’eroe carismatico che si opporrà all’ennesimo inciucio che ci attende? Ma mi faccia il piacere, direbbe Totò. Abbiate fede: prima o poi gli italiani avranno finalmente un Parlamento degno – non ancora nella primavera 2018, però. Parola di Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt e promotore del Pdp, Partito Democratico Progressista, che ancora aspetta di nascere su base popolare, mediante assemblea costituente con libera adesione. Obiettivo: fare piazza pulita dei personaggi che hanno condannato il paese al declino, e che – lungi dal farsi da parte – animano l’imbarazzante farsa dell’ennesima campagna elettorale inutile. Nessuno dei tre poli osa raccontare la nuda verità, l’inaccettabile sottomissione ai poteri forti europei che hanno costretto il sistema-Italia a fare harakiri. Renzi e Berlusconi, in attesa di sedersi allo stesso tavolo, fanno a gara a chi le spara più grosse, in termini di promesse elettorali palesemente impossibili da mantenere, sotto il regime di euro-austerity. Mentre il grillino Di Maio – altrettanto lontano dalla realtà – fa il turista a Washington, evitando accuratamente la sponda progressista. E a Roma intanto chi spunta? Pietro Grasso, il nuovo campione degli indimenticabili Bersani e D’Alema, notoriamente amatissimi dagli italiani.
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Foa: bavaglio web, la Fake Democracy che stanno creando
«Non è un caso, è un metodo. Con un pretesto, le “fake news”, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere». Marcello Foa avverte: stanno ingabbiando la libertà sul web. Negli Usa, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna «ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano», consapevoli che la prima, grande e inaspettata sconfitta dell’establishment «non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream». A seguire, un coro: la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post-Brexit e, ovviamente, l’Italia del post-referendum. «Sia chiaro: il problema delle “fake news” esiste, soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro», o quando le false notizie vengono usate dagli “haters”, gli odiatori, «ovviamente senza mai esporsi in prima persona». E’ un fatto: «Bisogna avere il coraggio di mettere la faccia», l’anonimato non è democrazia. Ma le proposte finora avanzate, tutte su iniziativa del Pd, tendono invece a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali, talvolta anche extraterritoriali, con «l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee».Ricordate il decreto Gentiloni sulla schedatura di massa degli utenti web e telefonici e la misura che autorizzava una censura di fatto? «La prima misura è da regime autoritario, senza precedenti in democrazia», mentre la seconda «delega all’Agcom la facoltà di valutare se un sito viola il diritto di autore e, un caso affermativo, di oscurarlo». In questo modo, scrive Foa sul “Giornale”, ci si appropria di funzioni che spettano normalmente alla magistratura. La proposta di legge contro le “fake news” annunciata da Renzi? Una fonte insospettabile, “Repubblica”, la teme: «Nel ddl elaborato dai senatori Zanda e Filippin – scrive Andrea Iannuzzi – si impone ai social network con oltre un milione di utenti la rimozione di contenuti che configurano reati che vanno dalla diffamazione alla pedopornografia, dallo stalking al terrorismo. La valutazione dei reati viene demandata ai gestori delle piattaforme, che di fatto sostituiscono il giudice: la libertà di espressione potrebbe essere a rischio. Previste sanzioni pesanti per chi non rispetta una serie di adempimenti burocratici».Persino la “Repubblica”, cioè il giornale che ha amplificato le denunce di Renzi contro le “fake news”, non ha potuto esimersi dall’ammettere che così i giudici non servirebbero più, violando uno dei principi fondanti della nostra civiltà. Ammissione esplicita: la libertà di opinione è in pericolo. E non finisce qui. Marco Carrai, amico e consigliere di Renzi, in un’intervista al “Corriere della Sera” rivela: «Stiamo lavorando con uno scienziato di fama internazionale alla creazione di un “algoritmo verità”, che tramite “artificial intelligence” riesca a capire se una notizia è falsa». L’altra idea, spiega Carrai, è quella di «creare una piattaforma di “natural language processing” che analizzi le fonti giornalistiche e gli articoli correlandoli e, attraverso un grafico, segnali le anomalie». Traduzione: «Significa che un algoritmo e meccanismi di analisi semantica stabiliranno se un singolo articolo è vero o è una “fake news”. Scusate, ma io rabbrividisco», scrive Foa: «Queste sono tecniche da Grande Fratello, e non solo perché i criteri rimarranno inevitabilmente segreti (per impedire che vengano aggirati), ma soprattutto perché così si potranno discriminare le idee, i concetti, bannando quelli che un’autorità esterna (il gestore dei social!) riterrà inappropriati».D’altronde, continua Foa, sta già avvenendo su Facebook e su Twitter, dove opinionisti anche conosciuti si sono visti cancellare gli account da un amministratore che, nel migliore dei casi, si presenta con un nome di battesimo (Marco, Jeff o Bill) e che decide che si sono “violate le regole della comunità”. «Oggi sono ancora incidenti episodici, ma domani – sotto la minaccia di sanzioni milionarie già ventilate da Renzi – i gestori sboscheranno con l’accetta. E basterà un’“esuberanza semantica”, ad esempio scrivere zingari anziché rom, o accusare un’istituzione di diffondere dati falsi o incompleti per sparire dalla faccia del web». Perché per gente come Renzi, Carrai e Gentiloni, «tutti veri splendidi progressisti», evidentemente «non può che esistere una sola Verità, quella Ufficiale, quella certificata da loro e difesa dagli implacabili gestori dei social media, novelli guardiani dell’ordine costituito». Sono cose, conclude Foa, «che possono esistere solo in una “Fake Democracy”. Quella a cui ci vogliono portare».«Non è un caso, è un metodo. Con un pretesto, le “fake news”, e uno scopo finale: mettere a tacere le voci davvero libere». Marcello Foa avverte: stanno ingabbiando la libertà sul web. Negli Usa, dopo la vittoria di Trump, è partita una massiccia campagna «ispirata dagli ambienti legati al partito democratico con l’entusiastico consenso di quello repubblicano», consapevoli che la prima, grande e inaspettata sconfitta dell’establishment «non sarebbe avvenuta senza la spinta decisiva dell’informazione non mainstream». A seguire, un coro: la Germania in primis, ma anche la Gran Bretagna del post-Brexit e, ovviamente, l’Italia del post-referendum. «Sia chiaro: il problema delle “fake news” esiste, soprattutto quando a diffonderle sono società o singoli a fini di lucro», o quando le false notizie vengono usate dagli “haters”, gli odiatori, «ovviamente senza mai esporsi in prima persona». E’ un fatto: «Bisogna avere il coraggio di mettere la faccia», l’anonimato non è democrazia. Ma le proposte finora avanzate, tutte su iniziativa del Pd, tendono invece a delegare il giudizio a organismi extragiudiziali, talvolta anche extraterritoriali, con «l’intenzione di colpire arbitrariamente le parole e dunque, facilmente, anche le idee».
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D’Alema: gli italiani non fanno più figli. Chissà come mai…
Come mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.D’Alema appartiene a pieno titolo alla storia del Novecento: il suo nome è legato per sempre all’infelice stagione che vide incrinarsi i decenni del benessere, preparando il crollo sistemico al quale stiamo assistendo. Ma la vera notizia è che l’ex premier sia ancora in campo nel 2017, tra le fila (meramente anti-renziane) di un sedicente movimento “democratico e progressista”. Quella di D’Alema sembra una voce proveniente dalle catacombe della politica, dal cimitero neoliberista nel quale marcirono e poi morirono, a volte anche assassinate, le migliori idee di progresso sociale, giustizia e solidarietà, incarnate in Europa da giganti del pensiero come Olof Palme, leader della gloriosa socialdemocrazia svedese, artefice del più avanzato welfare del continente. Nel salottino televisivo di Lilli Gruber, D’Alema parla come se nulla sapesse di quanto è avvenuto, in questi anni, al paese a cui oggi si rivolge: la colossale svendita del patrimonio nazionale, i tagli sanguinosi alla spesa sociale, l’austerity, la precarizzazione del lavoro e la piaga della disoccupazione. Dov’era, D’Alema, quando l’Italia organizzava il proprio suicidio socio-economico con il macigno del Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni, la crocifissione della Costituzione mediante pareggio di bilancio obbligatorio?L’ex premier post-comunista parla come se non conoscesse Mario Draghi, come se non avesse mai sentito nominare Napolitano e Monti, la Merkel e la spietata Troika che ha ridotto alla fame una nazione come la Grecia. Si limita a descrivere l’Italia come un paese curiosamente in crisi demografica, i cui abitanti – chissà perché – hanno smesso di sposarsi e di metter su famiglia. Il giornalista Paolo Barnard, autore del saggio “Il più grande crimine”, presenta D’Alema come “allievo” di Jacques Attali, eminente politologo francese, già “consigliere del principe” quando lavorava all’Eliseo. Un grande economista transalpino, Alain Parguez, rivela che proprio Attali, oggi padrino di Macron, contribuì a determinare la svolta neo-reazionaria del presidente socialista Mitterrand, “l’inventore” della soglia del 3% (del Pil) come tetto alla spesa pubblica. Una regola artificiosa e nefasta, anti-economica, da allora utilizzata dall’élite finanziaria per scatenare l’attacco frontale alla sovranità di bilancio degli Stati europei, mettendo fine alla loro capacità di realizzare politiche progressiste.Nel suo saggio del 2014 sulla segreta geografia supermassonica del massimo potere (“Massoni”, Chiarelettere), Gioele Magaldi collega D’Alema e Attali sul piano delle loro frequentazioni più riservate: il primo, scrive, milita in due diverse Ur-Lodges, la “Pan-Europa” e la “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”, mentre il secondo nella “Three Eyes”. Secondo Magaldi, le “logge madri” sono strutture esclusive e sovranazionali del back-office del potere, incubatrici di ogni grande decisione finanziaria, economica e geopolitica. Quelle citate, in relazione a D’Alema e Attali, sempre secondo Magaldi (a sua volta “iniziato” alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”) sono superlogge orientate in senso neo-aristocratico, grandi protagoniste della globalizzazione universale che sta privatizzando il pianeta, senza più altra bandiera che quella del denaro. Se la figura politica di D’Alema resta complessa, legata alla tormentata conversione atlantica degli ex comunisti (D’Alema fu il primo premier italiano proveniente dal Pci, il partito di Togliatti e Berlinguer), può sembrare un mistero l’ipotetica attualità della sua proposta odierna, la sua stessa permanenza nel club degli interlocutori politici italiani.D’Alema sarà addirittura tra i competitori elettorali del 2018, per giunta nel cartello guidato dall’imbarazzante Bersani, che si richiama in modo surreale all’articolo 1 della Costituzione (“fondata sul lavoro”, ma in realtà “affondata” dalla costituzionalizzazione del rigore imposta dal governo Monti, con i voti di Berlusconi e dello stesso Bersani). La surrealtà di questa sedicente sinistra prosegue nell’omaggio ricorrente a Romano Prodi, il super-privatizzatore dell’Iri che riuscì a passare da Palazzo Chigi alla Goldman Sachs, fino alla guida della Commissione Europea, cioè l’organismo che ha inflitto le maggiori sofferenze ai lavoratori europei. Al fantasma di Prodi, peraltro, si oppone quello del Cavaliere, che allatta agnellini per la gioia degli animalisti ed evoca spettacolari candidature securitarie, scomodando alti ufficiali dei carabinieri. Poi naturalmente c’è l’odiato Renzi, per il quale il male italico numero uno resta “la burocrazia” (infatti: il problema di Palermo è il traffico, dice Benigni nel film in cui interpreta il boss mafioso Johnny Stecchino). E i 5 Stelle? Lontani anche loro dalla zona rossa, quella del vero pericolo: il loro mitico “reddito di cittadinanza” lo finanzierebbero semplicemente “tagliando gli sprechi”, non certo bocciando i diktat di Bruxelles. Un quadro pittoresco, nel quale diventa comprensibile persino la sopravvivenza giurassica dello stesso D’Alema, così sbadato da non domandarsi perché l’Italia sia tanto in crisi, al punto da smettere di fare figli.Perché mai gli italiani non fanno più figli? Non se lo chiede, Massimo D’Alema, mentre ripropone tranquillamente il più classico teorema mondialista: il nostro futuro saranno i migranti, unica risposta all’impoverimento demografico del Belpaese, sempre più anziano e spopolato. L’ex segretario del Pds è stato un esponente di punta della classe dirigente italiana, in particolare di quella “sinistra post-comunista di governo” che supportò la grande cessione della sovranità nazionale dopo la caduta (per via giudiziaria) della Prima Repubblica. Eppure, alla televisione italiana già immersa nel clima politico della campagna elettorale, D’Alema parla dell’Italia come se fosse un turista distratto, e non l’uomo che sedette per due anni a Palazzo Chigi, peraltro vantandosi di aver realizzato il massimo volume possibile di privatizzazioni, un vero e proprio record europeo. Parla come un osservatore sbadato e impreciso, D’Alema, quando si limita a prendere atto che il bizzarro problema che affligge lo Stivale, da molti anni, è la crisi della natalità, il saldo negativo che rivela la decrescita costante della popolazione. Affrontare il male a monte, occupandosi degli italiani? Aiutarli a scommettere nuovamente sul futuro? Ma no, basta rimpiazzarli con un po’ di profughi africani. Per gli italiani, tuttalpiù, D’Alema ha in mente una cura innovativa e rivoluzionaria: reintrodurre l’imposta sulla prima casa.
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Guénon: macché progresso, scivoliamo verso la barbarie
René Guenon è un esoterista francese del Novecento. Esoterista è una parola non proprio comune, anzi del tutto fuori moda nell’odierna civiltà. Esoterista è chi si occupa dell’esoterico, cioè di un sapere per pochi iniziati attinente alle cose Nascoste, Ultime, Vere. Ha a che fare con un approccio spirituale, con una venerazione per il ‘Sacro’ collocabile a mille miglia, agli antipodi addirittura, dal greve materialismo, dalla superficialità chiacchierona, dall’agire compulsivo e senza scopi dell’Evo post moderno. In ogni caso, Guenon suggeriva una lettura della Storia umana in totale controtendenza rispetto a quella insegnata nelle scuole, soprattutto occidentali, e di cui molti ‘maestri’ contemporanei sono imbevuti debitori. Parlo dell’idea ‘progressista’ secondo la quale le vicende umane sono paragonabili a una freccia, a un tracciante ben direzionato che va da un prima a un dopo, ma anche da un indietro a un avanti, da un sotto a un sopra, da un meno a un di più. Secondo questa logica, il nostro è il migliore dei mondi possibili proprio perché viene dopo quelli barbari del passato.Tale logica ha partorito il concetto dei ‘secoli bui’ medievali e il mito illuminista e positivistico di una Ragione Umana tesa a una marcia di ineluttabile miglioramento delle nostre sorti e condizioni. Ebbene, la visione di Guenon cattura perché sovverte la prospettiva. Egli recupera gli insegnamenti di uno dei primi poeti greci, Esiodo, e di molta letteratura indiana antica sui cicli cosmici. Da queste fonti ricava il convincimento di una Storia composta di cicli votati al degrado anziché al progresso, una successione di ere che – da quella dell’oro – scalano a quella dell’argento e poi del bronzo e poi del ferro. Secondo Guenon, l’età in corso (e lui se ne andò prima di assistere allo sfacelo dei decenni successivi alla sua morte) è quella del Kali Yuga, cioè del materialismo trionfante, dell’amnesia spirituale, della solidificazione energetica.Il metodo suggerito da René asseconda una presa di coscienza oggi detestata dagli ottimisti a cottimo, da quelli che ‘bisogna pensare positivo’, dai cultori dei prodigi futuristi della scienza e della tecnica. Infatti, esorta ad aprire gli occhi e a non farsi illusioni. Derubrica a umana arroganza la pretesa di poter cambiare lo stato delle cose, di voler trovare una via d’uscita dalla crisi morale, politica, economica, sociale dell’Evo Competitivo. Questo, secondo Guenon, è il Tempo del Declino e ogni pulsione prometeica di mutarne il verso, di capovolgere il senso degli eventi, si libra – per ciò stesso – nei cieli dell’utopia. Insomma, Guenon, custode di una Tradizione perduta, ci suggerisce non di lottare per cambiare il mondo esterno, ma di lottare per cambiare il mondo interno, per non spegnere la piccola fiaccola di ‘altezza’, di ‘profondità’, di ‘senso’, di ‘sacro’, ancora accesa in noi, sempre che lo sia. In attesa di una svolta che verrà – questo è certo – ma non grazie all’umanità attuale. Piuttosto, nonostante essa.(Francesco Carraro, “Magnifiche sorti regressive”, dal blog di Carraro del 29 ottobre 2017).René Guenon è un esoterista francese del Novecento. Esoterista è una parola non proprio comune, anzi del tutto fuori moda nell’odierna civiltà. Esoterista è chi si occupa dell’esoterico, cioè di un sapere per pochi iniziati attinente alle cose Nascoste, Ultime, Vere. Ha a che fare con un approccio spirituale, con una venerazione per il ‘Sacro’ collocabile a mille miglia, agli antipodi addirittura, dal greve materialismo, dalla superficialità chiacchierona, dall’agire compulsivo e senza scopi dell’Evo post moderno. In ogni caso, Guenon suggeriva una lettura della Storia umana in totale controtendenza rispetto a quella insegnata nelle scuole, soprattutto occidentali, e di cui molti ‘maestri’ contemporanei sono imbevuti debitori. Parlo dell’idea ‘progressista’ secondo la quale le vicende umane sono paragonabili a una freccia, a un tracciante ben direzionato che va da un prima a un dopo, ma anche da un indietro a un avanti, da un sotto a un sopra, da un meno a un di più. Secondo questa logica, il nostro è il migliore dei mondi possibili proprio perché viene dopo quelli barbari del passato.
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L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti
La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.Siccome ho l’impressione che questa sensibile inversione di tendenza ancora sfugga, ve li citerò uno ad uno, esponendo sommariamente il nucleo essenziale di ciascuna critica. Prima però sento il dovere di ringraziare tutti quegli “eretici” che decisero di aiutare una piccola trasmissione di RaiDue a sfidare il silenzio dei media sul problema dell’euro. Ringrazio Alberto Bagnai per averci prestato la puntigliosa sostanza dei suoi studi; ringrazio Paolo Barnard per le sue memorabili requisitorie; ringrazio Claudio Borghi, Antonio Rinaldi e Nino Galloni per essersi misurati in mille duelli con i campioni del pensiero egemone. Un ringraziamento speciale, tuttavia, va a Giulio Sapelli e a Bruno Amoroso, i nostri due “prof”, che su quei dibattiti furibondi aprirono l’ombrello protettivo della loro indiscutibile, e generosa, autorevolezza. Ora però devo cominciare la lista degli economisti “populisti” e, se permettete, inizierei dai Nobel. «La spinta per l’euro – sostiene, già nel 1997, Milton Friedman, padre del neoliberismo – è motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere impossibile una possibile guerra europea e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa».«Ma io credo che l’adozione dell’euro avrà l’effetto opposto», aggiunge Friedman. «Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti, che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio, in problemi politici di divisioni». «Adottando l’euro – prevede, nel 1999, anche il keynesiano Paul Krugman – l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». Oggi, però, il Nobel del 2008 appare ancor più convinto e agguerrito di allora: «L’Europa – insiste – non era adatta alla moneta unica, come invece gli Stati Uniti. E questo è uno dei principali motivi della fragilità del sistema Europa, almeno fino alla creazione di una garanzia bancaria continentale. L’Europa (…) ha sbagliato a scegliere la propria governance e le istituzioni per il controllo della politica economica. E’ però ancora in tempo per rimediare». Altro famigerato “avversario” dell’euro è Joseph Stiglitz. La critica del Nobel del 2001 sta tutta in una celebre, lapidaria, battuta: «Questo disastro è artificiale e in sostanza questo disastro artificiale ha quattro lettere: euro».Anche Amartya Sen, nel maggio 2013, esprime un drastico giudizio sulla moneta unica: «L’euro – confida al “Corriere” il Nobel del ‘98 – è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa». Altrettanto clamore desta il discorso fatto da James Mirrlees, Nobel per l’Economia nel 1996, alla Cà Foscari di Venezia nel dicembre 2013: «Guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso. L’uscita dall’euro non risolverebbe in automatico i problemi dell’Italia, visto che rimarrebbero le questioni derivanti dalle politiche adottate dalla Germania. Ma finché l’Italia resterà nell’euro non potrà espandere la massa di moneta in circolazione o svalutare: ecco perché s’impone la necessità di decidere se rimanere o meno nella moneta unica (…). Probabilmente dovreste sostenere il costo di un’eventuale uscita, come avvenuto in Gran Bretagna, ma dovete essere pronti a pagare questo prezzo». Chiude il panorama Christopher Pissarides. Nel dicembre 2013, nel corso di una lectio magistralis subito amplificata da “Daily Mail” e “Telegraph”, il Nobel del 2010 va dritto alla soluzione: «Per creare quella fiducia che i paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro è necessario abolire l’euro».La sequenza dei Nobel fa impressione. Ma numerosi altri economisti di indubbia fama, in questi anni, hanno infranto il tabù dei problemi dell’euro; e io credo che, alla vigilia di una campagna elettorale che tenterà di costringere gli avversari dell’euro alla pubblica abiura, sia giusto e doveroso darvene conto. Sul “Corriere” del 14 marzo scorso l’ex governatore della Bank of England, Mervin King, pronostica che «l’Eurozona, in mancanza di un reale cambiamento, precipiterà di nuovo nella crisi». «Senza l’unione fiscale – è il ragionamento di King – l’unione monetaria è stata prematura, un terribile errore. (…) La disoccupazione, in particolare quella dei giovani, è così alta che non sorprende vedere l’ascesa di nuovi partiti politici che incolpano l’unione monetaria. Vengono liquidati come populisti, ma le loro critiche sono basate su fatti economici che le élite non capiscono». Un altro ex governatore centrale, Antonio Fazio, aveva espresso valutazioni analoghe nel 2016: «Dentro la stessa moneta non ci può essere un’area che è obbligata a restare in equilibrio ed un’altra che ha un forte surplus. Stiglitz ha detto che l’euro è un’istituzione fallita. Questa persona è antipatica. L’unica cosa è che gli hanno dato un premio Nobel».In difesa di Fazio, subito bersagliato dai gendarmi dell’europeismo, scende in campo Paolo Savona. «Fazio la pensa come me», spiega l’ex ministro dell’industria, ex Bankitalia, ex Confindustria ed ex Ocse in un’intervista ad “Avvenire”: «L’euro non è mai stato irreversibile, se non a chiacchiere. Un sistema mal costruito può durare a lungo ma, prima o dopo, deflagra. E se il governo e la Banca d’Italia non hanno un piano B, verranno condannati dalla storia». Merita una citazione anche la svolta di Luigi Zingales. Da convinto sostenitore dell’euro, il rispettatissimo docente della University of Chicago – che in Italia collaborò al progetto euro-liberista di “Fare per fermare il declino” – ammette, con encomiabile onestà, il cambio di prospettiva. «Senza una politica fiscale comune – spiega a “la Repubblica” nel settembre 2016 – l’euro non è sostenibile. O si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi».Una doverosa menzione spetta, infine, anche a Lucrezia Reichlin che per il “Corriere della Sera” ha recentemente passato in rassegna le “fragilità” dell’euro. «Dal punto di vista economico – scrive l’economista chiamata da Trichet nella struttura dirigenziale della Bce – l’euro avrebbe dovuto risolvere il problema dell’instabilità del sistema dei cambi fissi o semi-fissi adottati dall’Europa dopo la fine di Bretton Woods (…). Il problema che è apparso evidente nell’ultima crisi, però, è che la mera introduzione della moneta unica, senza istituzioni adeguate di sostegno, non garantisce la stabilità ma semplicemente tramuta le tensioni sul mercato del cambio del regime precedente in tensioni sul mercato del debito sovrano». Sei Nobel, due governatori centrali, un ex ministro del governo Ciampi e due stimatissimi accademici. In tanti anni di dibattiti televisivi ho capito che titoli e credenziali possono riuscire a prevalere sulle buone argomentazioni. Per questo ho voluto ricordare che anche molti dei più accreditati economisti hanno affermato pubblicamente che l’euro è una moneta mal costruita, che ora si può solo correggere o lasciar morire. E somiglia ad una parabola del destino che questo dilemma metta ora, l’uno di fronte all’altro, i due volti della stessa persona: il Draghi di ieri contro il Draghi di oggi.(Alessandro Montanari, “L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti”, dal blog “Interesse Nazionale”, novembre 2017).La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.
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E Dio salvò la regina (dal populismo della turbolenta Diana)
Alla fine di agosto di vent’anni fa, le cronache rosa del mondo si tinsero di nero: morì in un misterioso incidente stradale la star di quegli anni, Lady Diana Spencer. Già in vita Lady D. era circondata da un alone di simpatia e di sostegno mediatico, anche perché era vista come la donna che metteva in crisi i compassati protocolli e rituali della monarchia, si presentava come donna libera, principessa da favola e da rotocalco, ma anche da impegno umanitario e da crociate buoniste nel mondo. Per questo la sua morte tragica e precoce fu subito sospettata di essere stata un assassinio per levare di mezzo una bomba a orologeria per la monarchia britannica. In quei giorni e poi nelle indagini che seguirono, nella ridda di voci che si susseguirono riempendo le copertine dei settimanali e le prime colonne dei quotidiani, si ebbe la percezione che la monarchia inglese non sarebbe sopravvissuta al ciclone Diana. La regina Elisabetta pareva piegata sotto il fuoco degli attacchi e delle insinuazioni, il principe Carlo godeva di antipatia globale, aggravata poi dall’unione con Camilla; la monarchia era rimessa in discussione come un arnese anacronistico, ipocrita e crudele.E Lady D. diventava una specie di Mito Globale, affiancata a Madre Teresa di Calcutta; la sua morte fu vista come un atto di accusa alla Tradizione nel nome della libertà al femminile. Tralascio le storie e le dicerie sulla leggerezza di Lady D, sui suoi amori, sulle sue vicende che gettavano un’ombra di discredito sulla Corona e che rivelavano quanto lei fosse inadeguata al ruolo e agli obblighi che comporta. E mi soffermo invece sulle sue conseguenze: ripensando al lutto planetario per la sua morte, alla ricca letteratura pop che la celebrava come una santa, un’eroina e una martire del femminismo contro la tradizione e l’assurdo mondo dei re, noto che il tempo, alla fine, abbia mostrato la sua saggezza. Oggi quella vecchia regina che sembrava sulla via del declino se non della destituzione, è ancora viva e vegeta e ha festeggiato i 65 anni del suo regno, circondata da rispetto e simpatia. E quella vecchissima monarchia, che sembrava eclissarsi dietro le orecchie a sventola di Carlo, ha ritrovato una sua vitalità e un grande consenso.Di Lady D, e del suo alone romantico, è rimasta la simpatia trasferita sui figli e sui nipoti; ma stavolta la loro figura non sono viste fuori e contro la dinastia ma perfettamente dentro, integrate nel segno della monarchia e della continuità dinastica. Perché la gente ama la continuità, si affida alle tradizioni come alla paternità e alla maternità di un popolo, e ama la magnificenza, la lontananza, la regalità dei sovrani. Non solo perché ama sognare, e dunque nello splendore di una Casa Reale proietta i suoi sogni infantili e i suoi desideri di gloria. Ma perché vede riflessa in quell’immagine, in quei castelli da favola, in quelle residenze che vissero grandi eventi, quel filo di continuità con la propria storia, col passato di una nazione, di un impero, di una civiltà. Ciò non toglie nulla alla modernità, alla libertà e alla democrazia, ma li compensa, generando equilibrio tra novità e tradizione, tra popolo e sovranità, tra sacralità e profanità, tra rito e pratica quotidiana.Sulla questione Lady D. non sappiamo i veri contorni della vicenda, della sua vita e soprattutto della sua morte. Ma sappiamo che un’istituzione secolare, millenaria, non può piegarsi ai capricci e alle volontà pur comprensibili di una singola persona. Noblesse oblige, c’è un protocollo da rispettare, la regalità ha oneri e onori e tra i primi c’è quello di rinunciare ai suoi piaceri privati quando è in gioco la dinastia. Da principe godi di tanti privilegi ma devi sapere che quel che fai non risponde solo ai tuoi desideri e alle tue pur umane inclinazioni, ma rientra in un cerimoniale, in una simbologia, in una ritualità, in uno stile che danno il senso della regalità. La monarchia risponde a un altro metro, a un altro criterio rispetto alla leadership popolare. In una cerimonia pubblica, Re Luigi XVI di Borbone, il sovrano poi ghigliottinato dai rivoluzionari, doveva raggiungere l’altare allestito all’aperto ma cominciò a piovere a dirotto all’improvviso e il Re non volle bagnarsi, rinunciando a raggiungere l’altare. Quarantanni dopo, il re borghese Luigi Filippo d’Orleans in una cerimonia pubblica, rifiutò di essere riparato da un ombrello perché volle bagnarsi come i suoi sudditi. Col metro democratico moderno, condanniamo il primo ed elogiamo il secondo. Ma non si considera che un Re non può farsi vedere come uno qualunque, sotto la pioggia, magari con la parrucca e il trucco disfatti dall’acqua, reso quasi ridicolo nel suo sfarzo e nella sua solennità.Un Re deve mantenere il suo decoro, la sua regalità, e se non riesce a compiere la sua cerimonia conservando la sua immunità dai fattori climatici, è meglio che preservi la sua distanza. Luigi Filippo, invece, aveva già aperto le porte al presidenzialismo, alla democrazia repubblicana, se non al populismo. E pur di strappare il consenso e il plauso dei suoi sudditi si improvvisava uno di loro; ben sapendo però – e qui è l’ipocrisia delle monarchie borghesi e poi dei leader popolari – che re sarebbe rimasto a tutti gli effetti e con tutti i privilegi, magari quando non lo vedeva nessuno… Con Lady D e la Regina Elisabetta avvenne una cosa del genere: fece simpatia l’umanità di Lady D., la sua voglia di vivere, le sue trasgressioni, i suoi amori, il suo sguardo dolce da cerbiatto, il suo populismo mediatico con le sue performance progressiste. Ma la dignità di una storia, di una dinastia, di una tradizione furono salvaguardate dalla severa coerenza di una regina che regna sovrana ancora oggi. Dio salvò la Regina, non la turbolenta principessa.(Marcello Veneziani, “E Dio salvò la Regina”, da “Il Tempo” del 30 agosto 2017).Alla fine di agosto di vent’anni fa, le cronache rosa del mondo si tinsero di nero: morì in un misterioso incidente stradale la star di quegli anni, Lady Diana Spencer. Già in vita Lady D. era circondata da un alone di simpatia e di sostegno mediatico, anche perché era vista come la donna che metteva in crisi i compassati protocolli e rituali della monarchia, si presentava come donna libera, principessa da favola e da rotocalco, ma anche da impegno umanitario e da crociate buoniste nel mondo. Per questo la sua morte tragica e precoce fu subito sospettata di essere stata un assassinio per levare di mezzo una bomba a orologeria per la monarchia britannica. In quei giorni e poi nelle indagini che seguirono, nella ridda di voci che si susseguirono riempendo le copertine dei settimanali e le prime colonne dei quotidiani, si ebbe la percezione che la monarchia inglese non sarebbe sopravvissuta al ciclone Diana. La regina Elisabetta pareva piegata sotto il fuoco degli attacchi e delle insinuazioni, il principe Carlo godeva di antipatia globale, aggravata poi dall’unione con Camilla; la monarchia era rimessa in discussione come un arnese anacronistico, ipocrita e crudele.
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Contropiano: ma dentro la Ue siamo tutti come i catalani
Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».Quella di Barcellona è un’indipendenza formale, non effettiva, perché la Catalogna «non aveva e non ha la possibilità materiale di far rispettare a tutti questo nuovo status», precisa Barontini: niente frontiere protette né esercito, niente moneta autonoma, nessun controllo sui movimenti di capitale e delle imprese. Sarà la prima volta che dirigenti politici democratici chiederanno ufficialmente asilo politico? «Per la sottile ironia della storia – aggiunge l’analista – proprio questa fuga riporta la contraddizione all’interno del cuore dell’Unione Europea, a Bruxelles, costringendo gli algidi burocrati a districarsi con il problema di un governo democratico che chiede asilo politico per sfuggire ai mandati di cattura emessi da un paese membro della stessa Unione – la Spagna di re Felipe e del franchista Rajoy – che non viene classificata di certo tra le “dittature”». Non è invece la prima volta, aggiunge Barontini, che la rivendicazione di indipendenza assume connotati apertamente progressisti e di classe, invece che quelli “populisti di destra” che tanto piacciono all’establishment europeo per “spaventare” le popolazioni sottoposte alla riduzione dei diritti, dei salari e del welfare.Questa Unione Europea, ricorda “Contropiano”, non è altro che «un sistema di trattati vincolanti, che espropriano gli Stati nazionali di molte prerogative-chiave, a partire dal controllo del bilancio pubblico». Proprio questo mostro tecnocratico produce il nemico che sostiene di voler combattere, cioè il razzismo e il neofascismo, «moltiplicando disuguaglianze reddituali, seminando precarietà e insicurezza sociale che poi cerca di capitalizzare militarizzando la società». Alternative alla rottuna, in Catalogna? Debolissime. La parte più moderata del movimento indipendentista, rappresentata da Carles Puigdemont, coltivava un’illusione “riformista” rivelatasi un tragico equivoco, «quello di poter passare da regione autonoma di uno Stato membro della Ue a Stato indipendente, restando completamente dentro le regole Ue già definite», e quindi mantenendo trattati, contratti e moneta, senza alcun trauma». Dopo il referendum, Barcellona sperava in un compromesso con il governo centrale spagnolo, anche a costo di non proclamare formalmente l’indipendenza. Ma non ha funzionato.Puigdemont e compagni «si sono trovati davanti a un muro incompreso, imprevisto, sottovalutato, invalicabile». Ovvero: «Nessuna “riforma” è possibile, nessun compromesso teso a guadagnare respiro». Proprio questo muro, aggiunge “Contropiano”, ha costretto il governo catalano a portare fino in fondo – obtorto collo – il processo istituzionale sfociato nella dichiarazione d’indipendenza. «Non c’è stata la capovolta di Tsipras, non c’è stata la resa plateale che disarma un intero popolo e soprattutto le figure sociali più colpite dalle politiche europee». Di sicuro la fuga in Belgio non è un atto eroico, «ma non è neppure paragonabile al trasformarsi in macellaio della propria gente». E’ un fatto: è avvenuto. «Ma ogni fatto storico di questa portata cambia la situazione», scrive Barontini. D’ora in poi, si tratta di mettere a fuoco «il nemico principale», ovvero quello con cui tutti ci troviamo a fare i conti, «magari senza aver ancora capito che (quanto a condizioni oggettive, in questo continente) oggi siamo davvero tutti come i catalani», di fronte all’aberrante regime di Bruxelles: il vero avversario comune, infatti, è proprio l’Unione Europea.Se il governo regionale della Catalogna è costretto a valutare se chiedere asilo politico a un altro paese dell’Ue, vuol dire che nulla sarà come prima: quello che sta avvenendo in questi giorni intorno a Barcellona e alla sua volontà di indipendenza dalla Spagna è una di quelle “prime volte” che segnano l’evoluzione di un sistema politico, scrive Dante Barontini su “Contropiano”: «E’ la prima volta, infatti, che l’Unione Europea non riconosce – e anzi condanna – una richiesta di indipendenza certificata da un voto, oltretutto osteggiato con la violenza poliziesca da parte di uno Stato nazionale». Ma è anche la prima volta che questo accade al suo interno, anziché in un paese inserito nella lista dei “nemici”. «Per l’indipendenza di Slovenia, Croazia, Bosnia, Macedonia, Kosovo è stata fatta una guerra durissima che ha smantellato l’ex Jugolavia», ricorda “Contropiano”, facendo notare che «se la stessa richiesta arriva da un paese membro della Ue, questa diventa “illegale”». Una conferma implicita: quello Ue è un sistema sovranazionale «creato a protezione di interessi specifici – quelli del capitale multinazionale, sia industriale che finanziario – che si confronta imperialisticamente con altri sistemi politico-economici».