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Il Guardian: l’ignobile Schäuble già rovinò la Germania Est
Per capire le richieste di Wolfgang Schäuble nei colloqui di salvataggio, dovete guardare a ciò che ha inflitto al suo paese quando si è riunificato. Ogni dramma ha bisogno di un grande cattivo, e nell’ultimo atto della crisi greca Wolfgang Schäuble, il 72-enne ministro delle finanze tedesco, è emerso come straordinario villain: i critici lo vedono come un tecnocrate spietato che ha usato modi pesanti su un intero paese e ora ha intenzione di spogliarlo del suo patrimonio. Una parte dell’accordo di salvataggio, in particolare, ha scandalizzato molti europei: la proposta di creazione di un fondo progettato per selezionare accuratamente beni pubblici greci del valore di 50 miliardi di euro e privatizzarli per pagare i debiti del paese. Ma la chiave per comprendere la strategia della Germania è che per Schäuble non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Venticinque anni fa, durante l’estate del 1990, Schäuble guidava la delegazione della Germania Ovest che stava negoziando i termini dell’unificazione con la Germania Est ex-comunista.Dottore in legge, era ministro degli interni della Germania Ovest e uno dei più stretti consiglieri del Cancelliere Helmut Kohl, il ragazzo a cui rivolgersi ogni volta che le cose diventavano difficili. La situazione nella ex Rdt non era troppo dissimile da quella della Grecia quando Syriza è salita al potere: i tedeschi dell’est avevano appena tenuto le prime elezioni libere nella loro storia, solo pochi mesi dopo la caduta del Muro di Berlino, e alcuni dei delegati di Berlino Est sognavano un nuovo sistema politico, una “terza via” tra l’economia di mercato dell’ovest e il sistema socialista dell’est – nel frattempo non avevano più alcuna idea di come pagare le bollette. I tedeschi occidentali, dall’altra parte del tavolo, avevano slancio, denaro e un piano: tutto quanto di proprietà dello stato della Germania Est doveva essere assorbito dal sistema tedesco-occidentale e poi rapidamente venduto ad investitori privati per recuperare una parte dei soldi di cui la Germania orientale avrebbe avuto bisogno negli anni a venire. In altre parole: Schäuble e la sua squadra volevano garanzie.A quel tempo quasi tutte le società, i negozi o le stazioni di benzina ex-comuniste erano di proprietà della Treuhand, un’agenzia di fiducia – un’istituzione originariamente pensata da un gruppo di dissidenti della Germania Est per fermare la vendita delle imprese statali alle banche e alle società della Germania Ovest da parte di quadri comunisti corrotti. La missione della Treuhand: trasformare tutti i grandi conglomerati, le aziende e i piccoli negozi in aziende private, in modo che potessero essere parte di un’economia di mercato. A Schäuble e alla sua squadra non interessava che i dissidenti avessero pianificato di distribuire azioni di queste società, emesse dalla Treuhand, ai tedeschi dell’Est – un concetto che per inciso ha portato alla nascita degli oligarchi in Russia. Ma piaceva loro l’idea di un fondo di garanzia, perché operava al di fuori del governo: sebbene tecnicamente supervisionato dal ministero delle finanze, la Treuhand era percepita dall’opinione pubblica come un organismo indipendente. Anche prima che la Germania si fondesse in un unico Stato nell’ottobre 1990, la Treuhand era saldamente nelle mani della Germania Ovest.Lo scopo dei negoziatori della Germania Ovest era privatizzare quante più aziende possibili, il più presto possibile – e se oggi si chiedesse della Treuhand alla maggior parte dei tedeschi, direbbero che ha raggiunto tale obiettivo. Non lo ha fatto in un modo che è piaciuto al popolo della Germania orientale, dove la Treuhand venne rapidamente conosciuta come la faccia violenta del capitalismo. Nello spiegare la trasformazione dell’economia ai traumatizzati tedeschi orientali, che si sentivano sopraffatti da questa strana nuova agenzia, fece un lavoro tremendo. A peggiorare le cose, la Treuhand divenne un ricettacolo di corruzione. L’agenzia si è presa tutta la colpa per la situazione desolante nella Germania dell’Est. Kohl e il partito di Schäuble, il conservatore Cdu, sono stati rieletti per gli anni a venire, mentre altri hanno pagato il prezzo: uno dei presidenti della Treuhand, Detlev Karsten Rohwedder, fu assassinato da terroristi di sinistra. (Anche Schäuble è stato vittima di un attentato che lo ha lasciato permanentemente su una sedia a rotelle, dopo solo pochi giorni dalla riunificazione tedesca – ma le motivazioni del suo aggressore paranoico erano estranee agli eventi politici). Ma la realtà di ciò che ha fatto la Treuhand è diversa dalla percezione popolare – e questo dovrebbe essere un monito sia per Schäuble che per il resto d’Europa.La vendita del patrimonio della Germania Est per il massimo profitto si è rivelata più difficile di quanto immaginato. Quasi tutti i beni di valore reale – le banche, il settore energetico – erano già state accaparrate dalle società tedesco-occidentale. Pochi giorni dopo l’introduzione del marco tedesco-occidentale, l’economia dell’est collassò. Come la Grecia, essa richiese un massiccio programma di salvataggio organizzato dal governo di Schäuble, ma in segreto: si misero da parte 100 miliardi di marchi per mantenere l’economia della vecchia Germania orientale a galla, una cifra che è diventato pubblica solo anni dopo. Con il costo del lavoro e delle forniture che sfondarono il soffitto [a causa della parità decisa a tavolino tra marco-orientale e marco-occidentale per l’unione monetaria tra le due Germanie, entrata in vigore il 1 luglio 1990, NdT], la già stressata economia della Germania Est andò in caduta libera e la Treuhand non ebbe alcuna possibilità di vendere molte delle sue imprese. Dopo un paio di mesi cominciò a chiudere intere aziende, licenziando migliaia di lavoratori. Alla fine la Treuhand non generò affatto alcun provento per il governo tedesco: raggranellò a malapena 34 miliardi di euro per tutte le società dell’est messe insieme, perdendo 105 miliardi di euro.In realtà, la Treuhand non è diventata soltanto uno strumento per la privatizzazione, ma una holding quasi-socialista. Perse miliardi di marchi, perché continuò a pagare i salari di molti lavoratori dell’est e tenne in vita alcune fabbriche non redditizie – un aspetto positivo di solito annegato nella denigrazione dell’agenzia [la denigrazione della Treuhand nasce anche dal fatto che, in aggiunta ai molteplici episodi di corruzione e alla brutale liquidazione dell’economia tedesco-orientale, l’agenzia chiuse, liquidò o svendette ad aziende tedesco-occidentali anche aziende tedesco-orientali che erano più competitive o di dimensioni ben maggiori rispetto alle controparti occidentali, nell’intento di uccidere sul nascere la potenziale concorrenza delle aziende tedesco-orientali per assicurare al capitale tedesco-occidentale lo sbocco sui mercati dei paesi ex-comunisti legati alla Germania Est – si veda il già citato “Anschluss, l’annessione” di Vladimiro Giacchè, NdT]. Poiché Kohl e, durante l’estate del 1990, Schäuble, non erano economisti di Chicago appassionati di esperimenti radicali, ma politici che volevano essere rieletti, hanno pompato milioni in un’economia in fallimento. Questo è il punto dove finisce il parallelo con la Grecia: c’erano dei limiti politici all’austerità che un governo poteva imporre al suo stesso popolo.La lezione appresa da Schäuble – che adesso è in grado di influenzare le sue decisioni – è che se si recita la parte del neoliberista puro di cuore si può ancora avere una via di fuga con decisioni che dal punto di vista economico non hanno del tutto senso. Se Schäuble sta agendo duramente con la Grecia in questo momento, è perché il suo elettorato vuole che agisca a quel modo; non è tanto che non si preoccupa per il popolo greco, è che lui vuole far credere alla gente che non gli importa, perché ne vede il vantaggio politico. Ma Schäuble dovrebbe aver imparato dalla storia che il gioco d’azzardo della Treuhand ha avuto conseguenze psicologiche catastrofiche. Anche se l’agenzia è stata gestita da tedeschi, che parlavano tedesco, è stata tuttavia vista da molti nell’est come una forza di occupazione. L’idea di Schäuble di paesi stranieri che controllano il patrimonio greco e lo trasferiscono all’estero è un concetto ancora più umiliante per qualsiasi paese. Schäuble si presenta come un ragioniere duro e sobrio. In realtà è soltanto un politico ordinario che ripete vecchi errori.(Dirk Laabs, “Per capire la durezza della Germania verso la Grecia, bisogna guardare a 25 anni fa”, dal “Guardian” del 17 luglio 2015, tradotto da “Voci dall’Estero”).Per capire le richieste di Wolfgang Schäuble nei colloqui di salvataggio, dovete guardare a ciò che ha inflitto al suo paese quando si è riunificato. Ogni dramma ha bisogno di un grande cattivo, e nell’ultimo atto della crisi greca Wolfgang Schäuble, il 72-enne ministro delle finanze tedesco, è emerso come straordinario villain: i critici lo vedono come un tecnocrate spietato che ha usato modi pesanti su un intero paese e ora ha intenzione di spogliarlo del suo patrimonio. Una parte dell’accordo di salvataggio, in particolare, ha scandalizzato molti europei: la proposta di creazione di un fondo progettato per selezionare accuratamente beni pubblici greci del valore di 50 miliardi di euro e privatizzarli per pagare i debiti del paese. Ma la chiave per comprendere la strategia della Germania è che per Schäuble non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Venticinque anni fa, durante l’estate del 1990, Schäuble guidava la delegazione della Germania Ovest che stava negoziando i termini dell’unificazione con la Germania Est ex-comunista.
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Spagna, governo nel panico: vietato manifestare, multe folli
Vietato tutto: manifestare, dilvulgare notizie di manifestazioni, fotografare poliziotti che caricano i manifestanti. E’ l’agghiacciante decalogo-bavaglio che il governo di Mariano Rajoy, spaventato dalla rabbia degli spagnoli per la crisi determinata dall’euro e dall’Ue, ha deciso di imporre ai “sudditi”, sempre più turbolenti e propensi a votare “Podemos”. L’elenco delle nuove probizioni è stato anticipato dal quotidiano digitale “El Plural” e proposto al pubblico italiano da “Come Don Chisciotte”. Come osserva il portale iberico, il linguaggio «contorto e criptico» della nuova legge «permetterà all’amministrazione di sanzionare senza permesso giudiziario per ragioni che non sono chiare nel testo». Punto primo: vietato manifestare in una “infrastruttura che fornisce servizi di base per la comunità”. Che cosa intende? «Nella redazione calzano a pennello i tipici atti di protesta di Greenpeace, che spesso includono la scalata di una centrale nucleare e il dispiegamento di uno striscione, una concentrazione in un aeroporto o anche una protesta durante la trasmissione di notizie di un’emittente pubblica». Durissime le sanzioni per i trasgressori: cifre comprese tra i 30.000 e 600.000 euro.Vietato, inoltre, diffondere in rete messaggi riguardanti una protesta o manifestazione a venire. Si considera “organizzatore o promotore” chiunque “di fatto presieda, diriga o eserciti atti simili, o chi attraverso pubblicazioni o dichiarazioni di convocazione delle medesime, da dichiarazioni orali o scritte se in esse sono presenti, slogan o altri segni che possano ragionevolmente essere definiti direttori delle stesse”. Ciò significa che possono essere puniti allo stesso modo coloro che hanno organizzato una protesta senza permesso e chi trasmette i messaggi sui social network riguardo manifestazioni, anche se poi non partecipa e non conosce i dettagli della manifestazione. Stessa mano pesante anche per le multe, fino a 600.000 euro. La proibizione si estende persino alla moltiplicazione di filmati via web, punibile con il carcere – da uno a due anni. Si colpisce anche il consumo di droghe o alcol in pubblico, da 100 euro l’ammenda in caso di alcol e fino a 30.000 nel caso di consumo di stupefacenti. Tolleranza zero anche coi migranti: saranno respinti i disperati che riusciranno a entrare in territorio iberico attraverso Ceuta e Melilla.Ma il legislatore è assillato soprattutto dal dissenso politico: manifestare in modo spontaneo davanti al Parlamento potrà costare ai dimostranti fino a 30.000 euro. Stessa multa nel caso di scattino fotografie agli agenti di polizia, visto che le foto potrebbero rappresentare “una minaccia per la loro sicurezza personale o familiare”. Identica sanzione per chi interrompe un incontro o una manifestazione pacifica: la nuova legge qualifica come un grave reato “perturbare il regolare svolgimento di una riunione o dimostrazione, se non costituisce un reato penale”. Tuttavia, il testo non specifica il tipo di disturbo: un’incursione dei black bloc “vale” quanto il dirottare una dimostrazione o l’introdurvi striscioni e slogan “che potrebbero essere considerati criminali”? Ma non è tutto. Il governo Rajoy vuole punire (con multa fino a 30.000 euro) anche chi si oppone a uno sfratto. Nel mirino, «le famose mobilitazioni cittadine per impedire alle banche di espellere dalle loro case chi non riesce a pagare il mutuo». Multe più miti, da 100 a 600 euro, per chi resta in un immobile “contro la volontà del suo proprietario”, quindi anche un affittuario: va cacciato, anche se la sua permanenza “non costituisce un reato”. Il che, spiega ancora “El Plural”, «comprende non solo le azioni del movimento “Okupa”, ma anche le sedute dei lavoratori davanti una scuola o un ambulatorio minacciato di chiusura».Vietato tutto: manifestare, dilvulgare notizie di manifestazioni, fotografare poliziotti che caricano i manifestanti. E’ l’agghiacciante decalogo-bavaglio che il governo di Mariano Rajoy, spaventato dalla rabbia degli spagnoli per la crisi determinata dall’euro e dall’Ue, ha deciso di imporre ai “sudditi”, sempre più turbolenti e propensi a votare “Podemos”. L’elenco delle nuove probizioni è stato anticipato dal quotidiano digitale “El Plural” e proposto al pubblico italiano da “Come Don Chisciotte”. Come osserva il portale iberico, il linguaggio «contorto e criptico» della nuova legge «permetterà all’amministrazione di sanzionare senza permesso giudiziario per ragioni che non sono chiare nel testo». Punto primo: vietato manifestare in una “infrastruttura che fornisce servizi di base per la comunità”. Che cosa intende? «Nella redazione calzano a pennello i tipici atti di protesta di Greenpeace, che spesso includono la scalata di una centrale nucleare e il dispiegamento di uno striscione, una concentrazione in un aeroporto o anche una protesta durante la trasmissione di notizie di un’emittente pubblica». Durissime le sanzioni per i trasgressori: cifre comprese tra i 30.000 e 600.000 euro.
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Della Luna: con politici servi, non basterà uscire dall’euro
E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.Probabilmente la parte in buona fede, cioè la meno intelligente, di quelle persone, pur consapevole che la scarsità monetaria è un’illusione, ha collaborato ad affermarla come principio, ad introdurre i vincoli dell’austerità, la frusta dei mercati, il pungolo del rating e la minaccia dello spread, credendo che attraverso questi vincoli quantitativi sia possibile indurre i sistemi politici scadenti a usare bene la moneta, cioè a spendere in modo efficiente, produttivo, a fare riforme, ad ammodernarsi, a sopprimere gli sprechi e la corruzione. La prova dei fatti ha dimostrato che questa credenza era erronea, e che anzi i limiti quantitativi dell’austerità in diversi casi hanno prodotto un peggioramento qualitativo della spesa pubblica, oltre che a un peggioramento quantitativo del deficit, del debito, del Pil, del rating, dell’occupazione (i governi italiani del rigore, per esempio, hanno mantenuto e ampliato la spesa improduttiva destinata ai privilegi della casta, tagliando quella utile alla collettività, perché la casta, per conservare i suoi consensi e i suoi redditi mentre fa tagli della spesa sociale e aumenti di tasse, deve fare più clientelismo e più ruberie).Dire, con Tsipras e altri sedicenti di sinistra, che di fronte a questo fallimento dell’austerità, la soluzione sarebbe semplicemente più solidarietà, fare più spesa a deficit e comunitarizzare i debiti, significa voler restare entro il paradigma della scarsità monetaria. Specularmente, l’altro fronte del pensiero monetario sostiene che la soluzione del problema del rilancio economico sia l’approccio opposto, ossia smetterla coi mendaci dogmi della scarsità monetaria e con le relative, fallimentari ricette, e fare invece investimenti statali diretti mediante spesa pubblica a debito (che tanto lo Stato riesce sempre a sostenere, come dice la Modern Money Theory di Warren Mosler, stante che la moneta è un mero simbolo) oppure, meglio ancora, mediante una spesa sganciata dall’indebitamento (come raccomanda Antonino Galloni) attraverso l’emissione diretta di moneta da parte dello Stato. Ciò darebbe più benessere alla gente e slancio allo sviluppo, ma non migliorerebbe, anzi probabilmente peggiorerebbe, la qualità e l’efficienza della spesa, della produttività e della stessa società, incentivando atteggiamenti improduttivi, assistenzialisti e ristagnanti. Soprattutto nei paesi come l’Italia in cui la classe dominante è parassitaria e retriva, e la mentalità popolare è molto ideologica, e ampia parte della popolazione vive di redditi presi ad altra parte della popolazione. La storia insegna.La lezione da imparare e che la qualità e l’efficienza della spesa, cioè delle decisioni di spesa pubblica e privata, dipendono da fattori sociologici e politici inerenti ai differenti popoli, o ai differenti insiemi di popoli, e derivano dalle loro diverse storie. Lo dimostra il fatto che alcune nazioni vanno bene e altre male pur applicando o subendo tutte i medesimi erronei principi di economia monetaria. Cioè l’efficienza dipende dai fattori storici, sociologici, culturali; dai mores, dai meccanismi di produzione del consenso e della coesione di questo o quel popolo. I vincoli quantitativi esogeni non “correggono” questi fattori – semmai li accentuano. La Germania, il Veneto, la Lombardia hanno una spesa pubblica abbastanza efficiente; la Grecia, l’Italia, Roma, la Sicilia e la Campania no, perché hanno prassi, mores, mentalità diversi, che non correggi imponendo vincoli esterni di bilancio. I popoli efficienti non dovrebbero avere una moneta comune con i popoli inefficienti, né pagare per sostenerli. L’esperienza dell’euro mostra che imporre una moneta comune (anzi, un cambio fisso) a popoli con diverse efficienze non alza quella dei meno efficienti, ma li impoverisce; e l’esperienza dell’Italia unitaria, della Jugoslavia e di altri paesi simili mostra che non la alza nemmeno l’imporre l’unione di bilancio e la solidarietà.Tutti questi fattori, però, vengono oggi superati, sconvolti e travolti dal fatto che il grosso della spesa, dei movimenti monetari, cioè del business, avviene in mercati finanziari, apolidi, e secondo logiche aliene dalla produzione di beni e servizi e dal soddisfacimento dei bisogni reali. Se il 90% delle transazioni monetarie avviene in mercati speculativi liberalizzati, perlopiù opachi e non controllabili, il ruolo delle società, della politica e delle istituzioni nelle scelte di spesa, quindi lo stesso grado di efficienza specifica dei vari organismi nazionali, viene drasticamente ridotto. Le dinamiche e le richieste dei mercati speculativi cambiano continuamente le carte sui tavoli politici e schiacciano le decisioni degli attori del residuo 10% delle transazioni economiche, cioè dei popoli e dell’economia reale, pubblica e privata. Tendono a imporre loro i propri bisogni e le proprie decisioni, a fare di essi una loro colonia, una sorte di appendice, che serve essenzialmente ad assicurare al business speculativo riferimenti contabili stabili e un quadro legislativo-giudiziario di supporto. I bisogni della gente non devono interferire. Perciò lo Stato è divenuto rappresentante di interessi esterni e in conflitto con quelli del popolo, quindi ha perso la legittimazione rispetto a questo.(Marco Della Luna, “Dopo la scarsità monetaria”, dal blog di Della Luna del 5 luglio 2015).E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.
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Galloni demolisce Renzi: ripresa inesistente (e impossibile)
Secondo Renzi, l’andamento del Pil dimostra che l’economia italiana è fuori dalla crisi? Numeri “confortanti e superiori alle più rosee aspettative degli economisti”, che prevedavano una ripresa dello 0,2% del Pil, mentre si sarebbe attestata allo 0,3? Inversione di tendenza, che segnala che il paese è fuori dal pericolo della deflazione? Mi dispiace, non è assolutamente così. Chiunque può capire che 0,3 o 0,4 non significa nulla. In tempi in cui la domanda di lavoro era rappresentata soprattutto da contratti a tempo indeterminato, avevamo calcolato che se non si superava il 2- 2,5% – quindi tutt’altro, cioè dieci volte di più di quello di cui stiamo parlando adesso – un aumento significativo dell’occupazione non si poteva registrare. Noi recentemente abbiamo avuto un aumento dei contratti, perché sono state sostituzioni – si è passati da una tipologia a un’altra – ma il livello occupazionale ha continuato a ridursi in modo significativo. Riguarda molto la manifattura, ovviamente. Avremmo un grande potenziale nei servizi di cura e nelle attività ambientali, ma non ci sono le risorse per far crescere l’occupazione, dato che il bilancio dello Stato non ha disponibilità.Si è scelto di non averne, disponibilità – perché potremmo averla, come altri paesi: un minimo di sovranità monetaria, accordi, deroghe, eccetera – ma non abbiamo voluto niente, perché la classe politica ha deciso una rigidità assoluta. La Germania? No, lo abbiamo deciso noi, e ci siamo appiattiti su posizioni che facevano comodo alla Germania, ma è sempre una scusa quando si dice “lo vuole l’Europa, la Germania, i trattati”. Chi li ha firmati, i trattati? Perché li abbiamo firmati? Chi è andato a firmare i trattati non sapeva a che cosa esponeva il paese? Oggi ci sono 56 miliardi di insoluto che si riferiscono alle bollette e alle rate non pagate, dal 2014: un +13% rispetto all’anno precedente. Il 12% di questo è l’insoluto relativo alle imprese. Il credito non viene ancora concesso, per andare incontro alle piccole e medie imprese. Il credito, quello che servirebbe alla ripresa, quello di cui parlava Draghi per gli investimenti, non viene concesso perché la ripresa non c’è. Finché non c’è la ripresa non ci sarà la domanda per investimenti, che attraverso un’azione di credito da parte delle banche metterà in moto il meccanismo.Invece le famiglie e le imprese piccole, che hanno bisogno di prestiti, si trovano sempre nella lista nera delle banche perché sono considerati soggetti a rischio, soggetti deboli, e quindi non vengono aiutati. E’ giusto sottolineare che, a fronte di una riduzione del reddito pro capite, che è molto più forte di quella del Pil – perché non ci dimentichiamo che la popolazione residente, per l’aumento degli stranieri, comunitari ed extracomunitari (nel passato soprattutto comunitari, adesso stanno arrivando anche gli extracomunitari) – è aumentata nella media dello 0,5% all’anno, cioè 250-300.000 persone. Questo fa calare il Pil pro capite, che è il principale indicatore che ci può far capire se i consumi si riprendono o meno. Ma, d’altra parte, ci sono le bollette, le spese, gli insoluti condominiali: è un disastro, la gente è sempre più indebitata, deve pagare sempre di più, ma gli stipendi e l’occupazione vanno male. E quindi, ovviamente, non c’è nessuna prospettiva di ripresa, perché non ci dobbiamo mai dimenticare che il principale aggregato macroeconomico che serve per la ripresa sono i consumi. Ma se non aumentano gli stipendi, o non aumenta la spesa pubblica, non c’è nessuna speranza che ci sia la ripresa, finché non cambiamo politica economica.(Nino Galloni, dichiarazioni rilasciate a “Uno Mattina”, Rai Uno, il 15 maggio 2015, intervista ripresa su YouTube. Insigne economista italiano, Galloni è stato collaboratore del keynesiano Federico Caffè. Ha insegnato economia a Roma e Milano).Secondo Renzi, l’andamento del Pil dimostra che l’economia italiana è fuori dalla crisi? Numeri “confortanti e superiori alle più rosee aspettative degli economisti”, che prevedavano una ripresa dello 0,2% del Pil, mentre si sarebbe attestata allo 0,3? Inversione di tendenza, che segnala che il paese è fuori dal pericolo della deflazione? Mi dispiace, non è assolutamente così. Chiunque può capire che 0,3 o 0,4 non significa nulla. In tempi in cui la domanda di lavoro era rappresentata soprattutto da contratti a tempo indeterminato, avevamo calcolato che se non si superava il 2- 2,5% – quindi tutt’altro, cioè dieci volte di più di quello di cui stiamo parlando adesso – un aumento significativo dell’occupazione non si poteva registrare. Noi recentemente abbiamo avuto un aumento dei contratti, perché sono state sostituzioni – si è passati da una tipologia a un’altra – ma il livello occupazionale ha continuato a ridursi in modo significativo. Riguarda molto la manifattura, ovviamente. Avremmo un grande potenziale nei servizi di cura e nelle attività ambientali, ma non ci sono le risorse per far crescere l’occupazione, dato che il bilancio dello Stato non ha disponibilità.
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Rassegnarci a perdere tutto: è lo scopo della crisi infinita
La lunga crisi economica, e non solo economica ma anche sociale, costituzionale, morale, culturale, sta letteralmente rieducando i popoli: questa è la riforma delle riforme. Insegna loro una lezione importante e penetrante. L’uomo impara ad interiorizzare una diversa e molto più modesta e docile concezione di se stesso, dei suoi diritti fondamentali, delle sue prospettive esistenziali. Taglia pretese e aspettative. Accetta ciò che viene. Si rassegna. La crisi prevedibilmente verrà portata avanti, con gli strumenti di destabilizzazione descritti nei miei precedenti articoli (“Comunitarismo e Realismo”, “Questa non è una Crisi Economica”), finché questa lezione non sarà stata assimilata e finché la precedente maniera di considerare il mondo, la società, i diritti dell’uomo, non sarà stata dimenticata o perlomeno “sovrascritta” da una nuova coscienza, imperniata sugli elementi seguenti. Il rating delle agenzie finanziarie e le variabili “necessità” del mercato sono la fonte normativa suprema, superiore ai principi costituzionali e prevalgono su di essi; lo Stato di diritto e garanzia è finito. Conseguentemente, i diritti di partecipazione democratica e di rappresentanza del cittadino sono condizionati e comprimibili.Le scelte di politica economica, del lavoro, dei rapporti internazionali discendono da fattori di mercato superiori alla volontà popolare e sono dettate ai popoli dall’alto, da organismi tecnocratici sovranazionali, che non sono responsabili degli effetti di tali scelte e possono mantenerle in vigore quali che siano i loro effetti, mentre esse non sono rifiutabili dai popoli e dai loro rappresentanti. Se così non fosse, si metterebbe in pericolo il Pil, il rating, lo spread. In effetti, gli Stati sono politicamente impotenti e subalterni, essendo indebitati in una moneta che non controllano più essi, ma un cartello bancario, da cui essi dipendono per rifinanziarsi. Il cittadino è essenzialmente passivo: subisce senza poter reagire, interloquire, negoziare, le tasse, le tariffe, i prezzi imposti dallo Stato, dei monopolisti dei servizi, dell’energia, di molti beni essenziali. Subisce senza poter reagire il tracciamento di tutte le sue azioni, spostamenti, incassi, spese, consumi.Lo Stato, la pubblica amministrazione, le imprese private monopolistiche che operano in concessione, lo governano e agiscono su di lui da lontano, con mezzi telematici, senza che egli possa interagire con tali soggetti. Come lavoratore, deve accettare una strutturale mancanza di garanzie e pianificabilità, di stabilità dei rapporti e dei redditi, di continuità occupazionale, di prospettiva di carriera e persino di una pensione sufficiente a vivere.Come consumatore, deve accettare i prezzi e le tariffe fissate da monopoli multinazionali o da monopoli locali ammanicati con la casta politica. Deve accettare senza discutere che lo Stato, pur potendo investire e rilanciare l’economia e l’occupazione, scelga piuttosto di lasciare milioni e milioni di persone senza lavoro e nella miseria, nonché senza servizi pubblici decenti, per rispettare i parametri astratti e senza alcuna utilità verificabile, o addirittura dannosi. Deve accettare che i suoi risparmi, sia in valori finanziari che in beni immobili, siano posti in line e gli vengano gradualmente sottratti con le tasse, le bolle, i bail-in, e che non gli rendano più niente, e che i rendimenti siano solo per i grandissimi capitali, quelli di coloro che comandano la società, e che si muovono in circuiti finanziari off shore dove non si pagano le tasse.In fatto di ordine pubblico, deve accettare che la sicurezza sia garantita in misura limitata e in modo pressoché occasionale, che molti delitti e traffici criminali si svolgano in modo tollerato, che molti malfattori non vengono perseguiti o vengano subito rilasciati. Deve rinunciare ad essere tranquillo e padrone sul suo territorio. Deve rinunciare ad avere un territorio suo proprio. Deve inoltre abituarsi a non considerarsi portatore di diritti inalienabili e propri di cittadino, in quanto vede gli immigrati anche clandestini preferiti a lui nei servizi sanitari, nell’edilizia popolare, nell’assistenza pubblica in generale, e protetti quando commettono abitualmente reati. Deve capire che è lo Stato, dall’alto e insindacabilmente, a dare e togliere diritti, a stabilire chi ha diritti, chi non ne ha, chi ne ha di più, chi ne ha di meno. Deve accettare come giusti, normali, inevitabili nonché benefici, i flussi di immigrazione massicci che stravolgono la composizione etnica e culturale del suo ambiente sociale.Deve accettare la fine delle comunità e delle formazioni intermedie, perché tutti gli umani, indistintamente, sono resi per legge e per prassi amministrativa omogenei, equivalenti, monadi solitarie e senza volto davanti allo schermo, al fisco, agli strumenti di monitoraggio e, se necessario, ai droni. Deve accettare la fine delle identità e dei ruoli naturali: fine della famiglia naturale in favore di quella Fai Da Te, fine della differenziazione tra i sessi in favore della scambiabilità del gender, fine della nazione come comunità storica etico culturale in favore del villaggio globale omogeneizzato, fine delle democrazie parlamentari nazionali sovrane in favore di un senato mondialista, bancario e massonico. Deve imparare che il suo ruolo è la passività obbediente, che non ci sono alternative; e a rifiutare come populista, infantile, fascista, comunista, retrivo qualsiasi pensiero strutturalmente critico verso questo nuovo ordine di cose.(Marco Della Luna, “Pedagogia della crisi continua”, dal blog di Della Luna del 26 maggio 2015).La lunga crisi economica, e non solo economica ma anche sociale, costituzionale, morale, culturale, sta letteralmente rieducando i popoli: questa è la riforma delle riforme. Insegna loro una lezione importante e penetrante. L’uomo impara ad interiorizzare una diversa e molto più modesta e docile concezione di se stesso, dei suoi diritti fondamentali, delle sue prospettive esistenziali. Taglia pretese e aspettative. Accetta ciò che viene. Si rassegna. La crisi prevedibilmente verrà portata avanti, con gli strumenti di destabilizzazione descritti nei miei precedenti articoli (“Comunitarismo e Realismo”, “Questa non è una Crisi Economica”), finché questa lezione non sarà stata assimilata e finché la precedente maniera di considerare il mondo, la società, i diritti dell’uomo, non sarà stata dimenticata o perlomeno “sovrascritta” da una nuova coscienza, imperniata sugli elementi seguenti. Il rating delle agenzie finanziarie e le variabili “necessità” del mercato sono la fonte normativa suprema, superiore ai principi costituzionali e prevalgono su di essi; lo Stato di diritto e garanzia è finito. Conseguentemente, i diritti di partecipazione democratica e di rappresentanza del cittadino sono condizionati e comprimibili.
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Acqua, rifiuti, energia: piglia tutto la lobby delle multiutility
«Siamo l’ultimo paese sovietico d’Europa»; con queste parole Erasmo D’Angelis, capo dell’unità di missione Italiasicura e rappresentante del governo Renzi, ha salutato il battesimo di Utilitalia, la nuova associazione dei gestori di servizi pubblici locali, nata dalla fusione di Federambiente e di Federutility. «Dobbiamo passare da circa 1.500 società partecipate a 20 società regionali per la gestione dei rifiuti, 5 grandi player per il servizio idrico integrato, 3 per la distribuzione del gas e 4 per il trasporto pubblico locale. Settore quest’ultimo che va inserito subito in Utilitalia, perché sarà il primo a bandire le gare per affidare la gestione dei servizi». Ecco scodellato in tre righe il programma del governo, naturalmente non discusso in nessuna sede con i cittadini, gli enti locali e le comunità territoriali, bensì annunciato di fronte alla nuova holding dei gestori.Anche perché, ai cittadini, D’Angelis e Renzi dovrebbero spiegare che ne è della vittoria referendaria del giugno 2011, con la quale 27 milioni di italiani avevano sancito la gestione pubblica, partecipativa e senza profitti dell’acqua e dei beni comuni. Un programma di governo portato avanti a colpi di normative (SbloccaItalia, Legge di stabilità, disegno di legge Madia) e con l’utilizzo del patto di stabilità interno come arma contro i cittadini, consentendo ai sindaci di poter utilizzare e spendere le somme ricavate dalla privatizzazione dei servizi pubblici locali. «L’obiettivo di queste fusioni e incorporazioni sarà l’innalzamento dello standard di qualità dei servizi e la riduzione dei costi per i cittadini», ha chiosato il presidente di Utilitalia Giovanni Valotti, trovando l’immediato consenso del presidente dell’Autorità per l’energia Guido Bortoni – il cui stipendio, giova ricordare, è pagato dalle medesime società di servizi – e del ministro per la pubblica amministrazione Marianna Madia.Occorre forse qui ripetere un semplice ragionamento, che si pensava, dopo un referendum, di non dover più riprendere. Dentro quest’idea di privatizzazione e di finanziarizzazione dei servizi pubblici locali, vogliono lor signori dirci una volta per tutte da dove proverranno i profitti per le grandi multiutility che tutto gestiranno? Perché a noi risulta che nel caso della gestione dell’acqua, dei rifiuti, dell’energia, ovvero di tutti i beni comuni, il profitto sia concretamente ottenibile solo ed esclusivamente da cinque possibili fattori: a) la riduzione del costo del lavoro, attraverso la diminuzione dell’occupazione e la precarizzazione dei contratti; b) la riduzione degli investimenti, come già sperimentato nell’ultimo decennio di gestioni attraverso SpA; c) la riduzione della qualità del servizio, con meno manutenzioni, controlli etc.; d) l’aumento delle tariffe, che infatti salgono esponenzialmente; e) l’aumento dei consumi della risorsa.Tutti fattori in diretto contrasto con l’interesse generale e che si realizzano puntualmente in ogni processo di privatizzazione. Quanto al mantra dell’economia di scala, anche i sassi ormai sanno che, oltre una certa soglia (300.000 abitanti, salvo realtà urbane metropolitane), la scala più ampia produce esattamente disservizi e diseconomie. Territorio per territorio, comunità locale per comunità locale, occorre opporsi a questo disegno, rivendicando la riappropriazione sociale dei beni comuni, della ricchezza collettiva e della democrazia dal basso come condizioni per un altro modello sociale. Bisogna riprendersi il comune per riprendersi i Comuni.(Marco Bersani, “La lobby delle multility”, da “Attac Italia” del 20 giugno 2015).«Siamo l’ultimo paese sovietico d’Europa»; con queste parole Erasmo D’Angelis, capo dell’unità di missione Italiasicura e rappresentante del governo Renzi, ha salutato il battesimo di Utilitalia, la nuova associazione dei gestori di servizi pubblici locali, nata dalla fusione di Federambiente e di Federutility. «Dobbiamo passare da circa 1.500 società partecipate a 20 società regionali per la gestione dei rifiuti, 5 grandi player per il servizio idrico integrato, 3 per la distribuzione del gas e 4 per il trasporto pubblico locale. Settore quest’ultimo che va inserito subito in Utilitalia, perché sarà il primo a bandire le gare per affidare la gestione dei servizi». Ecco scodellato in tre righe il programma del governo, naturalmente non discusso in nessuna sede con i cittadini, gli enti locali e le comunità territoriali, bensì annunciato di fronte alla nuova holding dei gestori.
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Il Fmi: precarizzare il lavoro (Jobs Act) affonda l’economia
Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Mario Monti, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.Per questo, scrivono Iodice e Palma su “Left”, il Fmi suggerisce alle economie avanzate un costante sostegno alla domanda per «incoraggiare investimenti e crescita del capitale», nonché «l’adozione di politiche e di riforme che possano aumentare in modo permanente il livello del prodotto potenziale». Politiche di segno diametralmente opposte rispetto a quelle attualmente adottate dai vari governi, di centrodestra e centrosinistra, tutti allineati ai diktat austeritari dei grandi padroni del mercato, l’élite finanziaria che impiega i suoi tecnocratici e i suoi politici per condurre la grande privatizzazione colpendo l’economia reale, lavoratori e imprese. Il Fondo Monetario raccomanda politiche diverse, per «coinvolgere le riforme del mercato dei prodotti, dare maggiore sostegno alla ricerca e allo sviluppo e garantire un uso più intensivo di manodopera altamente qualificata», oltre che «di beni capitali derivanti dalle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni». Si richiedono inoltre «più investimenti in infrastrutture per aumentare il capitale fisico» e, infine, «politiche fiscali e di spesa progettate per aumentare la partecipazione della forza lavoro».Secondo Iodice e Palma, «il Fmi arriva buon ultimo, dopo che in moltissimi – anche tra gli economisti mainstream – hanno sottolineato che la “via bassa” alla flessibilità, vale a dire ridurre le garanzie e le tutele e agevolare i contratti precari, è nei fatti un incentivo per le imprese a non innovare, sostituendo il capitale e le tecnologie con più lavoro mal retribuito». In altri termini, «con la flessibilità si indebolisce quel “vincolo interno” che costringe le imprese a trovare modi migliori per produrre, invece che vivacchiare grazie all’abbattimento dei costi della manodopera», come sembra suggerire l’italico Jobs Act creato da Renzi per accontentare la Confindustria. «Nonostante ciò – aggiungono i due analisti di “Left” – l’incrollabile convinzione che una maggiore flessibilità porti ad accrescere la produttività la fa da padrona nel dibattito pubblico. Ma l’idea che la deregolamentazione del mercato del lavoro abbia effetti espansivi nel lungo periodo non è meglio fondata dell’ipotesi – dimostratasi ampiamente fallimentare – che il consolidamento fiscale produca maggiore crescita del Pil».Renzi bocciato anche dal Fmi: il Jobs Act che penalizza i lavoratori trasformandoli in precari a vita non migliora in alcun modo l’economia. Anche se la Commissione Europea e la Bce di Draghi continuano a raccomandare le “riforme strutturali” e in particolare la deregulation del mercato del lavoro, dopo gli orrori della “austerità espansiva” incarnata da proconsoli come Monti e Fornero, nel suo “Word Economic Outlook” (aprile 2015) è il Fondo Monetario Internazionale a smentire gli eurocrati: non vi è alcuna evidenza circa un effetto positivo della flessibilità sul potenziale produttivo. «Un’ammissione piuttosto sbalorditiva, se si pensa che la deregolamentazione del mercato del lavoro è sempre stata tra le condizioni dello stesso Fmi per l’assistenza finanziaria, compresa quella ai paesi in crisi dell’Unione Europea», annotano Guido Iodice e Daniela Palma. Secondo il Fmi, gli effetti delle riforme strutturali sulla produttività sono importanti solo se si parla di deregolamentazione del mercato dei beni e dei servizi, di utilizzo di nuove tecnologie e di forza lavoro più qualificata, di maggiore spesa per le attività di ricerca e sviluppo. Al contrario, la deregolamentazione del mercato del lavoro non funziona.
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Schiavisti: chi spara sui barconi sta già sparando su di noi
Il film “Amistad” di Spielberg, che narra la storia vera di schiavi ribellatisi su una nave ai propri negrieri e finiti così negli Stati Uniti, si conclude con il bombardamento da parte della flotta britannica del forte schiavista di Lomboko, sulle coste dell’attuale Sierra Leone. Magari questa storia del primo 800 avrà ispirato Matteo Renzi e quanti nella Ue pensano di affrontare le migrazioni con il bombardamento dei barconi, ma è proprio la falsità e la malafede del paragone a definire tutta l’infamia di questa intenzione. Nel 1839 gli africani della nave Amistad erano stati rapiti e consegnati ai mercanti di schiavi europei, molti gli italiani tra questi, per essere trasportati e venduti nel sud degli Stati Uniti. La loro ribellione li fece approdare al Nord ove, dopo un celebre processo, furono liberati. Essi allora chiesero e ottennero di essere riportati in Africa. Ecco il punto fondamentale di differenza: coloro che muoiono o approdano sulle nostre coste non sono stati rapiti e non vogliono tornare a casa, essi sono semplicemente migranti.La cattiva coscienza europea usa il paragone con la tratta degli schiavi per spargere un belletto di umanità e progresso sopra una bieca scelta di respingimento. La differenza tra Renzi e Salvini è che il primo dice di ispirarsi a Lincoln mentre il secondo imita il Ku Klux Klan. Ma entrambi alla fine sono per il respingimento dei migranti, che – lo ripeto perché non pare sufficientemente chiaro – vengono qui volontariamente e volontariamente non tornerebbero mai là da dove, pagando e rischiando la vita, sono partiti. Certo che organizzazioni criminali lucrano su di loro e aggiungono ferocia a ferocia. Nel 1946 decine di migranti clandestini italiani che volevano raggiungere la Francia furono abbandonati dai loro caporali in mezzo a una tormenta di neve. In gran parte furono salvati dai carabinieri, ma poi riprovarono a passare di là. Nessuno di loro pensò di tornare nella miseria delle campagne meridionali devastate dal latifondo e dalla mafia.La stupidità e la malafede di chi trasforma la questione sociale delle migrazioni in una operazione di polizia contro le mafie degli scafisti la dice lunga sulla ottusità con cui è governata l’Europa. Sì perché i migranti sono, lo ripeto ancora, volontari; e non è certo colpendo chi specula sui loro bisogni che quei bisogni si cancellano. Siamo in troppi, scrive anche un intellettuale illuminato come Claudio Magris. Che paragona il nostro paese, o forse tutta l’Europa, a un ospedale pieno, nel quale sarebbe un disastro far entrare migliaia di persone. A parte il fatto che di fronte ad una emergenza, un ospedale cerca sempre di organizzarsi per aiutare più persone possibile. Come ben sanno i medici palestinesi che in piccoli ospedali a Gaza han prestato assistenza a migliaia di persone colpite dalle bombe di Israele. Ma a parte la singolare interpretazione del giuramento di Ippocrate da parte di Magris, chi ha deciso che l’Europa è una clinica a numero chiuso?Chi lo ha deciso? Sono state le politiche di austerità rigore e pareggio di bilancio. Quanto costerebbe stabilire dei corridoi umanitari, investire con un piano di veri aiuti nei paesi da cui i disperati fuggono, stabilire un percorso di accoglienza e al tempo stesso di ricostruzione? Non sono in grado di fare un conto per tutte le aree da cui partono i migranti, ma so che a Gaza erano stati promessi 3,5 miliardi di euro che il milione di abitanti di quell’area devastata non ha neppure intravisto. Sono tanti soldi? Ma ci ricordiamo che il Quantitative Easing di Draghi finanzia le banche europee, Grecia esclusa, con 60 miliardi al mese? E tutte le missioni militari contro il terrorismo che quando non uccidono cooperanti provocano milioni di profughi, quanto costano? Ma la povera Mogherini dovrà occuparsi di trovare la via legale per bombardare i barconi.Ma poi siamo troppi in che senso? Certo è facile far credere che in Europa 50 milioni di disoccupati siano minacciati dal possibile arrivo di qualche milione di profughi. È facile a condizione però che li si convinca che contro le politiche di austerità non c’è nulla da fare. Eppure se tutti i paesi europei rinunciassero alle politiche di austerità e allargassero i cordoni della borsa per creare sul serio lavoro, se i disoccupati europei ed italiani cominciassero davvero a ridursi di numero ed i salari di chi lavora ad aumentare, se la scuola, la sanità e i servizi pubblici riprendessero a garantire le loro prestazioni ai cittadini, se le nostra società riprendessero a cercare la giustizia sociale, perché non sarebbe possibile aggiungere posti a tavola? La verità è che la teoria e la pratica del respingimento dei migranti serve perfettamente a giustificare la distruzione della eguaglianza sociale in Europa. Anzi serve a creare consenso verso di essa: “Avete visto quanti milioni di persone vogliono venire qui? E voi poveri che qui già vivete baciate questa terra e soprattutto ringraziate chi la protegge”.Da tempo non credo che la disoccupazione di massa sia un incidente o un prezzo da pagare e sono invece convinto che sia perfettamente voluta per affermare quella società di mercato voluta dalla finanza globalizzata. Ora sono anche convinto che la politica del respingimento dei migranti sia altrettanto voluta e per le stesse ragioni. Per questo penso che Matteo Salvini e quelli come lui siano solo utili idioti di un disegno ben più sofisticato a cui fa comodo anche la loro squallida rozzezza. Chi difende il rigore economico europeo promuove il respingimento dei migranti, chi diffonde paura e odio verso i migranti difende il rigore economico europeo. Per questo trovo insopportabili sia il razzismo sia l’ipocrisia di Stato che gli si oppone mentre nei fatti lo alimenta. Gli schiavisti sono tra noi.(Giorgio Cremaschi, “Gli schiavisti stanno tra noi”, da “Micromega” del 25 aprile 2015).Il film “Amistad” di Spielberg, che narra la storia vera di schiavi ribellatisi su una nave ai propri negrieri e finiti così negli Stati Uniti, si conclude con il bombardamento da parte della flotta britannica del forte schiavista di Lomboko, sulle coste dell’attuale Sierra Leone. Magari questa storia del primo 800 avrà ispirato Matteo Renzi e quanti nella Ue pensano di affrontare le migrazioni con il bombardamento dei barconi, ma è proprio la falsità e la malafede del paragone a definire tutta l’infamia di questa intenzione. Nel 1839 gli africani della nave Amistad erano stati rapiti e consegnati ai mercanti di schiavi europei, molti gli italiani tra questi, per essere trasportati e venduti nel sud degli Stati Uniti. La loro ribellione li fece approdare al Nord ove, dopo un celebre processo, furono liberati. Essi allora chiesero e ottennero di essere riportati in Africa. Ecco il punto fondamentale di differenza: coloro che muoiono o approdano sulle nostre coste non sono stati rapiti e non vogliono tornare a casa, essi sono semplicemente migranti.
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Troppi dipendenti pubblici? E’ una leggenda metropolitana
I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.Pura fantascienza, in Svezia, i 135 lavoratori pubblici ogni mille abitanti. Ci batte solo la “risparmiosa” Germania: il paese europeo che più di ogni altro ha compresso i salari e danneggiato i lavoratori annovera 54 dipendenti statali ogni mille cittadini, 4 meno dell’Italia. Secondo l’Eurispes, negli ultimi dieci anni il nostro paese ha visto diminuire i propri dipendenti pubblici del 4,7%, mentre tutti gli altri partner europei hanno assunto forza lavoro nel pubblico impiego: un incremento del 36,1% in Irlanda, del 29,6% in Spagna, del 12,8% in Belgio e del 9,5% nel Regno Unito. In Italia, gli stipendi del pubblico impiego pesano sul bilancio statale per l’equivalente dell’11,1% del Pil. Anche qui siamo il fanalino di coda: per i dipendenti pubblici la Danimarca spende il 19,2% del suo Pil, la Svezia e la Finlandia il 14,4% mentre Francia, Belgio e Spagna spendono, rispettivamente, il 13,4%, il 12,6% e l’11,9% del loro prodotto interno lordo. Altra bufala storica: la concentrazione del pubblico impiego al Sud: con 409.000 addetti, la Lombardia batte persino il Lazio, nonostante la selva di uffici della capitale. Segue la Campania, ma dopo Milano e Roma.Quanto alla vita quotidiana dietro agli sportelli, sono dolori: l’età media dei dipendenti pubblici è in costante crescita, per colpa del blocco del turnover e dell’aumento dell’età pensionabile. In Francia, circa il 30% dei lavoratori pubblici ha meno di 35 anni, nel Regno Unito gli “under 35” sono il 25% (uno su quattro) mentre in Italia solo il 10%. La percentuale di addetti sotto i 25 anni, inoltre, è pari all’1,3%: una miseria, rileva “Lettera 43”, nonché il segno che il rapporto fra le università e la pubblica amministrazione è tutt’altro che lineare. Roberto Perotti, economista della Bocconi, confronta i nostri stipendi pubblici con quelli del Regno Unito: «Le remunerazioni medie degli insegnanti sono più basse in Italia, sia in termini assoluti che in rapporto al Pil pro capite». Nel nostro paese lo stipendio di un docente delle scuole elementari, incluse le indennità e le spese accessorie, è di 24.849 euro contro i 37.400 (in media) degli inglesi. Idem per gli insegnanti delle superiori: 28.547 euro, contro i 41.930 euro dei britannici. In compenso, nei ministeri, un nostro capo di gabinetto guadagna 275.000 euro l’anno contro i 192.000 del collega inglese, una differenza del 43%. E’ la casta, bellezza: quella che serve ad affondare il sistema, sabotando la “concorrenza” pubblica che tanto infastidisce l’élite privatizzatrice.I dipendenti pubblici italiani? Sfaticati e inefficienti. Ma soprattutto: troppi. Quella dell’ipertrofia del pubblico impiego è una delle più tenaci leggende metropolitane sul sistema italiano. Resiste a ogni stagione politica, nonostante le evidenze che la smentiscono. Impietosi i dati forniti dall’Eurispes, che risalgono all’autunno 2014: insieme alla sola Germania, l’Italia è il paese europeo con il minor numero di dipendenti pubblici, in proporzione agli abitanti. Si calcola che bisognerebbe assumerne almeno 200.000, e subito, tra Comuni, scuole, ospedali. Ma i vari governi non sono mai di questo avviso: preferiscono tagliare, lasciando ovviamente inalterate le super-retribuzioni dei massimi dirigenti, cinghia di trasmissione dell’élite che da decenni continua a smantellare la struttura pubblica e la sua capacità di erogare servizi vitali per il cittadino. Ovvia, quindi, la scure di Renzi, che dietro al verbo “sburocratizzare” nasconde la volontà di colpire i lavoratori per tagliare ulteriormente il settore, già oggi tra i più “magri” d’Europa, con appena 58 impiegati ogni mille abitanti, contro i i 94 della Francia, i 92 del Regno Unito e i 65 della Spagna.
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“Migranti parassiti, peccato ne crepino ancora troppo pochi”
Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi e cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.«Non mi interessa se affondano, basta che non entrino», scrive Marco. «Sempre troppo pochi», sintetizza Giorgio. Crepino pure in fondo al mare, non sono che «700 terroristi in pastura», ovvero «pappa per gli squali», «mangime per i pesci», chiariscono Lorenzo, Giulio e Sergio. «Peccato… così pochi», scrive Silvia. «Peccato che ci sono dei superstiti», dice Moreno. In fondo, sono «700 parassiti in meno da mantenere», aggiunge Franco: «Affondasse anche il Parlamento con tutto il governo e avremmo fatto bingo». Più ne muoiono e meglio è, sostiene Luca. Che aggiunge: «Questi crepano e io bevo felicemente un costoso vino per festeggiare. Olè!». Maria si preoccupa della religione dei migranti annegati: «Speriamo siano tutti musulmani». E comunque, chiosa Claudio: «Pochi, sempre troppo pochi». Che dire, di fronte a questo? «In un mondo più giusto – scrive Martini, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – queste persone andrebbero messe su un apposito barcone e lasciate alla deriva. Nel mondo in cui realmente viviamo, queste persone votano. Ed è proprio questa la ragione principale dell’impossibilità di risolvere il problema dell’immigrazione». L’apartheid, il segregazionismo Usa e i vari fascismi conobbero un sostegno di massa: «Così è anche per la mattanza dei migranti africani».Per risolvere il problema, avverte Martini, ci sono due vie, alternative tra loro. La prima è quella del blocco navale, «naturalmente sponsorizzata dai Nazisti dell’Illinois, ma anche da Renzi, il quale, ricordiamolo, è responsabile del passaggio da “Mare Nostrum” a “Triton”, ovvero del taglio dei due terzi delle risorse destinate al soccorso in mare dei migranti». Questa proposta, ovviamente, «non può aver alcun riflesso pratico finché non si è disposti a sparare sulle imbarcazioni dei migranti, per la banale ragione che quelli non si fermano». Occorrerebbe pertanto un pattugliamento costante (e costoso) delle coste libiche e tunisine, composto da unità pronte ad annientare le imbarcazioni che tentano di forzare il blocco. «Al decimo affondamento è presumibile che i migranti si scoraggino, e che smettano di tentare la fortuna sui barconi». Naturalmente, aggiunge Martini, questa via è del tutto impercorribile: «Nessun politico, militare o funzionario si assumerebbe mai la responsabilità di simili crimini contro l’umanità. Tali crimini sono però l’elemento che darebbe effettività al blocco navale. In ultima analisi, non ci sarà alcun blocco navale: chi ve ne parla spacciandolo per soluzione è un cialtrone e/o un ipocrita».L’altra soluzione è quella di approntare una linea di traghetti tra le coste libiche e un qualche porto siciliano. Questa proposta, «assai meno paradossale di quel che appare», è stata avanzata da alcuni studiosi seri del fenomeno, e implicherebbe numerosi vantaggi: impedirebbe le stragi, stroncherebbe le organizzazioni criminali (i migranti pagherebbero alla linea di traghetti il biglietto che ora pagano agli scafisti), farebbe risparmiare fior di quattrini alla marina militare, e permetterebbe un controllo preventivo, anche sotto il profilo sanitario, delle persone che intendono migrare in Italia. «In una battuta: se la Tirrenia avesse cominciato a fare questo tipo di operazioni dieci anni fa, oggi non avrebbe i conti in rosso, e si sarebbero salvate molte migliaia di vite umane». Questa soluzione, tuttavia, implica altre iniziative, di notevolissima portata. L’afflusso di immigrati andrebbe regolato, gestito, organizzato. Al netto dei richiedenti asilo, andrebbe preparato un programma di avviamento al lavoro, vincolato al buon comportamento del soggetto e dotato di un termine: ad esempio, si potrebbe prevedere di concedere all’immigrato una permanenza, e un impiego, della durata di 5 o 10 anni. Si tratterebbe pertanto di un programma di lavoro garantito. Il programma, tuttavia, non potrebbe includere solo gli immigrati, ma anche i cittadini italiani, pena un’intollerabile disparità di trattamento.Anche così facendo, comunque, occorrerebbe cercare di limitare i numeri degli arrivi. «Per farlo, sarebbe necessario prendere sul serio il leit-motiv di tutti gli xenofobi, aiutare gli stranieri a casa loro». Ma cosa può significare questa espressione? «Se vogliamo darvi un senso – scrive Martini – gli Stati europei dovrebbero investire alcune decine di miliardi di euro l’anno nell’indutrializzazione (possibilmente compatibile con l’ecosistema) dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Gli impieghi sarebbero innumerevoli: dall’introduzione di metodi moderni e meccanizzati per l’irrigazione dei suoli, all’introduzione di reti di servizi efficienti negli agglomerati urbani, all’installazione di centrali di produzione di energia rinnovabile (si pensi al solare); il tutto realizzabile da una forza lavoro retribuibile in misura trascurabile (per gli standard occidentali, non per quelli sub-sahariani: si pensi a stipendi da 100 euro al mese in Mali)». Come è evidente, le soluzioni sarebbero molteplici, ma «il problema è che non sono praticabili». Chi mai potrebbe varare un piano così giusto e intelligente?«La Lega Nord, e tutti i partiti consimili, sarebbero favorevoli a che l’Europa investisse alcuni decimali del suo Pil nei paesi da cui provengono gli immigrati? La risposta è prevedibile: un rotondo no. “Aiutarli a casa loro” va bene come slogan per evitare di affrontare il problema, non come soluzione pratica». La verità, conclude Martini, è che possiamo inventarci tutte le soluzioni più variopinte, ma «verranno tutte invariabilmente affondate dal feroce egoismo dei commentatori di cui sopra, che sono massa elettorale per soddisfare la quale si prodigano Salvini e Renzi, Berlusconi e Grillo (e Sarkozy, Merkel, Farage, Le Pen, Cameron, Rutte)». Non è una questione che si possa «pensare di affrontare gratis, senza concedere qualcosa, senza fare alcun sacrificio (ampiamente ripagato nel lungo termine)». Impossibile risolvere nulla, senza «mettere tra le premesse del problema la necessità di rispettare la dignità dei migranti, anche a costo di togliervi il principio della conservazione del quattrino con ogni mezzo». E quindi tanti saluti e arrivederci, «al prossimo affondamento».Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi a cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.
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Wedel: élite-ombra, si nasconde per privatizzare il mondo
“Shadow Elite”, ovvero élite-ombra: è il titolo di un libro completamente ignorato, scritta da una docente universitaria molto rispettata, Janine Wedel, che «con straordinaria precisione documentaria spiega come operino le élite che riescono a condizionare democrazia e libero mercato», spiega Marcello Foa. La Wedel le definisce “flex-net” e porta numerosi esempi concreti, con tanto di nome e cognome. «La sua tesi, ampiamente comprovata, è che la fine della Guerra Fredda, l’avvento di nuove tecnologie soprattutto nel campo dell’informazione e della comunicazione, la diffusione della retorica di un finto neoliberismo, che solo in apparenza porta alla deregolamentazione e alla riduzione del ruolo dello Stato, abbiano permesso l’affermazione di queste nuove reti di potere». In realtà, «buona parte delle privatizzazioni sono finte: non portano a una vera concorrenza per abbattere i costi e migliorare i servizi, ma a incredibili regalìe monopolistiche». Un viaggio nel nuovo super-potere internazionale, quello che detta i tempi delle crisi, delle austerità e delle speculazioni.«La Wedel – continua Foa nel suo blog sul “Giornale” – spiega come queste élite possano essere di destra o di sinistra, a seconda delle convenienze, di come operino nelle istituzioni e nell’economia privata, di come i suoi me mbri possano assumere diverse identità e di come approfittino della globalizzazione con un solo scopo: l’arricchimento personale. E che se ne infischino degli interessi del proprio paese e del proprio popolo, benché apparentemente patriottici». Un saggio denso, documentatissimo, trascurato dai grandi media in America e in Europa. Intervistata da “Radio Free Europe”, l’autrice spiega: siamo alle prese con «una nuova generazione di giocatori, le cui manovre sono al di là dei tradizionali meccanismi». Lavorano come consulenti del governo e delle imprese, ma anche se appaiono sui media «è molto difficile, per il pubblico, sapere chi rappresentano, esattamente». In realtà «lavorano per conto di più organizzazioni, così sono meno trasparenti e meno responsabili».Secondo Janine Wedel, «viviamo in un’epoca molto più pericolosa di ogni altra, da quando siamo entrati nella storia dello Stato moderno». In sostanza, «chi soffre in questa storia è la democrazia». Idem il libero mercato: i signori delle lobby sabotano la concorrenza e costruiscono intrecci opachi tra governo e imprese, tra Stato e privato. E ottengono benefici di governo da utilizzare a loro vantaggio, alterando le regole del mercato. Lo dimostrano anche le rivelazioni di Wikileaks: la nuova élite-ombra vive di segretezza e teme ogni forma di trasparenza. «L’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione – continua la Wedel – è una delle ragioni principali per cui ci troviamo in questo nuovo sistema di potere e di influenza, che ancora una volta scavalca i meccanismi tradizionali di controllo democratico. Questo è il pericolo». Siamo in una nuova era: «Gran parte del nostro mondo, ora, è molto meno prevedibile: ogni giorno ci svegliamo e sempre nuove tecnologie appaiono all’orizzonte». E non siamo noi a controllarle, ma gli uomini invisibili della “Shadow Elite”.“Shadow Elite”, ovvero élite-ombra: è il titolo di un libro completamente ignorato, scritta da una docente universitaria molto rispettata, Janine Wedel, che «con straordinaria precisione documentaria spiega come operino le élite che riescono a condizionare democrazia e libero mercato», spiega Marcello Foa. La Wedel le definisce “flex-net” e porta numerosi esempi concreti, con tanto di nome e cognome. «La sua tesi, ampiamente comprovata, è che la fine della Guerra Fredda, l’avvento di nuove tecnologie soprattutto nel campo dell’informazione e della comunicazione, la diffusione della retorica di un finto neoliberismo, che solo in apparenza porta alla deregolamentazione e alla riduzione del ruolo dello Stato, abbiano permesso l’affermazione di queste nuove reti di potere». In realtà, «buona parte delle privatizzazioni sono finte: non portano a una vera concorrenza per abbattere i costi e migliorare i servizi, ma a incredibili regalìe monopolistiche». Un viaggio nel nuovo super-potere internazionale, quello che detta i tempi delle crisi, delle austerità e delle speculazioni.
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Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.E’ sempre Israle che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», schiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.