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La Francia: stop all’inutile Torino-Lione, totem del potere
Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.Tecnici peraltro suffragati dai controllori (svizzeri) del traffico transalpino per conto dell’Ue: quella linea non avrebbe alcun senso – né per i passeggeri, inesistenti, né per le merci, che sono in calo storico e viaggiano sull’attuale linea internazionale, largamente inutilizzata, per la quale l’Italia ha speso recentemente 400 milioni di euro, riammodernando il Traforo del Fréjus, attraverso il quale oggi possono transitare anche convogli con a bordo i grandi container “navali”. Per anni, prima che la contesa finisse in rissa (con feriti e arresti) i NoTav hanno tentato di intavolare un civile dibattito con le isituzioni: la storia racconta di petizioni firmate da centinaia di esperti universitari, rivolte a Palazzo Chigi e persino al Quirinale, rimaste sempre senza risposta. Una realtà imbarazzante: le istituzioni non hanno mai accettato di esaminare i più autorevoli studi, che dimostrano la completa inutilità di un’opera ferroviaria faraonica e anche pericolosa, date le implicazioni ambientali (amianto, uranio) e idrogeologiche, senza contare l’impatto urbanistico dei cantieri e la compromissione, per molti aspetti irreparabile, del territorio alpino.Sarebbe un sacrificio immenso, dunque, tuttora senza giustificazioni: mai, neppure per sbaglio, gli addetti ai lavori hanno fornito del maxi-progetto Torino-Lione una motivazione tecnica, chiara, esplicita, che non fosse grossolanamente dogmatica, fatta di slogan arcaici come “progresso” e “modernità”. Tutti gli studi prodotti riferiscono che la grande direttrice delle merci nel Nord Italia è l’asse sud-nord, Genova-Rotterdam, mentre la linea est-ovest ormai è marginale, come il trasporto – residuale, e ormai solo regionale – di pochissime merci tra Piemonte e Rhône-Alpes. Per contro, spiegano gli strateghi europei dei trasporti, un vero e proprio collo di bottiglia è rappresentato dal valico di Ventimiglia: quello sì avrebbe bisogno di essere “raddoppiato”, visto che le merci sbarcate a Genova si dirigono, via Liguria e Provenza, in tutta l’Europa sud-occidentale. L’unica cosa che certamente non serve, a quanto pare, è proprio la linea Tav in valle di Susa. Impossibile, per il governo italiano, finire per far ragione agli impresentabili, irriducibili NoTav? Eppure è quello che accadrà, se la Francia – nel 2018 – dovesse confermare l’attuale orientamento, scettico di fronte alla realizzazione dell’inutile maxi-opera.Quando prese avvio la protesta popolare, locale, contro i primi progetti per la Torino-Lione, l’Italia non era ancora entrata nell’euro: era un paese in crescita, stabilmente piazzato tra le prime economie del pianeta, alla prese coi valori del primo ambientalismo destinato a tradursi in disposizioni legislative. Il mondo non era ancora così piccolo: l’11 Settembre era ancora di là da venire, con le sue “guerre infinite” e i suoi terrorismi funzionali e cronicizzati. La globalizzazione non aveva ancora cominciato a produrre il flagello cosmico della disoccupazione, non si avvertivano i micidiali effetti dell’euro né quelli della crisi finanziaria di Wall Street. Era un mondo con coordinate visibili e definite, brandelli ideologici ancora vivi, certezze relative e credibili aspettative di benessere, lontano anni luce dalla precarizzazione universale, il delirio dell’austerity e la rassegnazione terminale, via Facebook, alla mediocrità come destino. Insorse, la piccola valle di Susa, minuscola periferia italiana: era la fine degli anni ‘90, oggi pare trascorso un millennio. E ancora si parla di Torino-Lione, cioè di archeologia dell’assurdo, mentre il mondo – intorno – sta finendo di crollare.Lo chiamano ancora Tav, treno ad alta velocità, ma ormai è chiaro a tutti che l’eventuale linea Torino-Lione, doppione perfetto della già esistente (e deserta) Torino-Modane, sempre in valle di Susa, non sarebbe altro che il totem ultra-lento di un potere antico, sordo, primitivo, pronto a bruciare 680 milioni di euro per costruire una galleria esplorativa, a Chiomonte, con anni di ritardo rispetto agli analoghi tunnel geognostici aperti sul versante transalpino. Un vettore (lentissimo, vecchissimo) di grandi affari e grandi interessi, l’improbabile Tav valsusino, lungo una direttice rimasta senza più passeggeri né merci, nella “ribelle” valle di Susa che lotta da decenni contro l’infrastruttura più inutile della storia europea. Se n’è finalmente accorta la Francia, da sempre più tiepida dell’Italia rispetto all’impegno per la grande opera: il governo Macron ha annunciato una “pausa di riflessione” di almeno un anno, per valutare se è davvero il caso di finanziarlo, l’euro-tunnel da 54 chilometri sotto le montagne che, tra Susa e Modane, separano l’Italia dalla Francia. A Parigi costerebbe almeno 10 miliardi. Servirebbe? No, rispondono in coro i tecnici indipendenti.
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Frana la fiaba Torino-Lione? Tutt’intorno, intanto, è guerra
Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura galleria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci. Inoltre devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.Giornali e televisioni parlano dei costi dell’opera dando per scontata la sua utilità, assunto dimostratamente falso, e si guardano bene dal citare la recente indagine della magistura antimafia che indica il rischio di infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’unico cantiere finora aperto, quello per la piccola galleria esplorativa di Chiomonte. Le uniche indagini degne di cronaca sono invece quelle contro il movimento NoTav, che si fermano all’aspetto dell’ordine pubblico, la cui gestione è entrata in crisi nel momento in cui la politica ha provocatoriamente rifiutato di dare risposte ai sessantamila abitanti della valle di Susa, lasciando sul campo – come unico interlocutore – i reparti antisommossa. Questo ha inevitabilmente trasformato la valle di Susa in una trincea nazionale di protesta, che oppone i cittadini a istituzioni sempre più lontane e anonime, tenocratiche, evidentemente dominate da lobby affaristiche economico-finanziarie. Lobby interessate al business di grandi cantieri affidati all’opaca gestione di “general contractor” che agiscono in piena autonomia, grazie a leggi speciali: un copione che in Italia ha determinato il puntuale “impazzimento” dei costi e il prosperare della filiera dei subappalti a cascata, in cui molto denaro passa di mano in mano, per la felicità delle banche, ma i posti di lavoro restano pochissimi e costosissimi.Sul piano politico, resta da decifrare il significato della cerimonia pubblica dello stupore, esibito per il “sorprendente” lievitare dei costi dell’ipotetico futuro traforo ferroviario italo-francese, già definito l’opera pubblica più costosa della storia italiana, nonché la più inutile della storia europea. Denunciarne il rincaro preventivato significa cominciare a prendere le distanze da un’operazione ormai insostenibile e non più difendibile, dati i tempi di crisi? Agitare il problema dei “nuovi” costi può servire anche a disertare dalla lobby pro-Tav senza dover dare ragione agli oppositori del progetto, che non sono più solo i valsusini: da qualche anno il movimento NoTav ha infatti conquistato l’attenzione di milioni di italiani. I distinguo e le richieste di chiarimento potrebbero essere l’inizio di una ritirata strategica? E’ presto, per dirlo. Ma va ricordato che il progetto fu ritirato già una prima volta, nel 2006, dopo l’insurrezione nonviolenta della popolazione valsusina alla fine del 2005. Non volò una pietra, ma decine di migliaia di manifestanti – guidati dai sindaci in fascia tricolore – pretesero di essere trattati come cittadini e non come sudditi.Problema che dalla valle di Susa si è esteso al resto d’Italia, dal momento in cui è Bruxelles a scrivere il bilancio del governo di Roma, dettando i tagli alla spesa pubblica che condannano l’economia nazionale alla recessione perpetua. Eppure, nonostante lo sfacelo istituzionale di questi anni, simboleggiato dal governo della Troika affidato a Mario Monti, oggi il mainstream se la cava facendo le pulci al peventivo di Rfi sulla Torino-Lione. Come se fossimo ancora in tempo di pace, come se la sorda guerra programmata dall’élite finanziaria non avesse già accerchiato quel che resta delle nazioni sovrane, coi rottami dei loro diritti e le macerie del welfare e del lavoro che fu. Le “riforme” in arrivo mirano a sbaraccare il residuo ingombro di quote di democrazia, cominciando dal potere civico esercitato mediante libere elezioni. La vittoriosa battaglia civile dei NoTav nel 2005 assomiglia sempre più a una pagina da libri di storia, una esemplare protesta – condotta in tempo di pace – in nome dello Stato di diritto e delle prerogative della cittadinanza garantite dalla Costituzione italiana nata dalla Resistenza antifascista. Nulla che possa più fare davvero notizia, nell’imperante barbarie euroatlantica che semina guerre ai confini, dall’Est al Medio Oriente al Nordafrica, terremotando nel frattempo la vita dei cittadini europei e cancellando il loro diritto al futuro dignitoso nel quale crebbero i padri, convinti di costruire un avvenire di pace, benessere e giustizia.Il progetto Tav Torino-Lione resta un oggetto misterioso, anche dopo le polemiche mediatiche sulla “tratta internazionale” di una linea che la Francia ha già ufficialmente declassato, dichiarando che tornerebbe a esaminare l’ipotesi solo a partire dal 2030. Voci di protesta, da parte di sostenitori della grande opera, manifestano sorpresa e sconcerto per la decisione di Rfi di elevare a 7 miliardi di euro il costo inziale della parte “internazionale” della futura arteria transalpina, fino a ieri quotata 2,9 miliardi. Nessuno si premura di ricordare le ragioni del “no”, ribadite ancora nel 2012 in un appello al presidente della Repubblica, firmato da 360 docenti, tecnici ed esperti dell’università italiana. La Torino-Lione sarebbe infatti un inutile doppione della linea internazionale esistente in valle di Susa, la Torino-Modane, già ora disertata dalle merci nonostante il costoso ampliamento del traforo del Fréjus, capace di ospitare treni carichi di container. Inoltre l’opera devasterebbe il territorio alpino alle porte di Torino: crisi idrica, cantieri dall’impatto insostenibile, dissesto urbanistico, pericoli per la salute causa uranio e polveri di amianto. Infine, la linea Tav gonfierebbe in modo spaventoso il debito pubblico con una spesa palesemente inutile e improduttiva, senza futuro visto che la rotta europea del traffico merci non è più il “corridio 5” est-ovest, abbandonato dall’Ue, ma la tratta nord-sud Genova-Rotterdam.
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Pritchard: così l’euro-sinistra ha svenduto i popoli all’élite
«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i migliori interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il frutto migliore che la sinistra europea sia stata capace di creare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.«Uno dopo l’altro, la stanno pagando tutti», scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”. Primo esempio, i Paesi Bassi: «Il partito laburista olandese che diede vita al “Polder Model” e amministrò l’Olanda per mezzo secolo ha perso i suoi bastioni a Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, i suoi sostenitori sono scesi al 10% per aver timidamente approvato le politiche di austerità che hanno portato alla deflazione e ad un abbattimento del valore immobiliare tanto da arrivare a ipoteche sul 25% di patrimoni netti negativi». Le politiche recessive «sono velenose per i paesi che già hanno problemi». L’indebitamento delle famiglie olandesi è passato dal 230% al 250% del reddito disponibile dal 2008 a oggi, mentre il debito dei britannici (che si sono tenuti la sterlina) è sceso da 151% al 133% nello stesso periodo. E’ tutta colpa del rigore imposto da Bruxelles, ma il partito laburista olandese «non può fare nessuna critica coerente, perché il suo orientamento pro-Ue lo costringe quasi al silenzio».«Il Partito Socialista non ha mai creduto nell’euro e non ci crediamo nemmeno adesso: dobbiamo quindi smettere di chiedere sempre più sacrifici per mantenerlo», ha detto Dennis de Jong, il leader del partito a Strasburgo che si appella a un “Piano B” per smantellare l’unione monetaria in modo ordinato». In Grecia, il socialista Pasok che ha guidato il paese verso la democrazia dopo la dittatura dei “colonnelli”, è sceso al 5,5%: un guscio svuotato da Syriza, che ora con il 25% di voti promette di strappare Atene dalle grinfie della Troika Ue. «Il Pasok si è meritato il suo annientamento», scrive il notista del “Telepgraph”: «Ha cospirato nel colpo di stato fatto nel retrobottega a novembre 2011, ancora una volta accettando le richieste dell’Ue per rovesciare il proprio primo ministro e per annullare il referendum della Grecia sul bail-out. Rinunciò, allora, ad una prova di forza catartica e necessaria con Bruxelles, per la troppa paura di rischiare l’espulsione dall’euro. Questo referendum si farà adesso: Tsipras ha trasformato le elezioni europee di questa settimana in un verdetto sulla servitù del debito».Se si può capire la paura della sinistra nei paesi periferici, aggiunge Evans-Pritchard, «il mistero è il motivo per cui un presidente socialista francese, con una maggioranza parlamentare, debba subire passivamente le politiche che stanno fiaccando la linfa vitale dell’economia francese e che stanno distruggendo la sua presidenza». François Hollande ha vinto due anni fa puntando sulla crescita e promettendo di bocciare il Fiscal Compact. Da quando è in carica, però, la disoccupazione francese è salita dal 10,1 al 10,4%, la crescita del Pil è scesa a zero e anche nell’ultimo trimestre la Francia ha perso 23.600 posti di lavoro, dopo i 57.000 perduti nel 2013. Sicché, secondo l’ultimo sondaggio Ifop, l’indice di gradimento di Hollande è crollato sotto il 18%: il peggiore da sempre per un leader francese. «La sua retorica del New Deal non ha portato a niente». Hollande «è capitolato sul Fiscal Compact, accettando una camicia di forza che obbliga la Francia a tagliare il debito pubblico ogni anno per un importo fisso per due decenni, fino a quando non sarà scesi al 60% del Pil, a prescindere dalla demografia o dal gap che esista nel settore privato o dalle esigenze di investimento dell’economia».La sua presidenza? «E’ stata tutto uno spettacolo dell’orrore di pacchetti di austerità, uno dopo l’altro, un circolo vizioso di maggiori imposte che fanno abortire qualsiasi recupero e lo debilitano con un effetto moltiplicatore che peggiora la situazione». Inasprimento fiscale nonostante il disavanzo: è la ricetta per il suicidio, se la Bce non interviene per compensare con iniezioni di denaro. «La risposta di Hollande è stata un raddoppio del rigore per infiocchettare il pacchetto: ha ceduto alle richieste di Bruxelles per altri 50 miliardi di euro di austerità nei prossimi tre anni». Questa volta, «la scure cadrà sulla spesa pubblica, arrivata al 57% del Pil». Inoltre, «ci saranno radicali riforme del lavoro, una variante della terapia-shock Hartz IV che servì per fottere i salari tedeschi dieci anni fa». In altre parole: se il socialista Hollande ha fatto pace con le grandi imprese, «sarà l’austerità a farlo a fette».Hollande si era prodigato per una “alleanza latina” per contrastare i deflattori quando presero il potere e per costringere la Germania a mettere il veto sulle azioni della Bce. Quella momentanea dimostrazione di grinta aveva spinto Draghi verso un piano di retromarcia sul debito italiano e spagnolo nel mese di agosto 2012, aiutato molto da Washington, ma poi non è andato avanti «e la Spagna ha continuato per la sua strada, come se fosse una Prussia del Sud o una nuova Tigre latina». La Bce? «Ancora una volta ha continuato a rigirarsi i pollici, incurante della deflazione». Francoforte «ha lasciato che i vincoli negativi bloccassero il bilancio francese facendolo ridurre di 800 miliardi, mentre l’euro si è rivalutato dell’ 8% contro lo yuan e del 15% contro lo yen, in un anno». Mentre gran parte del mondo sta cercando di tener basso il cambio delle valute e la deflazione delle esportazioni, l’Europa «è rimasta l’unica e tenersi tutto il pacco sulle spalle».I francesi non possono accettare di morire per asfissia economica: «La Francia è il cuore pulsante dell’Europa, l’unico paese con una statura di civiltà capace di condurre una rivolta e di prendersi carico della macchina politica dell’Unione Monetaria. Ma per scoprire il bluff della Germania, con una minima credibilità, Hollande dovrebbe essere pronto a rovesciare tutto il progetto dalle sue fondamenta e persino a rischiare una rottura sull’euro». Ed è quello che non farà mai. «Tutta la sua vita politica, da Mitterrand a Maastricht, è stata intessuta negli affari europei». Hollande «è prigioniero dell’ideologia di questo progetto, convinto come è che un condominio franco-tedesco rimanga la leva del potere francese e che sia l’euro a tenere legati i due paesi». Lo statista francese Jean-Pierre Chevenement confronta l’acquiescenza di Hollande con il corso rovinoso dei decreti deflazionistici di Pierre Laval nel 1935 durate il Gold Standard, cioè «l’ultima volta che un leader francese pensò di dover cavare sangue dal suo paese per difendere il vezzo di un cambio fisso».E’ la verità brutale, aggiunge Evans-Pritchard: «I socialisti francesi pensavano di non avere nulla da temere dall’ascesa del Fronte Nazionale, un partito che si prepara a sfruttare la furia prorompente dalla “France Profonde”, con l’impegno di ripristinare il controllo sovrano francese su tutto ciò che conta nella nazione, e che ha messo l’euro al primo posto tra i suoi compiti». I socialisti pensavano che il Fn avrebbe tolto voti ai gollisti, dividendo la destra? Errore: Marine Le Pen «sta dilaniando, con lo stesso vigore, anche le loro proprie roccaforti della classe operaia». Hanno sottovalutato la Le Pen, ora quotata al 24%, e sono scivolati al terzo posto, travolti dal “lepenismo di sinistra”, nuovo guardiano del welfare francese. I socialisti «non hanno nessuna risposta» da opporre agli attacchi del Fn sulla “austerità insensata” e “le politiche monetarie folli della Bce”, che continuano a intaccare il nucleo industriale della Francia. La Le Pen ripete che il prgetto dell’euro coincide con la disoccupazione di massa? «E’ tutto vero», dice Evans-Pritchard, ed è per questo che Hollande non sa cosa rispondere a Marine Le Pen.Tutto cominciò con il “referendum rubato”, la fatidica decisione di approvare il Trattato di Lisbona senza farlo votare, dopo che il popolo francese aveva già respinto un testo quasi identico chiamato “Costituzione europea”. «Nella scelta di ignorare la scelta del popolo del maggio 2005 – scrive Evans-Pritchard – i leader francesi hanno anticipato tutto quello che stiamo vedendo ora in Europa», ovvero «le scosse di assestamento di quel terremoto anti-democratico in Europa», per dirla con Coralie Delaume e il suo “Gli Stati Disuniti d’Europa”. «I socialisti dicono che è un oltraggio rifiutare un referendum su Lisbona, ma quando venne il momento di votarlo in parlamento, 142 deputati e senatori si astennero, e 30 votarono a favore del Trattato e diedero al presidente Nicolas Sarkozy la maggioranza dei tre quinti», ricorda Evans-Pritchard. «Le élite pensavano di essersela cavata con le loro prestidigitazioni su Lisbona? Non se l’erano cavata affatto», ma è ormai storia lo squallore del centrosinistra europeo, senza il quale l’oligarchia neoliberista non arebbe mai potuto imporre la crisi, attraverso il progetto neo-feudale chiamato euro.«Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i più inflessibili interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il traguardo più avanzato che la sinistra europea sia stata capace di centrare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.
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Bruxelles taglia i fondi, Torino-Lione in via d’estinzione?
Inutile, mostruosa, sanguinosa per il debito pubblico italiano. Ma soprattutto: senza più un soldo. Il movimento No-Tav e l’opposizione francese alla linea Tav Torino-Lione annunciano che la grande opera è ufficialmente in via di estinzione, almeno secondo la Commissione Europea. Già la Francia, lo scorso anno, aveva posticipato al 2030 l’eventuale avvio dei lavori sul versante transalpino. Pochi mesi dopo, la Svizzera ha confermato che l’attuale linea internazionale che collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, la Torino-Modane, appena riammodernata con l’ampliamento del traforo del Fréjus, potrebbe da sola incrementare l’attuale traffico merci del 900%. Peccato che le merci non ci siano: il trasporto fra i due paesi è ormai crollato, complice la crisi e la saturazione storica dei mercati di consumo. Dal punto di vista strategico, invece, la Torino-Lione è un binario morto: l’asse delle merci predilige la direttrice nord-sud, Genova-Rotterdam.Tuttora, la linea Torino-Lione non esiste: dopo vent’anni, l’unico cantiere aperto è quello di Chiomonte, dove si sta scavando – al rallentatore – solo un “cunicolo esplorativo”. Nessuna traccia, per ora, dei preparativi per quello che un giorno, forse, sarà il traforo ferroviario vero e proprio, lungo 57 chilometri. Quel giorno con ogni probabilità non arriverà mai, dicono i No-Tav, presentando un cospicuo dossier. Tanto per cominciare, anche se i giornali non ne hanno parlato, un anno fa è stato revocato metà del contributo europeo promesso da Bruxelles. Si tratta di una decurtazione ingente: dai 671,8 milioni di euro inizialmente concessi (cifra irrisoria, peraltro, a fronte del costo miliardario dell’opera, largamente a carico di Italia e Francia) si è scesi a 395,3 milioni di euro. Una riduzione del 41%. «Il pesante ridimensionamento riguarda tutto il programma europeo, il cui importo complessivo passa da 2,09 miliardi di euro a soli 891 milioni, quindi con una riduzione del 57%».Pressoché azzerati, continuano i No-Tav, i finanziamenti l’avvio del tunnel di base, 1,63 miliardi di euro: 150 milioni sono stati dirottati in Francia su perforazioni (non previste) nella cosiddetta Galleria di Saint Martin La Porte. Sale intanto alle stelle, secondo i No-Tav, il costo di Tlf: è di 75 milioni il conto della la società Lyon Turin Ferroviaire incaricata di realizzare l’opera, «“premiata” per la sua gestione fallimentare del contributo europeo, dimezzato dalla Commissione». Ltf, aggiunge il movimento valsusino, «cominciò a scavare quando già sapeva di non finire nei termini». All’avvio del mini-tunnel esplorativo di Chiomonte, i governi di Roma e Parigi «sapevano perfettamente che il contributo era stato dimezzato, che il termine previsto (fine 2016) sarebbe andato ben oltre il 31 dicembre 2015 e che tutte le spese effettuate dopo quella data non sarebbero state ammesse dall’Unione Europea».Anche se la stampa mainstrem racconta che la mini-galleria di Chiomonte sarebbe stata ormai scavata per metà, la realtà è tutt’altra: «La “talpa” procede a passo di lumaca, ha scavato appena 641 metri sui quasi 7 chilometri e mezzo totali, viaggiando ad appena 2,5 metri al giorno anziché i 10 metri previsti. Anche a velocità doppia, al 31 dicembre 2015 risulterà scavata solo metà galleria; tutta solo a febbraio 2018 (al di fuori dei termini del contributo europeo)». E visto che l’Ue contribuisce solo se la galleria sarà completata nei termini previsti, «si rischiamo ulteriori perdite di contributi». E se la magistratura di Torino accusa i No-Tav di aver causato parte dei ritardi con la forte opposizione all’avvio del piccolo cantiere di Chiomonte, il movimento ribatte citando la Commissione Europea, che registra, testualmente, «un notevole ritardo dovuto a difficoltà amministrative e tecniche».Inoltre, la Piattaforma del Corridoio Torino-Lione ravvisa la «infattibilità politica di proporre la costruzione di una nuova linea senza fare tutto il possibile affinché quella esistente torni a essere la principale arteria di trasporto in seguito ai lavori di ampliamento nel traforo ferroviario del Fréjus». Il movimento No-Tav lo dimostra da anni, dati alla mano: «La linea esistente è ampiamente sotto-utilizzata, nonostante il suo recente adeguamento che consente oggi il passaggio di treni merci di ogni tipo e dimensione», compresi i conteiner “navali” e i Tir caricati sui treni. «Anziché usare il Tav per fare carriera, i politici riflettano su quello che dicono», sottolineano i No-Tav, che denunciano il “patto del silenzio” sulla burocrazia europea: «Fino ad oggi la “Decisione C(2013) 1376” della Commissione Europea è rimasta nascosta al legittimo controllo dei cittadini contribuenti. Solo la pressante azione del movimento No-Tav ha permesso di squarciare il velo sull’insuccesso di Ltf e delle politiche dei governi italiano e francese». Continua, intanto, «lo scandalo del silenzio sulla gestione della Torino-Lione».Inutile, mostruosa, sanguinosa per il debito pubblico italiano. Ma soprattutto: senza più un soldo. Il movimento No-Tav e l’opposizione francese alla linea Tav Torino-Lione annunciano che la grande opera è ufficialmente in via di estinzione, almeno secondo la Commissione Europea. Già la Francia, lo scorso anno, aveva posticipato al 2030 l’eventuale avvio dei lavori sul versante transalpino. Pochi mesi dopo, la Svizzera ha confermato che l’attuale linea internazionale che collega Italia e Francia attraverso la valle di Susa, la Torino-Modane, appena riammodernata con l’ampliamento del traforo del Fréjus, potrebbe da sola incrementare l’attuale traffico merci del 900%. Peccato che le merci non ci siano: il trasporto fra i due paesi è ormai crollato, complice la crisi e la saturazione storica dei mercati di consumo. Dal punto di vista strategico, invece, la Torino-Lione è un binario morto: l’asse delle merci predilige la direttrice nord-sud, Genova-Rotterdam.
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Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso
La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
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Parigi, la Corte dei Conti coi No-Tav: linea inutile e costosa
«I costi sono aumentati troppo, da 12 a 26 miliardi di euro, e il flusso delle merci è diminuito». E quindi: la linea Tav Torino-Lione non s’ha da fare. A parlare non è il movimento No-Tav della valle di Susa, ma la Corte dei Conti francese. Che ribadisce le osservazioni che centinaia di tecnici dell’università italiana hanno inutilmente rivolto al premier, Mario Monti, e al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Lo schema è invariato: più si dimostra che la grande opera più costosa della storia italiana sarebbe anche la più inutile, oltre che devastante per il debito pubblico, e più i politici insistono nel confermare il via ai progetti esecutivi, in attesa che partano i primi cantieri nella primavera 2013 nonostante la ventennale opposizione degli abitanti dell’area attraversata, che verrebbe letteralmente disintegrata da un’opera faraonica e pericolosa per la salute, data la presenza di amianto e uranio nei monti, nonché il rischio – catastrofico – di tagliare la falda idropotabile che alimenta la stessa città di Torino.
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Anche Mosca rinuncia al Tav, e risparmia 100 miliardi
Dopo la rinuncia ufficiale del Portogallo e i recenti tentennamenti francesi, sul progetto Tav anche la Russia fa retromarcia: costi troppo elevati. Mosca ha annunciato che non finanzierà la costruzione delle linee ad alta velocità inizialmente previste per i Mondiali di calcio del 2018. Taglio netto: rinunciando al Tav, il Cremlino opta per una spettacolare “spending review” e risparmia in un colpo solo qualcosa come 103 miliardi di euro. Solo poche settimane fa, riferisce il network antagonista “Infoaut”, al governo russo era stato presentato un progetto di costruzione per gradi, che avrebbe dovuto ridurre il peso economico dell’opera, ma tanto gli investitori privati quanto lo Stato hanno ormai reso noti i propri ripensamenti. Motivo: l’efficienza economica dell’opera non è tale da giustificare una spesa così abnorme. E i Mondiali di calcio? Per il vicepremier Igor Shuvalov, basterà migliorare le linee esistenti.
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Passera: sì alla Tav, senza uno straccio di spiegazione
Sono vent’anni che la valle di Susa formula inutilmente la stessa domanda: per favore, volete spiegarci a cosa serve la Torino-Lione? Appena insediatosi al governo, il super-banchiere Corrado Passera risponde a modo suo, cioè come tutti gli altri ministri che l’hanno preceduto: la linea Tav si deve fare, punto e basta. L’Italia – persino quella di oggi, con l’acqua alla gola – non ha tempo per rispondere a trascurabili domande del tipo: perché mai gettare al vento 20 miliardi di euro per un’opera inutile? E così, al posto della risposta tanto attesa, ai valsusini viene ancora una volta riservato il solito trattamento: repressione, militarizzazione del territorio e spietata criminalizzazione del movimento popolare No-Tav.
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Addio ghiacci, aperto nell’Artico il passaggio a nordest
Un trionfo per l’uomo, un disastro per l’umanità: per la prima volta nella storia due navi commerciali si apprestano ad attraversare il “North-East Passage” nel Mare Artico e percorrono la rotta che va dalla Corea, lungo le coste russe della Siberia fino a raggiungere il porto di Rotterdam, in Olanda. I ghiacci perenni, che fino ad ora impedivano il passaggio marittimo, non ci sono più, a causa dell’innalzamento globale delle temperature. La Mv Beluga Fraternity e la Mv Beluga Foresight, due mercantili tedeschi con un carico di 3.500 tonnellate di materiali da costruzione, hanno da poco lasciato il porto di Yamburg in Siberia e si preparano a sfidare gli iceberg dell’Artico.