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Odiare: Sardine o Salvini, l’Italia resta cibo per cannibali
Le Sardine vorrebbero un mondo migliore. E fin qui, tutto bene. Sono però convinte che l’ostacolo sia Matteo Salvini, che immaginano voglia un mondo peggiore. Salvini chi? Il vicepremier gialloverde che, dopo aver promesso di stroncare le tasse (mondo migliore) non ha combinato nulla, di fronte ai censori-strozzini dell’Ue (mondo peggiore)? Unico vero terreno di scontro, gli sbarchi dei migranti: accogliamoli tutti (oppure: non accogliamone nessuno). Grande enfasi, da parte dell’allora ministro dell’interno, e tantissimi voti, ma nessuna violenza. Invece Macron, che tra i politici europei è l’amico diletto di Papa Francesco, i migranti inchiodati alla frontiera francese li ha fatti riempire di botte. Ora i Papa-Boys scendono in piazza con le Sardine, contro Salvini. Dunque Macron la passa liscia anche stavolta? Quanto al secondo tema in agenda, quello del presunto fascismo, qualsiasi corte ammetterebbe il non luogo a procedere: le minuscole formazioni che si richiamano al Ventennio non raggiungono l’1% dei votanti, che sono poco più della metà degli aventi diritto al voto. Ma la Lega che c’azzecca, coi presunti nostalgici fascistoidi?C’è chi ricorda un antico corteo con i giovani di CasaPound: ma qualcuno l’ha letto, nel 2018, il programma sociale (per non dire socialista) con cui CasaPound si presentò allora alle elezioni? E comunque, perché scomodare i peggiori fantasmi del ‘900, ignorando pericolosamente i mostri in circolazione oggi? Di nuovo, come nel caso di Macron: perché farla passare liscia, al vero colpevole? Perché Salvini è brutto e cattivo, rispondono in coro le Sardine: è il male assoluto, il demonio, l’Uomo Nero. E dove starebbe, la cattiveria di Salvini? Nel contestare gli abusi di Bibbiano e il sindaco di Riace? Nel contraddire Carola Rackete e gli altri turisti politici che usano l’Italia per diventare famosi, a spese del nostro governo e ignorando il governo manganellatore francese? E’ più facile, semmai, parlare della bruttezza di Salvini, della sua discutibilissima estetica politica, dei suoi crocifissi da comizio, delle sue passerelle in uniforme. Data memorabile, quella in cui andò all’aeroporto – vestito da poliziotto – ad accogliere l’estradato terrorista Cesare Battisti. Brutture: in un paese dove la cocaina la si compra ai giardinetti, il capo della Lega è riuscito a prendersela coi negozi di cannabis terapeutica. Ha persino dato del drogato a Stefano Cucchi, il giorno della condanna dei suoi assassini.Anche Salvini, poi, ha assecondato il conato demagogico del taglio dei parlamentari, caldeggiato dai grillini nel tentativo di apparire puri e intransigenti anziché corrotti dal vero potere, quello europeo. Ecco il punto: Salvini è stato al governo, per un anno, con i grillini che – un giorno dopo l’altro – tradivano tutte le promesse fatte agli elettori. Salvini ha ceduto al niet di Mattarella su Paolo Savona, architetto della difesa finanziaria nazionale, e poi non ha preteso che restasse al suo posto Armando Siri, il promotore della Flat Tax. Soprattutto: non ha osato tener duro sulla richiesta di deficit al 2,4% che, pur insufficiente, sarebbe servito per sostenere gli italiani (mondo migliore). Ha sperato che la tattica attendista finisse per incidere sulla strategia, ma ha perso la scommessa. I suoi alleati si sono tirati indietro, frenandolo su tutto. E infatti adesso sono al governo col Pd, pronti a farsi dettare l’agenda da Bruxelles mentre l’Italia crolla. E l’Italia – anche se le Sardine sembrano non accorgersene – sta davvero crollando, come il ponte Morandi e gli altri viadotti che tremano e franano.Sono nei guai l’Ilva, l’Alitalia, Unicredit. Siamo nei guai tutti, con l’approvazione di un dispositivo cannibale come il Mes, ideato dai tedeschi per colmare la voragine di Deutsche Bank, in un’Europa folle dove la Bce non può fare da garante per gli Stati, sempre più in bolletta. Disastro su disastro: la Fiat (che già paga le tasse in Olanda, anziché in Italia) ora cede il timone ai francesi. Apre un nuovo stabilimento, ma in Marocco, e per premio incasserà 136 milioni in regalo dal governo Conte. Niente da dire, su questo? Certo non fiatano i giornaloni, imbottiti di pubblicità targata Fiat, Alfa Romeo e Jeep. Men che meno aprono bocca i leoni di “Repubblica” e dell’”Espresso”, feroci con Salvini ma zitti sulle imprese di John Elkann, che li ha appena comprati. Siamo il paese che s’è rifiutato di trasmettere in televisione la prima intervista, dopo nove anni di guerra, al presidente siriano. Motivo evidente: Assad, nel colloquio con Monica Maggioni, ha accusato l’Europa (e in particolare la Francia) di aver armato le milizie dell’Isis in Siria. A quanta gente bisognerebbe chiedere conto del fatto che il sospirato mondo migliore non sia ancora all’orizzonte?L’elenco è sterminato, come si vede. Ma nell’agenda delle Sardine c’è solo Salvini. Il che, automaticamente, finisce per scagionare tutti gli altri. Al leghista non si perdona lo stile, il presunto bullismo verbale. Agli altri invece si perdona ogni macelleria concreta, sanguinosa. Non sarà che il chiasso propagandistico di Salvini, sempre rimasto senza effetti pratici, viene usato – anche grazie alle Sardine “distratte” – per deviare l’attenzione dai veri lestofanti all’opera? Se a opporvisi è Salvini, riesce più facile rifilare all’Italia persino una trappola mortale come il Mes. Splendida situazione, per gli strangolatori della nostra economia: grazie alle Sardine, certo, ma anche a Salvini. Nei Promessi Sposi, i capponi di Renzo si beccano a sangue, tra loro, ignari della padella che li attende. Nella padella, le Sardine sono già dentro fino al collo, insieme a tutti gli italiani, eccezion fatta per gli abili manipolatori dell’odio di piazza. Ma l’ondata di contro-odio non si sarebbe mai levata, se – in partenza – il capo della Lega non avesse usato certi toni.Parole, s’intende: non fatti. In nessun modo, la Lega al governo ha mai attuato politiche xenofobe. Pur vestito da poliziotto, Salvini non ha mai preso a mazzate nessun africano, né risulta che abbia fornito razzi e mitragliatori ai tagliagole jihadisti. La sua colpa maggiore? Aver alzato la voce contro gli sfruttatori di Bruxelles, i nostri parassiti, senza però trovare il modo di agire, concretamente, contro di loro. Un mondo migliore, qui in Italia, lo avremo quando sarà chiaro chi deruba, davvero, gli italiani. L’attuale esecutivo-zerbino è complice dei malfattori, e questo comporterà la morte politica degli sconcertanti grillini, oggi alleati con i traditori storici del bene comune, del mondo migliore. Non c’è verso di farlo capire, alle Sardine? A loro, a quanto pare, basta prendere a sberle Salvini. Che, a sua volta, si è accontentato di abbaiare alla luna, tirando a campare per un anno insieme al fenomenale cazzeggiatore Di Maio.I sentimenti agitati dalle Sardine sono serissimi: chi lo non vorrebbe, un mondo migliore? Le loro frecce però finiscono tutte fuori bersaglio: trafiggono un capro espiatorio che non ha alcuna responsabilità nello spaventoso declino del paese, ora in pericolo di fronte alla dominazione tecnocratica di poteri subdoli, sleali perché opachi, pronti a usare il profilo istituzionale per favorire lobby e colossali affari privati. E a proposito di estetica: se a tanti italiani può dare giustamente il voltastomaco il ricorso alla Madonna di Medjugorje, che dire dei commissari europei (tra cui Gentiloni) ripresi mentre intonano Bella Ciao nei palazzi dove si progetta la dismissione dell’Italia? Si canta Bella Ciao, senza pudore, mentre si condannando gli italiani a vivere nel peggiore dei mondi, vessati da una austerity assurda che non si trova il coraggio di attribuire alla sua vera causa, cioè l’euro (questo euro, così costruito e gestito, allo scopo di sottomettere popoli).Non è bastata, la lezione della Grecia? I cannibali si ripresentano travestiti da Mes, ma gli insulti vanno a Salvini (che è all’opposizione). Surreale, no? Eppure è così che l’Italia agonizza: pur di stroncare il politico del momento, ci si allea con gli stranieri che poi ovviamente ci calpestano. Ce lo meritiamo, tutto questo? Pare di sì, se le piazze tracimano di parole fumogene proprio mentre il governo tresca apertamente col nemico, obbedendo a ordini inconfessabili. Nell’intervista che la Rai si è rifiutata di mandare in onda, il siriano Assad racconta come funziona (secondo lui, almeno) la ricostruzione del suo paese: la riconciliazione nazionale passa attraverso la scuola, cioè il dialogo, corroborato dagli influenti religiosi islamici. Nelson Mandela evitò il bagno di sangue, in Sudafrica, costringendo i funzionari dell’apartheid a scusarsi con le loro vittime, una per una. L’unica volta nella storia in cui sembrò sul punto di finire, seriamente, il supplizio israelo-palestinese, fu quella in cui la voce più forte (Israele) decise di fare concessioni oneste. Il capo di Israele, allora, si chiamava Rabin. Faceva così paura, ai signori della guerra, che decisero di assassinarlo.Può costare la vita, credere davvero nella possibilità di un mondo migliore. E il primo passo per raggiungerlo è la pace, la concordia. Per arrivarci non servono gli insulti, occorre il dialogo. Se all’ostilità si risponde con l’odio, il finale è già scritto: a vincere è il banco, ancora una volta. Finora, al netto delle mostruose sofferenze subite, l’Italia se l’è potuto permettere, il trionfo sistematico dei manipolatori, dei fabbricanti di mostri da sbattere in prima pagina. Craxi, Berlusconi, Renzi, ora Salvini. Nei loro confronti sempre parole-contro, mai progetti. A questo è servita, la morte delle ideologie: ad annebbiare la vista del pubblico, dietro a minuscoli personalismi destinati ormai a durare sempre meno, nascendo e poi sparendo nell’arco brevissimo di una sola stagione. E così ride, il vero nemico, nel vederci puntualmente divisi, rabbiosi e impotenti. Ride largo, il dio alieno dei cannibali. E si prende pure il lusso di prenderci per il fondelli, cantando Bella Ciao. Non manca di humour, il genio del male: quello che s’era inventato Auschwitz, tanti anni fa, ai condannati infliggeva le gelide note di una banda musicale, ogni mattina.(Giorgio Cattaneo, Libreidee, 15 dicembre 2019).Le Sardine vorrebbero un mondo migliore. E fin qui, tutto bene. Sono però convinte che l’ostacolo sia Matteo Salvini, che immaginano voglia un mondo peggiore. Salvini chi? Il vicepremier gialloverde che, dopo aver promesso di stroncare le tasse (mondo migliore) non ha combinato nulla, di fronte ai censori-strozzini dell’Ue (mondo peggiore)? Unico vero terreno di scontro, gli sbarchi dei migranti: accogliamoli tutti (oppure: non accogliamone nessuno). Grande enfasi, da parte dell’allora ministro dell’interno, e tantissimi voti, ma nessuna violenza. Invece Macron, che tra i politici europei è l’amico diletto di Papa Francesco, i migranti inchiodati alla frontiera francese li ha fatti riempire di botte. Ora i Papa-Boys scendono in piazza con le Sardine, contro Salvini. Dunque Macron la passa liscia anche stavolta? Quanto al secondo tema in agenda, quello del presunto fascismo, qualsiasi corte ammetterebbe il non luogo a procedere: le minuscole formazioni che si richiamano al Ventennio non raggiungono l’1% dei votanti, che ormai sono poco più della metà degli aventi diritto al voto. Ma la Lega che c’azzecca, coi presunti nostalgici fascistoidi?
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Mazzucco: dacci oggi il nostro anestetico quotidiano, il Tg
E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».Non è neppure il caso di demonizzare sempre i giornalisti, avverte Marcello Foa nel saggio “Gli stregoni della notizia”: per come è costruita oggi l’industria dell’informazione, dall’alto verso il basso, le redazioni non riescono a uscire dal “frame” imposto loro, a monte, dagli spin doctor governativi. Autocensura spontanea, preventiva e sistematica: «I primi a praticarla – ricorda Mazzucco – sono i direttori: non sarebbero su quelle poltrone, se uscissero dal seminato». In pratica, ogni notizia deve restare recintata nella sua precisa, rassicurante cornice tematica: inammissibile fare collegamenti trasversali, deduzioni, analisi vere e proprie. Un’omissione ormai storica, secondo il severo giudizio del Premio Pulitzer statunitense Seymour Hersh, che oggi licenzierebbe 9 colleghi su 10. Motivo: «Se non avessero smesso di fare il loro mestiere, in questi anni avremmo seppellito meno vittime innocenti: troppe guerre, protette da menzogne non smascherate dalla stampa». Bugie ufficiali, silenzi omertosi: le agenzie di informazione (giornali e Tv) vengono ormai chiamate “presstitutes”, con un gioco di parole, da un ex politico americano che nella “press” credeva, eccome: Paul Craig Roberts, sincero liberale, già viceministro dell’economia con Reagan.Dal canto suo, Mazzucco – fotografo con Toscani e video-reporter, per 15 anni al lavoro come regista e sceneggiatore a Hollywood – incarna la resistenza quotidiana contro l’impero delle favole in mondovisione: ha messo a nudo prima e meglio di altri la scomodissima verità sull’11 Settembre, finendo addirittura in prima serata su Canale 5 grazie a Mentana. Impresa che gli è valsa la patente di complottista, e la messa al bando dagli aventi diritto di parola: «La mia stessa pagina su Wikipedia è controllata dai “debunker”: sono loro a scrivere quello che vogliono, sul mio conto. Se provo a correggere le loro falsità, l’indomani ricompaiono». Indovinato: «Ho rinunciato a fare in modo che Wikipedia dica la verità, riguardo alla mia stessa biografia». Autore di video-inchieste imbarazzanti (sulle cure alternative per il cancro e sulla crociata dell’industria della plastica contro la marijuana, sul vero autore dell’omicidio di Bob Kennendy, sulla manipolazione terrestre dei filmati del mitico allunaggio), Mazzucco è l’ossessione dei disinformatori ufficiali. Contro di lui, hanno intrapreso una lunghissima battaglia mediatica i professori del Cicap e personaggi come Paolo Attivissimo, solerte megafono italiano della Nasa.Mazzucco non ha perso il gusto per il gioco: “Ulisse, il piacere della menzogna” era il titolo di un video realizzato per smascherare le “inesattezze” diffuse da Alberto Angela. La tesi: divulgazione scientifica parziale e tendenziosa, spesso addirittura basata su notizie false. «Ognuno è libero di dire quello che vuole, intendiamoci: a patto però – obietta Mazzucco – che non usi i soldi della Rai, cioè i nostri, per raccontare fandonie». E vogliamo parlare di Piero Angela? «Tempo fa fece un’intera puntata della sua trasmissione per sostenere che tutti gli avvistamenti Ufo fossero sempre spiegabili come fenomeni terrestri: a smentirlo ha ora provveduto ufficialmente la Us Navy. Gli italiani che pagano il canone Rai, sentitamente, ringraziano». Oggi, Mazzucco è seguito da una comunità di almeno cinquantamila cittadini, sulle pagine del blog “Luogo Comune”. Ha anche aperto una sua mini-televisione su web, “Contro Tv”, che non si avvale dello streaming su YouTube: «E’ sempre più sfrontata la censura su Internet che può oscurare pagine Facebook, “bannare” canali video e orientare i motori di ricerca in modo da rendere invisibili le voci scomode: per questo – dice Mazzucco – è meglio prepararsi al peggio, essendo autonomi anche nello streaming».L’esperimento di “Contro Tv” è stato lanciato insieme a Giulietto Chiesa, altra bestia nera dei “debunker”: il suo bestseller “La guerra infinita”, sull’11 Settembre, macinò 70.000 copie in pochi mesi. Non una recensione, sui giornali, nonostante fosse editato da Feltrinelli. «Di tutti i giornalisti italiani famosi – scrisse Paolo Barnard – Chiesa è stato l’unico a rinunciare ai suoi privilegi, mettendo a rischio tutto quello che si era guadagnato sul campo pur di restare fedele alla ricerca della verità». Per la cronaca: fondatore di “Report” con la Gabanelli, Barbard è finito fuori dalla Rai per la sua intransigenza: gli negarono un servizio sugli abusi di Big Pharma. Dopo anni di impegno solitario e titanico – la denuncia del “golpe” di Monti, il saggio “Il più grande crimine” e il lancio della Mmt in Italia con Warren Mosler – oggi Barnard (espulso dal sistema mediatico nazionale) è sparito anche dal web. Nel frattempo, la Exor di John Elkann s’è comprata il gruppo Espresso: un solo editore controlla il grosso della carta stampata, in Italia. L’altra voce (non esattamente alternativa) è quella di Urbano Cairo, patron del “Corriere” e de La7, la rete che affida a Lilli Gruber, Giovanni Floris e Corrado Formigli la guerra santa contro Matteo Salvini, mentre Enrico Mentana dal suo telegionale finge di essere ancora il Mentana di un tempo, simpaticamente indipendente.«Poteva essere il primo degli ultimi, invece ha scelto di essere l’ultimo dei primi», si rammarica Mazzucco, pensando alle recenti sortite del direttore del telegiornale di Cairo. L’accusa: si è allineato al peggiore mainstream. Ovvero: «Nelle sue comode invettive, associa cretinate assolute come la teoria della Terra Piatta a cose ben più serie, come le strane scie persistenti oggi rilasciate dagli aerei e naturalmente l’11 Settembre: la verità ufficiale è crollata, architetti e ingegneri negli Usa hanno dimostrato la demolizione controllata delle Torri e i pompieri di New York si sono rivolti alla magistratura chiedendo di far riaprire i processi, ma Mentana si rifiuta di prenderne atto». Peggio: nella scorsa primavera ha firmato (con Grillo e Renzi) lo sconcertante “Patto per la Scienza” promosso dal vaccinista Claudio Burioni, che di fatto propone che venga lasciata senza fondi la ricerca medica sugli effetti collaterali delle vaccinazioni. «Quello che Mentana evita di ricordare – sottolinea Mazzucco – è che la Puglia ha scoperto che 4 bambini su 10 hanno subito reazioni avverse anche gravi, dopo la somministrazione neonatale dei nuovi vaccini polivalenti». Non solo: «La7 non si premura di ricordare che gli Stati Uniti (dove la Corte Suprema ha dichiarato impossibile avere garanzie sulla sicurezza dei vaccini) hanno finora sborsato 4 miliardi di dollari per indennizzare i danneggiati da vaccino».Ovviamente, di fronte a queste osservazioni, il mainstream bolla come No-Vax (scellerato troglodita) chiunque sollevi dubbi, invocando il “prinicipio di precauzione” citato dalla Costituzione. Con questo risultato, negli Usa: i cittadini sono gli unici a pagare, anche due volte (come contribuenti, ed eventualmente anche come pazienti danneggiati dalle vaccinazioni), mentre Big Pharma è formalmente impunita, per legge, avendo messo le mani avanti. Obiezione: ma se sei certo che i tuoi vaccini siano “sicuri”, perché chiedi allo Stato di coprirti le spalle? Forse perché sai benissimo che le somministrazioni polivalenti – come dicono molti medici, alcuni prontamente radiati – non sono affatto privi di rischi, per neonati ancora sprovvisti dei necessari anticorpi? Mazzucco alza le mani: «Io non sono un medico, né un ricercatore. Non ho competenze scientifiche, non posso trarre conclusioni tecniche. Dico però che c’è un deficit, enorme, di trasparenza e informazione. Viene meno un diritto fondamentale: quello di essere decentemente informati, anche in questa delicata materia che preoccupa tante famiglie». Statistica: per la prima volta nella storia, quest’anno 130.000 bambini italiani (nel dubbio, non vaccinati) sono stati esclusi dai nidi e dalle materne.In prima linea nell’informazione indipendente, con Mazzucco (insieme allo stesso Giulietto Chiesa e alla sua “Pandora Tv”) c’è un video-blogger come Claudio Messora, pionieristico creatore di “ByoBlu”, ora impegnato addirittura di una striscia pre-serale quotidiana: un talskow giornalistico davvero unico. In tandem con Francesco Maria Toscano, Messora riassume le notizie-chiave della giornata, sottoponendole sia alle migliori voci “eretiche” che a personaggi abitualmente televisivi, da Carlo Cottarelli a Edward Luttwak, per una volta alle prese con vere domande. Problema: benché “ByoBlu” sia seguito da una comunità di trecentomila iscritti, da quando ha esordito il suo freschissimo #TgTalk le visualizzazioni dei singoli video sono misteriosamente scese a cinquantamila, almeno stando al report ufficiale del gestore web. Per Mazzucco – che con Messora collabora – c’è il sospetto che sia in atto una censura-ombra, tecnologica, tendente appunto a minimizzare l’inidicizzazione dei contenuti politicamente problematici. Anni fa, l’area critica del web in Italia era quotata attorno ai due milioni di utenti. Oggi, la platea di chi usa Internet per informarsi è aumentata a dismisura. Anche per questo, forse, l’Ue è corsa ai ripari con la sua leggina-bavaglio, nascosta dietro il paravento della tutela del copyright.Nel frattempo, qualcosa sta cambiando in profondità: lo smartphone ti consente di ricevere news in tempo reale (incluse quelle diffuse da Messora, Mazzucco e Chiesa) e i quotidiani italiani sono al capolinea. John Elkann potrà pure comprarsi “Repubblica” e “l’Espresso”, ma intanto i quotidiani – tutti, messi assieme – ormai vendono meno di 600.000 copie. Vorrà pur dire qualcosa, sottolinea un veterano come Gigi Moncalvo, costretto a smerciare tramite il suo sito gli scottanti libri-inchiesta sulla dinastia Agnelli, letteralmente spariti dalle librerie. «Semplicemente – dice Moncalvo – i giornali hanno smesso di raccontare quello che succede, e i lettori se ne sono accorti». Tiene ancora banco il telegiornale, soprattutto come abitudine, ma la fiducia verso la categoria giornalistica è ai minimi storici. In Italia, del resto, vent’anni fa erano ancora in circolazione Biagi, Bocca, Montanelli e Zavoli, insieme a Gianni Minà e Oriana Fallaci. Lo stesso Barnard, per dire, scriveva sul “Corriere della Sera”. Giulietto Chiesa firmava corrispondenze da Mosca per il Tg5. Uno dei pochissimi reporter italiani scomodi, Gianni Lannes, è quasi scomparso dai radar. Siamo in un torbido Tempo di Mezzo, in cui niente è come sembra. La differenza la fanno quelli come Mazzucco: intanto, dicono tutto quello che sanno. E spesso poi il mainstream, sempre reticente, è costretto a tenerne conto, anche se affila le sue armi per silenziare il più possibile le voci che smontano e ridicolizzano la patetica verità ufficiale.E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».
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Dalla mafia soldi in Ue contro l’Italia: il segreto di Borsellino
«Soldi della mafia a fior di politici europei». A che scopo, negli anni Novanta? Inguaiare l’Italia, già terremotata da Tangentopoli, in vista della nascita dell’Ue? Era il grande segreto di Paolo Borsellino, assassinato a Palermo il 19 luglio 1992. Chi lo dice? Gianfranco Carpeoro, saggista e osservatore privilegiato dell’attualità in virtù del suo curriculum: per trent’anni avvocato (vero nome, Pecoraro) e a lungo “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. E come sa, Carpeoro, che Borsellino aveva scoperto l’indicibile? «Sono cose che leggo e che sento», taglia corto, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’8 dicembre. Già vicino a Craxi, Carpeoro – benché fuoriuscito dal mondo delle logge – coltiva una sua riservatissima diplomazia massonica, estesa in Italia e all’estero. Nell’estate 2018 le sue affermazioni, di fatto, sventarono il complotto ordito dal francese Jacques Attali, mentore di Macron, per impedire l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai (beffando Salvini, che l’aveva candidato). Operazione, secondo Carpeoro, architettata con la collaborazione di Napolitano, Tajani e Berlusconi, ma poi sfumata dopo le esternazioni dell’avvocato, riprese dal quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro.
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Il fantasma Edoardo Agnelli, le non-indagini sulla sua fine
Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.Il primo a non credere alla versione ufficiale è un cronista di razza come Gigi Moncalvo, per un semplice motivo: nessuno svolse vere indagini. E ha dell’incredibile la trascuratezza di chi avrebbe dovuto ricostruire le ultime ore di Edoardo Agnelli. Un ragazzone di 46 anni, a lungo celebrato dall’Iran come “martire dell’Islam”. «Sulla sua morte, il governo di Teheran ci ha pedalato parecchio», dice Moncalvo, autore del saggio “Agnelli segreti”, che alla tragica fine di Edoardo dedica 8 capitoli, fondati sul fascicolo della Procura di Mondovì. La tesi degli ayatollah: Edoardo, che aveva aderito all’Islam, sarebbe stato ucciso da un complotto sionista, ordito per mettere le mani sulla Fiat manipolando l’ebreo John Philip Jacob Elkann, allora giovanissimo. Obiettivo: scongiurare il rischio che ci finisse “un musulmano”, a controllare i conti della Fiat. A far paura era la caratura di Edoardo, che aveva dichiarato guerra alla produzione di armamenti, «come le mine antiuomo che la Fiat metteva sul mercato, tramite la consociata Valsella».Moncalvo è un veterano dell’informazione italiana: profetico innocentista sul caso Tortora, redattore al “Giorno” e al “Corriere”, fautore dei primi Tg berlusconiani, infine dirigente Rai. E autore prolifico di saggi coraggiosi (e subito scomparsi dalle librerie) come quelli dedicati alle dinastie Agnelli e Caracciolo. «Non dico che Edoardo non si sia ucciso, né che sia stato suicidato», ribadisce a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Dico solo che, a 19 anni dal decesso, non sappiamo come sia morto: se si è tolto la vita, se è stato ucciso. Se è uscito di casa da solo, oppure no. Se è stato deposto già cadavere ai piedi di quel viadotto. L’unica verità è che non lo sappiamo». Riparlare della sua morte, osserva il giornalista, sembra sempre una cosa sgradevole, «come se si volesse rivangare il passato e non lasciare in pace un signore che è morto a 46 anni, in circostanze che sono ancora oggi misteriose, anzi misteriosissime». Stranezze: «Dopo 19 anni, il fascicolo presso il tribunale di Mondovì è ancora secretato, nonostante ci siano state inchieste, e nonostante io e alcuni avvocati abbiamo inviato alla Procura di Mondovì il mio libro “Agnelli segreti”, dove sono indicati 48 punti che rivelano come NON sono state fatte le indagini, come si è voluto nascondere una serie di responsabilità notevoli».Niente complottismi: solo fatti documentati. «Una massiccia campagna di stampa orchestrata dall’ufficio pubbliche relazioni della Fiat, quindi per ordine della famiglia, ha sempre voluto far credere che Edoardo si fosse suicidato». Chiariamoci, premette Moncalvo: «Tutte queste voci attorno alla sua morte si sono diffuse proprio a causa della mancata chiarezza fatta da chi aveva il potere e il dovere di intervenire: il primis il procuratore capo di Mondovì, Riccardo Bausone, ora in pensione». Edoardo «poteva dare fastidio, pur nella sua irrequietudine», nonostante «le trappole in cui era caduto». Per esempio, nel ‘90, l’incidente di Malindi, in Kenya: fermato dalla polizia per possesso di stupefacenti. «Un arresto avvenuto con accompagnamento di telecamere, cioè in una maniera che destava molti sospetti sulle modalità e sugli scopi di quella vicenda». La storia poi accelera di colpo nel ‘97, quando si spegne (a soli 33 anni) il cugino Giovannino, cioè Giovanni Alberto Agnelli, figlio di Umberto, dipinto dai giornali, erroneamente, come ipotetico delfino dell’Avvocato. Al suo posto, nel Cda Fiat, anziché Edoardo viene inserito stranamente l’imberbe John. Per protestare, il primogenito chiama Paolo Griseri, affidando al “Manifesto” la più clamorosa delle interviste: non creda, mio padre, di sbarazzarsi di me.Attenzione: «Edoardo era considerato una sorta di lebbroso, un ragazzo da evitare. Per offenderlo, screditarlo e diffamarlo, si diceva: Edoardo è matto, drogato e sbalestrato, impregnato di teorie e filosofie confuse, piene di astrattismi e di utopie». Obiettivo: isolarlo. Griseri, oggi redattore di “Repubblica”, violò l’embargo. Incontrò il giovane Agnelli al convento dei cappuccini di Torino, una sera di nebbia. Ne uscirono frasi lapidarie. Un avvertimento: come erede, mi spetterà un terzo dalla Fiat, della Exor, dell’Accomandita Giovanni Agnelli e soprattutto della Dicembre, la società strategica che domina tutto. «Una dichiarazione che a qualcuno fa tremare i polsi: non si illuda, mio padre – precisa Edoardo – di scrivere o di disporre che quel terzo di diritto che mi spetta, delle azioni, mi venga liquidato convertendolo in denaro. No: io voglio le azioni, come mio diritto. Voglio verificare i bilanci della società, controllare i prodotti della Fiat». Edoardo lo mette proprio in chiaro: non accetterà di essere messo alla porta con una buonuscita zeppa di milioni. Vuole poter pesare, dire la sua. Per questo, esigerà un terzo della partecipazione azionaria.Prende anche le distanze da John Elkann: mi meraviglia, dice, che mio padre lo abbia nominato. E’ stato un grosso errore: la nomina di “Yaki” è stata decisa contro le perplessità di mio padre, che infatti all’inizio non voleva dare il suo assenso. «Come se (e qui fa una rivelazione importante) Gianni Agnelli fosse stato in qualche modo convinto, forzato, costretto a nominare John nel Cda?». Edoardo dice che “qualcuno” ha spinto il padre ad agire in quel modo. Moncalvo pensa a Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, «i due “consiglieri della corona”, i due Richelieu della real casa torinese». Quasi ci fosse la seguente configurazione: intanto prepariamo il terreno a ciò che accadrà dopo la morte dell’Avvocato, all’epoca in precarie condizioni, reduce da 6 operazioni al cuore e tormentato da un tumore alla prostata (si spegnerà quasi 5 anni dopo, il 24 gennaio 2003). Quindi, “qualcuno” – per mantenere il potere – manovrò perché venisse fatto fuori, sul piano azionario, il figlio di Agnelli, per mettere al suo posto un soggetto come il ragazzino John, molto più controllabile, addomesticabile, condizionabile?La domanda di Moncalvo resta in sospeso, fino alle deduzioni più recenti, dopo la guerra familiare scatenata dalla sorella di Edoardo, Margherita Agnelli, sull’eredità dell’Avvocato. E se Edoardo fosse stato ancora vivo, alla morte di suo padre nel 2003? «La vedova, Marella, ha donato tutto a suo nipote John Elkann irritando la figlia, Margherita. Vivo Edoardo, alleato con sua sorella, la madre non avrebbe potuto fare quello che ha fatto, a favore di John». Quindi, ragiona Moncalvo, «la scomparsa di Edoardo ha facilitato il disegno di coloro che volevano mettere le mani sulla Fiat, o ufficialmente o dietro le quinte, o comandando attraverso un giovanotto pallido, imberbe e inesperto». Costoro, aggiunge sempre Moncalvo, se si fossero trovati sulla loro strada Edoardo Agnelli, come avrebbero potuto convincere “donna Marella” a donare la sua parte? «Come avrebbero potuto convincere John ad accoltellare sua madre, Margherita, portandole via la Dicembre e il controllo della società? E come avrebbe potuto, la stessa “donna Marella”, accoltellare alla schiena sua figlia Margherita, rompendo l’unità familiare e mettendole contro il primogenito, John? Pensate che cosa avrebbe determinato, la sola presenza di Edoardo».Solo ipotesi, naturalmente, perché Edoardo Agnelli è diventato ufficialmente un fantasma due anni e sette mesi dopo la famosa intervista al “Manifesto”. E qui Moncalvo, autorizzato da Margherita Agnelli a consultare le carte giudiziarie, spalanca il libro della vergogna. Il 15 novembre 2000, la famosa Fiat Croma viene avvistata da un addetto alla sicurezza autostradale, in sosta sul ponte che sovrasta il fiume Stura di Demonte, nel territorio di Fossano. Il corpo di Edoardo è rinvenuto, quasi intatto, 78 metri più in basso, ai piedi del viadotto. L’esame necroscopico è sommario, grossolanamente superficiale: il medico legale (non quello di turno, ma un medico chiamato apposta dal procuratore) sbaglia il peso e l’altezza del cadavere, togliendoli 20 chili e 20 centimetri. Dieci anni dopo, a “La storia siamo noi”, Giovanni Minoli farà una sua ricostruzione, “L’ultimo volo”, che cita le versioni alternative ma poi accredita la tesi del suicidio. Gli esperti in studio, si esaspera Moncalvo, «arriveranno a dire che è normale, se uno cade in piedi, che possa accorciarsi e diventare quasi nano».Gigi Moncalvo insiste sui primi istanti del ritrovamento. La polizia stradale di Cuneo, subito sul posto, viene rimpiazzata dalla polizia torinese, accorsa in forze. Il questore, Nicola Cavaliere, ha accompagnato personalmente il padre, Gianni Agnelli, a riconoscere quel che resta di suo figlio. Il procuratore Bausone fa due annunci, a caldo. Primo: non si esclude nessuna ipotesi. Secondo: sarà fondamentale l’esito dell’autopsia. Peccato però che l’autopsia non verrà mai eseguita, e che l’unica ipotesi in campo sarà quella del suicidio. L’esame autoptico, chiarisce Moncalvo, sulla carta era rischioso: se per caso nel corpo di Edoardo fossero emerse tracce di stupefacenti, sarebbe scattata d’ufficio una imbarazzante indagine parallela, a Torino, sul mondo dello spaccio eventualmente frequentato dalla vittima. Ma l’autopsia mancata, secondo Moncalvo, è solo uno degli aspetti, neppure il peggiore, della clamorosa non-indagine. La Croma era parcheggiata in modo perfetto, allineata al guard-rail, e Edoardo Agnelli non sapeva posteggiare in retromarcia. Pesava 119 chili, ed era claudicante: si aiutava col bastone, per i postumi di una caduta. In quelle condizioni, con un fisico come il suo (un metro e novanta di statura) sarebbe sgusciato dall’auto e si sarebbe arrampicato sul parapetto, alto un metro e mezzo, per poi lanciarsi sotto. E senza essere visto da nessuno, lungo un’autostrada percorsa da quasi 70 veicoli al minuto.Per la Procura di Mondovì, la prova regina dell’ipotetico suicidio è rappresentata dal Telepass a bordo della Croma, che registra ogni spostamento. Quella mattina: l’ingresso a Torino in direzione Savona, l’uscita a Marene, il rientro in autostrada fino al viadotto di Fossano. Coincide coi percorsi dei tre giorni precedenti: segno, per gli inquirenti, che Edoardo Agnelli vagasse in cerca di un ponte da cui gettarsi. Peccato, dice Moncalvo, che la vettura su cui era installato il Telepass viaggiasse a 150 all’ora: non certo la velocità ideale, per chi si sta guardando attorno in cerca del punto adatto in cui farla finita. Non solo: il Telepass non prova che Edoardo fosse alla guida della Croma. E non essendo collegato alla targa, non dimostra nemmeno che fosse installato su quella berlina: l’aggeggio infatti può essere benissimo trasferito da una vettura all’altra. Per giunta, la Croma disponeva di un navigatore Gps: quello sì, avrebbe rivelato con certezza i movimenti della vettura. «Ma il Gps non è stato controllato. Invece il Telepass, incredibilmente, è diventato l’unica prova su cui fondare l’ipotesi del suicidio». Del resto, meglio non dire: si stenta a credere che ci si sia davvero rifiutati di indagare.Eppure, visitata Villa Sole, la casa di Edoardo sulla collina torinese, la Digos – dice Moncalvo – evita di sequestrare i filmati delle telecamere di sorveglianza: sarebbe stato il primo passo, elementare. Avrebbe svelato a che ora Edoardo era uscito di casa, se era solo o accompagnato, se era ancora vivo. E se indossava già – come poi si è accertato, sotto il tragico viadotto – il suo pigiama a righe, sotto l’abito blu. E non è tutto: in casa ci sono quattro telefoni, ma nessuno chiederà alla Telecom i tabulati. Resteranno muti anche i due computer. «Erano protetti da password, dissero gli inquirenti. Per superare l’ostacolo, bastava un hacker di vent’anni». E la scorta di Edoardo? Se c’era, dormiva: «Dissero che si era allontanato senza che ne accorgessero, nonostante avessero avuto l’ordine di sorvegliarlo ovunque: la famiglia sperava che la presenza della scorta lo tenesse lontano dalla droga o da incontri con persone particolari». Cade dalle nuvole, il personale di sicurezza: dice che Edoardo se n’era andato a spasso, con la sua Croma, anche nei tre giorni precedenti. La cosa strana, osserva Moncalvo, è che la polizia non fa altre domande: anzi, si accontenta di un memoriale consegnato loro dai vigilantes, evidentemente preparato dalla società, la Orione, che gestisce la security del mondo Fiat.Secondo Moncalvo, a rendere gli agenti della Digos così accondiscendenti possono aver giocato tanti aspetti: il potere immenso della famiglia Agnelli, i rapporti personali del questore con l’Avvocato, e forse anche il miraggio di lasciare un giorno la divisa per un posto tra le guardie dell’Orione, dove si rischia meno e si guadagna il doppio? Ma quello che lascia maggiormente stupefatti, dice Moncalvo, è innanzitutto il comportamento della magistratura. «Dieci giorni dopo il ritrovamento – racconta il giornalista – al procuratore di Mondovì arriva una lettera anonima, proveniente da un carcere di massima sicurezza del Nord Italia». Si parla apertamente di omicidio, riguardo alla fine di Edoardo. La lettera l’ha scritta probabilmente un detenuto condannato per reati di mafia, dato che (in altre sue parti) contiene riferimenti precisi a una vicenda criminale molto grave. «Nella lettera vengono accusati alcuni magistrati». Nel momento in cui Bausone riceve la missiva, per dovere d’ufficio la trasmette alla Procura generale di Torino, allora retta da Giancarlo Caselli. «Bausone allega un proprio appunto, in cui dice: è arrivata questa lettera, anonima, che formula ipotesi sui mandanti e sul modo in cui è morto Edoardo Agnelli. Ma posso assicurare che si tratta di un evidente caso di “precipitazione”».Quindi, sintetizza Moncalvo, «a soli 10 giorni dalla morte, senza aver svolto indagini, Bausone ha già deciso che Edoardo Agnelli si è suicidato». E questo, nonostante il minuzioso rapporto della Polstrada di Cuneo: Edoardo Agnelli avrebbe guidato la sua auto fino a Fossano, ma come un fantasma, senza lasciare tracce. «Sulle superfici lisce della Croma non ci sono impronte. Volante, cambio, autoradio, radiotelefono, sedili, portiere, maniglie. E Edoardo non portava guanti». Senza impronte anche gli oggetti a bordo: una bottiglia d’acqua bevuta a metà, 11 scatole di fiammiferi, 8 confezioni di filtri David Ross, 11 confezioni di panni per la pulitura delle lenti. Non un’impronta neppure sui 5 bloc notes con fogli manoscritti: con scritto cosa, poi? Non lo si sa. Niente tracce sulle 5 cartine geografiche, sulle 2 mappe fotocopiate, sui 4 blocchetti di prelievo materiale. Nessuna impronta digitale sui 2 telecomandi, sulla lampada di emergenza, sullo spolverino, sulle 5 audiocassette. Su quell’auto, Edoardo non aveva mai lasciato un’orma, nemmeno nei giorni precedenti?L’assenza di impronte lascia sbalorditi, dice Moncalvo: «Morire che ci sia un poliziotto, un questore, un capo della Digos – ma soprattutto un magistrato – che non rimanga stupefatto come lo siamo rimasti noi». Logica deduzione: «Solo un’organizzazione criminale di altissimo livello arriva a “ripulire” perfettamente da ogni tipo di impronte ogni superficie, interna ed esterna, di un’automobile». Mafia? Servizi segreti? E chi lo sa. Nessuno ha incalzato la scorta, per capire come mai Edoardo fosse stato lasciato libero di allontanarsi. Nessuno ha mai chiesto nemmeno all’autogrill sull’autostrada, dice Moncalvo, se per caso, quel maledetto 15 novembre, qualche automobilista di passaggio non avesse intravisto un uomo alto quasi due metri, praticamente zoppo, arrampicarsi sul parapetto. «Di fronte a un sospetto suicidio – ricorda il giornalista – si indaga per induzione al suicidio: qualcuno potrebbe aver spinto il malcapitato alla disperazione, per qualsiasi motivo (di salute, finanziario, sentimentale), magari comunicandogli notizie false. Si tratta ovviamente di un reato gravissimo».Quella fatidica mattina, risulta che Edoardo Agnelli abbia chiamato suo padre, per il quale nutriva una sorta di venerazione, restando però in linea solo per dieci secondi. Poi ha chiamato lo zio, Carlo Caracciolo, con cui era sempre stato in ottimi rapporti. Cosa si dissero? Non si sa, dice Moncalvo: nessuno gliel’ha chiesto. «Normalmente, si interrogano le ultime persone con cui la vittima ha parlato, per appurare se trasparisse un suo eventuale stato di angoscia». Invece, in questo caso, «il procuratore Bausone non ha sentito né il padre, né la madre, né lo zio, né la sorella». Alberto Bini, il procuratore di Edoardo, ha detto che quella mattina il figlio dell’Avvocato aveva chiamato il dentista, per disdire un appuntamento: per che motivo? «La polizia – aggiunge Moncalvo – non ha sentito nemmeno il centralinista di casa Agnelli, giusto per verificare se ci fosse stata davvero, quella telefonata al padre. Né sono stati sentiti Gabetti e Grande Stevens». Ufficialmente, infatti, Edoardo lavorava all’Ifi, Istituto Finanziaro Italiano, e quindi era un dipendente di Gabetti, «che avrebbe potuto dire se c’erano preoccupazioni, se Edoardo si trovava bene, o se magari creava problemi».In compenso, Margherita Agnelli rivela che, quella stessa mattina, Edoardo aveva telefonato a suo marito, Serge De Pahlen. A suo cognato, Edorado disse: so che sei a Torino, vediamoci più tardi e andiamo a pranzo insieme. «Strano, per uno che sta per suicidarsi». A meno che, appunto, sul viadotto di Fossano non sia mai salito Edoardo Agnelli, ma solo il suo fantasma: un uomo invisibile, capace di guidare senza lasciare impronte. Zoppicante, ma agile come un gatto: lesto ad arrampicarsi – non visto da nessuno – sul parapetto. Per poi finire 78 metri più in basso, coi mocassini ai piedi e gli occhiali ancora al loro posto. Insiste Moncalvo: restiamo ai fatti, tralasciando i complottismi (fioriti inevitabilmente a causa delle troppe reticenze). «L’unica vertà accertata è che Edoardo è morto. Ma parlare ancora di suicidio, dopo 19 anni, è una vergogna». Curiosità: il tragico viadotto di Fossano è dedicato al generale dei carabinieri Franco Romano, morto due anni prima di Edoardo. Cadde in elicottero, «un incidente strano». Dopo una prima tappa in val d’Aosta, sarebbe volato fino al Sestriere per commemorare Giovannino Agnelli. Il generale sfortunato e il figlio dell’Avvocato: due destini di morte, in qualche modo collegati a quel viadotto. E un’unica simbologia, la “precipitazione”: la caduta dall’alto, a troncare la vita di chi contava molto.Edoardo Agnelli, figlio del presidente della Fiat, è morto il 15 novembre del 2000. Come? Esattamente, non si sa. Il suo fantasma, invece, si aggira senza pace da ormai 19 anni, senza il conforto di una messa di suffragio, di un pietoso necrologio. Strano fantasma, Edoardo Agnelli: uscito di scena poco prima della morte dell’Avvocato, e dopo l’improvvisa investitura di John Elkann. Morto dopo aver detto che – da erede di un terzo dell’impero industriale – avrebbe messo il naso nei bilanci. Quel 15 novembre, l’irrequieto Agnelli junior (anomalo, imprevedibile, idealista) era già un fantasma: uscito di casa non si sa come, perso di vista dalla scorta. Secondo gli inquirenti avrebbe guidato la sua Croma senza però lasciare tracce: non un’impronta digitale, nemmeno sul volante. Non indossava guanti: nel caso, li avrebbero trovati insieme a tutto il resto, ai piedi del fatale viadotto sulla Torino-Savona dove emerse il corpo, 78 metri più in basso. Strano ritrovamento: era riconoscibile, non sfracellato, senza sfondamento della cassa toracica. Le bretelle allacciate, le scarpe non stringate (mocassini) ancora ai piedi, gli occhiali rimasti sul naso. Dopo un volo di quasi cento metri? Ebbene sì, e caso chiuso: suicidio.
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Moncalvo: silenzio assordante sulla fuga della Fiat in Francia
«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?Categoria alla quale peraltro appartiene lo stesso Moncalvo, cronista di rango, già attivo su alcune tra le maggiori testate italiane (collaboratore di Maurizio Costanzo, Piero Ottone e Guglielmo Zucconi) nonché giornalista sulle reti Mediaset e infine dirigente Rai. Negli ultimi anni, con esplosivi libri-inchiesta (”I lupi e gli Agnelli”, “Agnelli segreti”, spariti dalle librerie ma disponibili attraverso il sito dell’autore), Moncalvo si è concentrato nello scavare tra “ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia”. Fino a scoprire cosa? Questo: che un potere-ombra, finanziario e anglosassone, si sarebbe impossessato del controllo politico della Fiat già dal dopoguerra, fino poi a “imporre” che l’eredità di Gianni Agnelli finisse a John Elkann, il quale – giovanissimo – alla scomparsa dell’Avvocato mise l’impero Fiat nelle mani del manager finanziario Sergio Marchionne, campione del neoliberismo americano. Moncalvo evoca anche «rabbini francesi e grembiulini» nell’orbita di John Elkann, alludendo al ruolo del padre, il giornalista e scrittore Alain Elkann, membro del potentissimo Jewish Institute e figlio del banchiere, industriale e rabbino francese Jean-Paul Elkann. Dietro alla “real casa” torinese, attraverso il ramo Elkann oggi al comando, aleggia il potere del B’nai B’rith, elusiva massoneria sionista?Ne parlò il saggista e massone Gianfranco Carpeoro, a proposito della strana fine di Edoardo Agnelli nel 2000: il figlio “ribelle” dell’Avvocato, che in un’intervista al “Manifesto” aveva annunciato l’intenzione di volersi occupare del destino della Fiat, si sarebbe convertito all’Islam, e addirittura alla confraternita mistica dei Sufi. Una foto lo ritrae a Teheran in una sessione di preghiera guidata dall’ayatollah Alì Khamenei, guida suprema della ierocrazia sciita. Fu proprio l’Iran ad accusare il Mossad, il servizio segreto israeliano, della morte di Edoardo Agnelli, precipitato da un viadotto autostradale in circostanze mai del tutto chiarite. Forse per motivi di pura propaganda politica anti-sionista, Teheran accusò la “lobby ebraica” di aver sostanzialmente propiziato l’eliminazione di Edoardo Agnelli (caso archiviato come suicidio) per poter poi mettere completamente le mani sull’impero Fiat dopo la morte di Gianni Agnelli. Dietrologie, semplici illazioni, addirittura insinuazioni senza fondamento? Dal lavoro di Moncalvo, incentrato per lo più sulla imbarazzante “guerra” familiare per l’eredità dell’Avvocato (seguita dall’ancora più imbarazzante silenzio dei media), emerge in sostanza l’impenetrabilità della governance Fiat, retta da logiche che ricordano quelle delle antiche monarchie.Carte giudiziarie alla mano, Moncalvo ha scoperto che il grosso del “tesoro” degli Agnelli è depositato all’estero, lontano dall’Agenzia delle Entrate (a Panama e in un caveau dell’aeroporto di Ginevra), e che i due uomini-ombra dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti e Franzo Grande Stevens, manovrarono – insieme ai notai, e d’intesa con la vedova Agnelli, Marella Caracciolo – per favorire in modo esclusivo l’allora giovanissimo John Elkann, entrato nel board Fiat a soli 21 anni. Oggi, ragiona Moncalvo, la Exxor (finanziaria di famiglia) è stata stra-premiata con un “bonus” di oltre 5 miliardi dai futuri partner francesi, che in cambio però prenotano il controllo del colosso Fca-Psa, che verrebbe affidato a Carlos Tavares, l’uomo-Peugeot. Una maxi-buonuscita agli Elkann per lasciare il timone alla Francia, il cui governo oltretutto controlla il 13% del gruppo che include Peugeot, Citroen e Opel? Secondo “Money.it”, Fca porta in dote 102 stabilimenti e un fatturato da oltre 110 miliardi, con marchi come Fiat e Jeep, Lancia, Abarth, Alfa Romeo, Maserati, Chrysler, Dodge, Fiat Professional e Ram. Da canto suo, Psa (che possiede anche Ds Automobiles e Vauxhall) mette sul piatto appena 45 stabilimenti e un giro d’affari da 74 miliardi, inferiore quindi a quello dell’ex Fiat.In sostanza: i francesi offrirebbero di meno ma otterrebbero di più, dopo aver “premiato” a suon di miliardi i torinesi, forse ansiosi – da tempo – di disimpegnarsi dal settore auto? Se è presto per trarre conclusioni, visto che ogni giorno emergono precisazioni sullo sviluppo dell’accordo, ancora in corso nella sua definizione, è sconcertante – rileva Moncalvo – il silenzio assordante del sistema-Italia, di fronte a una notizia di questa portata. Gli stessi sindacati si limitato a mormorare: forse, auspica Landini, la fusione rafforzerà il comparto industriale. Certezze, nessuna: quand’era a capo della Fiom, Landini si vide beffare dall’inesistente Fabbrica Italia, il piano di rilancio solo vagheggiato da Marchionne. Ma ancora più clamoroso è il silenzio dei media nazionali e della stessa politica, evidenziato dall’assenza totale – nella vicenda – del governo Conte. E se chiuderanno gli stabilimenti del centro-sud? Visto che a decidere saranno i francesi, come possono dormire sonni tranquilli gli operai di Melfi, Pomigliano e Termini Imerese? Nessuno sembra domandarselo: silenzio di tomba. Muti i giornali, zitti i partiti, non pervenuto Palazzo Chigi. Purtroppo, la cosa non stupisce: solo in Italia, ricorda Moncalvo con amarezza, nel 1991 – per timore di dispiacere ai signori della Fiat – fu tradotto col titolo “Il silenzio degli innocenti” il film-kolossal di Jonathan Demme, con Jodie Foster e Anthony Hopkins. Nel resto del mondo, il titolo originale (”The silence of the lambs”) fu tradotto correttamente: il silenzio degli agnelli.«Tutti parlano giustamente del problema dell’Ilva e dei posti di lavoro a rischio a Taranto, ma nessuno – sottolineo, nessuno – parla dei posti che salteranno per la vicenda Fca-Psa». Perché nessuno ne parla? Molto semplice, risponde Gigi Moncalvo: «Nessuno osa rispondere al seguente interrogativo: quando ci sarà da decidere la sorte, la chiusura degli stabilimenti in Italia (Pomigliano d’Arco, Termini Imerese, Melfi e chi più ne ha, più ne metta), secondo voi prevarrà la volontà e la decisione dei 6 consiglieri (su 11) della corporation francese, oppure prevarrà la tesi di una società che ormai è olandese, londinese e americana?». Ormai l’ex Fiat – per decenni sorretta finanziariamente dallo Stato italiano – è infatti una società di diritto olandese con domiciliazione fiscale nel Regno Unito (e domiciliazione borsistica negli Usa). Insiste Moncalvo, dai microfoni della trasmissione web-radio “Forme d’Onda“, ripreso anche su YouTube: «Che cosa gliene importerà, all’ex Fiat, ormai olandese, londinese e americana, della sorte di Pomigliano d’Arco, Melfi, Termini Imerese e tutto il resto?». L’accusa di Moncalvo è esplicita: «I media tacciono, sull’accordo franco-italiano, perché la Fiat continua a riversare fior di soldi, in termini pubblicitari, su giornali e televisioni». Un modo per avere “buona stampa”, cioè in questo caso stimolare il silenzio dei giornalisti?
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Moncalvo: perché Salvini continua a tacere su Moscopoli?
«Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.Secondo Moncalvo, Salvini – con le vele gonfiate dai sondaggi e ora anche dall’esito delle regionali in Umbria – potrebbe sempre dichiararsi vittima di un’ingiusta persecuzione, da parte delle toghe, nel caso in cui “Moscopoli” dovesse esplodere, carte giudiziarie alla mano, alla vigilia delle prossime elezioni politiche. Pietra dello scandalo, a livello televisivo, il servizio realizzato da Giorgio Mottola per “Report”, in cui – fra l’altro – si evidenzia il legame tra Salvini e l’oligarca russo Konstantin Valeryevič Malofeev, ultra-tradizionalista, a capo di un vero e proprio impero editoriale. Malofeev è impegnato in una crociata contro i gay, definiti «sodomiti, pederasti», letteralmente. «La paura sbianca il volto di Salvini quando, a Pontida, Mottola gli domanda se conosce Malofeev». Risultato: scena muta. «Ma Salvini – prosegue Moncalvo – si è rifiutato di parlare con “Report” anche in seguito: Mottola infatti aveva chiesto per ben tre volte, alla sua segreteria, di organizzare un incontro per consentire al leader della Lega di replicare, dandogli l’opportunità di offrire la sua versione su ogni aspetto del servizio televisivo trasmesso da RaiTre il 21 ottobre».Le polemiche della Lega indurranno “Report” a trasmettere altro materiale sul tema, aggiunge Moncalvo, che rivela che il servizio fu realizzato già a luglio, quando Salvini era ancora ministro dell’interno e vicepremier. Moncalvo mette in relazione “Moscopoli” con la repentina scelta di Salvini di staccare la spina al governo gialloverde, sorprendendo lo stesso Giancarlo Giorgetti. «Salvini ha deciso tutto da solo, e neppure Giorgetti conosceva il motivo di quella decisione», dice Moncalvo, che nel servizio di “Report” svolge un ruolo di primo piano: ricorda di quand’era direttore de “La Padania” e tentò inutilmente di allontanare Salvini. «Pur essendo giornalista – afferma Moncalvo – Salvini non ha mai scritto un articolo in vita sua». Lo tratteggia come un opportunista sfrontato e ambizioso. All’epoca – ha raccontato lo stesso Moncalvo di fronte alle telecamere di “Report” – ebbe ripetuti scontri con Salvini, definito assenteista e pronto a che a gonfiare la sua nota spese. Un giorno, l’allora leader dei giovani leghisti affrontò il direttore della “Padania” con queste parole: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente».Che ci siano vecchie ruggini, tra Moncalvo e Salvini, appare evidente. Altrettanto palese, per contro – come sottolinea il giornalista – è l’impenetrabile silenzio del leader leghista su “Moscopoli”. Reticenza? «Alle domande – insiste Moncalvo – Salvini non ha mai voluto rispondere, in nessuna sede». Spesso, Salvini è ricorso all’umorismo, o se l’è cavata con la formula: «Se ne sta occupando la magistratura». Giornalisti e avversari insistono: che ci faceva, Savoini, a Mosca? A che titolo avrebbe trattato una sorta di maxi-tangente su una fornitura di idrocarburi? A monte, è nota la difficoltosa situazione finanziaria della Lega, costretta – dalla magistratura genovese – a consegnare allo Stato 49 milioni di euro, a causa di vecchie irregolarità imputate alla gestione Bossi. Attenzione, avverte Luca Telese: non si tratta di soldi “rubati” dalla Lega. Di fronte all’originario ammanco accertato (un paio di milioni, forse meno), il partito è stato dichiarato – a posteriori – non idoneo a percepire finanziamenti. Diversi giuristi hanno trovato insolita la condanna: per colpa del mini-buco della Lega Nord di Bossi, alla nuova Lega di Salvini si è chiesto di “restituire” altri soldi, quelli ricevuti successivamente (e regolarmente spesi per l’ordinaria gestione politica, gli stipendi dei funzionari e le spese elettorali). Questo – si domanda qualcuno – potrebbe aver spinto Salvini a spedire Savoini a Mosca in cerca di finanziamenti russi in vista delle europee?Quello su cui invece “Report” evita accuratamente di indagare è la fonte del presunto scandalo: quale servizio segreto avrebbe intercettato Savoini, per poi far pervenire gli audio del Metropol alla magistratura milanese? Servizi russi? Americani? Italiani, addirittura, su ordine di Conte? La domanda è di importanza capitale, perché permette di mettere a fuoco la regia di quella che appare come una classsica “imboscata”, dunque il movente politico e i relativi mandanti. In attesa che la questione si chiarisca, Moncalvo ribadisce: il silenzio di Salvini è imbarazzante e inaccettabile, qualunque cosa sia avvenuta a Mosca. Sempre Moncalvo, nel servizio di “Report”, traccia un profilo non entusiasiamente del rapporto tra Salvini e il fido Savoini, descritto come animato da simpatie per l’iconografia nazista e a lungo frequentatore dell’estremista di destra Maurizio Murelli. Per Moncalvo, addirittura, fu proprio Savoini a “plasmare”, letteralmente, il giovane Salvini, dando una sorta di formazione politico-culturale a quello che allora era poco più che un semplice militante, con scarsa dimestichezza con i libri. In ogni caso, sostiene Moncalvo, Salvini farebbe meglio a parlare, fornendo finalmente agli italiani la sua versione sulla storia del Metropol.(Gigi Moncalvo è un giornalista di lungo corso: ha lavorato al “Corriere della Sera”, a “L’Occhio” e al “Giorno”, collaborando con Piero Ottone, Maurizio Costanzo e Guglielmo Zucconi (la sua direzione della “Padania” è relativa al periodo 2002-2004). A lungo impegnato nelle reti berlusconiane, è poi approdato in Rai (fino al 2008 è stato dirigente, capostruttura dell’informazione di RaiDue). Letteralmente esplosivi i saggi pubblicati a partire dal 2009 da Vallecchi: “I lupi e gli Agnelli: ombre e misteri della famiglia più potente d’Italia, “Agnelli segreti” e “I Caracciolo: storie, misteri e figli segreti di una grande dinastia italiana”. Libri stranamente scomparsi dalle librerie poco dopo l’uscita, specie quelli sulla “real casa” torinese: pagine in cui Moncalvo racconta come John Elkann sia stato aiutato ad acquisire l’eredità di Gianni Agnelli, in una Fiat sostanzialmente in mano alla finanza Usa, dal primissimo dopoguerra all’imposizione di Marchionne. Nel mirino di Moncalvo, ora, è finito Salvini).«Male non fare, paura non avere. Ma soprattutto: non tacere». Gigi Moncalvo, giornalista di razza, attacca frontalmente Matteo Salvini, sottolineando l’evidente imbarazzo del leader leghista di fronte al caso “Moscopoli”. Sul tappeto, l’ipotetico affare petrolifero di cui il suo emissario a Mosca, Gianluca Savini, avrebbe parlato un anno fa all’Hotel Metropol con alcuni esponenti del potere politico-economico russo. «Fino a quando Salvini (vigliaccamente, senza coraggio) continuerà a tacere?», si domanda Moncalvo, nella rubrica “Silenzio stampa” della trasmissione web-radio “Forme d’Onda”, condotta da Stefania Nicoletti e Rudy Seery. Il capo della Lega, ricorda Moncalvo, si avvale tuttora dell’immunità parlamentare che lo protegge, virtualmente, dall’indagine aperta dalla Procura di Milano: nel caso i magistrati ravvisassero effettive irregolarità, dovrebbero chiedere al Parlamento il permesso di procedere contro di lui. Un Parlamento, peraltro – come ricordato polemicamente da Vittorio Sgarbi – dove lo stesso premier Conte (ascoltato dal Copasir per il caso Russiagate) e i leader dei maggiori partiti (le indagini sul figlio di Grillo, le sentenze sui genitori di Renzi) si sono dovuti occupare di questioni giudiziarie gravide di scomodi riflessi mediatici.
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Moscopoli: ‘Report’ evita l’unica domanda che conti davvero
L’unica notizia, nel lenzuolone televisivo “La fabbrica della paura” firmato da Giorgio Mottola sul caso Moscopoli, è il ritrattino poco edificante che di Salvini e Savoini fornisce un veterano del giornalismo come Gigi Moncalvo, allora direttore della “Padania”: il giovanissimo Salvini era assenteista e falsificava le note spese, mentre Savoini (suo mentore occulto) venerava icone naziste, afferma l’autore di libri scomodi come “Agnelli segreti”. Moncalvo è esplicito: quando chiese l’allontanamento di Salvini dal giornale leghista, il giovane Matteo lo sfidò: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente». A parte questo, “Report” si limita – in un’ora di televisione – a imporre ai telespettatori, il 21 ottobre, una tesi a senso unico: Salvini è un mascalzone pericoloso. Le “prove” a carico: esponenti del Carroccio entrarono in contatto con neofascisti come Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso un poliziotto. Così la Lega ha finito col trovarsi al centro di una “internazionale nera”, estesa da Washington a Mosca, basata sul recupero politico del tradizionalismo religioso, familista e nazionalista. Una rete che finanzia progetti teoricamente eversivi e mirati a far implodere l’attuale Ue (che per “Report”, evidentemente, è sacra). Unico appiglio offerto: la famosa intercettazione di Savoini a Mosca, un anno fa. Chi la effettuò? Mistero.Per “Report”, comunque, va bene così: basta che i telespettatori disprezzino la Lega, senza neppure sapere chi avrebbe cercato di “incastrarla”. Seriamente: anche in seguito a quel polverone il governo italiano è caduto, ma a “Report” non interessa provare a spiegare chi ha spinto i gialloverdi alle dimissioni, e perché. Lo stile della trasmissione, ora condotta da Sigfrido Ranucci, eredita il marchio fuorviante impresso da Milena Gabanelli: fragorosi depistaggi. Mai una vera indagine sul potere (dopo la dipartita di Paolo Barnard) e inchieste aggressive solo nei toni, in apparenza “contro”, ma in realtà perfettamente allineate ai voleri dell’establishment: vedi l’improvvisa liquidazione del populista Antonio Di Pietro, di colpo presentato come gestore inaffidabile dei finanziamenti pubblici del suo partito, nel momento in cui “serviva” travasare l’elettorato dell’Italia dei Valori nell’esordiente Movimento 5 Stelle (altro fumo negli occhi destinato agli elettori “arrabbiati”). L’infaticabile Mottola ha messo insieme una notevole mole di dati, tutti però di secondo piano. Ha acceso i riflettori su un mondo sommerso – il greve retrobottega anche affaristico del fondamentalismo cristiano russo e americano, insospettabilmente interconnesso – ma senza mai collocare le notizie all’interno di un’analisi capace di fornire deduzioni decisive per leggere l’attualità, depurandola dal foklore.Salvini? Avvicinato (quasi molestato) solo e sempre a margine di comizi, tra nugoli di fan in coda per i selfie di rito: in quei momenti, in mezzo alla folla, all’odiato “capitano” è stato chiesto di parlare dei suoi eventuali legami con remoti oligarchi russi. L’unico scopo evidente degli spettacolari “agguati”, in stile “Le Iene”, era trasmettere il seguente messaggio: lo spregevole Salvini evita di rispondere perché sa di essere colpevole e teme la verità. E quale sarebbe, per “Report”, la verità? Con l’aria di inoltrarsi tra le SS di Himmler nel tenebroso maniero di Wewelsburg, le telecamere incalzano i seguaci di Steve Bannon nella Certosa di Trisulti, in Ciociaria, che secondo i piani doveva diventare il Vaticano del “sovranismo” europeo. Da Frosinone a Mosca, stessa musica: si delizia, “Report”, nel cogliere l’apprezzamento di Salvini nelle parole del filosofo neo-conservatore Alexandr Dugin, ideologo presentato come ispiratore di Putin (e in Italia, esaltato da Diego Fusaro). Dio, patria e famiglia? Ricetta specularmente opposta e complementare, rispetto alla teologia globale neoliberista che dice di voler contrastare.Rifugiandosi nel mitico buon tempo antico, magari quello dello zarismo che spediva in Siberia qualsiasi dissidente, l’attuale sovranismo sembra il binario morto costruito apposta per non democratizzarla mai, la globalizzazione in atto. Mondialismo neoliberale e neo-sovranismo: due facce della stessa medaglia, interpretate da soggetti che in realtà giocano nella stessa squadra e con lo stesso obiettivo, addormentare le coscienze politiche o al massimo deviarle verso falsi bersagli, comodamente sbaraccabili al momento giusto (Di Pietro docet) quando non serviranno più a infervorare gli elettori più sprovveduti. Ma questi probabilmente sono spunti impensabili, per “Report”, che sembra trattare gli spettatori come bambini dell’asilo. Nella fiaba di giornata, il cattivo è Putin. Gli oligarchi euro-atlantici, invece, sono mammolette? Nel fanta-mondo di “Report”, se lo Zar del Cremlino è il Dio del misterioso Savoini (anima nera del bieco Salvini), il capo della Lega è una sorta di enigma: chi è davvero l’Uomo Nero di Pontida? E’ il classico utile idiota, accecato dall’ambizione e quindi comodamente sfruttato dalla micidiale Spectre sovranista, oppure è una specie di genio del male pronto a distruggere la meravigliosa armonia democratica dell’Unione Europea, modello mondiale di felicità?Avvilente il bilancio giornalistico del servizio televisivo: un’ora di speculazione elettorale contro il salvinismo, senza mai neppure domandarsi – nemmeno per sbaglio – chi ha intercettato Savoini a Mosca, e perché, mentre parlava coi petrolieri russi ipotizzando transazioni milionarie (mai avvenute). La prova del nove la fornisce l’impareggiabile Fabio Fazio, lo zerbino di Macron pagato dagli italiani con il canone Rai: com’è possibile, si domanda, che il dossier di “Report” rimanga senza conseguenze? Ma se Fazio fa solo avanspettacolo, sia pure politicamente scorretto perché tendenzioso, in teoria “Report” dovrebbe sentire il dovere di informarli, i cittadini, e quindi farsi l’unica domanda utile per inseguire la notizia: chi ha intercettato Savoini? Sono stati i servizi di Trump, per sbarazzarsi del deludente carrozzone gialloverde? Quelli di Conte, per liberarsi di Salvini? Quelli di Putin, che potrebbe aver “venduto” l’amico Salvini in cambio di qualcos’altro, sullo scacchiere geopolitico? C’è stata una concertazione internazionale incrociata per ottenere il cambio di governo a Roma? La notizia starebbe proprio qui: e invece “Report” galoppa dalla parte opposta, portando a spasso i telespettatori lontanissimo dall’accaduto. Qualcuno ha passato gli audio del Metropol al sito americano “BuzzFeed”. Già, ma chi? E quindi: perché? Inoltre: chi è “BuzzFeed”? Con chi parla? Con chi lavora? Qualcuno lo finanzia?Tra i nuovi fenomeni web, nel confine ambiguo tra giornalismo e intelligence, si è imposto recentemente il “Site” di Rita Katz, un tempo considerata vicina al Mossad israeliano, sempre prontissima a divulgare – in esclusiva – le imprese dell’Isis. Nella famosa serata moscovita in quello che è conosciuto anche come “l’albergo delle spie”, c’era un russo la cui identità non è ancora nota. Al Metropol, si dice, anche i muri hanno orecchie. Chi ha deciso, il 18 ottobre 2018, che la corsa italiana della Lega andava fermata con un possibile ricatto? Se gli italiani si aspettano risposte da “Report”, buonanotte. La polpetta avvelenata proviene ovviamente da qualche 007. Lo scopo: indurre i giornali a colpire, nella direzione indicata. Compito che “Report” esegue pedestremente, obbedendo e facendosi usare senza porsi domande. Non stupisce, peraltro: Barnard, co-fondatore della trasmissione, mise in difficoltà la redazione (allora scomoda, per la Rai) con inchieste taglienti. Memorabili le amnesie di Fassino sulle malefatte della globalizzazione, o la sconcertante confessione di Prodi quand’era a capo della Commissione Ue. Testualmente: come faccio a sapere quali e quante direttive emaniano? Fulminato, Barnard, per un’inchiesta sugli abusi di Big Pharma censurata dalla Gabanelli: se la trasmettiamo, gli disse, ci chiudono. Benissimo, rispose Barnard: lo facciano, daremo battaglia. A finire fuori, invece, fu lui. “Report” ovviamente è rimasto, ma abdicando al suo ruolo originario: l’antica grinta ribelle oggi serve solo a raccontare favole innocue per il potere, e magari – come in questo caso – confezionate direttamente da misteriosi servizi segreti.(Giorgio Cattaneo, “Moscopoli, la fabbrica della paura creata dagli 007: da Report nessuna risposta sul caso montato da chi voleva far cadere il governo italiano”, dal blog del Movimento Roosevelt del 24 ottobre 2019).L’unica notizia, nel lenzuolone televisivo “La fabbrica della paura” firmato da Giorgio Mottola sul caso Moscopoli, è il ritrattino poco edificante che di Salvini e Savoini fornisce un veterano del giornalismo come Gigi Moncalvo, allora direttore della “Padania”: il giovanissimo Salvini era assenteista e falsificava le note spese, mentre Savoini (suo mentore occulto) venerava icone naziste, afferma l’autore di libri scomodi come “Agnelli segreti”. Moncalvo è esplicito: quando chiese l’allontanamento di Salvini dal giornale leghista, il giovane Matteo lo sfidò: «Tu passi, io resto. E diventerò molto più potente». A parte questo, “Report” si limita – in un’ora di televisione – a imporre ai telespettatori, il 21 ottobre, una tesi a senso unico: Salvini è un mascalzone pericoloso. Le “prove” a carico: esponenti del Carroccio entrarono in contatto con neofascisti come Maurizio Murelli, condannato per aver ucciso un poliziotto. Così la Lega ha finito col trovarsi al centro di una “internazionale nera”, estesa da Washington a Mosca, basata sul recupero politico del tradizionalismo religioso, familista e nazionalista. Una rete che finanzia progetti teoricamente eversivi e mirati a far implodere l’attuale Ue (che per “Report”, evidentemente, è sacra). Unico appiglio offerto: la famosa intercettazione di Savoini a Mosca, un anno fa. Chi la effettuò? Mistero.
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Tv e 5 Stelle all’assalto: addosso a Salvini, Maglie e Le Iene
Solo poltiglia italiana, dopo l’effimera stagione delle promesse gialloverdi tenute in vita dalle parole della Lega e smentite dai tradimenti a catena dei pentastellati. Impietoso il riflesso nell’acquario mediatico, dove si scivola ogni giorno più in basso. Tanto per non smentirsi, piuttosto che guardare in faccia la realtà, i 5 Stelle (dilaniati da dissidi interni dopo l’alleanza col Pd imposta da Grillo d’intesa con Renzi) se la prendono coi giornalisti non allineati, come Maria Giovanna Maglie. Su Twitter, in risposta a una critica a Virginia Raggi, l’attivista Marco Vaccari apostrofa l’ex corrispondente della Rai: «Ma che ca*** stai dicendo, giornalaia? Roma fa schifo per colpa degli idioti fannulloni imboscati incapaci ladri mafiosi collusi che hanno preceduto la Raggi». La risposta della Maglie: «Metodo 5 Stelle doc, nessuna responsabilità per il presente, quando tocca a loro: sempre colpa degli altri. E insulti a gogo, minacce di manette». Quindi, rivolta a Vaccari: «Ehi, fenomeno, la Raggi è sindaco da giugno 2016». In tre anni, non ha fatto praticamente niente. Eppure accende ancora i cuori degli hoolingan alla festa – mestissima – che i 5 Stelle hanno abborracciato a Napoli, attorno al fantasma di Di Maio. Solo che i fan hanno acceso un principio di rissa all’apparire di Filippo Roma, de “Le Iene”, accolto come un mascalzone provocatore.Tuona Vittorio Sgarbi: «Fascisti, pericolosi, minacciosi: una aggressione fisica che non ha precedenti». Aggiunge Sgarbi, «Si minimizza la violenza fascista dei 5 Stelle, mentre l’episodio d’intolleranza verso Gad Lerner a Pontida è stato stigmatizzato da chiunque». Prima ancora, «per giorni si era parlato del figlio di Matteo Salvini sulla moto d’acqua della polizia», gridando allo scandalo. Oggi, invece, «incredibilmente», si tace sulle intemperanze dei grillini a Napoli. Nel frattempo, migliaia di italiani hanno sottoscritto la protesta di Marco Moiso (Movimento Roosevelt) affidata a “Change.org”: la giornalista de “La7” è accusata di aver trasformato “Otto e mezzo” in un poligono di tiro nel quale esercitare la propria faziosità a senso unico, anche ricorrendo al bullismo del “body shaming” contro Salvini, cui è stato contestato il fisico non esattamente palestrato. Peggio: la Gruber permise a Mario Monti di mentire spudoratamente sulla massoneria (“non so nemmeno cosa sia”), evitando peraltro di citare la fonte della notizia, Gioele Magaldi, che aveva appena dichiarato l’identità massonica di Monti (superloggia reazionaria “Babel Tower”).La notizia della petizione contro la Gruber, invitata ad abbandonare la conduzione della trasmissione, è stata ripresa da “Affari Italiani”, da “Blasting News” e anche da “Libero”, il quotidiano di Vittorio Feltri. Basta comunque cambiare canale per scoprire che, Gruber o meno, la musica è la stessa: la suona, su “Rai 2”, il duetto composto da Fabio Fazio e Rula Jebreal. Nello studio di “Che tempo che fa” aleggia sempre lo stesso spettro, quello di Matteo Salvini. «Nessuno nasce razzista, bisogna imparare ad essere razzisti e ad odiare», premette la giornalista. Aggiunge: la crisi economica non aiuta le famiglie a essere generose coi migranti. Poi spara: «Purtroppo siamo ancora vittime della propaganda xenofoba di questi soggetti che utilizzano la retorica degli anni ‘20 e anni ‘30». A Napoli, i grillini insultano e minacciano l’inviato delle “Iene”, ma a tener banco da Fazio sono ancora le offese rivolte a Gad Lerner dai leghisti di Pontida. «Lui è un italiano ma di religione ebraica, quello che è successo – dice Rula – ti fa capire che la divisione non sarà solo contro l’immigrazione ma anche contro chi come te critica i sovranisti, contro chi come me ha la pelle diversa, magari contro omosessuali, handicappati e altro». Nientemeno.Quello che Fazio e la sua ospite si dimenticano di dire è che Lerner, come ricordato dallo stesso Salvini intervistato dalla Gruber, si augurò per iscritto la morte del leader leghista. Una battuta veramente infelice: peccato che Salvini non fosse nei paraggi, scrisse Lerner giorni fa, commentando l’esplosione incidentale di un missile russo. «Non è carino, che qualcuno si auguri la tua morte», ha scandito Salvini, dalla Gruber. «Chiederò scusa a Lerner per quello che è accaduto a Pontida dopo che Lerner avrà chiesto scusa a me per essersi augurato la mia morte». Questo è il tenore della narrazione giornalistica sulla politica italiana, mentre i carri armati di Erdogan marciano sul Kurdistan siriano e “l’Europa” fa scena muta, insieme alla Nato. Non solo: Bruxelles fa capire che, al di là delle promesse, non accetterà facilmente di accogliere migranti sbarcati in Italia. E mentre il governo giallorosso avvia l’ennesima, penosa lotteria per racimolare spiccioli e gestire il declino italiano a suon di tasse, Giuseppe Conte è nella bufera per il sospetto che abbia abusato dei servizi segreti per fare un favore a Trump. L’orizzonte epocale del nostro paese? Ovvio, le elezioni regionali in Umbria: Perugia, caput mundi.Solo poltiglia italiana, dopo l’effimera stagione delle promesse gialloverdi tenute in vita dalle parole della Lega e smentite dai tradimenti a catena dei pentastellati. Impietoso il riflesso nell’acquario mediatico, dove si scivola ogni giorno più in basso. Tanto per non smentirsi, piuttosto che guardare in faccia la realtà, i 5 Stelle (dilaniati da dissidi interni dopo l’alleanza col Pd imposta da Grillo d’intesa con Renzi) se la prendono coi giornalisti non allineati, come Maria Giovanna Maglie. Su Twitter, in risposta a una critica a Virginia Raggi, l’attivista Marco Vaccari apostrofa l’ex corrispondente della Rai: «Ma che ca*** stai dicendo, giornalaia? Roma fa schifo per colpa degli idioti fannulloni imboscati incapaci ladri mafiosi collusi che hanno preceduto la Raggi». La risposta della Maglie: «Metodo 5 Stelle doc, nessuna responsabilità per il presente, quando tocca a loro: sempre colpa degli altri. E insulti a gogo, minacce di manette». Quindi, rivolta a Vaccari: «Ehi, fenomeno, la Raggi è sindaco da giugno 2016». In tre anni, non ha fatto praticamente niente. Eppure accende ancora i cuori degli hoolingan alla festa – mestissima – che i 5 Stelle hanno abborracciato a Napoli, attorno al fantasma di Di Maio. Solo che i fan hanno acceso un principio di rissa all’apparire di Filippo Roma, de “Le Iene”, accolto come un mascalzone provocatore.
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Petizione: la Gruber è faziosa, va cacciata da Otto e mezzo
«Non si permetta, io non dico sciocchezze!». L’ultima a protestare è Giorgia Meloni, che si è sentita presa a sberle in trasmissione, insolentita da Lilli Gruber. Il sulfureo Vittorio Feltri definisce la conduttrice di “Otto e mezzo” con poche parole: «Capace di dirigere con grande abilità un programma brutto, un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone». Lilli Gruber? Sa anche prodursi in «qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo», sentenzia il mitico direttore di “Libero”. Perché allora non chiedere che cambi mestiere, la navigatissima giornalista di origine altoatesina che esordì al Tg2 nell’era Craxi? Facile a dirsi, ma la Lilli nazionale «ottiene buoni ascolti», aggiunge Feltri: «E Cairo, il padrone de “La7”, gongola». Tra chi non rinuncia alla speranza di vedere la televisione italiana “bonificata” dall’invadente presenza della Gruber c’è Marco Moiso, pubblicitario londinese, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «Lilli Gruber – scrive, nel testo di una petizione su “Change.org” – non sembra essere in grado di fare il mestiere della giornalista in maniera obiettiva ed equanime». L’accusa: «Il suo stile di giornalismo, giudicato fazioso (e strumentale all’agenda politico-finanziaria neoliberista), offende troppe persone per poter continuare ad avere uno spazio importante come quello di “Otto e Mezzo”».
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Militari Usa: tecnologie aliene dal 1947. Nexus: grazie, Ufo
La Us Navy avrebbe scoperto solo oggi, nel 2019, che gli Ufo esistono? «Ma mi faccia il piacere!», avrebbe detto Totò. «Benvenuti tra noi», si limita a commentare sarcasticamente il saggista Gianfranco Carpeoro, che invita a fare una piccola ricerca: «Date un’occhiata a quanti brevetti sono stati improvvisamente depositati, negli Usa, all’indomani dell’evento di Roswell». Era la notte del 3 luglio 1947: testimoni oculari dichiararono di aver avvistato un disco volante. L’astronave era in fiamme e stava precipitando nel deserto del New Mexico. Un contadino mostrò allo sceriffo alcuni rottami, probabilmente volati via dopo l’impatto. Poco dopo, intervennero le autorità per negare tutto: era solo un pallone sonda in avaria. Trent’anni dopo, il maggiore Jesse Marcel (l’inventore della storia del pallone sonda) ammise: la nostra era una bugia, per insabbiare la verità. Oggi, all’indomani del “coming out” del Pentagono a reti unificate, la rivista “Nexus” rilancia: poco prima del duemila, l’allora numero due dell’intelligence militare Usa ammise che gli alti comandi seguono da decenni gli Ufo e studiano i rottami dei dischi volanti caduti a terra. Punto di svolta, il libro “Il giorno dopo Roswell” pubblicato nel 1997 dal colonnello Philip Corso: moltissime delle nostre attuali tecnologie – dice Corso – sono di derivazione aliena, nate dal contatto con extraterrestri.
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Matteocrazia: Renzi e Salvini partner perfetti nel Circo Italia
Tu chiamala, se vuoi, Matteocrazia. Chi meglio di Salvini, per resuscitare Renzi? E chi meglio di Renzi, per aiutare Salvini ad allenarsi all’opposizione? Tramontato nonno Silvio, in giro non ci sono altri protagonisti: a meno che qualcuno non pensi, davvero, che sia qualcosa di diverso da una comparsa di lusso il professor-avvocato Giuseppe Conte, provvisoriamente miracolato dall’incerta lotteria dei sondaggi. L’altro vero protagonista, Beppe Grillo, gioca comodamente da casa, col telecomando con cui pilota la spaurita scolaresca grillina, fino a ieri guidata (in apparenza) dal capoclasse Di Maio, ora eclissato al ministero degli esteri, lasciando il mestiere diplomatico a Conte, Mattarella e Gentiloni. Altri? Non pervenuti, se non a spiccioli: il nano-liberismo all’italiana di Carlo Calenda, il mausoleo della fu sinistra di Bersani e Zingaretti, la piccola destra di complemento capitanata da Giorgia Meloni. Bipolarismo onomastico, Salvini e Renzi: coppia perfetta per reggere il palcoscenico. Il buono e il cattivo: intercambiabili, a seconda della platea. Il poeta e il contadino, il bizantino Machiavelli e il guerriero padano di Pontida.I due Mattei, in fondo, sono gli unici padroni della scena. Il fiorentino si gode la recentissima, spericolata conquista del ring. Ha letteralmente sfrattato Zingaretti, azzerato Di Maio, atterrito Conte. Un uno-due magistrale: prima il governo coi profughi grillini, poi il divorzio dal rottamificio. Uno spettacolo che deve aver letteralmente deliziato il competitore omonimo, impegnato nel facilissimo bombardamento quotidiano contro l’osceno partito trasversale delle poltrone. Che fortuna, per Salvini, scoprire in Renzi il partner ideale per recitare la commedia, in questa Italia in cui svettano giganti del pensiero politico come Marco Travaglio, Lilli Gruber e Corrado Formigli, per oltre un anno impegnati nel supremo cimento antifascista, antisovranista e antirazzista, ingaggiato con indomito coraggio per la salvezza morale, politica e spirituale della nazione. Come non chiamarli eroi, sentinelle della democrazia italiana? E’ grazie a loro, dopotutto, se il Belpaese è rimasto in Europa anziché essere annesso all’Impero Zarista, potendo oggi godere dell’immenso prestigio internazionale assicurato da statisti del calibro di Conte e Gentiloni, di cui parleranno per secoli i libri di storia.Questa coraggiosa battaglia per la libertà italiana è stata combattuta non esattamente in solitudine, certo: gli impavidi opliti della resistenza cartacea e radiotelevisiva hanno potuto beneficiare delle testate Rai, Mediaset e La7, del “Corriere” e di “Repubblica”, della “Stampa” e del “Fatto”. Giusta causa: cacciare l’usurpatore e impedire che il paese sprofondasse nella barbarie. Che meraviglia, oggi, ritrovare i vecchi amici dell’Italia, dalla Merkel a Macron, fino alla diletta Ursula, novella condottiera della gloriosa Unione Europea che tante gioie ha regalato agli italiani. Se però la festa ha un sapore imperfetto, con un che di beffardo, forse dipende proprio dall’inatteso avvento della nuovissima Matteocrazia. Si possono immaginare, le risate dei due Mattei, di fronte allo spettacolo di Salvini e Zingaretti alle prese con il terrore delle imminenti elezioni regionali, in cui si tenteranno alleanze elusive e mimetiche, deboli e perdenti. Il povero Conte già traballa: finito di negoziare ogni virgola col Matteo di ieri, gli tocca ricominciare col Matteo di oggi. Se non altro, il patetico avanspettacolo ha regalato al pubblico una verità: sono in pista gli unici due politici capaci di pensare, rischiare e decidere. E’ la Matteocrazia, appunto. E i vari Travaglio, Gruber e Formigli non possono davvero farci niente.Tu chiamala, se vuoi, Matteocrazia. Chi meglio di Salvini, per resuscitare Renzi? E chi meglio di Renzi, per aiutare Salvini ad allenarsi all’opposizione? Tramontato nonno Silvio, in giro non ci sono altri protagonisti: a meno che qualcuno non pensi, davvero, che sia qualcosa di diverso da una comparsa di lusso il professor-avvocato Giuseppe Conte, provvisoriamente miracolato dall’incerta lotteria dei sondaggi. L’altro vero protagonista, Beppe Grillo, gioca comodamente da casa, col telecomando con cui pilota la spaurita scolaresca grillina, fino a ieri guidata (in apparenza) dal capoclasse Di Maio, ora eclissato al ministero degli esteri, lasciando il mestiere diplomatico a Conte, Mattarella e Gentiloni. Altri? Non pervenuti, se non a spiccioli: il nano-liberismo all’italiana di Carlo Calenda, il mausoleo della fu sinistra di Bersani e Zingaretti, la piccola destra di complemento capitanata da Giorgia Meloni. Bipolarismo onomastico, Salvini e Renzi: coppia perfetta per reggere il palcoscenico. Il buono e il cattivo: intercambiabili, a seconda della platea. Il poeta e il contadino, il bizantino Machiavelli e il guerriero padano di Pontida.
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Grillo coi nemici dell’Italia che vogliono Draghi al Quirinale
Mister Europa osserva divertito il massacro politico italiano andato in scena in mondovisione. E’ vomitevole la marmellata di democrazia confezionata grazie al prezioso tritacarne del signor Beppe Grillo, sceso in campo a muso duro – dando ordini ai suoi valletti in Parlamento, terrorizzati all’idea di tonare al voto – per blindare il piccolo potere italiano e restituirlo interamente all’establishment europeo. Grillo obbedisce al vero potere che tiene in pugno il Belpaese dai tempi del Britannia, il grazioso panfilo che lo stesso giorno, il 2 giugno 1993, ospitò a bordo l’allora giovane direttore generale del Tesoro e il comico genovese vicino a De Mita, cacciato dalla Rai nel 1986 per una fatale battutaccia sulle ruberie dei socialisti. Mario e Beppe, due destini che tornano a incrociarsi: è grazie a Grillo se oggi il mitico Super-Mario vede avvicinarsi a grandi passi il Quirinale, quando cioè Mattarella – tra un paio d’anni – vedrà scadere il suo mandato alla presidenza della Repubblica. Sbagliava, chi scorgeva in Draghi un candidato di ferro per Palazzo Chigi dopo Conte: puntando proprio al Colle, il sommo banchiere europeo non ha commesso l’errore di rendersi inevitabilmente impopolare, mettendosi a capo di un governo-vergogna come quello che oggi Renzi e il fantasma di Di Maio si apprestano a sorreggere, calpestando la volontà popolare degli italiani.Si commenta da solo lo sconcio offerto al pubblico, anche internazionale: un governo di nani obbedienti, coalizzati per disperazione e con sprezzo del ridicolo. Missione: emarginare Salvini, come vuole il padrone, e impedire agli elettori di tornare a votare. La classica manovra di palazzo, che comporterà conseguenze spiacevoli per i congiurati: il discredito definitivo del Pd e l’estinzione politica dei 5 Stelle, condannati a essere presi a pesci in faccia dagli elettori di oggi e di domani. Si aprono praterie sconfinate per chiunque ambisca a portarsi a casa i milioni di voti in fuga dall’increscioso e indecente equivoco pentastellato. Ma intanto, al padrone interessa innanzitutto “la roba”: vale a dire le 500 nomine pesanti in arrivo l’anno prossimo, nei posti che contano. Sfrattato l’intruso leghista grazie al signor Beppe e ai suoi diligenti camerieri travestiti da parlamentari, i posti-chiave saranno scelti accuratamente tra Berlino, Parigi e Bruxelles; i nomi saranno comunicati a tempo debito ai prestanome italiani, in quota al Pd e ai 5 Stelle. Dopo il varo dell’impresentabile Conte-bis, quello sarà il secondo step della Lunga Marcia. Il terzo, definitivo, si avrebbe con l’incoronazione del venerabile maestro Mario Draghi, come tredicesimo presidente della Repubblica italiana.La leggenda di Super-Mario? Salvatore dell’euro e santo protettore della sventurata Penisola. Vero il contrario, purtroppo: di formazione progressista e keynesiana, studente cresciuto alla corte dell’insigne ecomomista democratico Federico Caffè (scomparso nel nulla dalla sua abitazione romana nel 1987), Draghi è l’emblema stesso del tradimento: il cattivo allievo, lo ribattezzò Bruno Amoroso, formatosi con Caffè insieme a Nino Galloni. Amoroso e Galloni hanno tenuto alto l’onore dell’antico maestro, tramandandone la lezione. Che è questa: lo Stato non è una famiglia, perché – a differenza delle famiglie e delle aziende – dispone del potere monetario. Può emettere moneta in modo virtualmente illimitato. Ergo: il deficit, in termini di spesa pubblica strategica, è puro ossigeno per i cittadini, le famiglie, le imprese. Viceversa, il suo contrario – il pareggio di bilancio – condanna l’economia. E se migliaia di imprese si arrendono alla crisi, strangolate dalle tasse, il loro business viene letteralmente rastrellato dai grandi gruppi, dotati di elevato potenziale finanziario. L’alleanza storica tra multinazionali, banche d’affari e vertice politico in Europa ha un nome esemplare: Mario Draghi.Per via delle altissime responsabilità rivestite nel disastro sociale europeo, proprio Super-Mario rappresenta al meglio, da grande tecnocrate, il potere oligarchico che ha piegato i governi, confiscato la democrazia, ridotto le elezioni a pura ritualità. Lo si vede anche oggi, ancora una volta, con l’immondo esito della crisi parlamentare italiana. In Europa, la menzogna neoliberista (più tagli, più cresci) è aggravata dalla prassi mercantile dell’ordoliberismo di marca teutonica: all’impoverimento programmato del popolo si aggiuge la sottomissione sociale dei dominati. Dopo la Grecia, l’Italia è scandalosamente in cima alla classifica dello sfruttamento: da moltissimi anni il nostro paese, a cui i tizi come Draghi rimproverano di aver vissuto “al di sopra delle sue possibilità”, è addirittura in avanzo primario. Ovvero: lo Stato spende, per i cittadini, meno di quanto i cittadini versino in tasse. In questo, proprio Draghi – massimo sacerdote dell’austerity (altrui) – incarna il massimo tradimento possibile della dottrina di Keynes e di Caffè, economisti progressisti cui si deve – nel mondo, e anche in Italia – l’archiettura dell’economia statale espansiva che permise ai popoli di risollevarsi, accedendo a stagioni di grande benessere, mobilità sociale, futuro da costruire con fiducia e ottimismo.Tutto questo doveva finire: non per via di leggi economiche, ma a causa di determinazioni politiche, in parte palesi (il neoliberismo di Milton Friedman e soci) e in parte occulte, di matrice iniziatica. Già nell’Ottocento, il medico francese Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorizzò la dottrina della “sinarchia”. In spiccioli: la politica è un affare troppo serio perché sia lasciata al popolo bue. A guidarlo dev’essere un’élite illuminata. Questa élite reazionaria si è nascosta, nel Novecento, dovendo subire l’offensiva delle democrazie sociali, le conquiste dei diritti del lavoro. Poi è rimersa, lentamente, a partire dagli anni Settanta. In Europa, l’Italia era un boccone golosissimo: eravamo il paese del boom, trainato dal maggior conglomerato industriale d’Europa, l’Iri, gestito dallo Stato. Le vaste inefficienze dell’Iri, di origine clientelare, erano largamente compensate dalle enormi ricadute sull’indotto privato. A demolire l’Iri fu chiamato il tecnocrate di turno, l’allora semisconisciuto Romano Prodi, mentre a Draghi – direttore del Tesoro – fu chiesto di oliare lo smembramento privatizzatore gli altri gioielli industriali italiani: Telecom, Eni, Enel, Comit, Credito Italiano.Dal Britannia in poi, Mario Draghi si è fatto apprezzare dai padroni del mondo, che l’hanno ricompensato da par loro. Una marcia trionfale: Goldman Sachs, Bankitalia, Bce. Ora, Draghi ha rifiutato di sostituire Christine Lagarde al vertice del Fmi. Si è tenuto libero per Palazzo Chigi? No: per il Quirinale. Vanta crediti importanti, sulla strada del Colle. D’intesa con Napolitano, nel 2011 disarcionò Berlusconi (ultimo premier eletto dagli italiani, nel 2008: da allora, alla guida del governo si sono succeduti soltanto politici non eletti dai cittadini, da Monti fino a Conte). E’ la declinazione italica della “sinarchia” del marchese Saint-Yves d’Alveydre: guai a lasciare che il popolo si governi da sé. A tener aperta la strada del Quirinale per Mario Draghi è il finto outsider e falso rivoluzionario Beppe Grillo: solo grazie all’inventore dei 5 Stelle il super-banchiere dell’élite può sperare, domani, di raggiungere la meta. Non è solo, ovviamente: oltre a Grillo e al solito servizievole Pd, Draghi può contare sulle potenti superlogge massoniche internazionali in cui milita. E’ affiliato a ben 5 Ur-Lodges di stampo reazionario: si chiamano “Three Eyes” e “Pan-Europa”, “Edmund Burke”, “Der Ring” e “Compass Star-Rose/Rosa-Stella Ventorum”. E’ per questi signori che in fondo lavorano Beppe Grillo e il suo figurante sistemato a Palazzo Chigi, il carneade “Giuseppi” Conte, sedicente “avvocato degli italiani”: un piccolo e infido mestierante, di cui oggi i connazionali farebbero volentieri a meno.Mister Europa osserva divertito il massacro politico italiano andato in scena in mondovisione. E’ vomitevole la marmellata di democrazia confezionata grazie al prezioso tritacarne del signor Beppe Grillo, sceso in campo a muso duro – dando ordini ai suoi valletti in Parlamento, terrorizzati all’idea di tonare al voto – per blindare il piccolo potere italiano e restituirlo interamente all’establishment europeo. Grillo obbedisce al vero potere che tiene in pugno il Belpaese dai tempi del Britannia, il grazioso panfilo che lo stesso giorno, il 2 giugno 1993, ospitò a bordo l’allora giovane direttore generale del Tesoro e il comico genovese vicino a De Mita, cacciato dalla Rai nel 1986 per una fatale battutaccia sulle ruberie dei socialisti. Mario e Beppe, due destini che tornano a incrociarsi: è grazie a Grillo se oggi il mitico Super-Mario vede avvicinarsi a grandi passi il Quirinale, quando cioè Mattarella – tra un paio d’anni – vedrà scadere il suo mandato alla presidenza della Repubblica. Sbagliava, chi scorgeva in Draghi un candidato di ferro per Palazzo Chigi dopo Conte: puntando proprio al Colle, il sommo banchiere europeo non ha commesso l’errore di rendersi inevitabilmente impopolare, mettendosi a capo di un governo-vergogna come quello che oggi Renzi e il fantasma di Di Maio si apprestano a sorreggere, calpestando la volontà popolare degli italiani.