Archivio del Tag ‘retorica’
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Cancellare il debito? No: trasformarlo in debito sovrano
In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.«Mettiamola in questi termini», riassume Marcello Foa: oggi la Bce «stampa più moneta per permettere alle banche centrali nazionali di comprare titoli di Stato, ovvero debito pubblico, con lo scopo dichiarato di rilanciare l’economia (crescita del Pil) e lo scopo effettivo immediato di sgravare i bilanci delle banche private». Se il “quantitative easing” può essere considerata «un’aberrazione, in quanto viola le leggi di mercato basate sulla domanda e sull’offerta», lascia però intatta «la vera catena che imprigiona le asfittiche economie occidentali: quella del debito», scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, equiparando quindi paesi occidentali con debito sovrano – Usa e Gran Bretagna – a paesi con debito non più sovrano, cioè i membri dell’Eurozona. In realtà, spiega un economista come Nino Galloni, il debito pubblico italiano è diventato «una catena» soltanto a partire dal 1981, con la separazione fra Tesoro e Banca d’Italia: fino ad allora, infatti, il debito pubblico era stato ciò che dovrebbe essere, e che è tuttora nei paesi sovrani: la più importante leva strategica di sviluppo, attraverso la quale un paese produce investimenti (a deficit) destinati a far crescere l’economia in modo diffuso.«Se la Ue e la Bce volessero davvero rilanciare l’economia – aggiunge Foa nel suo post – dovrebbero avere il coraggio di andare fino in fondo, ovvero non di stampare moneta per comprare debito ma di stampare moneta per cancellare il debito, accompagnando questo passo da misure altrettanto rivoluzionarie e benefiche come la simultanea riduzione delle imposte sia sulle imprese che sulle persone fisiche e magari varando investimenti infrastrutturali». Qui, ancora, Foa non spiega di che debito parla: se il debito è sovrano non può costituire un problema, come dimostra il debito del Giappone al 250% del Pil. Sarebbero certo “rivoluzionario” cancellare il debito non-sovrano, quello cioè accumulato da quando in paesi dell’Eurozona hanno cessato di indebitarsi in proprio, cioè “anticipando” denaro alle rispettive comunità nazionali, e preferendo acquistare denaro – ad alti tassi di interesse – presso il mercato finanziario privato internazionale. Quindi il problema non è il debito in sé, ma la fonte del debito: se lo Stato si è indebitato coi suoi cittadini (ha speso denaro per loro, in anticipo) il problema non esiste. Se invece i soldi li ha acquistati sui “mercati”, gli interessi sono da ripagare. Se poi lo Stato non ha più la possibilità di intervenire con emissione di valuta propria, allora il collasso è garantito. Di qui la stretta fiscale, per spremere denaro ai cittadini anziché anticiparglielo come avveniva un tempo.«Oggi – riconosce Foa – l’Italia è già in avanzo primario, ovvero lo Stato spende meno di quanto incassa, ma il debito pubblico continua a salire perché la spesa pubblica è gravata dagli interessi sul debito». Interessi, appunto, contratti coi mercati finanziari internazionali: quelli verso cui, grazie a Ciampi e Andreatta, l’Italia si orientò improvvisamente nel 1981, disponendo che la banca centrale cessasse di finanziare il governo a costo zero, come aveva sempre fatto. Da allora, il debito pubblico è diventato un dramma, aggravato negli ultimi anni dalla catastrofe dell’euro, su cui la nazione non ha alcuna possibilità di governo. «L’Italia – conclude Foa – è in una spirale da cui difficilmente uscirà, per quanti sforzi faccia. Ma questo né la Ue, né la Bce, né il Fmi lo ammetteranno mai; anzi, continuano ad alimentare la retorica delle riforme, ovviamente strutturali». Foa sogna un “giubileo del debito”, col taglio lineare di un terzo dell’attuale euro-debito di ogni paese e simultanea riduzione delle imposte per un periodo di almeno 5 anni.«Basterebbe una semplice operazione contabile creando denaro dal nulla (ovvero con un semplice click, come peraltro si apprestano già a fare), per togliere definitivamente dal mercato una parte del debito pubblico», scrive Foa, secondo cui il risultato sarebbe «un boom economico paragonabile agli effetti di un nuovo Piano Marshall». Starebbero meglio tutti, dice Foa: «I consumatori che si troverebbero con più liquidità in tasca, le aziende che sarebbero fortemente incentivate a investire nella zona Ue, lo Stato che troverebbe le risorse sia per le grandi opere che per altre riforme. Le stesse banche private che non sarebbero più costrette a comprare titoli di Stato pubblici e vedrebbero diminuire drasticamente le sofferenze bancarie nel giro di pochi mesi proprio grazie alla ripresa dell’economia reale». La macchina, insomma, si rimetterebbe in moto. «A “rimetterci” sarebbero solo la Bce, la Commissione Europea e analoghe istituzioni transnazionali, il cui potere implicito di condizionamento si ridurrebbe drasticamente».Questo è appunto il motivo per cui tutto ciò non avverrà: quel “potere di condizionamento” è esattamente la ragione sociale dell’euro, piano strategico concepito per togliere allo Stato la facoltà sovrana di spesa pubblica, cioè di produrre debito pubblico strategico (deficit positivo) senza il quale, dall’avvento della moneta moderna, nessun paese al mondo può garantire benessere diffuso. La demonizzazione del debito è tipica del neoliberismo, che vuole spogliare lo Stato della sua sovranità e ridurlo in bolletta, come una qualsiasi azienda o famiglia, dipendente dal sistema finanziario privato. Il liberismo teme lo Stato, in quanto pericoloso concorrente economico: il debito pubblico “deve” quindi diventare un problema, in modo che lo Stato ceda i suoi asset strategici e si rassegni alla loro privatizzazione. La via d’uscita non è dunque la cancellazione del debito – gli investimenti di cui parla Foa si possono realizzare solo mediante deficit – ma l’eliminazione del debito non sovrano. Missione impossibile, se si resta nel lager monetario chiamato euro, appositamente progettato dall’élite finanziaria perché gli Stati permanessero all’infinito sotto il ricatto di un debito insostenibile, in quanto non garantibile con valuta propria.In regime di sovranità finanziaria, il debito pubblico non è che un “anticipo” che lo Stato versa ai cittadini, in termini di beni, servizi e infrastrutture, potendo ricorrere alla libera emissione di moneta: in questo caso il debito è ricchezza netta per famiglie e aziende, interamente garantita dal “prestatore di ultima istanza”, dotato di capacità di finanziamento teoricamente illimitate, anche se armonizzate con la capacità produttiva (Pil) e con la bilancia commerciale (import-export). Se invece il debito pubblico non è denominato in moneta di proprietà dello Stato, allora si trasforma in un incubo, esattamente come per i soggetti privati, famiglie e aziende. E’ esattamente la condizione dei paesi dell’Eurozona, che non dispongono più di denaro proprio: devono mettere all’asta titoli di Stato presso il sistema bancario, unico destinatario del denaro virtuale della Bce. Il “quantitative easing” non risolve nessun problema strutturale: se il debito europeo continuerà ad essere denominato in valuta estranea ai singoli Stati resterà in ogni caso fuori controllo, esponendo gli Stati stessi al ricatto perpetuo della speculazione finanziaria.
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No alla monarchia mondiale, anche Kant promuove Putin
Persino Kant promuove Putin: guai, infatti, se ci si rassegna tutti alla “monarchia universale” di un solo padrone. Resistere è un dovere. E Putin dimostra ogni giorno che la resistenza alla dittatura globale degli Usa è possibile. Ne è convinto il filosofo Diego Fusaro, per il quale «Putin purtroppo non è Lenin», però «ha un compito fondamentale, oggi: quello di resistere al monopolio – con bombardamento etico incorporato – del capitalismo americano». Per essere chiari: «Che ci sia Putin, oggi, è un bene fondamentale, anzitutto per noi», perché il mondo plurale, con più Stati, anche in disaccordo fra loro, «è pur sempre meglio di un mondo monopolare in cui c’è un’unica potenza mondiale, quella statunitense». Lo diceva lo stesso Kant, nel 1795, nel suo splendido scritto “Per la pace perpetua”: «Per l’idea della ragione, val sempre meglio una pluralità di Stati, anche in competizione tra loro, piuttosto che non la loro dissoluzione ad opera di una monarchia universale». Ed eccoci qua: «Oggi la monarchia universale uscita vincitrice dalla guerra fredda, quella degli Stati Uniti d’America, mira a dissolvere tutti gli Stati ancora esistenti e a imporsi come unico Stato legittimo».Con tutte le cautele del caso, dice Fusaro in un video editato su YouTube, potremmo dire che oggi, nell’epoca post-1989, la Russia di Putin svolge il ruolo di “equivalente funzionale di senso” del comunismo storico novecentesco ingloriosamente defunto. «Non certo perché oggi in Russia vi sia il comunismo, figuriamoci – anzi, la Russia di oggi registra rapporti classisti sempre più osceni». Infatti Mosca «sta sperimentando un capitalismo trionfante», e infatti «l’aspettativa di vita è scesa di almeno 7 anni». Ma il discorso cambia sul piano geopolitico: «La Russia di Putin svolge un ruolo prezioso anzitutto per noi, perché ci ricorda che resistere al capitalismo monopolare americano è possibile e necessario». Per Fusaro, «oggi viviamo in un’epoca paradossale, in cui si dichiarano superati gli Stati nazionali e, insieme, si dichiara legittima la sopravvivenza di un unico Stato, gli Usa», tuttalpiù con l’aggiunta di Israele, «fedele servo degli Stati Uniti d’America». Tutti gli altri «devono sparire». “Yes, we can”, recitava l’iconografia pop di Obama. “No, you can’t”, gli risponde – per nostra fortuna – Putin.«Il fatto che il circo mediatico, la manipolazione organizzata e il clero accademico si accaniscano continuamente contro Putin – agiunge Fusaro – è un segnale indiretto che ci avvisa del fatto che Putin è positivo, cioè che svolge un ruolo importantissimo nello scacchiere geopolitico internazionale». Proprio per questo, «oggi gli Stati Uniti d’America stanno cercando – da più anni a questa parte, in verità – di delegittimarlo e di porlo sotto assedio: basi militari in tutti i territori vicini alla Russia, poi la vicenda oscena dell’odierna Ucraina», cioè l’ennesima “rivoluzione colorata” attraverso cui gli Usa si intromettono nella vita di un paese non allineato e ne rovesciano il governo legittimo, insediando i loro vassalli. «La retorica americana è sempre quella del dittatore». E ormai, aggiunge Fusaro, siamo alla Quarta Guerra Mondiale, dopo le prime due e dopo la guerra fredda: «E’ la guerra che gli Stati Uniti d’America hanno dichiarato nel 1989 a tutti gli Stati che resistono al loro dominio». Iraq, Jugoslavia, Afghanistan, Libia, Siria. Lo dice Fenoglio nel “Partigiano Johnny”: l’importante è ne resti sempre almeno uno, a resistere, o sparisce dal pensiero l’idea stessa della possibilità di resistenza, perché «finché c’è resistenza, c’è speranza». Se il nostro nemico oggi è il liberismo sul piano economico, nonché l’individialismo sfrenato sul piano filosofico, sul piano geopolitico il nemico si chiama America. Non ci schiaccherà definitivamente, fino a quando ci sarà un Putin a opporre il suo “no, you can’t”.Persino Kant promuove Putin: guai, infatti, se ci si rassegna tutti alla “monarchia universale” di un solo padrone. Resistere è un dovere. E Putin dimostra ogni giorno che la resistenza alla dittatura globale degli Usa è possibile. Ne è convinto il filosofo Diego Fusaro, per il quale «Putin purtroppo non è Lenin», però «ha un compito fondamentale, oggi: quello di resistere al monopolio – con bombardamento etico incorporato – del capitalismo americano». Per essere chiari: «Che ci sia Putin, oggi, è un bene fondamentale, anzitutto per noi», perché il mondo plurale, con più Stati, anche in disaccordo fra loro, «è pur sempre meglio di un mondo monopolare in cui c’è un’unica potenza mondiale, quella statunitense». Lo diceva lo stesso Kant, nel 1795, nel suo splendido scritto “Per la pace perpetua”: «Per l’idea della ragione, val sempre meglio una pluralità di Stati, anche in competizione tra loro, piuttosto che non la loro dissoluzione ad opera di una monarchia universale». Ed eccoci qua: «Oggi la monarchia universale uscita vincitrice dalla guerra fredda, quella degli Stati Uniti d’America, mira a dissolvere tutti gli Stati ancora esistenti e a imporsi come unico Stato legittimo».
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Di Battista, aprite gli occhi sull’euro o sparirete dalla storia
Qualcuno spieghi ad Alessandro Di Battista che l’Italia non sta morendo di corruzione, né di evasione fiscale, né di mafia. L’Italia sta morendo di euro. Corruzione, evasione e mafia esistevano già prima, ma c’era lavoro per tutti. C’erano benessere, risparmi, economia, aziende. In una parola: c’era la lira sovrana, la moneta che lo Stato poteva “fabbricare dal nulla”, senza limiti. Oggi, lo Stato è in bolletta perché la moneta non ce l’ha più, la deve elemosinare a caro prezzo sui mercati finanziari e prelevare direttamente dai cittadini, sotto forma di tasse. Tragedia nella tragedia? In Parlamento, l’opposizione non se n’è ancora accorta. Lo scrive Giulio Betti in una lettera aperta a Di Battista, reduce da un retorico intervento sullo scandalo “Mafia Capitale”, completamente fuori bersaglio: «Quando in una scuola manca la carta igienica, pensate alla corruzione», raccomanda Di Battista. «Quando vostro figlio cerca lavoro in un call center in India, pensate alla corruzione. Quando manca un posto letto in ospedale, pensate alla corruzione. Quando vedete strade distrutte, mondezza dovunque, infrastrutture ferme da anni, pensate alla corruzione».«No, Di Battista, non ci siamo», replica Betti sul sito “MeMmt”. «Ok, la corruzione è sicuramente un problema molto importante, da cercare di combattere con tutti i mezzi in nostro possesso. Ma tutto ciò che lei ha descritto non dipende dalla corruzione». E poi, c’è corruzione e corruzione: in regime di moneta sovrana, il denaro “rubato” non crea problemi di bilancio, perché tutto è sempre ripianabile. Se invece la corruzione colpisce un paese dell’Eurozona, che non ha più strumenti democratici di bilancio, allora il “furto” diventa una tragedia sociale. Possibile che il brillante Di Battista non lo afferri? E’ come se lui, Grillo e Casaleggio non avessero ancora capito cos’è la moneta sovrana, ovvero una valuta «di proprietà dello Stato, che la emette in regime di monopolio», senza convertirla in oro o altri metalli preziosi. Una moneta il cui tasso di cambio è fluttuante, ovvero: «Viene scambiata con le altre valute in base alla legge della domanda e dell’offerta». Esempi di Stati con moneta sovrana? Praticamente tutti, tranne quelli dell’Eurozona. «Lo Stato a moneta sovrana non può, e non potrà mai, finire i soldi», ribadisce Betti.Lo Stato che dispone della propria moneta «la spende semplicemente creandola dal nulla, accreditando conti correnti», e così «fa crescere la ricchezza finanziaria di quei conti semplicemente pigiando dei tasti nei computer della banca centrale». Oggi, del resto, la maggior parte della moneta circolante è elettronica. Punto nodale, che forse a Di Battista sfugge: «Nel fare questa operazione, lo Stato non ha necessità di procurarsi prima quel denaro guadagnandolo con le tasse, perché lo crea da sé senza problemi». E’ esattamente il tipo di potere sovrano a cui gli archietti dell’Eurozona volevano mettere fine. E ci sono riusciti. La fine della sovranità democratica garantita dalla moneta. «Esempio, un vigile del fuoco che a fine mese ottiene il suo stipendio: per lui è logicamente un attivo, e non dovrà mai ripagare quell’esborso di denaro pubblico. In quel momento lo Stato ha aumentato la sua spesa pubblica, ma ha aumentato la ricchezza finanziaria di un suo cittadino. Una volta capito questo, la domanda che dovrebbe scattare subito dopo è: com’è possibile che in Italia allora scarseggino i beni di prima necessità nelle scuole, non si trovi lavoro, le infrastrutture siano ferme da anni? Semplice e terribile allo stesso tempo: l’Italia non ha più la possibilità di fare quell’operazione di creazione di moneta dal nulla».Una tragedia chiamata euro, non corruzione: «Con l’ingresso nell’unione monetaria, l’Italia si è ridotta a dover chiedere in prestito dai mercati dei capitali tutti i soldi necessari per poter comprare la carta igienica nelle scuole, pagare i posti letto negli ospedali, costruire o fare la manutenzione delle infrastrutture». Il tutto, continua Betti, è aggravato dal “patto di stabilità” che impedisce ai Comuni di garantire, come prima, i servizi basilari per la comunità. Perché lo Stato italiano, al pari di tutti gli altri dell’Eurozona, oggi – a differenza di ieri – deve restituire i capitali che gli sono stati prestati dai mercati finanziari per le sue attività fondamentali, maggiorati del tasso d’interesse sempre deciso dagli stessi attori della grande finanza privata. E dove li rastrella, quei soldi? «Dalle tasche degli italiani, ovviamente. Ecco che mentre prima, con la sovranità monetaria, il governo non aveva alcuna necessità di tassare a morte i cittadini e le aziende (anzi, poteva tranquillamente decidere di abbassare le imposte), oggi il governo deve necessariamente attuare politiche di austerity, andando ad abbassare la spesa pubblica e contemporaneamente strangolare l’economia con la tassazione, la dismissione e privatizzazione di aziende statali che forniscono beni e servizi pubblici essenziali».Caro Di Battista, ancora convinto dello strapotere negativo dell’italica corruzione? Certo, si tratta di un crimine odioso che devasta la società e il territorio. Ma, in regime di moneta sovrana, la peggiore corruzione «non sottrae soldi ai settori vitali della gestione statale». Idem per l’altra piaga nazionale, l’evasione fiscale, «perché lo Stato può creare tutti i fondi che vuole per i servizi pubblici, tecnicamente senza limiti». Nell’Eurozona, invece, la musica cambia: la corruzione è molto più dannosa, «poiché sottrae fondi che lo Stato ha dovuto faticosamente ottenere, con i prestiti di euro da parte dei mercati finanziari, e non può permettersi di sprecarli, al pari del cittadino che ha un mutuo». Di Battista, scrive Betti, non ha capito che il problema è a monte: «Poniamo che da domani, per magia, la corruzione e gli sprechi spariscano (un improbabile paradiso terrestre), ma l’Italia rimanga comunque nell’Eurozona: il problema della scarsità di denaro sarebbe risolto? Sarebbe risolto il problema dell’approvvigionamento dei fondi necessari al funzionamento dei servizi pubblici? Lo Stato potrebbe forse abbassare le tasse e far ripartire l’economia con la spesa pubblica? Assolutamente no».Sveglia, Di Battista: «Anche in assenza di corruzione e sprechi, l’Italia dovrebbe comunque approvvigionarsi dai mercati finanziari di ogni singolo euro necessario al funzionamento dell’apparato pubblico. E come detto in precedenza, i mercati non ti regalano di certo i soldi, devi poi restituirglieli con gli interessi, come un normale cittadino in banca. E quindi tasse sempre più alte, taglio dei servizi e della spesa pubblica, povertà e distruzione economica sempre maggiore. Sarebbe un disastro comunque». Un appello accorato: «Queste cose deve capirle, Di Battista, ne va della vita di 60 milioni di italiani». Chi fa politica dovrebbe imparare a stabilire precise priorità, come durante la Resistenza: nel ‘43, scrive Betti, la priorità era liberare il paese dal nazifascismo, poi si sarebbe pensato a ricostruirlo. «Allo stesso modo, oggi la priorità è abbattere il mostro dell’Eurozona, riprenderci la sovranità monetaria, chiedere al governo di spendere in deficit fino al raggiungimento della piena occupazione, di ottimi servizi pubblici e di un’ottima qualità della vita. E’ necessario tornare ad essere una nazione nella quale vivere bene, senza ansia per il presente e il futuro, riaffermare la nostra sovranità e tornare ad essere Italia, un paese stupendo distrutto dall’Eurozona, come gli altri».Di Battista, aggiunge Betti, conosce benissimo il programma della Mmt, la “Modern Money Theory”, elaborato da Warren Mosler per far uscire l’Italia dall’incubo della crisi, puntando innanzitutto alla piena occupazione. Quella della Mmt «è una delle proposte più votate nel vostro portale», quello di Beppe Grillo, «ma stranamente non è mai stata presa in considerazione per l’inserimento nel vostro programma. Perchè?». Insiste Betti, nel suo appello a Di Battista: «Perchè non volete comprendere come l’euro distrugge l’Italia, ma vi trincerate dietro i discorsi da bar, “meno sprechi, no corruzione, debito pubblico brutto”? Così facendo voi indirizzate tutta l’attenzione su problematiche secondarie, non primarie, capisce?». Distrazione di massa. «Sappiamo che il vostro movimento è impegnato in una raccolta firme sul tema della permanenza dell’euro». Però nelle filippiche di Di Battista il tema-euro «non compare, non ve n’è traccia». Il campione grillino non utilizza la sua vasta platea per la giusta causa. Al contrario, «raccoglie la rabbia diffusa nel paese e la convoglia tutta verso l’obiettivo sbagliato: questo è gravissimo e non giustificabile. Sta trattando l’euro come un dettaglio, anzi meno». Pensaci, Di Battista. Tu e i tuoi colleghi. Decitedevi a dire finalmente la verità e ad afferrare il toro per le corna, «altrimenti non potrete fare nulla per risollevare le sorti dell’Italia, nemmeno se andrete al governo, e verrete inesorabilmente spazzati via dalla storia».Qualcuno spieghi ad Alessandro Di Battista che l’Italia non sta morendo di corruzione, né di evasione fiscale, né di mafia. L’Italia sta morendo di euro. Corruzione, evasione e mafia esistevano già prima, ma c’era lavoro per tutti. C’erano benessere, risparmi, economia, aziende. In una parola: c’era la lira sovrana, la moneta che lo Stato poteva “fabbricare dal nulla”, senza limiti. Oggi, lo Stato è in bolletta perché la moneta non ce l’ha più, la deve elemosinare a caro prezzo sui mercati finanziari e prelevare direttamente dai cittadini, sotto forma di tasse. Tragedia nella tragedia? In Parlamento, l’opposizione non se n’è ancora accorta. Lo scrive Giulio Betti in una lettera aperta a Di Battista, reduce da un retorico intervento sullo scandalo “Mafia Capitale”, completamente fuori bersaglio: «Quando in una scuola manca la carta igienica, pensate alla corruzione», raccomanda Di Battista. «Quando vostro figlio cerca lavoro in un call center in India, pensate alla corruzione. Quando manca un posto letto in ospedale, pensate alla corruzione. Quando vedete strade distrutte, mondezza dovunque, infrastrutture ferme da anni, pensate alla corruzione».
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Tsipras sbaglia tutto, esca dall’euro e faccia causa all’Ue
Mentre i mercati s’interrogano su quali strategie, aldilà degli slogan elettorali, saranno poi effettivamente perseguite nel caso di successo delle forze politiche d’opposizione in Grecia, traspare sempre più la volontà del leader di Syriza, Alexis Tsipras, di procedere con un programma “accomodante” per la permanenza del paese nell’area euro. La stessa auspicata rimodulazione concordata del debito pubblico, in una nuova versione rivista e corretta dei precedenti haircut, non produrrebbe infatti gli effetti sperati così come puntualmente evidenziato dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica, maggiore think-tank tedesco sulle tematiche di politica economica), il quale ha fatto giustamente presente che «solo uscendo dall’euro la Grecia può evitare il fallimento». Qualsiasi intervento sul debito significherebbe solamente procrastinare i problemi dell’economia greca e non risolverli, aggravando il già disastrato paese ellenico da ulteriori vincoli determinati da prestiti internazionali e da tutele sempre più pressanti nella gestione economica domestica.D’altronde i precedenti e sempre più onerosi salvataggi non hanno fatto che aumentare la posizione debitoria del paese e non certo aiutato nel tirarlo fuori dall’impasse della drammatica situazione economica il cui destino ogni giorno appare sempre più irreversibile. La popolazione è allo stremo e francamente non ci sono più i presupposti e i margini di manovra per poter rendere l’euro una valuta idonea alle esigenze dell’economia greca. Il caso greco ha dimostrato, in tutta la sua drammaticità, come il trapianto forzato di una moneta possa alla fine degenerare in un inevitabile rigetto, distruggendo letteralmente un paese nonostante noti personaggi, che hanno costruito esclusivamente la propria carriera e credibilità asservendosi supinamente ai dogmi perversi della moneta unica, abbiano sostenuto fino a poco tempo fa che proprio il paese ellenico era la prova più tangibile del successo dell’euro. Il problema di fondo della Grecia pertanto rimane la permanenza nell’euro e le sue assurde e anacronistiche politiche economiche imposte a un paese che non ha mai avuto le possibilità, neanche remote, di poterle perseguire ed attuarle.Tutte le ricette provenienti dalla Troika sono state orientate esclusivamente a salvaguardare gli interessi dei creditori e non certo del “debitore”, producendo danni difficilmente quantificabili non solo nell’economia ma anche nel tessuto sociale, facendo sprofondare la Grecia in una devastante deflazione permanente. Proprio per questo la coalizione che governerà la Grecia dopo la consultazione elettorale prevista per il 25 gennaio prossimo, più che proporre tagli e ristrutturazioni del debito, dovrebbe intraprendere una seria azione risarcitoria nei confronti delle istituzioni europee per i danni subiti nel perseguimento delle politiche economiche che gli sono state imposte. L’aver di fatto commissariato il governo di Atene inducendolo a perseguire politiche e metodi completamente errati che hanno peggiorato continuamente la situazione inchioda, senza possibilità di attenuanti, le responsabilità della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea almeno sin dal 2010, anno in cui sono emerse in tutta la sua gravità sia l’effettiva posizione debitoria innescata dalla bomba a orologeria dei derivati contratti per ottenere il via libera all’entrata nell’Eurozona, sia l’insostenibilità che l’euro aveva prodotto nella sua crescita economica.Syriza chiede l’istituzione di una Commissione internazionale sulla falsariga di quella che portò all’accordo sul debito di Londra del 27 febbraio del 1953 dove fu cancellato il 50% del debito estero tedesco, ma i greci ora sottovalutano che la Germania di allora si avvantaggiò enormemente dell’accordo perché poté contare su una propria moneta e soprattutto su una politica economica perfettamente tarata per le proprie esigenze e non invece come quella odierna che rimarrebbe in ogni caso per la Grecia decisa altrove! Pertanto, se le nuove forze che assumeranno il potere ad Atene nei prossimi mesi intenderanno realmente fare gli interessi del paese con l’obiettivo di farlo risorgere economicamente e moralmente, dovrebbero perseguire una uscita dall’euro concordata e pianificata direttamente con i governi europei e promuovere contestualmente un’azione risarcitoria nei confronti della Troika per le responsabilità oggettive avute nella gestione delle crisi finanziarie avvenute negli ultimi anni.In particolare, se l’inesperienza e i grossolani errori profusi a più riprese dall’ex commissario europeo per gli affari economici e monetari Olli Rehn, trincerato sempre dietro vulgata dell’irreversibilità dell’euro, non avessero forzatamente fatto adottare alla Grecia politiche economiche con il pugno di ferro con il criterio del “bisogna punire chi non rispetta i patti”, non rendendosi minimamente conto che in questo modo stava segando il ramo dove invece erano seduti anche gli altri, lui compreso, il paese ellenico non sarebbe arrivato allo stato disastroso in cui versa attualmente. E’ giusto che vengano pertanto risarciti gli enormi danni perché gran parte delle colpe sono da imputare all’imposizione di politiche economiche completamente errate e con fini molto distanti dall’effettivo risanamento del paese: in questo modo si ristabilirebbe un criterio di giustizia nei confronti di palesi soprusi compiuti fra l’incompetenza e l’aver favorito interessi finanziari di parte.(Antonio Maria Rinaldi, “Grecia, perché Tsipras si sbaglia”, da “Sollevazione” dell’8 gennaio 2015).Mentre i mercati s’interrogano su quali strategie, aldilà degli slogan elettorali, saranno poi effettivamente perseguite nel caso di successo delle forze politiche d’opposizione in Grecia, traspare sempre più la volontà del leader di Syriza, Alexis Tsipras, di procedere con un programma “accomodante” per la permanenza del paese nell’area euro. La stessa auspicata rimodulazione concordata del debito pubblico, in una nuova versione rivista e corretta dei precedenti haircut, non produrrebbe infatti gli effetti sperati così come puntualmente evidenziato dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica, maggiore think-tank tedesco sulle tematiche di politica economica), il quale ha fatto giustamente presente che «solo uscendo dall’euro la Grecia può evitare il fallimento». Qualsiasi intervento sul debito significherebbe solamente procrastinare i problemi dell’economia greca e non risolverli, aggravando il già disastrato paese ellenico da ulteriori vincoli determinati da prestiti internazionali e da tutele sempre più pressanti nella gestione economica domestica.
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Tsipras come Monti: curare la Grecia col pareggio di bilancio
La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?Tspiras, scrive l’“Huffington Post”, ha sintetizzato il suo pensiero in un libro-intervista del giornalista Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, La mia Sinistra”, stampato dalle edizioni Bordeaux con prefazione di Stefano Rodotà. Prima incoerenza: Tsipras annuncia che Syriza non intende tornare a una politica democratica basata sul deficit positivo, l’investimento dello Stato per i cittadini. Intoccabile, quindi, la mostruosità economica del pareggio di bilancio. «Il riuscire a proseguire tenendo come punto fermo il pareggio di bilancio è realmente un punto nodale della nostra strategia, perché ci dà la possibilità di trattare da una posizione di forza», sostiene Tsipras, secondo cui «pareggio di bilancio non significa, per forza, dover ricorrere all’austerità». Il leader della sinistra greca preferisce parlare di «giusta divisione dei vari pesi» e «redistribuzione vera, nel sostegno ai più deboli». Tradotto: la cintura resta stretta, ma le torture sociali andranno estese anche ai meno poveri. «La sinistra – dice Tsipras – non è arrivata sul proscenio per servire gli interessi dei potenti, ma per essere capace di attuare una politica socialmente giusta».Retorica a parte, Tsipras si dichiara fedele al suicidio economico programmato: col bilancio inchiodato al pareggio, lo Stato non spende un euro in più di quelli che riceve sotto forma di tasse, con un saldo per i cittadini pari a zero, quindi catastrofico. Tutto questo, per tenere a bada i mercati e disinnescare il ricatto dello spread. Non spendere per i cittadini, secondo Tsipras significa «limitare fortemente i bisogni di contrarre prestiti». Austerity pura, dunque, come Mario Monti? Tsipras ripete che la priorità è «rimettere in moto l’economia». Già, ma come? Più tasse o più spesa pubblica? Visto che Syriza non intende espandere la spesa per paura di Bruxelles e della Bce, non resta che una redistribuzione fiscale, destinata forse a incidere sulla società ma non certo sull’economia, che è al collasso. L’Europa teme il voto greco, e la prudenza di Tsipras è dichiarata: «Non intendiamo ricattare nessuno e non intendiamo neanche presentarci alla trattativa indossando una cintura esplosiva», dice il leader della sinistra ellenica, alludendo al negoziato per l’unica proposta – molto modesta – per la quale Syriza si candida: dilazionare semplicemente la liquidazione del debito.Eppure, nonostante il bassissimo profilo di Tsipras, secondo il filosofo Slavoj Zizek una vittoria di Syriza «darebbe la sveglia all’Europa». Tsipras conferma: «L’Europa è come un sonnambulo che sta procedendo verso il dirupo, e noi saremo la sveglia del sonnambulo». E come? Confermando il pareggio di bilancio? Tsipras resta ben incollato al grande diktat di Bruxelles, anche se sa benissimo che conduce alla rovina: «Credo che il modello “Sud in deficit e Nord in surplus” non costituisca un esempio attraente neanche per i popoli del Nord Europa. Presuppone, infatti, che gli stipendi debbano smettere di crescere per un tempo piuttosto lungo. Allo stesso tempo, questa logica di iper-accumulo della ricchezza (che viene accumulata nei risparmi ma non investita) costituisce un pericolo enorme per l’economia europea e per quella di tutto il mondo. Accumulando la ricchezza, si accumula la crisi che sarà destinata a scoppiare domani». Con questa strategia, aggiunge Tsipras, «l’Europa è destinata a non sfuggire al suo cammino recessivo: la recessione tornerà presto, e questo vuol dire che viene avvelenata l’acqua dell’economia di tutto il mondo. Vediamo, infatti, che l’Europa esporta recessione nel resto dell’economia mondiale e credo che sia proprio ciò che fa innervosire enormemente gli americani».Non dobbiamo scordarci, aggiunge il leader di Syriza, che «per riuscire ad affrontare la crisi, gli americani hanno seguito una politica economica totalmente diversa, una politica espansiva», cioè basata sull’incremento della massa monetaria e del deficit. E’ il tabù europeo che Syriza non osa infrangere, ben sapendo che a imporlo sono stati proprio i tecnocrati di Bruxelles: «La Grecia l’hanno rovinata e insistono nell’applicare le loro ricette distruttive». In altre parole: anche se Syriza non propone ricette per uscire dalla crisi e neppure dal cappio del rigore, limitandosi solo a una più equa ripartizione del peso sociale del disastro, secondo Tsipras la sola vittoria della sua sinistra in Grecia basterebbe a mettere paura ai padroni tedeschi dell’Europa, gli inventori dell’austerity, generando uno smottamento virtuoso in senso democratico. Tutto questo, senza osare alcunché: Syriza annuncia che non farà nulla per mettere in discussione l’impianto economico di Bruxelles, basato sui falsi dogmi di chi ha ideato e imposto la tragedia europea. Per contro, finora la sinistra greca non è stata “complice” dell’euro-sistema. Basta dunque questa sua estraneità a farne il salutare spauracchio di cui parla Zizek?La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?
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Grillini, ragionate: sono ben altri i ladri del nostro futuro
Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.Per queste ragioni, pur non sfuggendomi alcuni evidenti limiti ontologici, avevo in passato più volte invitato ai miei lettori a votare per i pentastellati. Non accordare consenso ai partiti che hanno sostenuto governi come quello di Mario Monti è il primo, insufficiente, passo per raggiungere una libertà che cammini sulla ali della consapevolezza. Limitarsi però ad evidenziare le aberrazioni altrui senza contestualmente costruire una alternativa politica credibile, coerente e ideologicamente orientata è prassi sterile e in prospettiva perdente. Renzi, ennesimo curatore fallimentare nominato premier dal presidente Napolitano (quest’ultimo in forza alla Ur-Lodge “Three Eyes” fin dal 1978), è riuscito a “svuotare” in parte il bacino elettorale del Movimento di Grillo e Casaleggio, sfidandoli proprio sul loro terreno: quello delle retorica contro la Casta, gli sprechi, i corrotti e altre simili amenità, non a caso alimentate e fomentate dai giornali di regime fin dai tempi di Mani Pulite.La Rottamazione di Renzi rappresenta nulla di più che l’evoluzione, perfezionata e politicamente corretta, del già rodato “tutti a casa” di grillina memoria. Al sistema schiavista dominante, quello che parla per bocca di ectoplasmi con la penna che creano ad arte finti mostri come lo spread e il debito pubblico, interessa poco della sorte personale dei diversi burattini che si alternano al governo del paese; ai padroni veri, quelli che operano all’interno dei templi più esclusivi ed occulti, interessa soltanto che non vengano messi in discussione i paradigmi concettuali che legittimano la prosecuzione di politiche antisociali e disumane. Per queste ragioni, tempo fa, rimasi inorridito nel leggere una intervista rilasciata da Casaleggio al “Fatto Quotidiano” contenente un indiscriminato attacco alla spesa pubblica degno di un Enrico Letta qualsiasi. Perché mai, mi chiesi allora, il “Movimento 5 Stelle” sceglie una narrazione dei fatti terribilmente simile a quella recitata dai vari Napolitano, Renzi e Merkel? E’ possibile si tratti di una opposizione di comodo, nata cioè con lo specifico intento di fornire agli altri una buona scusa per formare all’infinito governi consociativi ed etero-diretti dall’esterno?Questo rovello mi ha inseguito fino al 5 gennaio scorso, giorno in cui il blog di Grillo ha deciso coraggiosamente di pubblicare una riflessione di Gioele Magaldi, leader del movimento massonico di opinione Grande Oriente Democratico nonché autore del fortunato libro “Massoni” (Chiarelettere editore). Solo degli uomini liberi, infatti, possono permettersi di rilanciare le tesi di Magaldi senza dover chiedere il preventivo consenso del “maestro venerabile” di turno. E Grillo e Casaleggio, evidentemente, appartengono alla categoria degli uomini e non a quella, nutritissima, dei quaquaraquà. Certo, dopo anni passati a dispensare letture delle realtà molto semplificate, non sarà agevole spingere i militanti e i simpatizzanti del “Movimento 5 Stelle” ad abbracciare immediatamente una dimensione politica più articolata. Sono comunque certo del fatto che le tante sottili intelligenze che animano il Movimento di Grillo colgono l’impellente necessità di uno scatto in avanti.Non a caso, anche oggi, dimostrando una lodevole apertura mentale, Grillo ha pubblicato sul suo blog un articolo chiaramente e positivamente influenzato dalla fruttuosa lettura del libro “Massoni”. Nelle more del summenzionato pezzo, infatti, Grillo scrive: «Il miglioramento rispetto ai picchi dello spread di novembre 2011 pilotato per cacciare Berlusconi e imporre Monti e la sua “Three Eyes” in grembiulino…», dando perciò prova di avere già indossato le pregiate lenti offerte da Magaldi. Giusto per essere precisi, è bene sottolineare come Mario Monti risulti organico tanto alla superloggia “Babel Tower”, quanto alla Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Alla Ur-Lodge “Three Eyes”, invece, fondata da Kissinger, Brzezinski e David Rockefeller nel 1967, è affiliato fin dall’aprile del 1978 il nostro presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ma non Mario Monti). Ma questi sono dettagli. Il dato davvero importante è quello che testimonia come oggi, in Italia, esista una forza politica importante che conserva la libertà di chiedere conto al sistema dominante di fatti e dinamiche decisive, graniticamente silenziate da un circuito mediatico omertoso che invoca implicitamente un oblio che mai otterrà.(Francesco Maria Toscano, “Il Movimento 5 Stelle è perfezionabile, ma è guidato da uomini liberi”, da “Il Moralista” del 9 gennaio 2015).Fin dagli albori ho seguito con attenzione genesi ed evoluzione del “Movimento 5 Stelle”, avanguardia italiana capace di cristallizzare un moto di ribellione e di protesta oramai estesosi, con declinazioni differenti, in tutto il Vecchio Continente. La perversa alleanza che unisce in funzione pro-austerity i vertici del Partito Popolare Europeo con i pari grado del Partito Socialista, non poteva infatti alla lunga non provocare l’esplosione elettorale di nuovi partiti e movimenti in grado di incanalare il crescente malcontento nei confronti di un establishment considerato a ragione corrotto e infingardo. “Podemos” in Spagna, Syriza in Grecia, il Front National in Francia e l’Ukip in Inghilterra, solo per fare gli esempi più evidenti, sono termometri diversi che registrano però la capillare e omogenea diffusione ad ogni latitudine degli stessi identici sentimenti: ovvero rabbia, disillusione e sfiducia nei confronti delle forze politiche “tradizionali”. In questo campo, oggettivamente, il “Movimento 5 Stelle” può orgogliosamente affermare di avere aperto una breccia e indicato una strada.
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Foa: avremo un altro Napolitano, pronto a tradire l’Italia
L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio alla sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».Non illudiamoci che a Napolitano subentri un eletto «autenticamente patriottico», continua Foa, visto che le condizioni non sono affatto cambiate: il “padrone” è sempre l’élite finanziaria europea neoliberista, mercantilista, neo-feudale, quella a cui – probabilmente con l’eccezione del solo Berlusconi, peraltro prigioniero dei suoi conflitti d’interesse – ogni potente italiano ha sempre obbedito, negli ultimi decenni. Napolitano non fa certo eccezione: «Non è stato un buon presidente – scrive Foa – per la semplice ragione che non ha rispettato l’essenza, l’anima, la missione di un Capo dello Stato: che è quello di servire il popolo, di rispettare in modo inflessibile la Costituzione, di difendere la sovranità». L’uomo del Colle, invece, «appartiene a quella élite di politici che, in Italia ma non solo, di fatto si prodiga per svuotare di significato proprio la carica, le istituzioni e in ultima analisi il paese che dovrebbe difendere», anche se lo fa illudendo l’opinione pubblica con «il rispetto formale del mandato e della Costituzione», così come «i richiami ai valori nazionali e al senso dello Stato». Un copione «rituale, retorico, obbligato».Ma attenzione: «Il tono cambia quando il presidente parla di Unione Europea; in questo caso – osserva Foa – trapela l’appartenenza, la convinzione, il senso storico di una missione». Infatti, «il presidente che dovrebbe difendere la Costituzione curiosamente lancia continuamente appelli alla cessione di sovranità e di poteri a favore della Ue, di cui auspica l’unione politica», naturalmente «per il bene degli italiani». Peccato che Napolitano si sia prodigato «per difendere, proteggere e al momento giusto lanciare quei politici o quei tecnici che la pensano come lui e con cui condivide le stesse referenze sovranazionali», non esattamente “amiche” dell’Italia. «E’ stato Napolitano ad avallare il colpo di Stato con cui le élite europee hanno fatto cadere Berlusconi nel 2011, attribuendo simultaneamente l’incarico al suo grande amico e sodale Mario Monti, tra l’altro beneficiandolo della nomina improvvisa a senatore a vita; dunque rendendo possibile l’attuazione di un piano che, come ormai ampiamente dimostrato, è stato concepito mesi prima della caduta del Cavaliere».Poco dopo, è lo stesso Napolitano a spingere «un altro giovane emergente sodale», Enrico Letta, a Palazzo Chigi. E poi, dopo pochi mesi, a «benedire l’improvvisa ascesa, ma gradita a certi ambienti, di Matteo Renzi, superando un’antipatia e una diffidenza personale che ora traspare, ma a cui si è inchinato in ossequio a logiche che al popolo non vengono mai spiegate: un “obbedisco” a modo suo». Nessuna illusione sul futuro: le forze che dominano in Parlamento, inclusa Forza Italia, non osano infatti mettere in discussione i diktat del rigore, dal Fiscal Compact al pareggio di bilancio, cioè le misure (da tutti votate) che in tre anni hanno “suicidato” il paese, facendogli pagare una flessione del Pil da 450 miliardi e provocando la catastrofe della disoccupazione, il fallimento di migliaia di aziende, il crollo dei consumi e del gettito fiscale, l’esplosione di un debito pubblico micidiale perché non denominato in moneta sovrana. Gli italiani fiutano la rovina: tre anni di guerra, milioni di poveri, le pensioni tagliate dalla riforma Fornero votata anche dal Pd. Italia kaputt, come voleva il “padrone” tedesco che temeva la concorrenza del made in Italy. Ecco perché «via un Napolitano se ne farà un altro, che offra le stesse garanzie e vanti le stesse appartenenze», profetizza Foa. «Perché questa è la logica del potere che governa davvero l’Europa. E dunque anche quel che resta dell’Italia. Ma agli italiani non va detto e men che meno spiegato».L’alibi è sempre lo stesso, l’indifendibile Berlusconi, quello delle “cene eleganti” ad Arcore con la “nipote di Mubarak” mentre esplodeva la tempesta dello spread. Imbarazzante, e pure ingombrante: amico di Putin e di Gheddafi. L’Italia “non se lo può permettere”, recitava la propaganda mainstream allineata a un centrosinistra che per vent’anni gli aveva attribuito ogni male, fingendo di ignorare che la radice della crisi italiana – la fine della finanza pubblica, la grande privatizzazione, la precarizzazione del lavoro – è da imputare proprio all’obbedienza ai poteri forti da parte della sinistra “istituzionale” e tecnocratica dei vari Prodi, Ciampi, D’Alema, Padoa Schioppa. Una vicenda devastante, il cui ultimo decisivo capitolo l’ha scritto Giorgio Napolitano. Ripercorrendo la storia di questo decennio, scrive Marcello Foa sul “Giornale”, si scopre che, nei momenti più critici, Napolitano ha usato tutto il suo prestigio per spingere italiani e politici «nella direzione voluta dall’establishment europeo, che appare come un referente più forte, alto e influente della Costituzione italiana». Sicché, «parlare di tradimento del mandato non è improprio: di certo quello di Re Giorgio appare come un tradimento dell’Italia».
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Il paradiso di Severgnini, questo falso Occidente criminale
È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).E poco importa se questi movimenti hanno storie e radici socioculturali diverse nelle diverse situazioni, tanto ormai si può giocare sul luogo comune di un Islam radicale globalizzato e omologato che esiste solo nell’imaginario dei media del “mondo libero” (salvo poi dover fare i salti mortali come in Siria, dove il mostro Bashar al-Assad e i “terroristi” del Pkk curdo vengono ora considerati alleati nella lotta contro i super mostri dell’Isis). Subito dopo la “cleptocrazia” di Putin che tenta di “riesumare la Grande Russia” aggredendo l’Ucraina; e qui – a parte la faccia tosta di definire cleptocrazia il regime russo quando si è cittadini della nazione più corrotta del mondo, come hanno appena dimostrato gli scandali Mose, Expo e Roma Mafia – c’è una palese inversione della realtà storica, visto che ad assediare la Russia e a tentare di colonizzare i paesi ex comunisti dell’Est Europa è stato semmai, dopo il 1989, proprio il “mondo libero” occidentale.Infine l’eterno, ridicolo (per la sua irrilevanza geopolitica) bersaglio di Pyongyang, un regime da operetta che viene presentato come una terribile minaccia per la libertà, solo per avere orchestrato alcuni attacchi informatici contro la Sony, che ha prodotto un film satirico in cui si dileggia il regime nordcoreano (nel mondo libero non si censura: ci si limita a nascondere al pubblico la verità, come hanno dimostrato le rivelazioni di Assange e Snowden, i quali, per avere rovinato l’immacolata immagine dei campioni della libera informazione, sono ora costretti a vivere in esilio). Questi “nuovi Erode” possono farci paura, tuona Severgnini, ma non si illudano: essi non possono vincere; a vincere saremo noi, il mondo libero occidentale, e lo faremo con la forza delle idee e non con la violenza (peccato che sulla testa delle centinaia di migliaia di civili massacrati in Iraq e in Afghanistan, per tacere delle tante altre guerre combattute in nome della libertà, siano piovute bombe e non idee). Ma vediamo quali sono queste idee vincenti.Pace (abbiamo appena accennato ai virtuosi massacri spacciati per guerre umanitarie); benessere (la crisi iniziata nel 2008 ha svelato la realtà di un mondo in cui le disuguaglianze sono tornate ai livelli dell’800 e dove all’arricchimento smisurato di un pugno di esponenti dell’alta finanza corrisponde l’immiserimento di milioni di cittadini comuni); istruzione (vogliamo parlare dei costi di un’istruzione superiore che torna ad essere appannaggio di ristrette élite?); tolleranza (quella di un paese “libero” come gli Stati Uniti, dove migliaia di cittadini di colore disarmati vengono assassinati da poliziotti che non solo non rischiano di essere incriminati ma conservano anche il posto?), rispetto per le donne (anche se dietro la retorica del politically correct si nasconde la realtà di un lavoro femminile che continua a essere sottopagato, per tacere dei femminicidi perpetrati nelle normali famiglie borghesi).Che dire poi della presunta superiorità del mercato garante di libertà e democrazia: finché dovremo ancora ascoltare questa baggianata? È vero che è passato molto tempo da quando i regimi nazifascisti si sono dimostrati del tutto compatibili con il libero mercato, ma oggi, con la Cina totalitaria che si avvia a diventare la maggiore potenza capitalistica mondiale, siamo di fronte a una smentita ancora più clamorosa. Insomma, se questi sono i suoi “valori”, allora non solo è possibile che l’Occidente perda, ma si può dire che ha già perso, perché di quei valori non ne è rimasto in piedi nemmeno uno: a combattere i “nuovi Erode” non c’è Gesù, ma un vecchio Erode non meno feroce dei suoi nemici. Eppure, scrive Severgnini, i migranti rischiano ancora la vita in mare «per un pasto, un letto, un ospedale, una strada in cui non bisogna tremare di paura davanti a un poliziotto». Rischiano la vita perché a casa loro crepano di fame, ma qui, più che pasti, letti e ospedali, trovano squallidi ghetti assediati da folle razziste (do you remember Tor Sapienza?) e, se non subiscono passivamente qualsiasi angheria, o se sono “irregolari”, tremano eccome davanti a un poliziotto.Alla fine, quasi prevedendo le sarcastiche obiezioni avanzate in questo articolo, Severgnini le rintuzza con il solito refrain: «Eppure il mondo ci riconosce che, per adesso, non s’è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». È l’argomento con cui il pensiero unico neoliberista cerca di legittimare, sia pure con argomenti di basso profilo (“in fondo non abbiamo niente di meglio”), la propria egemonia culturale. Ed è proprio sul piano culturale, prima ancora che su quello politico, che occorre lavorare per smontarlo, come alcuni (non moltissimi purtroppo) cercano di fare. Uno di questi era Hosea Jaffe, un economista sudafricano morto qualche giorno fa in Italia, dove ha vissuto i suoi ultimi anni di vita. Marxista eretico (i marxisti ufficiali non gli perdonavano di avere rinfacciato alle sinistre occidentali la loro complicità con il colonialismo), iconoclasta fino ad accusare gli stessi Marx ed Engels di eurocentrismo non senza venature razziste, Jaffe è stato in prima fila nelle lotte contro diversi regimi coloniali e neocoloniali africani, e si è battuto perché partiti e sindacati occidentali riconoscessero che parte delle loro conquiste salariali e sociali erano finanziate dal supersfruttamento dei popoli del Terzo Mondo.Oggi le sue idee trovano una sia pure parziale applicazione nelle lotte di quei movimenti sudamericani, africani e asiatici che hanno cominciato a capire di doversi inventare un’alternativa globale al “mondo libero”. Possiamo solo sperare che lavorino abbastanza in fretta per impedire che la rabbia dei milioni di disperati esclusi dai nostri “paradisi” trovi rappresentanza solo da parte dei nuovi Erode di cui sopra. Senza dimenticare che quella rabbia inizia a montare anche qui e, in assenza di un’alternativa di sinistra credibile, rischia di imboccare la strada che aveva imboccato negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, una strada in fondo alla quale ci aspetterebbero orrori peggiori di quelli che oggi inquietano i sogni dei pacifici borghesi occidentali.(Carlo Formenti, “Severgnini e la vecchia retorica del mondo libero contro l’impero del male”, da “Micromega” del 22 dicembre 2014).È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.
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Sacrifici umani, ariosofia nazista: ieri Auschwitz, oggi l’Ue
Sacrifici umani: chi li compie è convinto che il sangue della vittima abbia il potere di rendere più forti, invincibili, quasi immortali. E’ sempre accaduto, nell’antichità ma non solo. Ad Auschwitz, per esempio: «Perché sterminare gli ebrei? Al regime nazista erano più utili da vivi, come schiavi», osserva Francesco Maria Toscano. Tanta brutale ferocia, infatti, non si spiega se non illuminando il buio retroterra dell’ideologia stragista germanica, basata proprio sul culto del sacrificio. Ne sa qualcosa anche la Grecia di oggi, a cui è stata inflitta – con crudeltà gratuita – la tortura infinita dell’austerity, la distruzione di massa della struttura sociale di un intero paese, senza nessuna pietà per anziani e bambini. Niente a che vedere coi deliri di Himmler? La stessa Angela Mergel, secondo l’esplosivo libro “Massoni” di Gioele Magaldi, fa parte di una superloggia segreta che si chiama “Walhalla”, esattamente come la sinistra cripta iniziatica del capo delle SS. Il paradiso nibelungico e il mito di Parsifal. La guerra come vocazione, la violenza come prassi. Cosa lega l’anima oscura del nazismo alla ferocia tecnocratica dell’Ue a guida tedesca? Si chiama ariosofia. E’ una corrente sotterranea, che percorre l’Europa per decenni, legittimando i superuomini e incoraggiandoli a compiere “sacrifici umani”.Fascismo e nazismo, scrive Toscano recensendo il libro di Magaldi sul blog “Il Moralista”, furono segretamente aiutati, nella loro ascesa, da segrete forze massoniche: «Tanto il Duce quanto il Führer giunsero al potere grazie all’aiuto di alcuni “apprendisti stregoni” in grembiulino, desiderosi di imprimere una svolta autoritaria e oligarchica al mondo occidentale». Certo, Roma e Berlino avevano ufficialmente messo al bando la “libera muratoria”. Ma Mussolini «fece del fascismo una specie di Gran Loggia di Stato, affidando non a caso al massone Alberto Beneduce il ruolo di supervisore dell’intera economia fascista». Parallaelamente, «dopo avere smantellato le logge tedesche “ordinarie”», Hitler delegò al massone Hjalmar Schacht il compito di riportare in auge il vecchio sistema industriale e finanziario germanico, basato sul mercantilismo padronale. Non è solo politica: gli uomini del Führer, aggiunge Toscano, traevano ispirazione dalla loro famigerata dottrina segreta, l’ariosofia, «corrente occulta ben presto entrata in rotta di collisione con i massimi rappresentanti di un esoterismo di tipo “tradizionale”».Cos’è l’ariosofia? «E’ una gnosi, coltivata specialmente all’interno delle SS di Himmler, capo supremo del culto dell’Ordine Nero». Nel suo dirompente libro, che denuncia il ruolo segreto delle “Ur-Lodges” nella storia del Novecento, Magaldi cita un saggio di Pierluigi Tombetti che rievioca il “cuore nero” dell’esoterismo nazista delle SS: «Nella campagna a poca distanza da Paderborn, in Vestfalia, si erge maestoso su una collina che domina il territorio il castello Wewelsburg, dove Heinrich Himmler creò l’Omphalos, o ombelico del mondo, il centro spirituale del suo personale impero». Proprio a Wewelsburg, i migliori scienziati tedeschi si riunivano per dedicarsi alla “ricerca pura”. I cultori dell’Ordine Nero rielaboravano il mito di “Thule”, l’iperborea ariana, il Polo Nord, l’antica patria in cui la maggioranza delle tradizioni germaniche posizionavano l’Eden ariano, «cioè il luogo in cui, nella notte dei tempi, una stirpe di uomini-dei ariani vivevano in perfetta armonia con le forze della natura, essendone essi stessi una manifestazione». Uomini dotati di poteri divini. Tra il 1939 e il 1944, Himmler stravolse la struttura del castello, ricavando una cripta che divenne il sancta sanctorum delle SS. Cripta che Himmler battezzò il “Wahlalla”.«Per inciso – scrive Toscano – proprio “Wahlalla” è il nome di una delle tre Ur-Lodges frequentate da Angela Merkel». Un tuffo ancestrale nell’irrazionale? Solo in apparenza: è proprio una certa ideologia esoterica a spiegare, a posteriori, certe manifestazioni storiche altrimenti incomprensibili. L’Olocausto, per esempio. Perché quella strage così metodica e fanatica? «La risposta va ricercata sempre nell’ambito della filosofia occulta», sostiene Toscano. «Molte dottrine sapienziali antiche, assorbite e riattualizzate dalle élite esoteriche naziste, auspicavano la consumazione di “sacrifici umani” indispensabili per liberare “energie positive” a vantaggio dei sacrificatori». Ed eccoci al 2014: «Anche oggi, sebbene in chiave soft, riveduta e corretta, Angela Merkel, iniziata presso una loggia dal nome evocativo e ambiguo (“Walhalla”), inneggia di continuo alla retorica del “sacrificio”. Per queste ragioni, al netto delle evidenti differenze di metodo, l’Olocausto greco attuale è paragonabile a quello ebraico di allora, figli entrambi della stessa identica “gnosi”, quella stessa che insegnava a Himmler ieri e a Merkel oggi come i “sacrificatori” traggano energia e forza versando il sangue delle vittime».Giusto per completare la panoramica “esoterica”, continua Toscano, è giusto ricordare come la Merkel risulti affiliata pure alla “Parsifal”, una “Ur-Lodge” frequentata in passato anche da Helena Petrovna Blavatsky, madrina di quella “teosofia” che tanto influenzò l’armamentario ideologico caro alle élite con la svastica. «E quindi, con riferimento alla biografia della Merkel, le “coincidenze” in grado di far tornare alla mente l’esperienza nazista guarda caso aumentano». Anche l’atroce capitolo del nazismo, secondo Magaldi, non è perfettamente leggibile se si trascura il ruolo-chiave dell’ideologia occulta e dei circoli segreti di allora, accomunati dallo stesso inconfessabile obiettivo: far sparire dall’Europa i cittadini, trasformandoli in sudditi. La Germania e l’Ue stanno riuscendo, oggi, nell’impresa tentata ieri da Hitler? Suggestioni inquietanti, tra le mille sfaccettature della storia e dell’attualità. Un panorama che il libro di Magaldi arricchisce di inediti e sbalorditivi indizi, inserendo nomi e cognomi del “terzo livello” del supremo potere. Un network mondiale di grandi oligarchi, rispetto ai quali i politici sono soltanto mediocri esecutori. Un potere smisurato e “nemico”, il cui pensiero retrostante è aristocratico, feudale, autoritario, persino tenebroso. Secondo questa tesi, i “sacrifici umani” non sono affatto un incidente socio-economico. Sono espressamente voluti, come se si trattasse di un rito: perché le nostre sofferenze sono il “loro” trionfo.(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Sacrifici umani: chi li compie è convinto che il sangue della vittima abbia il potere di rendere più forti, invincibili, quasi immortali. E’ sempre accaduto, nell’antichità ma non solo. Ad Auschwitz, per esempio: «Perché sterminare gli ebrei? Al regime nazista erano più utili da vivi, come schiavi», osserva Francesco Maria Toscano. Tanta brutale ferocia, infatti, non si spiega se non illuminando il buio retroterra dell’ideologia stragista germanica, basata proprio sul culto del sacrificio. Ne sa qualcosa anche la Grecia di oggi, a cui è stata inflitta – con crudeltà gratuita – la tortura infinita dell’austerity, la distruzione di massa della struttura sociale di un intero paese, senza nessuna pietà per anziani e bambini. Niente a che vedere coi deliri di Himmler? La stessa Angela Merkel, secondo l’esplosivo libro “Massoni” di Gioele Magaldi, fa parte di una superloggia coperta che si chiama “Walhalla”, esattamente come la sinistra cripta iniziatica del capo delle SS. Il paradiso nibelungico e il mito di Parsifal. La guerra come vocazione, la violenza come prassi. Cosa lega l’anima oscura del nazismo alla ferocia tecnocratica dell’Ue a guida tedesca? Si chiama ariosofia. E’ una corrente sotterranea, che percorre l’Europa per decenni, legittimando i superuomini e incoraggiandoli a compiere “sacrifici umani”.
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Racconto un sacco di balle, ma se lo chiamo storytelling…
Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva», dice il vocabolario. Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.Immaginiamo, per esempio, un medio imprenditore tedesco, o cinese, che voglia investire qui. Potrà valutare lo storytelling corrente e ben oliato dai media – ottimismo, ripresa, riforme, Jobs Act, camice bianche, ministri da copertina, modernità, parole inglesi – oppure valutare lo stato delle cose: leggi complicatissime, giustizia lenta, corruzione, malavita, er Guercio, il mondo di mezzo e altro ancora. Potrà leggere i discorsi “luminosi e progressivi”, oppure i titoli delle inchieste in corso. I recenti fatti di cronaca, per esempio, rendono l’attuale storytelling governativo, tutto incentrato sul futuro, un po’ fuori luogo. Bella storia, insomma, ma smentita ogni giorno. Si è provato, è vero, all’inizio e per un annetto a ridicolizzare che si opponeva al racconto sorridente, ottimista e positivo (“gufi”, è già parola soprassata, sepolta), ma poi le smentite della realtà si sono fatte implacabili, e quel racconto, quello storytelling, oggi non sfonda più, non conquista.Non perché gli manchino elementi di fascino: a chi non piacerebbe essere moderni, carini, sexy, glamour, con un’economia frizzante e un governo di ragazzini ben pettinati? Piuttosto perde credibilità perché fornisce immagini troppo distanti dalla realtà che si vive ogni giorno. In certi casi, insomma, anche se è inglese e fa fico, costruire un elaborato racconto – una narrazione – troppo lontano da quel che accade può trasformarsi in autogol. Un caso di scuola è l’uso del concetto di “futuro” per la nuova classe dirigente renzista. Lasciamo da parte gli slogan facili e leopoldeschi e prendiamo invece il succo: faremo, saremo – o meglio torneremo ad essere – svilupperemo, cresceremo, attireremo capitali stranieri, eccetera eccetera.Lo storytelling è positivo e ottimista e si lascia intendere che domani andrà tutto molto meglio. Intanto, non domani ma oggi, uno non riesce ad avere un appalto perché non conosce nazisti dell’Illinois, o di Roma, oppure viene licenziato, oppure viene demansionato, oppure ascolta la solfa dell’abbassamento delle tasse più poderoso dai tempi di Ramsete II e si trova a pagarne di più. Ecco, allarme: lo storytelling renziano è molto distante dalla realtà. Futuro è un concetto luminoso ma distante, mentre qui e ora di luminoso c’è pochino. E siccome sanno tutti che per avere un buon futuro si parte da oggi e non da domani, la storia scricchiola, stona, suona falsa, e può diventare irritante. Si richiede un veloce ridisegno dello storytelling, una cosa che in italiano potrebbe suonare così: «Su, ragazzi, raccontatecene un’altra, che questa non ha funzionato».Dicesi storytelling un complesso sistema di pubblicazioni, notizie, modi di comunicarle, stili innovativi, segnali mediatici, ripetizioni ossessive perché il concetto entri anche nelle teste più dure, nuovi approcci, citazioni. Insomma un po’ tutto quello che una volta si chiamava “comunicazione” e ora fa più fico dirlo in inglese. «L’arte del raccontare storie impiegata come strategia di comunicazione persuasiva», dice il vocabolario. Ecco. Ora va da sé che il confine tra storytelling e leggenda metropolitana è un po’ labile e viene ogni giorno superato. Molto spesso invece impatta con la realtà con la potenza di un frontale tra camion e allora si crea un effetto lisergico: da una parte lo storytelling, e dall’altra quello che succede veramente. Ora si può scegliere, naturalmente: abbeverarsi alla leggenda, che si ripete nella speranza che qualcuno la prenda per vera, oppure guardare ai fatti.
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Matteo, le elezioni e quella scocciatura chiamata democrazia
«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».Su “Micromega”, Barberis punta il dito anche contro «il fallimento delle Regioni, che da cardine del federalismo all’italiana si sono trasformate in carrozzoni costosi e inefficienti», un fardello ben più gravoso di quello delle Province, da poco “rottamate a metà” (eliminate le elezioni, non gli enti). Oggi, secondo Barberis, le Regioni volute con forza dal Pci di Berlinguer per distribire territorialmente e democratizzare il governo dello Stato «non le difende più nessuno, neppure la Lega di Matteo Salvini, ormai convertita in un partito nazionalista alla Le Pen». Le Regioni sono state travolte dagli scandali? «Ma lo sono state ancor più dalla crisi finanziaria», sottolinea l’analista di “Micromega”: gli enti locali, da cui dipende la delicatissima gestione di un servizio-chiave come quello sanitario, sono state letteralmente prese al laccio dalla politica di austerity, che impone un drammatico ridimensionamento della protezione sociale, a scapito in primo luogo dei cittadini più bisognosi, quelli che non possono permettersi cliniche private.L’altra grande ragione del dilagante astensionismo, secondo Barberis, è «la liquefazione dei grandi partiti radicati sul territorio, ormai sostituiti da comitati elettorali all’americana che però non mobilitano gli elettori». Quale che sia il risultato del voto, il discorso riguarda soprattutto l’ultimo partito rimasto, il Pd renziano, che «nonostante gli infuocati comizi del leader in Emilia, porta al voto percentuali di elettori minori che in Calabria». Al di là dell’analisi dei flussi elettorali contingenti, compreso il “boicottaggio” ispirato dalla Cgil presa a schiaffi dal premier, «l’impressione è che quanto Renzi perde a sinistra, attaccando i sindacati, non lo riguadagna a destra, abbracciando la Confindustria». Triste risultato della politica-spettacolo, che Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”: «Proporre slogan cool, o smart, o trendy, al solo fine di mantenere il potere o di conquistarlo, senza uno straccio di progetto per il futuro». Strada segnata? Declino elettorale per tutte le democrazie occidentali? Non proprio: «C’è un abisso di cultura e di lungimiranza politica fra Renzi che attacca l’articolo 18 per racimolare qualche voto di destra e Obama che, imparando da una sconfitta, regolarizza cinque milioni di immigrati pensando al futuro del proprio paese».«Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».