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Presi per il Pil? Noi no: storie di italiani che non ci stanno
Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.Il blackout della politica, ormai colonizzata dall’oligarchia tecno-finanziaria che manipola l’immaginario collettivo attraverso il ferreo controllo dei media, non ha impedito il diffondersi di esperienze individuali di resistenza libertaria. Messe assieme, fanno rete. Specie se vengono spiegate, mostrate, raccontate. Come accade nel documentario “Presi per il Pil”, realizzato da Stefano Cavallotto col giornalista Andrea Bertaglio, su soggetto elaborato da Lorenzo Fioramonti, economista dell’università sudafricana di Pretoria. Tema: come vivere «senza più essere schiavi dei soldi», peraltro sempre meno abbondanti. Lo spiegano Marta e Giorgio, che hanno deciso di trasferirsi coi figli in valle Maira, sulle montagne di Cuneo, allevando capre e producendo formaggi. E poi Roberto, che si è «dimesso da avvocato» lasciando Cagliari per il natio borgo selvaggio, dove – insieme alla famiglia – ha imparato ad auto-prodursi «tutto quello che gli serve per vivere». Non mancano le comunità organizzate: come quella degli abitanti di Pescomaggiore, alle porte dell’Aquila, che – con l’aiuto volontari italiani e stranieri – costruiscono un eco-villaggio modello, seguendo i metodi della bioedilizia.«Storie sorprendenti ed emblematiche», che aiutano a capire «il desiderio di liberarsi dal dogma del Pil», per immaginare «un mondo più giusto, iniziando dalle nostre vite». Quelle incrociate dal documentario sono «persone che hanno scelto di vivere senza più inseguire il mito della crescita infinita imposto dal sistema», liberandosi dell’ideologia dominante. Il narratore è lo stesso Bertaglio, autore di saggi sulla decrescita (l’ultimo si intitola “Generazione decrescente”, edizioni L’Età dell’Acquario). Tutto nasce quando Andrea, incuriosito dal progetto energetico “Coltiviamo il sole”, decide di partecipare a una riunione dell’associazione che l’ha ideato. Lì incontra Giorgio, interessato all’installazione di un impianto fotovoltaico per la propria stalla. Da quel momento, Andrea inizia «un viaggio fisico e soprattutto interiore» tra questi «pionieri della decrescita», nel loro caso sicuramente “felice”. Morale: specie in un momento di crisi devastante, sorprende la facilità con cui è possibile dribblare il disastro, rimboccandosi le maniche. Purché si abbiano le idee chiare: massima sobrietà, minime esigenze, autosufficienza alimentare. A quel punto, può anche crollare il Pil: lo sostituisce una nuova economia di prossimità, fondata sullo scambio alla pari.Non mancano voci eterodosse, a spiegare perché tutto questo accade, e accadrà sempre di più: da Enrico Giovannini, già a capo dell’Istat e poi ministro del governo Letta, favorevole a «elaborare indicatori di benessere alternativi al Pil», fino a battitori liberi (e famosi) come l’inglese Rob Hopkins, fondatore del movimento delle “Transition Towns”, e il francese Serge Latouche, padre del moderno pensiero decrescista, insieme all’italiano Maurizio Pallante. Parlano docenti universitari come Mario Pianta, tra i promotori della campagna “Sbilanciamoci!”, attivisti e scrittori come Giulio Marcon, già coordinatore del Servizio Civile Internazionale, e autrici come Helena Norberg-Hodge, studiosa dell’impatto dell’economia globale sulle culture e sull’agricoltura a livello mondiale. La Hodge, fondatrice dell’Isec (International Society for Ecology and Culture) è anche produttrice e co-regista del documentario “L’economia della felicità”. Ed è esattamente di questo – economia e felicità – che parla l’ex avvocato Roberto, 45 anni, “scappato” dal capoluogo sardo per farsi coltivatore, nella casa della sua infanzia: «Paradossalmente – dice – oggi ho molti meno problemi economici dei colleghi che mi sono lasciato alle spalle, rimasti schiavi di mutui, finanziamenti e orari di lavoro ormai insostenibili».Stessa musica in Abruzzo, tra i ragazzi di Pescomaggiore, molti dei quali rimasti senza casa dopo il terremoto del 2009. La soluzione si chiama Eva, eco-villaggio interamente auto-costruito, col materiale meno consueto e più ecologico: la paglia. «La manodopera ce la mettiamo noi, riscoprendo la comunità». Un’esperienza umana che cambierà per sempre la loro vita: «Famiglie che si ritrovano, padri e figli che lavorano insieme con un obiettivo comune». Parole come sostenibilità e benessere diventano all’improvviso realtà. «I giovani di Pescomaggiore, molti dei quali precari che hanno trovato una dimensione sociale e lavorativa proprio in questo eco-villaggio, si aiutano nel lavoro, mangiano e parlano insieme, organizzano le proprie giornate in un clima di cooperazione e convivialità», racconta Andrea, che traccia anche un parallelo con l’esperienza – stavolta metropolitana – dei ragazzi del circolo torinese Mdf, il Movimento per la Decrescita Felice: «Si impegnano a vivere una città come Torino quasi come se fosse un paese, a cominciare dai trasporti – la bicicletta in primis – promuovendo uno stile di vita ecologico, basato sul consumo critico». Orti urbani, per esempio, da impiantare anche nelle scuole e attraverso progetti speciali, alcuni dei quali in collaborazione con associazioni come Slow Food».Il documentario, montato da Roberto Allegro e sorretto da musiche originali degli Yo-Yo Mundi, si arrampica anche sulle Alpi, scovando i silenzi incontaminati del Puy, dove pascolano le capre bianche di Marta e Giorgio, marito e moglie, «due tra le persone più lucide che si possa avere la fortuna di incontrare nel corso di un’intera vita», garantisce Andrea. «Vivono e lavorano con i loro cinque figli e pochi buoni amici nel comune di San Damiano Macra, dove sono arrivati da Torino nel 1995». Lei è medico e lavora part-time in zona. Lui, laureato in filosofia e originario della vicina valle Po, per lavoro traduceva libri per case editrici. Nel 1999, la grande scommessa: recuperare un’intera borgata abbandonata per poi avviare un’azienda di capre da latte, che col tempo è diventata anche agriturismo. «Nonostante si possa pensare il contrario, Marta e Giorgio non sono degli “alternativi”», spiega Andrea. «Hanno solo capito prima di altri che per vivere sereni non c’era bisogno di puntare sui soldi». I loro figli – tutti musicisti – ora crescono in un paradiso verde, e tra le vecchie case di pietra è tornata la vita. E’ una strana impresa, super-sostenibile: niente mangimi industriali, farmaci o gasolio. E funziona benissimo: «E’ uno schiaffo a chiunque si rassegni a dire che non è possibile, che oggi il mondo non ti permette di fare certe scelte».(Il documentario: “Presi per il Pil”, Italia 2014, 65 minuti. E’ possibile promuovere la proiezione del film, una produzione low-budget di Settembre Film, e acquistare il filmato in formato dvd, al prezzo di 10 euro, mediante il sito del progetto).Fino a ieri il sistema ha inseguito la crescita del Pil per diffondere consumi e sostenere l’industria. Oggi sappiamo che in Europa non è più così: gli stessi politici che continuano a predicare “crescita”, in realtà hanno promosso una deliberata, drammatica inversione di rotta. Non “dobbiamo” più crescere, perché a farlo saranno soltanto le élite, che hanno realizzato un colossale trasferimento di ricchezza, dall’industria alla finanza, dal lavoro alla rendita speculativa. Matematico: la crescita del benessere diffuso comporta maggiore consapevolezza culturale, quindi l’acquisizione di diritti “scomodi”, che il sistema politico – sempre più centralistico e sempre meno democratico – non è più disposto a tollerare. E quindi: precariato, disoccupazione, tagli al welfare, erosione del risparmio, super-tassazione, eclissi delle pensioni, privatizzazione dei servizi vitali. Da anni stiamo “decrescendo” in modo vertiginoso, proprio grazie ai politici che, a parole, si dichiarano favorevoli alla “crescita”. Che peraltro, come sappiamo, minaccia di far esplodere il pianeta: sovrapproduzione di merci superflue, boom demografico, progressiva penuria di risorse.
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Riforme progettate per noi, docile bestiame da decimare
Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.L’unico organo elettivo, cioè il Parlamento, ha poteri limitati, che preferisce non esercitare (non ha mai costretto la Commissione a un rendiconto), e la sua natura di cagnolino da passeggio è stata evidenziata da come è stato fatto votare il nuovo presidente dell’Ue: era ammesso un solo candidato – Juncker – e il voto era segreto. Per giunta, nessun elettore europeo, prima di votare, aveva saputo che sarebbe stato Juncker il candidato unico alla presidenza. Nessuna meraviglia se le medesime caratteristiche le ritroviamo anche nella urgente e irresistibile marcia delle riforme istituzionali di Renzi: queste riforme, appunto, diminuiscono la partecipazione e l’influenza degli elettori, ostacolano i referendum, danno al premier i poteri sia politico-legislativi, che di controllo (su se stesso) anche solo con un 22% dei consensi. Nessuna meraviglia: è chiaro che l’Italia e la sua Costituzione devono essere riformate in questo senso per integrarsi nella struttura autocratica dell’Ue.La seconda linea di riforme, iniziata alla fine degli anni ’70, è quella economico-finanziaria, e punta essenzialmente a difendere e tutelare gli interessi dei creditori finanziari con sacrificio degli altri interessi sociali: il modello di sviluppo keynesiano, caratterizzato dallo Stato che corregge il mercato e fa investimenti anticiclici per evitare la recessione e assicurare l’occupazione, al prezzo di una costante, fisiologica inflazione, viene sostituito con un modello da alcuni ritenuto hayekiano, ma che tale non è perché Friedrich Von Hayek voleva non solo il libero mercato come unico regolatore dell’economia, ma anche uno Stato che tenga il mercato libero dai monopoli e che si astenga dall’assistenzialismo sociale e imprenditoriale. Il modello economico-finanziario imposto all’Ue fa per contro tutto questo, anzi in esso i grandi monopoli bancario-finanziari dettano la politica degli Stati e dell’Unione.Il detto modello raggiunge lo scopo della tutela degli interessi dei creditori-finanziari mediante alcuni principali strumenti: indipendenza-irresponsabilità delle banche centrali dai parlamenti, vincoli di bilancio pubblico (proibizione della spesa pubblica antirecessiva), stretta monetaria, compressione salariale (e della domanda interna) per assicurare un pareggio o un surplus della bilancia estera, socializzazione delle perdite delle banche. Quando la politica economica è affidata ai banchieri centrali, che, per statuto, deliberano e operano non solo in autonomia ma nella segretezza e nella irresponsabilità, la democrazia rappresentativa è finita, il consenso popolare è superato. Il risultato – prevedibile e inevitabile perché facente parte degli obiettivi – è la deflazione, la disoccupazione, l’avvitamento fiscale, la recessione o stagnazione – che ora si prospetta pure per la Germania.La Costituzione italiana del 1948 è, per contro, esplicitamente keynesiana: l’articolo 1 fonda la Repubblica sul lavoro, non sul capitale, e numerose altre norme riconoscono al lavoro (all’occupazione, alla produzione, agli investimenti) il primato assoluto e la funzione di perequazione sostanziale tra i cittadini; quindi essa è in opposizione radicale e inconciliabile col modello politico-economico costitutivo dell’Ue e della Bce, che si basa sulla priorità alla prevenzione dell’inflazione (primaria minaccia per le rendite finanziarie), e per prevenirla impone l’austerità, cioè innanzitutto l’astensione dagli investimenti pubblici anticiclici per uscire dalla recessione – sicché la recessione perdura, diviene strutturale e non accidentale. La storia della cosiddetta integrazione europea è in realtà la storia della sostituzione di un modello socio-economico-istituzionale con un modello opposto, ossia dei valori sociali e produttivi, fondanti per la democrazia elettiva e la legittimità costituzionale, col loro contrario: parassitismo finanziario e autocrazia.E’ la storia di un’inversione non dichiarata, che è avanzata di soppiatto, sotto il camuffamento di ideali sbandierati e mai attuati di solidarietà integrazione dei popoli, identità comune, di promesso sviluppo che non arriva mai. Un’inversione di cui oramai sentiamo fortemente gli effetti pratici, anche se molti di noi non sanno da che cosa provengano, e pensano che le cause siano la corruzione o l’evasione o l’articolo 18. In Italia, oltre a queste piaghe, le due linee di riforme di cui Napolitano, Monti, Letta e Renzi sono paladini e artefici (soprattutto Napolitano, che, per imporla e accelerarla, deborda continuamente dalla sua funzione di garante e arbitro per intervenire nella politica dei partiti) sul piano economico sta producendo un continuo e rapido aumento del debito pubblico – cioè l’opposto di ciò che promette – e l’emigrazione di capitali, imprese e cervelli, con la deindustrializzazione del paese e la moria delle sue aziende (dirò poi perché queste loro azioni non vanno condannate, nemmeno moralmente).La direzione, la finalità autocratica, essenzialmente dittatoriale, a cui mira la prima linea di riforme, cioè quelle istituzionali, spiega chiaramente la ragione per la quale, paradossalmente, ci si ostina a portare avanti la seconda linea di riforme, cioè quella economico-finanziaria, sebbene stia producendo effetti rovinosi e contrari a quelli che dovrebbe produrre, tra la sofferenza di milioni di persone: le due linee di riforme convergono in un’operazione di ingegneria sociale, di costruzione di una società radicalmente e apertamente oligarchica che comandi incontrastata le popolazioni fiaccate e rassegnate da molti anni di frustrazioni e insicurezze, e impoverite di redditi, risparmi, diritti civili, sociali, politici. Il modello economico in via di imposizione, con le sue riforme, non importa se produce recessione o stagnazione; il suo scopo reale e non detto non è la crescita, ma una riforma dell’ordinamento sociale e giuridico che assicuri il dominio sulla popolazione generale, la possibilità di sfruttarla senza limiti, l’estrazione da essa di rendite certe per il capitale finanziario anche in periodi di contrazione del Pil, e il tutto in modo formalmente legittimo. A questo servono le riforme. E le privatizzazioni, che ieri Padoan ha ripromesso, parlando in Cina, che verranno eseguite. Quindi è assurdo ciò che promette Renzi, ossia che queste riforme strutturali rilancerebbero l’economia. Possono solo rilanciare l’affarismo spartitorio e screditare ulteriormente il settore pubblico – e questo credo sia il vero obiettivo.Attualmente in Italia abbiamo un programma di tagli alla spesa pubblica, una pressione fiscale che non può calare anche a causa dei 40 miliardi all’anno di riduzione del debito pubblico che il governo dovrà fare in esecuzione del Fiscal Compact, un reddito e una capacità di spesa in picchiata anche a causa dell’alta disoccupazione e maloccupazione, soprattutto giovanili; inoltre le banche stanno riducendo il credito alle imprese e alle famiglie e tengono altissimi i tassi: sanno che gli aspiranti mutuatari, data la mancanza di continuità del loro reddito, non avranno i mezzi per ripagare i prestiti, quindi logicamente non erogano prestiti, se non raramente e con spread altissimi, al decuplo dell’Euribor, per compensare il rischio – dicono. Quindi oggettivamente non ci sono le condizioni per un’uscita dalla depressione economica. Anzi, è in corso un avvitamento recessivo, che determinerebbe rendimenti altissimi sul debito pubblico, senonché qualcuno – la Bce e/o la Fed – comprando sul mercato secondario, e distorcendo il mercato, li tiene artificialmente bassi – come fa ancora più vistosamente con le nuove emissioni del debito pubblico greco.Alla luce di quanto sopra detto, possiamo tranquillamente concludere che, quando un leader comunitario, soprattutto un leader italiano, promette crescita o impegno per la crescita, promette la sospirata flessibilità, promette che l’Ue porta allo sviluppo – quando promette queste cose, e insieme dice che “le regole europee”, “il risanamento”, “il rigore di bilancio” saranno rispettati, mente sapendo di mentire, mente per imbonire la gente: il modello che viene implementato attraverso l’Ue e l’Italia in particolare non vuole crescita, lavoro, sicurezza, rilancio produttivo, ma stagnazione. Come non vuole partecipazione popolare né diritti sociali. Al massimo sono ammessi interventi di riduzione del disagio sociale per prevenire che evolva in sommossa, o sussidii a categorie sociali realizzati a spese di altre categorie sociali (come gli 80 euro di Renzi), in una logica di divide et impera. Logica peraltro applicata anche tra gli Stati membri: consentire ad alcuni (Germania e soci) un relativo (e provvisorio) sviluppo a spese degli altri, onde avere il loro appoggio per completare l’opera di inversione costituzionale. Che si appalesa, oramai, come un’opera eversiva. E quando ci dicono “fare le riforme istituzionali è condizione per ottenere flessibilità di bilancio dall’Europa”, il significato è: “se non ci lasciate riformare la Costituzione per realizzare l’autocrazia che vuole la grande finanza, la grande finanza vi lascia senza soldi”.Diversamente da altri, io non biasimo moralmente i progettisti e gli autori di quanto sopra. Non dico che sono criminali perché sacrificano il 99% della popolazione agli interessi dell’1%. Infatti, il loro modello socioeconomico deflativo-parassitario-autocratico è più adeguato a ciò che i popoli sono, al loro effettivo livello mentale e di consapevolezza, che non è molto diverso da quello del bestiame, come dimostra la bovina docilità con cui si lasciano “riformare”. Il modello democratico, e anche il modello (post)keynesiano, presuppongono che l’uomo mediano e il popolo siano qualcosa che in realtà non sono affatto, quindi semplicemente non possono funzionare. Il modello socioeconomico deflativo ha, inoltre, il vantaggio di riuscire a imporre coercitivamente e dall’alto, di fronte al raggiungimento dei limiti fisici dello sviluppo e alla necessità di ripiegare, la necessaria decrescita ecologica dei consumi e della stessa popolazione, che in regime di democrazie nazionali non si potrebbe ottenere.(Marco Della Luna, estratti dal post “Dove portano queste riforme”, pubblicato sul blog di Della Luna il 24 luglio 2014).Ci sono due linee di riforme “indispensabili per la crescita”. Linee convergenti. Pericolosamente. La prima linea è istituzionale-strutturale e sta producendo: svuotamento dei poteri e dell’autonomia degli Stati nazionali parlamentari; concentrazione dei poteri politici in organismi sovrannazionali; isolamento tecnocratico degli organismi decidenti; soprattutto, indipendenza e gestione autoreferenziale delle banche centrali e della politica monetaria; riduzione della partecipazione e dell’influenza democratiche sugli organismi decidenti; riduzione della trasparenza, della responsabilità, della controllabilità degli organismi decidenti; riduzione della conoscibilità dei loro obiettivi di medio e lungo termine e degli effetti di medio e lungo termine delle loro decisioni. Queste caratteristiche (votate da quasi tutto il Parlamento, perché comportano la blindatura della partitocrazia contro la società civile) sono marcatamente proprie soprattutto dell’Ue: quasi tutto il potere, e tutto il potere legislativo, sono in mano ad organismi non elettivi, non responsabili, non trasparenti, burocratici, intergovernativi.
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Meno democrazia: Renzi, il tecno-populista dell’élite
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.Effetto culturale, questo, dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali).Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare – questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica – le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso. E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito, tuttavia, ormai anch’esso trasversale – e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato, salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio). Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia – e ogni populismo è stato, storicamente, anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo, quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche – al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi – sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal Compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente).Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione. Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico – per altro discendenza diretta di quello neoliberista – che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia. Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.(Lelio Demichelis, “Il populismo tecnocratico del rottamatore”, da “Sbilanciamoci” del 4 luglio 2014).L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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Renzi, atroce imbroglio: la faccia allegra della catastrofe
Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?E non si venga a dire che gli 80 euro sono una rottura di questa politica. Chi fa credere questo è in totale malafede. Quell’assegno è stato concordato tra Renzi e Merkel per indorare la pillola del rigore alla vigilia delle elezioni, e verrà restituito con gli interessi, con le tasse i ticket e i tagli ulteriori alla spesa sociale. Però bisogna ammettere che l’operazione gattopardesca per il momento è riuscita. Durante i governi Monti e Letta si parlava sempre più di vincoli europei e di austerità. Ora non se ne parla più, le questioni economiche e sociali vengono dopo il calcio. Si parla di legge elettorale e di abolizione del Senato elettivo, di riforme di tutti i tipi, ma di austerità non si parla più, la si attua e basta. Gli scandali delle grandi opere non provocano più nessuna pubblica discussione sulla loro necessità, ma solo uno stanco ritorno delle campagne di moralizzazione ipocrita e inconcludente, con Renzi naturalmente alla loro testa. Anche Grillo pare esserci cascato in pieno… la crisi economica si risolve con le riforme… Ma va, son venti anni che i liberisti fanno questa propaganda e attuano questa politica e la crisi si aggrava sempre di più.Comunque con ben maggiore efficacia rispetto al suo ammiratore invidioso e frustrato, Berlusconi, Renzi può compiere un’opera di distrazione di massa. Naturalmente non c’è la fa da solo, con lui stanno tutti i poteri forti nazionali e internazionali e un sistema informativo vergognoso, che è saltato sul suo carro come quei giornalisti “embedded” che stavano in Iraq sui carri armati di Bush e raccontavano quelle menzogne che han fatto danno sino ad oggi. Qualcuno parla ancora di Fiscal Compact? Nel nuovo Pd di Renzi che vuol battere i pugni in Europa, qualcuno propone forse di abolire quella mostruosità unica che è il pareggio di bilancio costituzionale? Cameron, quando quella riforma fu approvata, disse che Keynes, cioè lo stato sociale, erano stati messi fuori legge. Nelle elezioni locali qualche candidato del Pd si è forse impegnato a mettere in discussione il patto di stabilità? No di certo, perché Renzi spinge a fare i primi della classe in Europa. Forse anche per questo il vertice europeo torinese è stato rinviato: vuoi mai che per colpa delle parole di qualche sconsiderato burocrate i temi dell’austerità potessero tornare di pubblico confronto?Bisogna depistare e nascondere, noi siamo la seconda cavia di Europa dopo la Grecia. Si mette in atto la stessa politica, ma con un metodo diverso, quello di Renzi. Che si paragona a Obama ma in realtà è un epigono di Blair, che ha distrutto in Gran Bretagna tutto ciò che aveva resistito alla signora Thatcher. Compreso il suo partito. Attenti, sostenitori esultanti e anestetizzati del Pd: alla fine sarà proprio il vostro partito a pagare la politica del suo leader. Intanto però si festeggia e le fragili e tremebonde opposizioni ufficiali di destra e sinistra si inchinano al regime. Berlusconi e la Lega son sempre più parte del gioco. La Cgil ha adottato come massima forma di protesta il borbottio, anche se riceve uno schiaffone al giorno. Grillo dialoga sulle riforme e la lista Tsipras ha già le prime scissioni verso il Pd. Il presidente del consiglio sta sbancando.Eppure, nonostante i clamorosi successi attuali, il progetto di Renzi è destinato a fallire per due ragioni di fondo. La prima è che la crisi economica si trasforma in stagnazione e continuerà così, senza nessuna luce in fondo al tunnel. D’altra parte la politica di Renzi non serve ad uscire dalla crisi, ma solo ad abituarci a convivere con essa. Dobbiamo accettare la disoccupazione di massa e la distruzione dello stato sociale, e imparare a sopravvivere arrangiandoci. Ci dobbiamo rassegnare alla ingiustizia e alla diseguaglianza, questo insegnano il Jobs Act o il feroce articolo 5 del decreto Lupi, che colpisce con crudeltà da Ottocento vittoriano i senza casa. Il punto non è la soluzione della crisi, impossibile con l’austerità, ma la passività sociale. È su questa che contano Renzi e la signora Merkel per andare avanti. Ed è su questo che falliranno.Certo ora sfiducia e rassegnazione sono massimi, mai in Italia si è fatto così tanto danno alle persone con così poche reazioni. Ma questa situazione finirà, il conflitto ripartirà e Renzi rischierà allora di apparire per come lo dipinge il suo unico oppositore televisivo, il comico Maurizio Crozza. La seconda ragione è che l’Europa della signora Merkel che ha benedetto Renzi ha rivelato tutta la sua subalternità e fragilità mondiale. Il governo ucraino con i suoi ministri nazifascisti ha rotto il disegno della Germania di portare l’Europa da essa dominata alla intesa cordiale con Putin e ad una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. La nuova guerra, anzi la guerra mai finita in Iraq, rafforza la stessa spinta di fondo. Gli Usa hanno ripreso il controllo del blocco occidentale con la vecchia Nato e ancor di più lo faranno con il Ttip, il patto liberista tra le due sponde dell’Atlantico che vuole trasformare la Ue in appendice di Usa e Canada, mentre di fronte si delinea la nuova alleanza globale di Russia e Cina.Forse non ce ne siamo accorti nel teatrino della nostra politica, ma la globalizzazione è morta, si torna ai grandi schieramenti di potenze e un’Europa indebolita da anni di austerità viene assorbita nel vecchio impero americano. Povero Renzi, che c’entra la sua politica con tutto questo? Nulla, e ancora una volta il conto di un potere politico gattopardesco, che sta indietro rispetto alla realtà del mondo, lo pagheremo tutti noi. Bisogna augurarsi allora che il regime di Renzi non ci metta i venti anni di quello berlusconiano per farci scoprire tutti i suoi danni. Bisogna augurarselo e bisogna agire perché questo regime fallisca il prima possibile. Solo con la sconfitta di Renzi e del renzismo si ridà un futuro a questo paese.(Giorgio Cremaschi, estratto dall’intervento “Facciamo fallire il regime renziano”, da “Micromega” del 20 giugno 2014).Quanti disoccupati produrrà la sciagurata privatizzazione della Fincantieri, che sinora proprio perché pubblica ha permesso all’Italia di essere competitiva nella costruzione delle grandi navi, assieme alla Germania? Vogliamo parlare della privatizzazione di Ilva, Telecom, Italtel e Alitalia, dei disastri che hanno prodotto in tutte le direzioni senza un centesimo di guadagno, anzi con gigantesche perdite, per lo Stato? Vogliamo parlare dello scandalo della Fiat delocalizzata e che fugge il fisco, con il governo muto e complice? Quanti nuovi disoccupati e precari produrrà la cosiddetta riforma della pubblica amministrazione che, dietro la misura demagogica del taglio dei permessi sindacali (che alla fine sarà un boomerang per i suoi autori perché rafforzerà chi lotta sul serio), dietro la propaganda attua il taglio lineare del personale e la deresponsabilizzazione pubblica nella catena degli appalti? E soprattutto quanti disoccupati produrrà la continuazione delle politiche di austerità che già ora hanno creato 7 milioni di senza lavoro?
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Dopo la Grecia l’Italia, cavia europea rassegnata a Renzi
Il voto alle europee premia con un consenso da anni 50 un partito e un leader che fruiscono di un sistema di potere e sostegno senza precedenti nella storia repubblicana. Con il Pd di Renzi stanno sia Obama che Merkel e soprattutto Goldman Sachs e Bilderberg. Le agenzie di rating lo premiano e la finanza internazionale lo elogia. Da noi poi il sostegno dell’establishment è totale. In nessun momento della storia repubblicana, neppure nel breve periodo della unità nazionale alla fine degli anni 70, c’è stato un tal sostegno comune al governo da parte di banche, Confindustria, Cgil Cisl e Uil, Conferenza Episcopale, terzo settore, enti locali, mondo dello sport e dello spettacolo, giornali, televisioni, tutto. Renzi a sua volta è riuscito a mescolare la vecchia capacità comunicativa di Berlusconi, l’affidabilità finanziaria di Monti, la rivolta contro le caste di Grillo, e a fare di tutto questo un messaggio di speranza privo di agganci concreti, che ha fatto presa su un paese democraticamente stremato.Qui non c’è davvero nulla che sembri una vittoria della sinistra, fondata sulla partecipazione e sulla crescita di lotte e movimenti. Il consenso a Renzi si fonda sulla fine delle illusioni e sulla rassegnazione. La forza di Renzi sta nell’inerzia e nella passività diffusa tra le persone massacrate dalla crisi, che si aggravano con l’assenza di azione sociale e sindacale, mentre tutte le élites investono su di lui. Per fare che? Per costruire con il consenso una gestione neoliberale della crisi in Europa. Potremmo davvero esportare il Gattopardo in tutto il continente. Quando Van Rompuy afferma che finora la Ue ha difeso gli affaristi e ora si deve occupare delle persone parla come Renzi. E naturalmente agisce come lui, visto che continua a portare avanti i negoziati con Usa e Canada per quello sconvolgente via libera alle multinazionali che è il Ttip, e vuole rafforzare il fiscal compact con l’Erf.La Grecia è stata una cavia in tutti i sensi, non solo per la sperimentazione delle più brutali politiche di austerità, ma anche per la comprensione dei limiti del puro esercizio brutale del potere di banche e finanza. Per questo la signora Merkel è una fan ricambiata di Matteo Renzi. Perché bisogna cambiare dosi e modalità di somministrazione di una medicina che però deve restare sempre la stessa. Gli 80 euro nella busta paga sono questo. Come ha detto Tsipras, sono una misura concordata con Merkel per rendere più accettabile la continuazione della politica di austerità. Che non a caso viene contemporaneamente ribadita nei suoi tre cardini: la flessibilità del lavoro, cioè la riduzione dei salari e dei diritti, le privatizzazioni, la riduzione della spesa pubblica sociale nel nome del pareggio di bilancio, che siamo il solo paese euro ad aver inserito nella Costituzione.La Commissione Europea ci chiede nuovo rigore mentre i disoccupati veri sono 6 milioni e quelli ufficiali più della metà. Ma non c’è alcun reale cambiamento nella politica economica, anzi. Renzi non ha mai posto in discussione il vincolo europeo, anzi ha sempre più spesso affermato che i problemi sono da noi e che si cambia l’Europa cambiando l’Italia con le riforme, liberiste. Il vecchio slogan di Monti che dobbiamo fare i compiti a casa diventa l’obiettivo di essere i primi della classe. Siamo la seconda cavia d’Europa dopo la Grecia. Lì si è usato solo il bastone, qui si prova con Renzi. Il futuro della nostra democrazia dipenderà da se e come si costruirà una opposizione a tutto questo dal lato della sinistra. Occorre operare perché il disegno di Renzi e di chi lo sostiene fallisca, altrimenti perderemo altri venti anni scoprendo ora Blair e Clinton, quando ovunque la loro politica è oggi sotto accusa per essere stata una delle cause di fondo della crisi mondiale.(Giorgio Cremaschi, estratti dell’intervento “28 giugno, in piazza contro Renzi e l’Europa del Fiscal Compact”, pubblicato da “Micromega” il 4 giugno 2014).Il voto alle europee premia con un consenso da anni 50 un partito e un leader che fruiscono di un sistema di potere e sostegno senza precedenti nella storia repubblicana. Con il Pd di Renzi stanno sia Obama che Merkel e soprattutto Goldman Sachs e Bilderberg. Le agenzie di rating lo premiano e la finanza internazionale lo elogia. Da noi poi il sostegno dell’establishment è totale. In nessun momento della storia repubblicana, neppure nel breve periodo della unità nazionale alla fine degli anni 70, c’è stato un tal sostegno comune al governo da parte di banche, Confindustria, Cgil Cisl e Uil, Conferenza Episcopale, terzo settore, enti locali, mondo dello sport e dello spettacolo, giornali, televisioni, tutto. Renzi a sua volta è riuscito a mescolare la vecchia capacità comunicativa di Berlusconi, l’affidabilità finanziaria di Monti, la rivolta contro le caste di Grillo, e a fare di tutto questo un messaggio di speranza privo di agganci concreti, che ha fatto presa su un paese democraticamente stremato.
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Dario Fo: moriremo democristiani, ci piace la menzogna
Se a un certo punto arriva un outsider della politica e fa quel che ha fatto Matteo Renzi e poi ottiene questo successo incredibile, direi che è l’ora di mettersi serenamente l’animo in pace. Che delusione, davvero. Moriremo democristiani, ecco la sostanza. Questione antropologica, chissà. La storia di questo paese continuerà sempre uguale a se stessa. Sono deluso non per me stesso, ma perché penso all’Italia. Perché vorrei vedere un cambiamento vero e non di facciata, con gli spot. Da segretario del Pd e da presidente del Consiglio, Renzi ha messo in fila una serie innumerevole di promesse. Quante ne ha mantenute? Diceva: «Mai a palazzo Chigi senza passare dalle urne», e il giorno dopo ha fatto il contrario. Il Pd ha regalato miliardi di euro alle banche. Il mondo del lavoro penalizzato ancora una volta. Insomma: ci piacciono i venditori. E proviamo questo grandissimo piacere nell’essere truffati.Renzi come Berlusconi? Intanto le riforme vuole farle proprio con il Cavaliere, o sbaglio? Grillo avrà sbagliato qualcosa in campagna elettorale, forse a volte ha estremizzato toni e concetti, a volte ho provato a dirlo. Ma quanto volete che abbia spostato qualche errore? Nulla. Siamo di fronte alla scelta di una nazione che non ha il coraggio di fare scelte di rottura e a cui piace la menzogna. Il M5S non è la rivoluzione, ma la trasformazione. Mentre Renzi rappresenta l’usato sicuro, la vecchia sicurezza della pancia moderata dell’Italia. Certo, almeno la Lista Tsipras ha superato il quorum. Sono contento, e molto. Ma sono convinto siano amareggiati anche loro nel vedere l’evoluzione del Pd. Spero ci sia un avvicinamento della lista Tsipras con i Cinque Stelle. Non so se un fronte del genere sia sufficiente per fare un’opposizione forte in Italia e in Europa, ma le convergenze sul programma per me ci sono tutte. Però adesso è cambiato tutto l’assetto, capite? La nuova Dc è troppo forte.(Dario Fo, dichiarazioni rilasciate a Matteo Pucciarelli per l’intervista “Che delusione, a noi italiani piacciono le menzogne”, pubblicata da “Repubblica il 27 maggio 2014 e ripresa da “Micromega”).Se a un certo punto arriva un outsider della politica e fa quel che ha fatto Matteo Renzi e poi ottiene questo successo incredibile, direi che è l’ora di mettersi serenamente l’animo in pace. Che delusione, davvero. Moriremo democristiani, ecco la sostanza. Questione antropologica, chissà. La storia di questo paese continuerà sempre uguale a se stessa. Sono deluso non per me stesso, ma perché penso all’Italia. Perché vorrei vedere un cambiamento vero e non di facciata, con gli spot. Da segretario del Pd e da presidente del Consiglio, Renzi ha messo in fila una serie innumerevole di promesse. Quante ne ha mantenute? Diceva: «Mai a palazzo Chigi senza passare dalle urne», e il giorno dopo ha fatto il contrario. Il Pd ha regalato miliardi di euro alle banche. Il mondo del lavoro penalizzato ancora una volta. Insomma: ci piacciono i venditori. E proviamo questo grandissimo piacere nell’essere truffati.
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Filingeri contro Chiamparino, il populista privatizzatore
«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».Anche Torino, per cent’anni capitale della Fiat, è in crisi: delocalizzazioni e disoccupazione, mentre la Fca di Marchionne emigra. «Bisognerebbe provare a frenare le multinazionali, e nel settore auto puntare anche su altri produttori, per esempio di motori elettrici». I critici dicono che i sindacati si sono lasciati ingabbiare nella concertazione, rassegnandosi alla perdita progressiva dei diritti del lavoro. «Certamente la concertazione ha contribuito a limitare la resistenza del mondo del lavoro», ammette il candidato di sinistra, «ma questo non ci impedirà di lottare: contro la riforma Fornero, l’articolo 8 e le modifiche all’articolo 18. Nelle crisi, bisogna incentivare i contratti di solidarietà e la riduzione dell’orario». Ma intanto siamo nella fabbrica-mondo: le aziende scappano, dove il lavoro costa meno. Proprio per questo, dice Filingeri, bisogna battersi contro il Ttip, il Trattato Transatlantico, che tutela le multinazionali e demolisce lo spazio sociale europeo. Il trattato è incostituzionale, e «la stessa Regione Piemonte, presente nel Comitato delle Regioni Ue, può avere voce in capitolo in materia di ambiente, istruzione e salute».«Per uscire dalle scelte nefaste delle multinazionali e dalla crisi è centrale l’intervento pubblico», indispensabile per «per mettere in campo un vero e proprio “Piano del Lavoro”, con risorse certe», per creare occupazione e stabilizzare i precari. Il guaio è che «a differenza del passato, oggi lo sviluppo non porta automaticamente a nuova occupazione: ogni aumento di produttività, se non regolato, comporta la contrazione dell’occupazione e dei salari». Per Filingeri servono “reti sociali”, ora più che mai, per rimediare ai disastri della malapolitica al servizio dei poteri forti: No-Tav, acqua pubblica, nuova finanza sociale per la gestione della Cassa Depositi e Prestiti. «Una miriade di realtà che in genere nascono dicendo “no”, proprio perché non accettano questo modello di sviluppo». Il loro grande “nemico” è proprio il Pd, che si dichiara ancora “di sinistra”. «Definire di sinistra personaggi che stanno facendo politiche di destra e che non si vergognano non solo di governarci assieme alla destra moderata, ma nemmeno di essere meri esecutori di politiche neoliberiste e tagli sociali che vengono imposti dalla Bce, è sicuramente un tranello in cui cadono tutti coloro che continuano a votare per il Pd convinti che mettere una crocetta su quel simbolo significhi essere di sinistra e serva per “evitare che vada al governo la destra”!».«La politica della “limitazione del danno”, che ha pervaso in questi anni gran parte della sinistra del nostro paese», secondo Filingeri «ci ha portato alla tragica situazione politico-sociale in cui oggi ci ritroviamo». Chiamparino, transitato dal Pci-Pds al Comune, poi alla fondazione bancaria di Intesa SanPaolo e ora proiettato in Regione, ne è un simbolo perfetto. «Un populista», lo definisce Filingeri. Che spiega: «Il populismo di Berlusconi si rivolge di più a chi vede nello Stato la controparte, l’esattore che sottrae risorse ai privati cittadini e ne limita con le leggi la libertà di sfruttare, speculare e di potersi arricchire, mentre il populismo di Chiamaprino è rivolto a chi crede che basti promuovere eventi sportivi o grandi opere (come le olimpiadi e il Tav) per dimostrare di far parte dell’Italia “sana”», tralasciando per carità di patria lo scempio ambientale delle strutture olimpiche di Torino 2006, trasformatesi in cattedrali nel deserto. «Il problema è che mentre tutti si ricordano che il condannato Berlusconi ha fondato Forza Italia con il latitante Dell’Utri, nessuno sembra si ricordi i tempi in cui La Ganga faceva il vicerè a Torino per conto di Craxi e che oggi è nuovamente tra i dirigenti del Pd torinesi. Una cosa hanno però in comune Berlusconi e Chiamparino, la volontà di privatizzare i servizi pubblici locali, i trasporti, l’acqua, la sanità, i beni comuni, che rappresentano la centralità della stato sociale del nostro paese, per favorire le imprese private. nelle scelte concrete sembrano diversi, ma sono uguali».Per il candidato di “L’altro Piemonte”, il “bisogno di sinistra” oggi è «una ribellione alle politiche di sfruttamento messe in atto dalla finanza mondiale e dalle multinazionali, che vedono le persone come consumatori o come forza lavoro al pari di un macchinario». Non solo merci, ma diritti civili, contro chi vedere solo praterie da sfruttare per arricchirsi, e non beni da preservare per le generazioni future. «Serve una rete solidale di persone che sappia creare anche un’economia solidale». Pessimo spettacolo, però, quello offerto dai partiti di sinistra. «Facile commuoversi per i barconi dei migranti e gli operai sui tetti, più difficile mettere in pratica i propri principi». Colpa dei militanti? «Sì, dovrebbero svegliarsi. Ma ora la crisi sta mettendo con le spalle al muro molte persone». Un brusco risveglio potrebbe essere anche il voto europeo: Tsipras punta a combattere «la sovrastruttura tecnocratica che reprime la democrazia». Chi lo voterà spera in una legislatura “costituente”, che possa colpire l’oligarchia finanziaria e risollevare l’economia reale dei lavoratori. «Oggi, scegliere Tsipras ha un valore simbolico per la sinistra, esprime il tentativo di recuperare l’idea di vera democrazia».“L’altra Europa” dichiara guerra all’austerity ma teme l’uscita dalla moneta unica: «Abbandonare l’euro non sarebbe indolore (aumento del debito, dell’inflazione, dei costi delle importazioni, della povertà) e non restituirebbe ai paesi il governo della moneta, ma ci renderebbe più che mai dipendenti da mercati incontrollati, dalla potenza Usa o dal marco tedesco. Soprattutto – aggiunge Filingeri – segnerebbe una ricaduta nei nazionalismi autarchici, e in sovranità fasulle. Noi siamo per un’Europa politica e democratica che faccia argine ai mercati, alla potenza Usa, e alle le nostre stesse tentazioni nazionaliste e xenofobe». Secondo il candidato piemontese, è possibile cambiare rotta anche usando le risorse esistenti, a partire dal Piemonte: «Per treni efficienti e puliti i soldi ci sono, basta vedere quello che spendono per il Tav!». E’ possibile «finanziare le cosiddette imprese ricostituite ai lavoratori, cioè le situazioni di uscita dalle crisi aziendali in forma di gestione cooperativa», che spesso hanno «performance superiori».A fine 2012 il Piemonte (Regione e Provincia di Torino) ha chiuso, per “spending review”, il suo centro strategico per l’agricoltura biologica, il Crab, guida tecnica di uno dei pochissimi settori economici in espansione, per di più ecologico. L’agricoltura, secondo Filingeri, è esattamente uno dei comparti in cui i finanziamenti non mancano, se solo li si sa utilizzare bene: «Il programma europeo di sviluppo rurale 2014-2020 dovrà essere impostato per essere Ogm-free. I fondi devono essere usati per dare impulso a un’agricoltura a basso impatto sull’ambiente, liberata dalla chimica, che valorizzi le produzioni biologiche, capace di mantenere il livello produttivo necessario alle esigenze della popolazione. Inoltre, siamo per un intervento sul sistema della distribuzione, favorendo il consumo di prodotti locali, a chilometri zero, per il passaggio diretto produttore-consumatore». Sono temi cari alla galassia dei nuovi movimenti, che ora rialzano la testa, No-Tav in primis. «Più riusciranno a contarstare il modello neoliberista, più ci sono probabilità che il risveglio porti a qualcosa». Mauro Filingeri cita Saint Exupéry: «Se vuoi costruire una nave, non devi dividere il lavoro, dare ordini e convincere gli uomini a raccogliere la legna. Devi insegnargli, invece, a sognare il mare aperto e sconfinato».«Un mondo migliore? Me lo immagino con un contagio culturale che parta dai movimenti che hanno animato le marce per la pace, le manifestazioni della valle di Susa e che percorrono tutta l’Italia fino ad arrivare alla Sicilia con i NoMuos. Bisogna partire da persone che si scrollino di dosso l’indifferenza e la rassegnazione non solo per gridare la loro rabbia nelle piazze dei forconi, ma per tornare ad essere capaci di sognare un futuro migliore pensando ad un altro modello di sviluppo». Mauro Filingeri, 36 anni, chimico in mobilità, sindacalista Cgil e animatore dei comitati di lotta dei pendolari, è il volto nuovo della sinistra piemontese, deciso a sfidare alle regionali il Pd di Chiamparino con la lista “L’altro Piemonte a sinistra”, consonante con “L’Altra Europa con Tsipras”. Chiamparino? Impossibile definirlo “di sinistra”: «E’ il simbolo dell’attuale modello governativo nazionale in cui contano i rapporti preferenziali con la finanza e la grande industria, a scapito dei diritti e dei bisogni dei lavoratori e dei piccoli imprenditori».
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.