Archivio del Tag ‘sciopero’
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Greta, Guaidò, Imane: già scomparsi. Media senza memoria
Nel giornalismo esiste una regola, che si chiama follow-up. Il termine inglese significa letteralmente “proseguire, dare seguito”, e si riferisce al fatto che per ogni evento importante sia buona regola, dopo un certo tempo, dare al pubblico un aggiornamento della situazione. Se in un certo luogo del mondo c’è stato un disastro naturale, si dà subito la notizia del disastro, e poi dopo un po’ di tempo si torna sull’argomento, e si riassume la situazione per come si è evoluta nel tempo: quanti sono gli sfollati e i senzatetto, quale è la conta definitiva delle vittime, quali sono le conseguenze che quel disastro ha portato sul tessuto sociale della zona, ecc. In questo modo il lettore non solo rimane aggiornato, ma riesce anche a dare un senso temporale alla vicenda. Nell’arco di tempo trascorso fra l’evento iniziale e la disamina delle sue conseguenze, infatti, il lettore riesce a trarre la sua lezione personale: le autorità locali si sono comportate bene, si sono comportate male, il disastro si poteva evitare oppure è stato una fatalità, la comunità internazionale ha agito prontamente oppure non lo ha fatto, chi è intervenuto quali interessi aveva nel farlo, ecc ecc.Il lettore cioè ragiona sui fatti avvenuti, li vede nel loro arco temporale, e trae e sue conclusioni personali. Il lettore impara dalla storia. Ma oggi questa sana abitudine sta scomparendo. Ormai ci stiamo abituando sempre di più alle notizie usa-e-getta. Che fine ha fatto ad esempio Greta Thunberg? Solo venti giorni fa ci facevano una testa così sul nuovo fenomeno della lotta ambientalista, e oggi non sappiamo più niente di lei. E’ tornata a scuola, il venerdì, o continua imperterrita a fare lo sciopero davanti al Parlamento? Ha organizzato un movimento stabile e ben strutturato, oppure è rimasta una voce isolata? Niente, di Greta Thunberg non sappiamo più niente. E’ come se non fosse mai esistita. Un altri esempio è Juan Guaidò. Fino all’altro ieri era su tutti i telegiornali. Sapevamo dove andava a mangiare, dove teneva i suoi comizi, venivamo aggiornati ogni 5 minuti su cosa dicesse e dove si spostasse. Poi di colpo più niente. E’ ancora in Venezuela? Lo hanno arrestato? E’ ancora in Parlamento? Può circolare liberamente? Gli americani hanno rinunciato a sostenerlo? Nulla, Juan Guaidò non esiste più.Idem per il caso Imane, la ragazza del caso Berlusconi morta di colpo in un ospedale di Milano. Doveva esserci un’autopsia. C’è stata? Non c’è stata? L’hanno rimandata? Perchè non la fanno? Cosa dicono i legali? Cosa dicono i genitori? Nulla. Nessuno si ricorda più di lei, la sua storia è finita nel nulla. Il follow-up non esiste più. E non è certamente un caso che sia così. Quando di un fatto esiste un follow-up, ovvero un collegamento fra un prima e un dopo, il lettore può fare i suoi ragionamenti su quello che successo nel frattempo. Se oggi il normale lettore si rende conto che Greta è tornata regolarmente a scuola e mangia bistecche tutti i giorni, potrebbe dedurre che il suo caso non fosse genuino, ma fosse solo una grande montatura mediatica di cui lei era solo il burattino. Se oggi il normale lettore si rende conto che Juan Guaidò vive in libertà vigilata, e non può più nemmeno andare a pisciare senza il permesso di Maduro, potrebbe dedurre che Guaidò non fosse affatto un fenomeno genuino e popolare, ma fosse semplicemente un “expendable” che è stato usato dalla Cia e poi gettato alle ortiche nel momento in cui l’operazione è fallita.Se oggi il normale lettore si rende conto che sul caso Imane è improvvisamente calato il buio più assoluto, potrebbe dedurre che esistono dei poteri in grado di zittire la nostra magistratura, e di mettere sotto silenzio anche un caso scandaloso e potenzialmente devastante come questo. La memoria fra il prima e il dopo è ciò che ci permette di ragionare, ci permette di trarre le nostre conclusioni, ci permette di imparare dalla storia. Mentre un popolo senza memoria è un popolo che smette di ragionare. Ecco perchè la caduta in disuso del follow-up non è affatto casuale. Fa parte di un disegno ben preciso, nel quale si vuole togliere alla popolazione ogni qualunque capacità di analisi critica. L’appiattimento dei media sul pensiero unico da un lato, e la palese volontà di non dare un senso compiuto agli eventi dall’altro, evitando di porli nella loro giusta prospettiva storica, annienteranno in pochissimo tempo ciò che ancora rimane al mondo della sua capacità di ragionare.(Massimo Mazzucco, “Anni senza memoria”, dal blog “Luogo Comune” del 15 aprile 2019).Nel giornalismo esiste una regola, che si chiama follow-up. Il termine inglese significa letteralmente “proseguire, dare seguito”, e si riferisce al fatto che per ogni evento importante sia buona regola, dopo un certo tempo, dare al pubblico un aggiornamento della situazione. Se in un certo luogo del mondo c’è stato un disastro naturale, si dà subito la notizia del disastro, e poi dopo un po’ di tempo si torna sull’argomento, e si riassume la situazione per come si è evoluta nel tempo: quanti sono gli sfollati e i senzatetto, quale è la conta definitiva delle vittime, quali sono le conseguenze che quel disastro ha portato sul tessuto sociale della zona, ecc. In questo modo il lettore non solo rimane aggiornato, ma riesce anche a dare un senso temporale alla vicenda. Nell’arco di tempo trascorso fra l’evento iniziale e la disamina delle sue conseguenze, infatti, il lettore riesce a trarre la sua lezione personale: le autorità locali si sono comportate bene, si sono comportate male, il disastro si poteva evitare oppure è stato una fatalità, la comunità internazionale ha agito prontamente oppure non lo ha fatto, chi è intervenuto quali interessi aveva nel farlo, ecc ecc.
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Se la Cina ci ripensa: Via Polare della Seta, e addio Italia
E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.In un’analisi publicata sul suo blog, Barnard fa notare che il gigante logistico cinese Cccc (China Communications Construction Co.) esporrebbe gli scali italiani a pericoli considerevoli. Il primo: «Trieste e Genova possono trasformarsi in cloache d’inquinanti cinesi, avvelenando i cittadini e costringendo le amministrazioni a costi per danni di centinaia di milioni». Il secondo: «Gli investitori cinesi sono spietati: un solo sciopero di lavoratori portuali italiani, una sola vertenza ambientale italiana, e ci possono far causa per milioni o anche miliardi». Motivo: nel 1985, l’Italia ha firmato un trattato bilaterale con la Cina, ancora valido, dove il nostro paese s’impegna a rispettare la micidiale “Risoluzione delle dispute tra investitore e Stato” (Isds), dove «qualsiasi investitore cinese può far causa all’Italia se ritiene che le sue leggi gli danneggino il business, e i termini dei processi sono scandalosamente sbilanciati verso le mega-aziende». Poi c’è l’insidia degli eventuali lavoratori a contratto: non per forza italiani, magari cinesi. E nel caso, pesantemente sfruttati. Ma se i rischi connessi al lavoro riguardano le sole maestranze, l’inquinamento investirebbe le intere aree urbane.I quattro porti più inquinanti al mondo, avverte Barnard, sono ad alta intensità di navi cargo cinesi. «Singapore, Hong Kong, Tianjin e Port Klang. E’ un caso che nessuno di essi sia in Usa o in Europa?». Gli scali commerciali “vomitano” oltre 20 milioni di tonnellate all’anno di CO2, ossidi di azoto e di zolfo, metano e particolato Pm10. «E’ noto che i cargo di containers sputano veleni anche se fermi in porto, e si calcola che queste emissioni terribilmente nocive per gli abitanti delle città portuali si quadruplicheranno entro il 2050, secondo dati Unctad-Ocse del 2015». Emissioni, calcola Barnard, che in termini di danni collaterali (salute) costeranno 12 miliardi di euro all’anno, secondo le stime dell’Ocse sugli abitanti delle 50 principali città portuali (e questo già oggi, senza ancora la mega-espansione del traffico a Genova e Trieste). Nel porto greco del Pireo, ingigantito e gestito dal colosso cinese Cosco, gli operai hanno scioperato per ottenere almeno «il triste titolo di “lavoratori di mansioni usuranti e insalubri”». Qualcuno ci ha pensato, firmando il Memorandum Italia-Cina? Quanto al business, per Genova e Trieste «si parla più di un aumento di traffico di cargo che di partecipazioni societarie cinesi».Innanzitutto, continua Barnard, non è affatto chiaro chi pagherà per gli enormi ampliamenti strutturali dei due porti. La Cina? «Pechino ci presterà milioni, a patto che gli appalti vadano alle sue aziende? O ci presterà soldi e basta? O ce li metteremo noi? C’è caos, su questi punti». E poi: cosa significa mettere lavoratori sotto il controllo dei colossi cinesi? Gli esperti del Global Human Rights Lawyers (Ius Laboris, diritti del lavoro) scrivono quest’anno che «per gli Stati Uniti le scelte sono chiare in tema di Via della Seta: o si chiudono a riccio sul mercato interno con alto protezionismo, oppure accettano di abbassare il costo del lavoro e le protezioni sindacali dei propri lavoratori per competere coi cinesi». Chiaro il concetto? Washington ha già provato cosa significhi aprire ai colossi cinesi: a Saipan, territorio off-shore degli Stati Uniti, pochi anni fa gli americani concessero appalti a tre mega-aziende cinesi per la costruzione di un enorme sito turistico. Ebbene, il 91% dei posti di lavoro fu importato dalla Cina. Scaduti i visti, scrive Barnard, «i cinesi piuttosto che pagare di più per impiegare operai americani locali truffarono le autorità Usa importando lavoratori cinesi illegali con finti visti turistici». Li facevano lavorare 13 ore al giorno, con salari illegali negli Usa. «La sicurezza sul lavoro fu definita “atroce”, con montagne di feriti e persino di morti, come denunciato da Aaron Halegue della New York University Law School. Washington dovette intervenire, e fu una strage di cause e litigi, con una ridda di manager cinesi in galera».Stessa storia ad Atene, se non peggio: al Pireo, il colosso cinese Cosco s’è inventato «un sindacato cinese fittizio che vigilava su diritti fittizi», dopo aver preteso «la quasi totale esclusione del sindacato portuale ellenico». Anche in Grecia c’erano molti operai cinesi. Dopo le proteste furono rispediti a casa, «ma al loro posto non furono assunti i portuali greci, bensì operai a contratto dall’Est Europa». Così, Atene è rimasta senza lavoro. Nel 2014 i portuali greci organizzarono uno sciopero per denunciare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro, sotto il management di Cosco. «Il premier Samaras gli mandò immediatamente la polizia in assetto antisommossa, e perché? Perché all’istante – scrive ancora Barnard – l’ambasciata cinese ad Atene aveva chiamato il governo, minacciando ritorsioni milionarie per danni al loro business secondo il sopraccitato infame sistema Isds». Conclusione: visto che le imponenti espansioni di Trieste e Genova coinvolgeranno manodopera cinese, il governo ha pensato a come affrontare l’eventuale ricatto, se Pechino dovesse imporre le sue maestranze, come condizione per onorare i suoi impegni finanziari? Sempre secondo Barnard, questi aspetti – piuttosto decisivi – non emergono mai, nelle dichiarazioni rilasciate dai presidenti delle autorità portuali Zeno D’Agostino (Trieste) e Paolo Signorini (Genova), nonché dal sottosegretario “gialloverde” Michele Geraci: cauti e garantisti sui media italiani, ma assai più filo-cinesi (business puro, senza tutele) se intervistati da giornali stranieri.Barnard sottolinea l’enorme asimmetria fra Italia e Cina: «L’economia cinese ha una potenza di fuoco da circa 14.000 miliardi di dollari; quella italiana è circa 1.900 miliardi di dollari, 7 volte di meno». Per i cinesi, investire in Italia per far profitti per appena 10 anni e poi tirarsi indietro, lasciando “arrugginire” le banchine di Genova e Trieste una volta spremuto il Belpaese, «è un rischio da spiccioli del caffè». Per noi, invece, sarebbe un disastro. «Ma attenti: le chance che questo accada si stanno materializzando già oggi», avverte Barnard, paventando la peggiore delle ipotesi: quella che vede la Cina in fuga dall’Italia, bypassando Suez e il Mediterraneo grazie alle due vere vie commerciali del futuro, l’Artico e l’Eurasia. Tutti oggi parlano della Via della Seta (marittima), ma Pechino sta già lavorando alla “Via Polare della Seta”. Ovvero: i ghiacci del Polo Nord si stanno sciogliendo a un ritmo vertiginoso, con estati a 30 gradi simili a quelle dell’Adriatico. Come i giganti occidentali dei cargo (ed esempio la Maersk), anche i cinesi stanno scommettendo sulle rotte marittime del Grande Nord liberato dai ghiacci.Per ora, riassume Barnard, i cargo seguono ancora la rotta del Sud, dalla Cina al Mediterraneo, attaverso Malesia, India, Golfo di Aden e Canale di Suez. Da qui l’interesse per Genova e Trieste. Tragitto: 13.000 miglia marittime. Ma se le navi fanno invece rotta verso Nord (Siberia, Russia, Norvegia), arrivano a Rotterdam dopo sole 8.000 miglia, tagliando i tempi di due settimane, con risparmi colossali. Ad oggi la direttrice artica è ancora poco battuta, ma la Copenhagen Business School – spiega Barnard – ha calcolato che, dati gli sforzi sia russi che cinesi, la Via Polare della Seta (già oggi percorribile anche d’inverno) diventerà frequentatissima in meno di 20 anni. Altro motivo per cui Pechino potrebbe preferirla: «La rotta tradizionale, a Sud, costringe i cinesi a passare per infinite “gogne” imposte dal dominio americano di ogni miglio di quella tratta, un fatto che strategicamente è intollerabile per la Cina». E non è tutto: a peggiorare le prospettive di Genova e Trieste c’è anche la rotta ferroviaria, sempre per le merci cinesi. Attraversa tutta l’Asia Centrale, la Turchia e i Balcani, arrivando in Europa occidentale attraverso la Grecia. «Anche su questa rotta il presidente Xi Jinping sta investendo cifre e soprattutto tecnologie forsennate, perché per questa via le merci arrivano da noi in meno di 14 giorni, un record».Le nuove tratte a scorrimento veloce «ridurranno i tempi ad addirittura 10 giorni», cioè record «imbattibili da qualsiasi rotta marittima». Questo poterebbe i costi ferroviari – oggi superiori a quelli marittimi – entro i limiti della convenienza. «E allora diventa fin banale arrivarci: noi italiani – conclude Barnard – adesso partiremo come pazzi a ingigantire Genova e Trieste, con investimenti “mega” che ancora nessuno sa da chi veramente saranno pagati. Stiamo facendo una scommessa senza precedenti, con pericoli ambientali e lavorativi alti o altissimi». Ma qualcuno, dalle parti di Di Maio, ha pensato a cosa potrebbe accadere fra una decina d’anni, con il boom della rotta marittima del Nord e l’esplosione ferroviaria eurasiatica? Il traffico verso l’Italia potrebbe crollare del 30%, con effetti devastanti sul nostro Pil entro il 2030. «Avete un’idea di che razza di voragine significherà, per le due città e per l’Italia che hanno investito e/o si sono indebitate?». Prima di firmare, il goveno ha affidato serie previsioni ai massimi esperti mondiali? «Bella roba, ritrovarci con Trieste e Genova fra pochi anni trasformate in ipertrofie di cemento e acciaio, inquinate come fogne, con disoccupazione, e ad arrugginirsi al sole. Debiti, buchi di bilancio, titoli da ripagare… Non sarebbe il primo, né l’ultimo, dei soliti dilettanteschi “Italian Jobs”».E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.
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Greta, l’ultima invenzione di chi ci impone sacrifici sociali
«Fate presto, non c’è più tempo». Ieri a dirlo era Mario Monti, oggi la piccola Greta Thunberg. Curioso, no? Vuoi vedere che, alla fine, la battaglia-spettacolo inscenata sul “climate change” dalla ragazzina svedese, sapientemente pilotata da esperti di marketing, ha obiettivi identici a quelli dell’élite globalista che impone “sacrifici” sociali al 99% della popolazione, stavolta anche con l’alibi del surriscaldamento globale? A domandarselo è l’antropologo Marco Giannini, analista indipendente e già vicino ai 5 Stelle, di fronte allo strano sciopero che il 15 marzo ha mobilitato milioni di studenti in ogni angolo del mondo. Hanno chiesto diritti sociali per i lavoratori, la fine delle morti bianche, un reddito minimo garantito che dia dignità ad ogni essere umano? Macchè. Hanno invocato un salario ragionevole e un’istruzione di livello per tutelare il futuro dei giovani, sottraendoli alla feroce lotteria competitiva del neoliberismo? Nossignore: la manifestazione era “per l’ambiente”. «Presto manifesteremo per la bontà, oppure forse contro la cattiveria: anzi, contro i cattivi», scrive Giannini: «Sì, credo proprio che Greta molto presto ci guiderà contro i cattivi, finalmente».Non era veritiero quindi – scrive Giannini, sarcastico – che le lobby si celassero dietro queste manifestazioni per colpire l’economia reale Usa, cioè Trump, cercando di scalzarla mediante la loro finanza globale, «quella che ha creato a tavolino la recessione mondiale e che necessita di reazioni stereotipate, prevedibili», allo scopo di «ottundere le menti e banalizzare le questioni». Un sospetto più che evidente, quello espresso da Giannini su “Come Don Chisciotte”: lo slogan “dobbiamo fare in fretta” serve a «creare le condizioni che rendano accettabili nuovi sacrifici (già “in canna”) altrimenti considerati odiosi e improponibili dalle popolazioni». Come ampiamente dimostrato da tutti gli studi sul comportamento umano, il “dobbiamo fare in fretta” – al fine di evitare una imminente catastrofe – è l’unico concetto che sortisce puntualmente l’effetto voluto dai manipolatori, a prescindere dalla sua eventuale coerenza. Anzi, scherza Giannini, «ormai ci aspettiamo che da un momento all’altro il Fmi, il Wto, la World Bank, BlackRock e Open Society, la Bayer-Monsanto, la Apple, Deutsche Bank e la Bce devolveranno gratuitamente verso ogni cittadino (americano, israeliano, italiano, russo, cinese, inglese) un bonus che copra interamente le spese per la coibentazione della propria abitazione».Per inciso, infatti, se si vuole ridurre il riscaldamento globale «non è tanto sulla CO2 che si deve agire, ma sul metano, che è 25 volte più impattante». Strano, vero? La manifestazione lanciata dalla piccola Greta ha avuto il plauso di Mattarella, Merkel, Macron. Applaudono anche le multinazionali finanziarie, quelle che hanno creato la crisi del 2007 per poi socializzare le perdite a spese dei governi, dopo aver «distrutto vite e privatizzato i profitti speculativi». Ancora oggi, continua Giannini, è sicuramente “cattivo” chi rivela che non sono tanto i cittadini comuni a produrre CO2, quanto «i settori terziario-quaternario e industria», come lo è chi svela che «dietro queste manifestazioni ci sono coloro che costantemente si arricchiscono col meccanismo “Cap & Trade”, cioè proprio con il business della CO2 a spese dei cittadini». Aggiunge Giannini: «Paradossale leggere che si debbano ridurre i consumi quando costoro impongono l’ideologia del crescere ad ogni costo e dell’emarginazione sociale». A meno che, oltre al lavaggio del cervello ideologico (vero target della “missione”) tutto ciò non serva «per ridurre il margine di manovra di quelle regioni del mondo che, in modo stoico, stanno cercando ancora oggi di emergere dalla recessione, nonostante la stramaledetta e controproducente austerity, in cui ad esempio l’Italia è imbavagliata».A proposito di “crescita infinita”, Giannini invita i lettori a questa riflessione: e se domani i robot rendessero disponibili beni a sufficienza per il mondo intero? Se tutti (anche agli africani “regolari”, cui Giannini insegna matematica e scienze) disponessero di un “reddito minimo”? «I consumi globali arriverebbero a un livello approssimativamente standard, ponendo fine alla finanza e ridando all’economia reale la corretta dimensione. A quel punto a cosa servirebbe crescere? A niente, se non alla selezione naturale tra esseri umani». Da quel momento, il “crescere” servirebbe solo a «dividere la torta in modo insensato, favorendo pochi “rentier” e omologando l’intera popolazione umana nell’ignoranza e nell’imbecillità». Tenere le menti lontanissime da queste considerazioni, secondo Giannini, è “necessario”, «perché la teoria della “crescita infinita” prosperi anche quando non servirà più» (beninteso: «Al momento, all’Italia serve eccome, crescere»). Ma come non vedere la manipolazione che sta dietro al fenomeno Greta? «Rendere moda, marketing, mercato (banche) certe questioni – insiste Giannini – equivale a svalutare i significati e a manipolare il senso comune, al fine di abituare i cittadini ad agire per emozioni, per stereotipi», cosicché chi la determina, la moda, cioè chi detiene i media, possa «omologare e rendere dipendenti (cioè privi di libertà) i cittadini».Dietro questa manifestazione ingenua e giovane – “comunque bella”, per citare Lucio Battisti – ci sono «coloro che hanno impoverito l’Africa e sfruttato la tratta di esseri umani». Nel continente nero (e non solo) hanno privatizzato tutto, con la complicità di un pugno di oligarchi africani traditori, razziando risorse a costo zero. «Sono coloro che hanno alimentato guerre e colpi di Stato, venduto armi per nutrire i traffici, generato carestie», fino addirittura a “testare” virus mortali prodotti in laboratorio, come quello della Sars. «Sono coloro che proteggono l’opulenza dei politicanti europei, altrettanto traditori», che hanno accettato l’euro ben sapendo che sarebbe servito a «colpire operai e classi medie». Osserva Giannini: «Fa molto male, rendersi conto che – salvo eccezioni – non sia lo stato di necessità a smuovere le masse, bensì il marketing». Siamo uno zoo falcilmente manovrabile, in fondo: “Je suis Charlie”, recitavano i cartelli nelle piazze all’indomani della strage parigina nella redazione di “Charlie Hebdo”, come se davvero l’obiettivo del commando terrorista fosse la libertà di satira. Prepariamoci, avvertiva a fine 2018 un analista come Fausto Carotenuto, veterano dell’intelligence: l’élite è in difficoltà e, per imbrogliarci, nel 2019 fabbricherà altre finte rivoluzioni. Ed ecco, puntuale, la piccola Greta.Didendere l’ambiente è sacrosanto, riconosce Giannini, ma il tema – aggiunge – va affrontato in modo non emotivo, partendo dalle cause, con un serio approccio scientifico. In Italia, dopo l’omicidio Moro, le lobby occidentali «inquinarono il Pci dei diritti sociali trasformandolo nell’eurocomunismo “fru fru”, per usare una terminologia cara a Beppe Grillo». Da allora, il progressivo assedio culturale dai movimenti effimeri (Femen, antiproibizionismo, diritti civili ma non sociali) ha inaugurato «l’eone dei sacrifici, a partire dal vincolo esterno dello Sme fino ad oggi: e i risultati si vedono». Da quel momento «la sinistra, il socialismo, non significarono più “lavoratori” ma ben altro, tra cui la distruzione della società intesa come Stato sociale», il declino della tradizione e dei “luoghi antropologici”, la fine dell’identità patriottica «in favore del globalismo d’accatto». Con Greta, «siamo su questo solco, che distrae le energie». La sinistra? «Perde definitivamente i propri tratti». E quindi «non ha più senso ragionare in termini politicamente bipolari». Infine, Giannini ricorda che «l’ignara Greta» è affetta da Asperger, dunque «è a rischio egocentrismo e fissazione». Domanda: «E’ funzionale al suo sviluppo, questa sua esposizione? O la ragazzina è usata come una cavia, come carne da macello?».«Fate presto, non c’è più tempo». Ieri a dirlo era Mario Monti, oggi la piccola Greta Thunberg. Curioso, no? Vuoi vedere che, alla fine, la battaglia-spettacolo inscenata sul “climate change” dalla ragazzina svedese, sapientemente pilotata da esperti di marketing, ha obiettivi identici a quelli dell’élite globalista che impone “sacrifici” sociali al 99% della popolazione, stavolta anche con l’alibi del surriscaldamento globale? A domandarselo è l’antropologo Marco Giannini, analista indipendente e già vicino ai 5 Stelle, di fronte allo strano sciopero che il 15 marzo ha mobilitato milioni di studenti in ogni angolo del mondo. Hanno chiesto diritti sociali per i lavoratori, la fine delle morti bianche, un reddito minimo garantito che dia dignità ad ogni essere umano? Macchè. Hanno invocato un salario ragionevole e un’istruzione di livello per tutelare il futuro dei giovani, sottraendoli alla feroce lotteria competitiva del neoliberismo? Nossignore: la manifestazione era “per l’ambiente”. «Presto manifesteremo per la bontà, oppure forse contro la cattiveria: anzi, contro i cattivi», scrive Giannini: «Sì, credo proprio che Greta molto presto ci guiderà contro i cattivi, finalmente».
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La fiaba della piccola Greta, un business che arriva al Nobel
Greta Thunberg è la vera “rockstar” del momento. Prime pagine di tutti i più importanti giornali del mondo, approfondimenti di ogni tipo, interviste: tutti ne parlano. La consacrazione definitiva è arrivata in queste ore, come riporta l’Ansa: l’attivista 16enne svedese promotrice delle marce dei giovani per il clima in tutta Europa è stata proposta per il Premio Nobel per la Pace da tre parlamentari norvegesi «in segno di riconoscimento per il suo impegno contro la crisi climatica», prodotta dal riscaldamento globale. «Abbiamo nominato Greta perché la minaccia del clima potrebbe essere una delle cause più importanti di guerre e conflitti», ha sottolineato il parlamentare Freddy Andre Oevstegaard. In un’intervista a “Repubblica”, Greta Thunberg ha osservato che «siamo nel pieno di una crisi, ed è la più urgente e grave che il genere umano abbia mai dovuto affrontare. Stiamo segando il ramo su cui siamo seduti e la maggior parte della popolazione mondiale non ha idea delle possibili conseguenze della nostra incapacità di agire». Il 15 marzo, anche in Italia gli studenti hanno aderito al Climate Strike, lo sciopero proclamato nel mondo dai giovanissimi attivisti che, sulla scia dell’iniziativa di Greta, stanno manifestando per chiedere ai governi interventi urgenti sui cambiamenti climatici. Ma chi è davvero la giovane attivista svedese e come ha fatto a diventare così famosa?Sia chiaro: «Greta è sicuramente una ragazza adorabile e la sua battaglia offre spunti di riflessione importanti, al di là da come la si veda sul tema del riscaldamento globale», scrive Roberto Vivaldelli su “Gli occhi della guerra”. «Il punto è un altro: si tratta davvero di un fenomeno così spontaneo e nato dal nulla oppure di un’abilissima strategia di marketing?». Tutto è nato la scorsa estate, ricorda Vivaldelli. Dall’agosto 2018, ogni venerdì mattina, Greta si reca di fronte al Riksdag, il Parlamento svedese, e rimane lì, con un cartello in mano: “Skolstrejk för klimatet”, sciopero scolastico per il clima. All’inizio era da sola, supportata solo dai genitori, poi la sua protesta è diventata virale. Tanto che a dicembre ha partecipato alla Cop24, la ventiquattresima conferenza sul clima che si è tenuta a Katovice, in Polonia. Lì ha tenuto un discorso che ha fatto il giro del mondo. Come è accaduto? A svelare il segreto del successo di Greta – scrive Vivaldelli – è stato Andreas Henriksson, noto giornalista d’inchiesta svedese. Secondo la sua ricostruzione, lo sciopero scolastico altro non era che parte di una strategia pubblicitaria più ampia per lanciare il nuovo libro della madre di Greta, la celebre cantante Malena Ernman – che nel 2009 partecipò anche all’Eurovision e vanta diverse apparizioni televisive.Il grande stratega mente di questa campagna sarebbe Ingmar Rentzhog, esperto di marketing e pubblicità, che ha sfruttato a sua volta l’immagine della ragazza per lanciare la sua start up. «Ora posso dire che la persona che sta dietro al lancio del libro e lo sciopero scolastico, nonché la successiva campagna di pubbliche relazioni sul problema del clima, è il “pierre” professionista Ingmar Rentzhog», scrive il giornalista Andreas Henriksson sul suo profilo Facebook. La storia di Greta Thunberg inizia il 20 agosto 2018. Rentzhog, che è fondatore della start-up We Do not Have Time, incontra Greta di fronte al Parlamento svedese e pubblica un post commovente sulla sua pagina Facebook e Instagram. Siamo al primo giorno dello sciopero iniziato da Greta. «Curiosamente, quattro giorni più tardi, il 24 agosto, esce il libro dei genitori di Greta, “Scenes from the Heart”, che racconta i dettagli della vita privata della coppia e della figlia». Una banale coincidenza? Da lì a poco, continua Vivaldelli, We Do not Have Time guarda caso decolla, proprio grazie alla spinta mediatica di Greta. Il 24 novembre Rentzhog la nomina nel board. Solo tre giorni dopo, la start up lancia una campagna di crowdfunding per 30 milioni di corone svedesi (circa 2,8 milioni di euro).Greta è nominata ovunque. Lo stesso Ingmar Rentzhog si vanta di «aver scoperto» la ragazza (ma nega, in seguito, di averne sfruttato l’immagine per raccogliere denaro, pur sostenendo di «aver avuto un ruolo centrale nella crescita della sua popolarità». Il quotidiano svedese “Svenska Dagbladet” lo incalza e accusa la start up di aver sfruttato la ragazza (che è affetta dalla sindrome di Asperger) utilizzando la sua battaglia sul clima per mero tornaconto personale. Dal canto loro, i genitori sostengono che la battaglia di Greta è assolutamente genuina e sincera, ma non smentiscono affatto i rapporti con Rentzhog e il suo abilissimo entourage. «Una campagna pubblicitaria perfetta», la definisce il quotidiano conservatore “Weltwoche”, che indaga sulle origini del fenomeno Greta. Anche “Weltwoche” si concentra sulla figura controversa di Rentzhog: «Il pubblico mondiale celebra Greta come esperta di salvaguardia del clima», scrive il quotidiano della destra svedese. «La ricerca da parte dei media più critici ha dimostrato, tuttavia, che il suo successo è dovuto in gran parte all’esperto svedese Ingmar Rentzhog, che ha buoni contatti con diverse organizzazioni».Pesa anche la coincidenza con l’uscita del libro della madre: lo stesso giorno, prosegue “Weltwoche”, «Rentzhog ha pubblicato una foto di Greta su Instagram e ha scritto un lungo articolo su Facebook: ciò ha innescato una reazione a catena in molti giornali e altri media». Alla fine di dicembre, la rivista “Samhällsnytt” ha rivelato che Greta «aveva pronunciato il suo famoso discorso alla conferenza di Katowice davanti a sedie vuote, mentre la televisione di Stato svedese si comportava come se avesse parlato davanti a un pubblico entusiasta». Sedie vuote, addirittura? Manipolazione completa? Sempre secondo “Weltwoche”, la madre di Greta, Malena Ernman, avrebbe confermato che l’attivista ambientalista Bo Thorén aveva reclutato sua figlia. Thorén è membro del consiglio di amministrazione di Fossilfritt Dalsland ed è un rinomato rappresentante del movimento ambientalista internazionale Extinction Rebellion. Insomma, conclude Vivaldelli: dietro a Greta Thunberg c’è un libro di una famosa cantante (la madre), una start up in cerca di visibilità, un abile comunicatore ed esperto di pubblicità, diverse organizzazioni che bramano di diffondere il loro messaggio. Poi vengono l’ambiente, il Climate Strike e le mobilitazioni globali. «Nulla, però, accade per caso. E se non vi è dubbio di dubitare che ciò che racconta Greta al mondo sia sincero, chi le sta attorno ha abilmente beneficiato di un ritorno mediatico che era voluto e studiato a tavolino».Greta Thunberg è la vera “rockstar” del momento. Prime pagine di tutti i più importanti giornali del mondo, approfondimenti di ogni tipo, interviste: tutti ne parlano. La consacrazione definitiva è arrivata in queste ore, come riporta l’Ansa: l’attivista 16enne svedese promotrice delle marce dei giovani per il clima in tutta Europa è stata proposta per il Premio Nobel per la Pace da tre parlamentari norvegesi «in segno di riconoscimento per il suo impegno contro la crisi climatica», prodotta dal riscaldamento globale. «Abbiamo nominato Greta perché la minaccia del clima potrebbe essere una delle cause più importanti di guerre e conflitti», ha sottolineato il parlamentare Freddy Andre Oevstegaard. In un’intervista a “Repubblica”, Greta Thunberg ha osservato che «siamo nel pieno di una crisi, ed è la più urgente e grave che il genere umano abbia mai dovuto affrontare. Stiamo segando il ramo su cui siamo seduti e la maggior parte della popolazione mondiale non ha idea delle possibili conseguenze della nostra incapacità di agire». Il 15 marzo, anche in Italia gli studenti hanno aderito al Climate Strike, lo sciopero proclamato nel mondo dai giovanissimi attivisti che, sulla scia dell’iniziativa di Greta, stanno manifestando per chiedere ai governi interventi urgenti sui cambiamenti climatici. Ma chi è davvero la giovane attivista svedese e come ha fatto a diventare così famosa?
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Blackout e aiuti bruciati, la stampa Usa smaschera Guaidò
Aiuti umanitari per il Venezuela bruciati oltre confine: non da Maduro, ma dal rivale Guaidò, con l’obiettivo di incolpare il governo di Caracas. E’ la stampa Usa ad accusare lo stesso Guaidò (e Washington) sia per l’auto-distruzione degli aiuti che per il drammatico blackout inflitto al Venezuela, con almeno 14 pazienti deceduti negli ospedali. Le denunce del “New York Times” e di “Forbes”, scrive Gennaro Carotenuto sul suo blog, attestano che in Venezuela la guerra è già cominciata, e che le false notizie dominano incontrastate la costruzione dell’opinione pubblica. «Le guerre di nuova generazione fanno morti come e più di quelle che si combatterono con la clava, la balestra o il fucile Chassepot», scrive Carotenuto. «Rispetto alla gravità del blackout in Venezuela, ai media italiani è piaciuto a scatola chiusa sposare la tesi dell’inettitudine chavista», dato che i chavisti «sono per definizione tutti incapaci, sanguinari e corrotti». Al contrario, «vari media statunitensi hanno preso molto sul serio e considerano credibile che il blackout in Venezuela sia stato causato da un cyber-attacco informatico Usa». Se così fosse, aggiunge Carotenuto, «saremmo di fronte a un atto di guerra», nell’ambito di un conflitto “di quarta generazione”. Tanto per chiarire: «Fossero stati gli hacker russi, parleremmo di terrorismo».
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L’oro dei Sumeri: Sudafrica, una metropoli di 200.000 anni
Heine aveva un vantaggio unico: essersi reso conto del numero e della portata di quelle strane fondazioni di pietra. Il loro significato non era mai stato colto? «Quando Johan per primo mi ha fatto conoscere le antiche rovine di pietra dell’Africa Australe, non avevo idea delle incredibili scoperte che ne sarebbero seguite, in breve tempo», racconta Tellinger. «Le fotografie, i manufatti e le prove che abbiamo accumulato puntano senza dubbio ad una civiltà perduta e sconosciuta, visto che precede tutte le altre – non di poche centinaia d’anni, o di qualche migliaio d’anni… ma di molte migliaia d’anni». Queste scoperte, continua Tellinger, «sono così impressionanti che non saranno facilmente digerite dall’opinione ufficiale, dagli storici e dagli archeologi, come abbiamo già sperimentato». Secondo il ricercatore, «è necessario un completo mutamento di paradigmi, nel nostro modo di vedere la nostra storia umana». Autore, scienziato ed esploratore sudafricano, protagonista di campagne d’opinione contro le banche, Tellinger ha fondato un suo partito politico, Ubuntu, che sostiene la fornitura gratuita delle risorse a tutta la società. Ha presentato la sua scoperta, ribattezzata “Calendario di Adamo”, come un sito di straordinaria importanza archeologica, essendo al centro di una rete di cerchi di pietre presenti in tutta l’Africa meridionale, che presumibilmente «ha incanalato l’energia, in tempi antichi».L’area è importantissima, per un aspetto che colpisce subito: l’oro. «Le migliaia di antiche miniere d’oro, scoperte nel corso degli ultimi 500 anni, indicano una civiltà scomparsa che ha vissuto e scavato per l’oro in questa parte del mondo per migliaia d’anni», dice Tellinger. «E se questa è in realtà la culla del genere umano, forse stiamo osservando le attività della più antica civiltà sulla Terra». Se si compie una “ricognizione aerea” con Google Earth (secondo le coordinate fornite da Dan Eden) il risultato è stupefacente. Prima domanda: l’oro ha giocato un certo ruolo sulla densità di popolazione che un tempo viveva qui? Il sito si trova a circa 150 miglia da un ottimo porto, il cui commercio marittimo potrebbe avere contribuito a sostenere una popolazione così importante. Ma stiamo parlando di quasi 200.000 anni fa. Tanta attenzione per le miniere d’oro – di cui non ci risulta cha nostra civiltà conoscesse, in tempi così remoti, le tecniche estrattive – ricorda alcuni racconti dei Sumeri: narrano che gli Anunnaki (i signori della Terra, l’equivalente degli Elohim biblici) inizialmente fossero costretti a lavorare duramente. Ed è noto che proprio l’oro, in astronautica, è apprezzato per le sue proprietà isolanti: proteggerebbe anche dalle radiazioni nucleari. I lavoratori Anunnaki, narrano i Sumeri, a un certo punto si ribellarono al lavoro schiavistico. Da lì nacque l’idea di “fabbricare” geneticamente una specie intelligente, quella degli “Adamu”, che lavorasse nelle miniere al posto degli “dei”.Le singole rovine scoperte in Sudafrica sono in gran parte costituite da cerchi di pietre, per lo più sepolti sotto la sabbia e visibili soltanto dal satellite o dall’aereo. Alcuni, scrive Eden, sono riaffiorati di recente, quando il cambiamento climatico ha soffiato via la sabbia, rivelando le mura e le fondamenta. «Anche se mi vedo come una persona di mente aperta – dice Tellinger – devo ammettere che mi ci è voluto oltre un anno, per digerire la scoperta e per capire che abbiamo realmente a che fare con le strutture più antiche mai costruite dall’uomo sulla Terra». Tanto stupore deriva da un pregiudizio: «Ci hanno insegnato che nulla di significativo è mai venuto dal Sud Africa: ci è stato sempre detto che le civiltà più potenti sono apparse in Sumeria, in Egitto e in altri luoghi». Quanto all’Africa, la storia ufficiale sostiene che, fino all’insediamento del popolo Bantu, proveniente da nord a partire dal 1300 (medioevo europeo), questa parte del mondo era piena soltanto di cacciatori-raccoglitori, e che i cosiddetti Boscimani non hanno fornito alcun contributo importante alla tecnologia o alla civiltà. Quando i primi esploratori incontrarono queste rovine sudafricane, scrive Eden, davano per scontato che fossero recinti per il bestiame realizzati da tribù nomadi come quelle dei Bantu, si spostarono verso sud e si stabilirono in quei terrtitori intorno al XIII secolo dopo Cristo.«Non si conoscevano le testimonianze storiche di nessuna civiltà precedente, più antica, in grado di costituire una comunità così densamente popolata». Tuttavia, aggiunge Eden, ben pochi sforzi sono stati fatti per indagare il gigantesco sito ora emerso: la collocazione storica delle rovine non era ancora nota. «Negli ultimi 20 anni, persone come Cyril Hromnik, Richard Wade, Johan Heine e una manciata d’altri hanno scoperto che queste strutture in pietra non sono ciò che sembrano essere. In realtà questi sono ora ritenuti i resti di antichi templi e osservatori astronomici di antiche civiltà perdute, che risalgono a molte migliaia di anni fa». Le immense rovine circolari sono distribuite su una vasta area. Possono solo essere veramente apprezzate soltanto dal cielo, dall’aereo o attraverso immagini satellitari. «Molte di loro sono quasi completamente erose o sono state coperte dai movimenti del suolo fatti per l’agricoltura lungo il tempo. Alcune sono sopravvissute abbastanza bene da rivelare le loro grandi dimensioni, con alcuni muri originali in piedi, sino a quasi 2 metri d’altezza e oltre un metro di larghezza». Guardando la “metropoli” intera, diventa evidente che si trattava d’una comunità ben progettata, sviluppata da una civiltà evoluta. E poi, appunto, l’oro: il numero di antiche miniere suggerisce la ragione per cui la comunità si trovasse proprio in quella regione.E’ possibile rilevare anche l’esistenza di tracciati “stradali”, lunghi anche 100 miglia, che collegavano la comunità e l’agricoltura a terrazzamenti molto simili a quelli trovati negli insediamenti Inca in Perù. Ma, si domanda Eden, tutto questo come potrebbe esser stato realizzato dagli esseri umani 200.000 anni fa? «Trovare i resti di una grande comunità, con ben 200.000 persone che vivevano e lavoravano insieme, è stata una scoperta importante in sé. Ma la datazione del sito ha costituito un problema. La patina pesante sulle pareti di roccia – scrive Eden, citando il lavoro degli archeologi – suggeriva che le strutture dovessero essere molto vecchie, ma la scienza della datazione tramite la patina è solo in fase di sviluppo ed è ancora controversa». La datazione col carbonio 14, che rileva sostanze organiche come il legno bruciato, è alterata dalla possibilità che i reperti «possano aver subito incendi recenti dell’erba circostante, che sono comuni nella zona». La svolta è arrivata inaspettatamente, come spiega lo stesso Tellinger: è l’astronomia a rivelare la datazione del complesso, che riproduce una configurazione stellare visibile dalla Terra soltanto 200.000 anni fa.Johan Heine, racconta Tellinger, scoprì il “Calendario Adam” nel 2003, quasi per caso. Andava a cercare uno dei suoi piloti che si era schiantato con l’aereo sul bordo dell’altopiano. Accanto al luogo dello schianto, Johan notò un gruppo molto strano di grosse pietre, sporgenti dal terreno. Mentre portava in salvo il pilota ferito, Johan si rese conto che i monoliti erano allineati ai punti cardinali della Terra – nord, sud, est e ovest. «C’erano almeno tre monoliti allineati verso il sorgere del sole, ma sul lato ovest dei monoliti allineati c’era un misterioso buco nella terra – mancava qualcosa». Dopo mesi di misurazioni, Johan concluse che le rocce erano perfettamente allineate con il sorgere e il tramonto del sole: solstizi ed equinozi. E il misterioso buco nel terreno? Un giorno, l’esperto locale di piste a cavallo, Christo, spiegò a Johan che c’era una pietra dalla strana forma, che era stata rimossa dal luogo qualche tempo prima, e collocata vicino all’ingresso della riserva naturale. Dopo una lunga ricerca, Johan trovò la pietra (antropomorfica, di forma umanoide). «Era intatta e con orgoglio recava una targa, attaccata ad essa. Era stata utilizzata dalla Fondazione Blue Swallow per commemorare l’apertura della riserva Blue Swallow nel 1994. L’ironia è che era stata rimossa dal sito antico più importante trovato fino ad oggi, e misteriosamente era ritornata alla riserva».I primi calcoli dell’età del Calendario di Adamo sono stati effettuati in base al sorgere di Orione, costellazione conosciuta per le sue tre stelle luminose che formano la “cintura” del mitico cacciatore della Beozia. La Terra oscilla sul suo asse, e quindi le stelle e le costellazioni cambiano il loro angolo di presentazione nel cielo notturno, in base alla congiuntura. Questa rotazione, denominata “precessione degli equinozi”, completa il suo ciclo ogni 26.000 anni, all’incirca. «Se possiamo stabilire quando le tre stelle della Cintura di Orione erano posizionate in orizzontale contro l’orizzonte, possiamo stimare il momento in cui le tre pietre del Calendario erano in linea con queste stelle visibili». Il primo calcolo approssimativo fu di almeno 25.000 anni. Ma le nuove misurazioni, più precise, tendevano ad aumentare l’età del ritrovamento. Il calcolo successivo è stato compiuto da un esperto archeo-astronomo, «che vuole rimanere anonimo per paura», temendo di essete deriso dalla comunità accademica. Il suo calcolo, spuega Eden, si è basato sul sorgere di Orione e ha suggerito un’età di almeno 75.000 anni. Ma il conteggio più recente e più preciso, eseguito soltanto nel giugno del 2009, suggerisce un’età di almeno 160.000 anni, sulla base del sorgere apparente di Orione all’orizzonte – ma anche dell’erosione delle pietre costituite da un particolare minerale, la dolerite, trovare sul sito. Alcuni frammenti dei “marcatori” di pietra sono stati sbriciolati dall’erosione naturale: ricomposti, rivelano l’assenza di circa 3 centimetri di roccia (tanto basta, per calcolare – mediante sottrazione – la loro presunta età originaria).Chi ha edificato la metropoli? E perché? Sembrerebbe che gli esseri umani abbiano sempre apprezzato l’oro. È anche menzionato nella Bibbia, che descrive i fiumi del Gan, il “paradiso terrestre” situato nella regione geografica di Eden, tra la Mesopotamia e il Mar Caspio: «Il nome del primo [fiume] è Pishon; scorre intorno a tutto il paese di Havilah, dove c’è l’oro», si legge in Genesi 2:11. Il Sudafrica è conosciuto come il più grande paese produttore di oro al mondo. L’epicentro estrattivo è il Witwatersrand, cioè la stessa regione dove l’antica metropoli si trova. Nelle vicinanze di Johannesburg c’è poi un luogo chiamato “Egoli”, che significa “la città d’oro”. Sembra molto probabile, quindi, che l’antica metropoli sorgesse a causa della sua vicinanza con l’offerta d’oro più grande del pianeta. Ma perché gli antichi lavoravano così alacremente nelle miniere d’oro? Il prezioso metallo non si può mangiare, è troppo tenero da utilizzare per la produzione di utensili e non ha alcuna utilità pratica, se non per ricavarne ornamenti, anche se la sua qualità estetica non è superiore a quella di altri metalli pregiati, come il rame o l’argento. Perché mai l’oro divenne così prezioso, dunque? Perché proprio l’oro diventò così importante per i primi Homo Sapiens?Per cercare la risposta, scrive Dan Eden, dobbiamo esaminare il periodo preistorico in questione: com’erano, gli esseri umani, 160.000 anni fa? Come fece, il Sapiens, a distinguersi dai suoi antenati ominidi assai meno evoluti, come l’Homo Habilis e l’Homo Erectus? Gli scienziati, scrive Eden, non hanno ancora capito perché apparve, improvvisamente, quel nuovo tipo umano. Non sanno in che modo quel cambiamento avvenne. Attualmente, infatti, siamo soltanto in grado di rintracciare i nostri geni risalendo fino ad un’unica donna, che paleontologi e genetisti chiamano Eva Mitocondriale. Quell’Eva primigenia, denominata “mt-Mrca”, è definita come il nostro antenato “matrilineare” più recente. Tramandato da madre a figlio, tutto il Dna mitocondriale (“mt-Dna”) in ogni persona vivente è derivato da quell’individuo di sesso femminile. L’Eva Mitocondriale è la controparte femminile di “Adamo Y-cromosomico”, l’antenato comune “patrilineare” più recente. Gli studiosi ritengono che la Eva Mitocondriale sia vissuta tra 150.000 a 250.000 anni fa, probabilmente in Africa Orientale, attorno alla Tanzania. Si ipotizza che vivesse in una popolazione di 4-5.000 esemplari, tutte femmine, in grado di produrre prole in un dato momento.«Se altre femmine avevano prole con cambiamenti evolutivi del loro Dna, non abbiamo alcuna registrazione della loro sopravvivenza», scrive Eden. «Sembra che siamo tutti discendenti di questa femmina umana». Lei, Eva Mitocondriale, sarebbe stata «pressoché contemporanea degli esseri umani i cui fossili sono stati rinvenuti in Etiopia, nei pressi del fiume Omo e di Hertho». Si pensa che l’Eva Mitocondriale sia vissuta «molto prima dell’emigrazione dall’Africa, che potrebbe essersi verificata tra 60.000 e 95.000 anni fa». La regione africana dove si può trovare il massimo livello di diversità mitocondriale, aggiunge Eden, è la stessa in cui gli antropologi ipotizzano che la divisione più antica della popolazione umana abbia iniziato a verificarsi. E l’antica metropoli sudafricana si trova proprio in quest’ultima regione, «che corrisponde anche al periodo stimato in cui le mutazioni genetiche improvvisamente accaddero», per dare origine al Sapiens. Coincidenze? La stessa storia dei Sumeri descrive l’antica metropoli e i suoi abitanti. «Sarò onesto con voi», premette Eden: «Questa parte successiva della storia è difficile da scrivere. È così sconvolgente che la persona media non ci vuole credere. Se siete come me, vi consiglio di fare la ricerca voi stessi, e di prendervi del tempo per permettere ai fatti di stabilirsi nella vostra mente».Riassume Eden: ci hanno spesso fatto credere che la nostra storia conosciuta cominci con gli egizi, le piramidi e i faraoni, le cui dinastie più antiche risalgono a poco più che 5.000 anni fa, precisamente nel 3.200 avanti Cristo. Ma la civiltà mesopotamica dei Sumeri, considerata la prima a costruire città, risale ad almeno mille anni prima. «Abbiamo tradotto molte delle loro tavolette, scritte in caratteri cuneiformi e in scritture precedenti, in modo da sapere parecchio sulla loro storia e sulle loro leggende». Viene da lì il primo sigillo che raffigura la narrazione del “Grande Diluvio”, che annienta l’umanità. Molte leggende sumere, riconosce Eden, sembrano aver ispirato la stessa Genesi, assai più recente. Come la Genesi, la narrazione sumerica contenuta nell’Atrahasis racconta la comparsa degli esseri umani moderni, originati «non da un “Dio d’amore”, ma da esseri provenienti da un altro pianeta, che avevano bisogno di “lavoratori schiavi”, per aiutarli a lavorare nelle miniere d’oro». Quel metallo, sempre secondo i Sumeri, era indispensabile per le «spedizioni extra-planetarie» di quei misteriosi signori, gli Anunnaki. La versione a noi nota dell’Atrahasis, aggiunge Eden, proviene da una stesura babilonese più recente, che risale al 1.700 avanti Cristo. La storia inizia presentando gli “dèi”, esseri provenienti da un pianeta chiamato Nibiru, che scavano fossati e miniere per l’oro, come fossero una squadra minatori. L’Homo Sapiens non esistevano ancora, la Terra era abitata soltanto da ominidi primitivi.Sempre secondo la narrazione babilonese ispirata all’originario racconto dei Sumeri, c’erano due gruppi distinti di “divinità”: i lavoratori e la classe dirigente, i comandanti. Gli “dèi lavoratori”, fabbricanti di infrastrutture e impianti minerari, dopo migliaia d’anni si ribellarono, data l’eccessiva mole di lavoro. «Gli dèi dovevano scavare i canali», scrive l’Atrahasis. «Dovevano tenere puliti i canali, le arterie vitali della terra». Addirittura, «gli dèi scavarono il letto del fiume Tigri, e poi hanno fatto quello dell’Eufrate». Dopo 3.600 anni di questo lavoro, gli “dèi” finalmente cominciarono a lamentarsi. Decisero di scendere in sciopero, bruciando i loro strumenti e circondando la “dimora” del dio principale, Enlil (il suo “tempio”). Il ministro di Enlil, Nusku, scosse Enlil dal letto e l’avvisò che la folla inferocita stava là fuori. Enlil ne rimase spaventato. Il suo volto è descritto «olivastro come una tamerice». Il ministrò Nusku consigliò Enlil di chiamare gli altri grandi “dèi”, soprattutto Anu (“dio” del cielo) ed Enki (il “dio” intelligente delle acque dolci). Anu consigliò ad Enlil di scoprire chi fosse il capo della ribellione. Spedirono Nusku in avanscoperta per chiedere alla folla delle “divinità” chi fosse il loro leader. E la folla rispose: «Ciascuno di noi dèi vi ha dichiarato guerra!».Constatato che il lavoro degli “dèi” di classe inferiore «era troppo difficile», i capi decisero di sacrificare uno dei ribelli per il bene di tutti: avrebbero preso un solo “dio”, l’avrebbero ucciso e ne avrebbero ricavato il genere umano, mescolando la carne e il sangue del “dio” con l’argilla. Scrive sempre l’Atrahasis nella versione babilonese: «Belit-ili, la dea del grembo materno, è presente». Il nome ricorda – in modo impressionante – quello di Lilith, mitica femmina e “madre primigenia” un tempo presente nella stessa Bibbia, e poi rimossa. «Lasciate che la dea del grembo materno crei la sua prole – aggiunge l’Atrahasis – e lasciate che l’uomo sopporti il carico degli dei!». Dopo che Enki li istruì sui rituali di purificazione per il primo, settimo e quindicesimo giorno d’ogni mese, gli “dèi” uccisero Geshtu-e, «un dio che aveva l’intelligenza» (il suo nome significa “orecchio” o “saggezza”) e, di fatto, “fabbricarono” l’attuale l’umanità impastando il suo sangue con della creta. Dopo che la “dea della nascita” ebbe mescolato l’argilla, tutti gli “dèi” si raccolsero intorno e, letteralmente, sputarono sul nascituro. Poi Enki e la “dea dell’utero” presero l’argilla e la portarono nella “stanza del destino”, dove si riunirono tutte le “dee del grembo materno”. Continua l’Atrahasis: «Egli [Enki] calpestò l’argilla in presenza di lei; lei continuava a recitare un incantesimo, perché Enki, soggiornando in sua presenza, l’aveva obbligata a recitarlo. Quando ebbe finito il suo incantesimo, estrasse quattordici pezzi d’argilla e mise sette pezzi a destra, sette a sinistra. Tra di essi depose un mattone di fango».La “creazione dell’uomo”, scrive Dan Eden, sembra dunque descritta come una specie di clonazione, che ricorda l’odierna fecondazione in vitro. «Il risultato fu un ibrido, o “umano evoluto”, con maggiore intelligenza, che potesse svolgere le funzioni fisiche degli “dèi lavoratori” e anche prendersi cura delle esigenze di tutti gli “dèi”». In altri testi, poi, ci viene detto che la “spedizione” nella regione mineraria fu originata dalla necessità di estrarre grandi quantità di oro, destinate ad essere spedite “fuori del pianeta”. Quella comunità stanziatasi in Sud Africa aveva un nome proprio: era chiamata Abzu. Visto che questi “eventi” sembrano coincidere con le date della Eva Mitocondriale, vale a dire dal 150.000 al 250.000 avanti Cristo, alcuni ricercatori – conclude Eden – sospettano che i “miti dell’origine” della tradizione sumera possano essere basati su precisi avvenimenti storici. Consonanze, analogie: «Secondo gli stessi testi, una volta conclusa la spedizione mineraria, fu deciso che la popolazione umana dovrebbe essere lasciata perire in un diluvio che era stato previsto dal astronomi degli “dèi”. A quanto pare, il passaggio ciclico del pianeta natale degli “dèi”, Nibiru, stava per portarlo abbastanza vicino all’orbita della Terra», e la gravità dell’evento astronomico «avrebbe provocato una risalita (marea) degli oceani», fino a inondare completamente la Terra, mettendo fine alla specie – ibrida – dell’Homo Sapiens, “fabbricato” con sangue “divino”, sputi e creta.Sempre secondo la narrazione mesopotamica, uno degli “dèi” sumeri aveva simpatia per un essere umano particolare, Zuisudra, e lo avvertì del pericolo imminente: gli consigliò di costruire una imbarcazione capace di cavalcare l’onda del diluvio. Questo, osserva Eden, divenne poi la base narrativa per la successiva storia del Noè biblico. Il cataclisma del diluvio fu un fatto veramente accaduto? «L’unica altra spiegazione è immaginare che le leggende sumere, che parlano della vita su altri pianeti e della clonazione umana, fossero straordinarie creazioni di fantascienza. Questo sarebbe di per sé sorprendente». Oggi però abbiamo la prova che la “mitica” città mineraria, Abzu, è reale. Sarebbe stata popolata dai Sapiens “fabbricati” dagli “dei” per rimpiazzarli nelle miniere d’oro. Dall’alto, scrutandola sorvolando il Sudafrica, appare come una megalopoli di dimensioni impressionanti. E secondo la datazione ricostruita dall’équipe archeologica di Tellinger, quella gigantesca “colonia” «esisteva nella stessa epoca dell’improvvisa evoluzione degli ominidi a Homo Sapiens». E’ sufficiente, quello che è stato scoperto? E’ abbastanza, conclude Eden, per darci da pensare un bel po’, su come e quando sia davvero comparso, l’uomo, sulla faccia della Terra.Sono sempre stati lì. Qualcuno li aveva già notati prima, ma nessuno riusciva a ricordare chi li avesse fatti, e perché? Fino a poco tempo fa, nessuno sapeva nemmeno quanti fossero. Ora sono dappertutto, a migliaia, a centinaia di migliaia. «E la storia che raccontano è la storia più importante dell’umanità, ma c’è chi potrebbe non essere pronto ad ascoltarla», scrive Dan Eden, presentando «qualcosa di straordinario» che è stato scoperto in una zona del Sudafrica, a circa 280 chilometri dalla costa, ad ovest del porto di Maputo (capitale del Mozambico). «Sono i resti d’una grande metropoli che misurava, secondo stime prudenti, circa 5.000 chilometri quadrati. Faceva parte di una comunità ancora più ampia, di circa 35.000 chilometri quadrati, che sembra essere stata costruita – siete pronti? – dal 160.000 al 200.000 avanti Cristo». Il perimetro della megalopoli, scrive Eden in un post ripreso da “La Crepa nel Muro”, si lo può intravedere attraverso Google Earth. La regione è remota, ma i “cerchi” presenti sul terreno non erano sfuggiti, in passato, agli agricoltori indigeni. «Nessuno però s’era mai preso la briga di informarsi su chi potrebbe averli fatti o quale età potessero avere». La situazione è cambiata quando se n’è occupato il ricercatore Michael Tellinger, in collaborazione con Johan Heine, un vigile del fuoco locale, nonché pilota, che – dal suo aereo – aveva osservato quelle rovine per anni, sorvolando la regione.
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Cottarelli e Macron, il vero partito che rema contro l’Italia
Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattuasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.Lo stesso Ferraù definisce l’inquilino dell’Eliseo «un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per fallire». Macron e Cottarelli, sottolinea il professor Mangia, fanno parte dello stesso disegno anti-italiano: non ordito “dalla Francia” o “dalla Germania”, bensì da un cartello di poteri economici, che agiscono – inseguendo esclusivamente i propri interessi privatistici – all’insaputa degli stessi francesi e tedeschi. «In realtà – afferma Alessandro Mangia – ad essere vincitore, oggi, in Europa, è soltanto un blocco industriale e finanziario che dall’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vari paesi d’Europa». Oggi Macron annuncia un’espansione del deficit francese, mentre Cottarelli tuona contro la ventilata (minima) crescita del disavanzo italiano? Niente di strano: quei poteri hanno bisogno che la Francia non crolli, per questo le consentono di sostenere la propria economia con una dose maggiore di debito pubblico. L’Italia, invece, “deve” crollare: a questo servono le prediche a reti unificate di Cottarelli, contro l’aumento della spesa invocato da Di Maio e Salvini per finanziare Flat Tax, pensioni e reddito di cittadinanza. La filosofia di Cottarelli? Quella, fallimentare, del Fmi: se infatti si taglia la spesa produttiva, decresce automaticamente il Pil e l’economia peggiora, aggravando il peso del debito pubblico.Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: «Facciamo anche noi il 2,8% come loro». Domanda: perché l’Italia non può imitare i francesi? «Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa – spiega Mangia – è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011». E quindi, chiarisce il professore, le va lasciato margine di manovra. Anche perché, senza la foglia di fico (francese) del famoso “asse franco-tedesco”, sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato, in Europa: «E l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti». In altre parole: in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio. Solo che, «stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica», questa maggiore libertà «si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero». La spesa aggiuntiva francese, argomenta Mangia, viene fatta acquistando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno di quelli francesi. Sicché, Macron potrà anche «tirare a campare, politicamente, come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo», ma non farà altro che «aggravare la situazione e accumulare passivi sull’estero».E questo, sottolinea il professore, è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che «dopo sforamenti superiori al 5% (che noi ci sogneremmo) è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire, se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna». In più, se Bruxelles è di manica larga con Parigi, è anche per sostenere il suo uomo – Macron – ormai inviso al 70% dei francesi. La Francia, ricorda Alessandro Mangia, da oltre 10 anni sfora il tetto del 3% sul rapporto debito-Pil. Il paese è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero. Inoltre «ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano». La disoccupazione è stabile al 9% (in Italia è attorno all’11) con una manifattura «ormai secondaria, nel continente». Ancora: la Francia «è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscita (a parole) con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e di riunione». Non solo: la Francia «riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno, fatta apposta per drogare il consenso del vincitore».Come se non bastasse, l’Eliseo «sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di “En Marche” dovrebbe essere netta e sicura». A fronte di tutto questo, aggiunge il professor Mancia, come stupirsi del fatto che Macron abbia problemi di popolarità? Tutto sommato, aggiunge, a Macron «sta andando ancora bene», se consideriamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quell’esiguo consenso, «si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia». Gli scandaletti come quello che ha coinvolto Macron e la sua guardia del corpo Alexandre Benalla? Un pretesto fisiologico per esprimere la protesta contro le scelte (politiche, non private) del presidente, «in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica», dove «l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni». Mancando la possibilità del voto parlamentare di sfiducia, «poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato».Ma la Francia ha comunque due potenti frecce al suo arco: i 500 miliardi di euro che sottrae ogni anno a 14 ex colonie africane, più il fatto di essere rimasta – dopo la Brexit – l’unica potenza nucleare europea. «Nonostante le figuracce rimediate in Siria», afferma Mangia, la Francia è l’unica nazione in Europa a disporre di un deterrente nucleare, Per questo «è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti, parlando di Unione di Difesa, sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa». Tant’è vero che da qualche settimana, in Germania, «si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia». Il che, aggiunge Mangia, «dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa», come se la Nato non esistesse più. E comunque, «la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa, perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia».E guarda caso, puntualizza il professor Mangia, «stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra». Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce – combinazione – proprio nelle sue ex colonie? «Non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio», ribadisce il professore. «A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse». E che posto ha l’Italia in questo gioco di poteri? «La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche». Fateci caso, osserva Alessandro Mangia: «Avete mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante». Tra i nomi più in vista svettano quelli di Massimo D’Alema e Franco Bassanini, Emma Bonino, Piero Fassino e Walter Veltroni, Dario Franceschini, Enrico Letta. E poi il renziano Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Romano Prodi, i sindaci milanesi Giuliano Pisapia e Beppe Sala.«Qualcuno si è mai chiesto – si domanda Mangia – per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?». L’amara verità, aggiunge il professore, è che in questa Europa ci sono paesi «più sovrani degli altri». Il risultato? E’ sotto i nostri occhi: ormai, a votare in massa per i cosiddetti sovranisti, o populisti – in Italia ma anche in Francia, Germania, Austria, Svezia – è quello che fino a dieci anni fa era ancora “ceto medio”, e oggi, «oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali». Viene bollato come “ignorante, incolto e xenofobo”, da quegli stessi media che accolgono come rivelazioni sensazionali le palesi falsità spacciate da Cottarelli, che “vende” come virtù il “risparmio” nei conti pubblici, paragonando il bilancio statale a quello di una famiglia o di un’azienda. «Semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico», protesta Alessandro Mangia: «Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano. E il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino al divorzio Tesoro-Bankitalia».Il punto, aggiunge il professore, è che «la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta, esattamente come le famiglie, e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività». E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro: si è ottenuta «la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali, in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse». Dovremmo “ringraziare” a lungo chi ci ha portati in questa situazione, «che ha ucciso ogni libertà politica». E cioè: ha ucciso «la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto». Svuotamento della democrazia: «Certo, oggi si può ancora votare – aggiunge Mangia – ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo “zero virgola” e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione». Ribellarsi a questo falso paradigma, basato sulla mistificazione ideologica del neoliberismo? Facile a dirsi, ma prima bisogna sbarazzarsi del cartello-ombra costituito da potenti connazionali che “remano contro” il nostro paese.«Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante – scrive Ferraù, sul “Sussidiario” – per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino». Come potrebbe spuntarla, il governo gialloverde, se il ministro Giovanni Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”, sulle orme di Mario Draghi? Come ogni ministro del bilancio da Maastricht in poi, cioè dal 1992 – dice il professor Mangia – anche Tria «si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare, quando vanno a votare, e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact». Gli interlocutori di Tria? «Non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza». L’unica domanda è: «Quand’è che noi smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre – malamente, e con quello che passa il convento, che non è proprio granché – i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno», chiosa il professore. Non ne fa il nome, non ce n’è bisogno: per scoprire chi è basta accendere il televisore.Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.
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Francesi contro Macron, Sarkozy (e attentati) per distrarli
Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.È un regime, quello macronista, simile alle presidenze di Georges Pompidou e di Valéry Giscard d’Estaing (cui si deve la legge del 1973 che separò il Tesoro dalla Banca di Francia, con effetti simili a quelli prodotti in Italia con l’analogo provvedimento di Beniamino Andreatta) o al regno di François Mitterrand (cui si devono le grandi privatizzazioni di fine anni ‘80 ed il nulla osta alla nascita dell’euro): è il regime dell’alta finanza parigina, dei Rothschild, dei ricchi notabili cosmopoliti. Creato dal nulla pochi mesi prima delle elezioni, “En Marche” è studiato per subentrare ai socialisti di François Hollande, ormai esausto dopo cinque anni all’Eliseo: a colpi di scandali mediatico-giudiziari (l’eliminazione di François Fillon) e di demonizzazione degli avversari (la minaccia “nera” di Marine Le Pen), Macron è fortunosamente paracadutato ai vertici della Francia, perché portanti avanti “le riforme” di cui la Francia ha bisogno. Sono le classiche ricette di svalutazione interna, con cui la Francia deve smettere di “vivere al di sopra delle proprie possibilità” (si veda la voragine nella bilancia commerciale), cosicché possa rimanere agganciata alla Germania e all’euro-marco.È un compito titanico perché, come testimoniano i diversi andamenti del debito pubblico (esploso in Francia dopo l’introduzione dell’euro e oramai vicino al 100% del Pil, sotto il 70% in Germania e in calo da anni) e i diversi tassi di disoccupazione (9% contro 3,5%2) il motore franco-tedesco è sbiellato. Ciononostante, il giovane e ambizioso Macron si cimenta nell’impresa, prendendo ovviamente di mira la bestia più odiata dagli ambienti dell’alta finanza: lo Stato, che irradiandosi da Parigi all’ultimo dei dipartimenti, rappresenta l’orgoglio della Francia sin dai tempi di Luigi XIV. È lo Stato che con le partecipazioni statali consente di presidiare tutti settori strategici dell’economia, che consente alla Francia di avere il più alto tasso di fecondità d’Europa grazie ai generosi servizi elargiti alle famiglie, che garantisce opportunità di lavoro anche nelle zone più disagiate. Contro questo «kombinat tecnico-burocratico», che per l’“Huffington Post” «assorbe il 57% del Pil, della ricchezza nazionale» (che “assorbe” e non “produce”, si noti), l’ex-banchiere della Rothschild & Cie promette di agire con sega e bisturi: 120.000 licenziati tra i dipendenti pubblici in cinque anni, blocco degli stipendi, sospensione del turnover, lotta ai “regimi speciali” di cui godono una trentina di categorie di lavoratori pubblici.La lotta ai “privilegiati dello Stato”, in particolare, porta Macron in rotta di collisione con il potente sindacato dei ferrovieri, quei “cheminots” che possono vantare un regime previdenziale molto generoso (età pensionabile a 52 anni, contro i 62 delle altre categorie) e che garantiscano ogni anno lo spostamento di 1,4 miliardi di persone. Attaccare il sindacato dei ferrovieri significa correre il rischio di paralizzare letteralmente la Francia, isolando Parigi dal resto del paese e le comunicazioni dentro la stessa Île-de-France. Il 22 marzo, Macron affronta così la prima prova di piazza: dipendenti di ferrovie, scuole, ospedali e aeroporti incrociano le braccia. Si tratta peraltro soltanto di un “avvertimento”, perché lo sciopero dei ferrovieri si estenderà da inizio aprile a fine giugno, al ritmo di due giorni di sciopero ogni cinque. Si prospetta quindi una primavera bollente per il regime macronista, che guarda con terrore il saldarsi delle diverse proteste (Sncf, Air France, sanità, educazione pubblica, etc.): come nel caso di Hollande, la stagione degli scioperi rischia di affondare una presidenza già oggi compromessa, che raccoglie il giudizio negativo della maggioranza dei francesi (57% di insoddisfatti secondo un recente sondaggio).Dopo Macron, è però quasi impossibile che l’establishment francese riesca a trovare un candidato per frenare l’onda nazional-populista: il suo quinquennio è l’ultima occasione per attuare con successo quelle riforme indispensabili per tenere la Francia al passo con la Germania. Tutto deve essere fatto per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla manifestazioni di piazza e dalle montanti tensioni sociali: come la Francia ha eletto Macron in pieno “stato d’emergenza”, così è facile il paese, man mano che il regime macronista incontra resistenza, precipiti di nuovo in quella condizione. Il primo a essere immolato è stato Nicolas Sarkozy: il 20 marzo, due giorni prima del “giovedì nero” dei trasporti, la stampa annuncia che l’ex-presidente della Repubblica è in stato di fermo, sottoposto a interrogatorio per i finanziamenti illeciti ricevuti da Muammar Gheddafi per la campagna elettorale del 2007. Nonostante ci siano pochi dubbi sull’effettiva ricezione dei fondi e sulla bassezza morale di Sarkozy, mandante dell’omicidio del rais libico (ucciso da agenti francesi), è ormai chiaro che “l’affare libico”, aperto dalla magistratura nel 2013, torna a galla quando è più comodo all’establishment: successe così nell’autunno 20178, alla vigilia delle primarie del centrodestra, e succede così nel marzo 2018.L’annuncio sulla messa sotto indagine dell’ex-presidente della Repubblica è dato alla vigilia dello sciopero del 22 marzo e consente, così, di calamitare l’attenzione dei media lontano dalla mobilitazione dei sindacati. Più grave e sfacciato ancora è l’immediato rigurgito del terrorismo “islamico” che, dalla strage di Charlie Hebdo in avanti, ha accompagnato la declinante presidenza di Hollande sino a culminare con la mattanza del Bataclan e la proclamazione dello stato d’emergenza: non trascorrono neppure 24 ore dalla conclusione delle grandi manifestazioni sindacali che l’Isis, “dormiente” per buona parte del 2017, torna a colpire la Francia. Un 26enne di origine marocchina, già noto ai servizi e schedato per radicalizzazione, ruba una macchina, ferendo il conducente e uccidendo un passeggero, colpisce alcuni agenti e si barrica in supermercato di Trèbes, sud-est della Francia, dove uccide altre due persone prima di essere liquidato dalle teste di cuoio. Macron è avvisato della situazione davanti alla telecamere, quando si trova a fianco di Angela Merkel per la conferenza congiunta al termine del Consiglio Europeo.Si rifà viva anche la solita Rita Katz, che non si dice sorpresa perché, dopo la bonaccia del 2017, c’erano segnali di una ripresa di attività dell’Isis: è sufficiente infatti che i servizi occidentali liberino qualche terrorista allevato ad hoc. Se per l’Italia sono in serbo altri piani (un governo M5S, l’ultimo saccheggio dei risparmi pubblici e dei beni statali, l’uscita caotica dall’euro ed un possibile default), nel caso francese c’è, invece, la volontà di tenere Parigi agganciata a Berlino: ecco perché, man mano che il regime macronista procede con “le riforme”, affondando parallelamente negli indici di gradimento, è pressoché certo che si assista ad una nuova recrudescenza del terrorismo, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dalle tensioni sociali in rapido aumento. Allo scellerato Sarkozy si può rinfacciare tutto, ma bisogna riconoscergli di aver azzeccato almeno una previsione: «Ça va très mal finir».(Federico Dezzani, “Francia, il regime macronista alla prova della piazza”, dal blog di Dezzani del 23 marzo 2018).Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.
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Usa: stop all’auto tedesca, Berlino falsifica i conti dell’export
Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.Attenzione: l’eccesso di export (non registrato onestamente a bilancio) è solo uno dei tanti trucchi con cui la Germania pretende di qualificarsi “virtuosa” di fronte ai competitori europei, con la quale è in guerra: avversari come l’Italia, che sta letteralmemte schiacciando grazie al tasso di cambio marco-euro che svaluta la divisa tedesca favorendo le esportazioni. Primo trucco, la banca pubblica Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau), simile all’italiana Cassa Depositi e Prestiti. «Ogni anno raccoglie circa 500 miliardi e li reinveste concedendo prestiti a tassi irrisori alle piccole e medie imprese», ricorda “Linkiesta”. Piccola differenza: «I 300 miliardi di debito contratto dalla nostra Cdp, coperto da garanzia statale, entra nel conteggio del debito pubblico italiano. I 500 miliardi di euro della Kfw invece no». Il motivo? Un cavillo: la Germania esclude dal debito di Stato le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. «Regola alquanto discutibile: la proprietà di Kfw è pubblica, la sua vigilanza non è deputata alla Bundesbank (la banca centrale tedesca), ma al ministero delle finanze. I suoi tassi sono diretta conseguenza di quelli dei Bund e se avesse problemi sarebbe lo Stato a intervenire».Facendo i conti della serva: 500 miliardi di euro sono pari a circa un quarto dei 2080 miliardi complessivi del debito pubblico tedesco. «Se li sommassimo otterremmo un debito pubblico tedesco che dal 78,4% arriverebbe a lambire il 97% del Pil», scrive “L’inkiesta”, enumerando le altre false “virtù” della Germania. Per esempio: il pareggio di bilancio (imposto all’Italia in tempi strettissimi) Berlino lo realizzerà con modo, a rate, tenendo conto dell’autonomia finanziaria dei suoi 16 Lander, che avranno tempo fino al 2020. In più: gli enti locali sono sovra-indebitati, ma il loro bilancio (in rosso) non viene conteggiato nel debito pubblico nazionale. Terzo trucco: lo Stato nelle banche. A parte la Cdp, scrive “Linkiesta”, «in Italia tutte le banche sono in mano a investitori privati, mentre in Germania il 45% del sistema bancario è in mano al settore pubblico». Ancora: se il mercato non compra i bond tedeschi, li acquista direttamente la banca centrale, la Bundesbank (il che è giusto: peccato che Berlino vieti alle banche centrali dei paesi europei di fare altrettanto). Nell’Unione Europea, dove alcuni sono “più uguali” degli altri, i tedeschi sono, orwellianamente, “i più uguali” di tutti: impiccano la Grecia e azzoppano l’Italia imponendo l’austerity, ma poi chiudono un occhio (anzi, due) sui propri conti-vergogna, da nascondere sotto il tappeto.Tutti contenti, in Germania? Nemmeno per idea: «I lavoratori tedeschi si preparano allo sciopero per l’aumento dei salari», scrive “Bloomberg”. Gli operai e i giganti industriali, dalla Siemens a Daimler, stanno affrontando un crescente conflitto con una serie di giornate di sciopero in tutta la Germania, che secondo gli imprenditori starebbero danneggiando seriamente l’attività produttiva, affermano Carolynn Look e Christoph Rauwald, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. «I lavoratori sono davvero molto arrabbiati a causa delle tattiche negoziali degli imprenditori», afferma Joerg Koehlinger, leader regionale del sindacato Ig Metall: «Tutti possono vedere quanto sia buona la situazione economica, per cui vogliamo degli aumenti salariali significativi e degli orari di lavoro adeguati alla vita delle persone». La Germania è il paese dei “mini-job” da 450 euro mensili, introdotti da Gerhard Schroeder su ispirazione di Peter Haartz, l’ex ad della Volkswagen condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli a introdurre contratti-capestro. Le paghe bassissime sono una delle chiavi del super-export su cui si fonda l’aggressiva economia industriale tedesca. Oggi, il tasso di disoccupazione è sceso a un record minimo: 5,4%. «Con livelli di produzione manufatturiera vicini ai massimi da due decenni a questa parte, e con gli ordini che vanno a gonfie vele, qualsiasi rallentamento della produzione potrebbe avere serie ripercussioni», avvertono Look e Rauwald su “Bloomberg”.Una situazione su cui, domani, potrebbe incombere l’ira di Trump, insolentito dalla Merkel davanti alla platea internazionale per il suo presunto protezionismo. Tutto vero? Macché. E’ solo l’ennesima “fake news” su cui si fonda l’egemonia tedesca. «La Germania non è affatto equa riguardo alle auto, perché la Ue adotta una tariffa doganale del 10%, mentre gli Usa hanno una tariffa del 2,5%», spiega il professor Flassbeck. «Il notevole “surplus commerciale bilaterale” preoccupa molto gli Usa, che potrebbero finire col punire l’intera Ue per i flussi commerciali sbilanciati di Berlino». Secondo l’ultimo rapporto del Tesoro Usa, «il surplus commerciale bilaterale della Germania con gli Usa è molto ingente e fonte di preoccupazione». La Germania, «in quanto quarta potenza economica globale», dovrebbe invece avvertire «la responsabilità di contribuire a una crescita della domanda più bilanciata e a flussi commerciali più bilanciati». Dai rapporti risulta che tra l’80 e il 90% del commercio di Berlino sfrutta la domanda estera. E Peter Navarro, consulente commerciale alla Casa Bianca, ricorda che la Merkel mantiene il “marco tedesco” «fortemente svalutato», sfruttando le regole dell’Ue e dell’Eurozona. «E’ una situazione molto iniqua: non riusciamo a esportare i nostri prodotti, mentre loro esportano da noi i propri, con tasse molto basse», dichiara Trump. «Se la Casa Bianca dovesse imporre sanzioni contro le auto e l’acciaio tedesco», avverte Carey su “Voci dall’Estero”, «l’intera Ue verrebbe trascinata nel conflitto».Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.
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La Grecia in saldo al 5%, lo Stato non esiste più. E l’Italia?
La Grecia è in saldo, sul web: nel 2018 l’esproprio della ricchezza pubblica e privata diventerà molto più veloce, e aggredirà i rimasugli di patrimonio restanti. «Gli immobili vengono messi all’asta e i compratori stranieri – banche, privati e perfino istituzioni – possono prendersi un’isola, un appartamento, una spiaggia, un’opera antica: qualsiasi cosa». Il tutto quasi gratis, «a meno del 5% del loro valore». Finiscono all’asta su Internet «perfino le prime case, se superano una determinata superficie». La Grecia di Alexis Tsipras, scrive Maurizio Pagliassotti su “Diario del Web”, è entrata nella “fase laboratorio”: «Vedere cosa succede a un paese lasciato nelle mani dei creditori». Disse Milton Friedman, padre del neoliberismo: «Lo shock serve a far diventare politicamente inevitabile quello che socialmente è inaccettabile». Il trauma della Grecia risale all’estate del 2015: con la giacca gettata sul tavolo al grido di «prendetevi anche questa», il primo ministro Alexis Tsipras «firmò la resa senza condizioni della sua nazione sconfitta: umiliato di fronte al proprio paese e al mondo da Angela Merkel, volutamente».
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Amazon, Ikea, Fca: miliardari grazie al sangue degli schiavi
Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.Il padrone e fondatore di Ikea si chiama Ingvar Kartman, in gioventù è stato nazista, ora ha superato i novant’anni e ha lasciato la gestione del gruppo ai figli. Assieme sono una delle famiglie più ricche del mondo, che ha abbandonato la Svezia per pagare meno tasse in Svizzera. Anche Ikea fa pubblicità simpatiche e progressiste, a favore di tutti i tipi di famiglie. Le sue dipendenti però la famiglia fanno fatica anche a vederla. Una madre di due figli, uno dei quali disabile, è stata licenziata a Milano perché non poteva far fronte a un cambio di turni che le rendeva impossibile occuparsi dei suoi figli. Questo atto feroce non è un caso isolato, ci ha pensato la stessa azienda a chiarire che esso è parte di un sistema organico di vessazione del lavoro. Infatti neanche una settimana dopo, a Bari, Ikea ha licenziato un dipendente per un ritardo di 5 minuti. E altri soprusi simili stanno finalmente venendo alla luce.John Elkann è l’ultimo padrone della Fiat, ora Fca, erede e socio della grande e numerosa famiglia miliardaria, anch’essa indisponibile a pagare le tasse nel suo paese. La gestione concreta del gruppo come si sa è affidata a Marchionne, che ha aumentato enormemente i guadagni suoi e i profitti della famiglia. Nel 2019 l’amministratore delegato se ne andrà, ma la famiglia Agnelli continuerà ad accumulare miliardi. Lo ha sempre fatto, anche quando la Fiat non vendeva un’auto. I profitti di famiglia sono sempre stati la sola rigidità dell’impresa, tutto il resto è sempre stato flessibile, il lavoro prima di tutto. Oggi poi la flessibilità è in tempo reale. Così alla fine di ottobre la Fca di Cassino ha lasciato a casa 530 operai assunti a termine, con un semplice Sms. Perché sprecare un colloquio, una parola per delle merci sostituibili in qualsiasi momento? Questo sono e così vengono trattati i lavoratori di Fca. Questi supermiliardari sono vezzeggiati e incensati dai mass media e dagli intellettuali di regime. La politica si prostra i loro piedi. Così Bezos e compagnia controllano il mondo e le nostre vite. Sono straricchi perché in tanti sono poveri e sfruttati.(Giorgio Cremaschi, “Bezos, Kartaman e Elkann: miliardari e schiavisti”, da “L’Antidipomatico” del 30 novembre 2017).Jeff Bezos è l’uomo più ricco del mondo, l’ultimo rendiconto ufficiale sul suo patrimonio netto lo fa ammontare a 90 miliardi di euro, più o meno. Questa montagna di soldi l’ha accumulata con Amazon, di cui è fondatore e proprietario. Amazon si presenta con spot pubblicitari buoni e compassionevoli, verso i bambini, i disagiati, gli animali di casa; per tutti c’è un prodotto utile che può essere consegnato in poco tempo, a chi lo ha richiesto, al prezzo di una organizzazione del lavoro e di uno sfruttamento da schiavi. I 4.000 dipendenti del grande magazzino di Piacenza della multinazionale sono scesi in sciopero contro questa oppressione infame. Lo stesso hanno fatto i loro colleghi di Germania. In Gran Bretagna Alan Selby, giornalista del “Mirror”, ha lavorato in incognito nel più grande centro di Amazon in quel paese e ha raccontato la sua terribile esperienza. Salari di fame e 55 ore di lavoro a settimana, per turni devastanti dove si deve correre tra gli scaffali per trovare, confezionare, consegnare prodotti. Si sviene e arrivano le ambulanze, e se non si torna presto al lavoro con il rendimento giusto si viene licenziati. I lavoratori sono bestiame al servizio dei robot, ha sintetizzato Selby.
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D’Annunzio ‘antifascista’ precipitò dal balcone: coincidenze?
La sera del 13 agosto 1922 Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica del Vittoriale, e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il fatto sembrò subito molto strano; la versione ufficiale comunicata alla stampa affermava che il poeta, mentre stava cercando un po’ di fresco nella serata afosa, era stato colto da un capogiro. Il 17 agosto seguente il giornale “Il Comunista” insinuò che la caduta fosse dovuta a un fatto doloso. Altri ventilarono l’ipotesi che il poeta avesse tentato il suicidio, e non mancò chi sostenne che la caduta non fosse mai avvenuta. Ad oggi la versione è che D’Annunzio cadde mentre ascoltava la musica suonata al pianoforte per lui da Luisa Baccara, appoggiato a una finestra, vicino alla sorella della pianista, la giovane Jolanda. La caduta sarebbe stata causata da una spinta datagli da Jolanda per opporsi a qualche avance focosa del poeta. Sembra che, in stato di semi-incoscienza, il 21 agosto, il poeta abbia mormorato una frase significativa appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda, si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia».Questo il bollettino dei medici Antonio Duse, Francesco d’Agostino, Davide Giordano, Mario Donati, Raffaele Bastianelli, Augusto Murri subito dopo il ricovero in ospedale: «Segni manifesti di frattura della base del cranio estesa all’orbita destra. Commozione cerebrale. Stato d’incoscienza. Segni di compressione cerebrale dubbi. Disturbi di motilità e di sensibilità non manifesti. Ferite lievi escoriate all’arto inferiore destro. Leggera contusione a destra del torace. Ambe le mani sono incolumi. Non v’è indicazione urgente di atto chirurgico. Polso regolare 67. Respiro regolare 25. Temperatura 37,8. Prognosi tuttavia riservata». Fu disposta un’inchiesta riservata affidata al commissario Giuseppe Dosi, lo stesso che poi indagherà sul caso del povero Gino Girolimoni che nel 1927, a Roma, sarà accusato ingiustamente dello stupro di sette bambine e dell’omicidio di cinque di loro; delitti avvenuti tra il 1924 e il 1927. Un caso davvero inquietante, nel quale entrò anche un prete (anglicano) inglese, Ralph Lyonel Brydges, probabilmente il vero assassino.Giuseppe Dosi si presentò in incognito al Vittoriale, facendosi passare per un ex ufficiale della Legione Cecoslovacca, addirittura parlando tedesco e italiano con accento straniero. Chiese di frequentare il Vittoriale per dipingere paesaggi, e ne approfittò per interrogare il personale e la gente dei dintorni. Conversò con lo stesso D’Annunzio, fino a quando il poeta capì di avere a che fare con uno sbirro e gli impose di andarsene. D’Annunzio all’epoca abitava al Vittoriale in una specie di Aventino, dedicandosi alla sua arte, avendo scelto di tenersi lontano dalla vita pubblica. Ex legionari legati ad Alceste De Ambris, che era stato capo di gabinetto di D’annunzio a Fiume, cercavano di richiamare il poeta all’impegno pubblico e di fargli assumere una posizione antifascista in un momento nel quale il fascismo, soprattutto in campo sindacale, stava mietendo successi. I fascisti guardavano al poeta come un rivoluzionario combattentista, pensando alla suggestione che la sua figura poteva esercitare sull’intero popolo italiano. Lo stesso Mussolini era consapevole che la figura di D’Annunzio era un polo d’attrazione per gli ambienti squadristi del suo movimento.Nell’aprile del 1921 vi era stato un incontro fra D’Annunzio e Mussolini. Il poeta aveva appoggiato la candidatura di De Ambris alle elezioni di quell’anno, e vi erano state alcune iniziative promosse dai sindacalisti dannunziani in chiave antifascista. Il 3 agosto 1922, a Milano, D’Annunzio fece un improvvisato discorso dal balcone di Palazzo Marino dopo il fallimento dello “sciopero legalitario” promosso dalla Alleanza del Lavoro contro la violenza fascista. In quello stesso periodo furono avviati abboccamenti tra D’Annunzio, Mussolini e Francesco Saverio Nitti, che avrebbero dovuto portare ad una riconciliazione pubblica fra i tre uomini destinati a portare, in prospettiva, a un governo di pacificazione nazionale. L’incontro avrebbe dovuto aver luogo il 15 agosto in una villa toscana. L’improvvisa caduta di D’Annunzio, proprio alla vigilia dell’incontro, il 13 agosto, ne impedì la realizzazione. Nitti scrisse nelle sue memorie: «Se D’annunzio non fosse caduto dalla finestra e l’incontro con lui, Mussolini e me fosse avvenuto, forse la storia dell’Italia moderna avrebbe seguito un altro cammino».Certo è che, per la pena del contrappasso, chi sale troppo in alto poi cade. Dopo l’incidente, con la proclamazione del 4 novembre come festa nazionale, alcuni esponenti della vecchia classe politica liberale pensarono di sfruttare D’Annunzio in chiave antifascista, facendolo partecipare a una grande manifestazione patriottica che si sarebbe dovuta svolgere a Roma, all’Altare della Patria, nell’anniversario della vittoria. La marcia su Roma del 28 ottobre 1922 fece cadere il progetto. Dopo la marcia su Roma, D’Annunzio al Vittoriale sarà un osservato speciale, e forse prigioniero. Visse in una specie di esilio dorato, sorvegliato, spiato, seguito e trattato come un incapace. Gli affiancarono un’infermiera tedesca che non lo perdeva mai d’occhio. Il Vate morirà anni dopo, il 1° marzo 1938, a settantacinque anni, per un’emorragia celebrale. Curiosa coincidenza, in una lettera del 1935 a Mussolini, il poeta aveva scritto: «Il mio cranio di lucido cristallo può incrinarsi facilmente». E nel febbraio 1938 a Tom Antongini scrisse: «Credo che sono morto come il cavalier Baiardo all’assedio di Brescia… L’anniversario cadrà poco prima del mio marzo funebre».Il Vate morirà proprio nel marzo previsto nella sua ultima missiva, col capo chino sul suo scrittoio nella Zambracca, la stanza che usava al Vittoriale per comporre i suoi poemi, con il dito ad indicare la data esatta, cerchiata di rosso, del lunario Barbanera che vaticinava per quel giorno «la morte di un italiano illustre». Uno scena che molti lessero come un suicidio. La morte per emorragia cerebrale risulta dal certificato medico stilato dal dottor Alberto Cesari, primario dell’ospedale di Salò, e dal dottor Antonio Duse, medico curante del poeta. I funerali furono organizzati con estrema rapidità. D’Annunzio morì il martedì sera verso le 20 e Mussolini partì da Roma per Gardone Riviera la mattina dopo, il tempo strettamente necessario per disdire gli appuntamenti di Stato e organizzare il treno presidenziale che lo portò a Desenzano con i ministri Ciano, Starace, Alfieri, Benni e il segretario particolare Sebastiani. Le esequie furono celebrate la mattina di giovedì 3 marzo, attorno alle 8,30. Non fu eseguita alcuna autopsia o altri accertamenti che approfondissero le cause del decesso. La morte fu certificata come emorragia celebrale solo in base a reperti esterni, clinici, non supportati da esami autoptici. Forse certificò tutto l’infermiera tedesca che da anni lo “seguiva” da vicino. Il 12 marzo 1938 Hitler annette l’Austria alla Germania nazista. Iniziano i “preparativi” per la seconda tragica guerra mondiale.(Lara Pavanetto, “Quando il Vate volò dalla finestra e predisse la sua morte”, dal blog della Pavanetto del 13 settembre 2017”. Fonti: Raffaele K. Salinari, “Le tre morti di Gabriele D’Annunzio”, da “Il Manifesto” del 5 ottobre 2013; Ennio Di Francesco, “Il Vate e lo Sbirro”, Edizioni Solfanelli, 2017).La sera del 13 agosto 1922 Gabriele D’Annunzio cadde dal balcone della stanza della musica del Vittoriale, e rimase fra la vita e la morte per molti giorni. Il fatto sembrò subito molto strano; la versione ufficiale comunicata alla stampa affermava che il poeta, mentre stava cercando un po’ di fresco nella serata afosa, era stato colto da un capogiro. Il 17 agosto seguente il giornale “Il Comunista” insinuò che la caduta fosse dovuta a un fatto doloso. Altri ventilarono l’ipotesi che il poeta avesse tentato il suicidio, e non mancò chi sostenne che la caduta non fosse mai avvenuta. Ad oggi la versione è che D’Annunzio cadde mentre ascoltava la musica suonata al pianoforte per lui da Luisa Baccara, appoggiato a una finestra, vicino alla sorella della pianista, la giovane Jolanda. La caduta sarebbe stata causata da una spinta datagli da Jolanda per opporsi a qualche avance focosa del poeta. Sembra che, in stato di semi-incoscienza, il 21 agosto, il poeta abbia mormorato una frase significativa appuntata dal medico curante: «E Joio? Jolanda, si sarà spaventata e sarà scappata a Venezia».