Archivio del Tag ‘sicurezza nazionale’
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Rapporto Onu: crimini Usa contro l’umanità in Venezuela
Il rapporto dell’esperto Onu che ha visitato il Venezuela nel 2017, Alfred De Zayas, propone di deferire gli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per i crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il 2015. Lo ricorda il sociologo Pino Arlacchi, vicesegretario generale delle Nazioni Unite dal 1997 al 2002, in un intervento sul “Fatto Quotidiano” riguardo alla crisi umanitaria nel quale è stato sprofondato il Venezuela. Colpa dell’imbelle e corrotto governo Maduro? No, putroppo: se Maduro certo non brilla, a rovinare i venezuelani sarebbero stati soprattutto gli Usa. Per Arlacchi, il caso-Venezuela «si configura nei termini di una gigantesca truffa informativa, volta a coprire la sopraffazione di un popolo e la spoliazione di una nazione». Il principale mito da sfatare, scrive Arlacchi, riguarda le cause di fondo del dramma venezuelano: «I media occidentali non hanno avuto dubbi nell’additare gli esecutivi succedutisi al potere dopo l’elezione del “dittatore” Chávez alla presidenza nel 1998 come unici responsabili della crisi, nascondendone la matrice di gran lunga più importante: le barbare sanzioni americane contro il Venezuela decise da Obama nel 2015 e inasprite da Trump nel 2017 e nel 2018».
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Schiaffo di Trump: declassa l’Ue, da Stato a ‘organizzazione’
Martedì 8 gennaio 2019, secondo fonti ufficiali, l’amministrazione Trump ha declassato lo status diplomatico della missione Ue a Washington, senza informarne Bruxelles né la missione stessa. Il declassamento da Stato nazionale a organizzazione internazionale rovescia una decisione presa nel 2016 dall’amministrazione Obama, che conferiva all’Ue un ruolo diplomatico più forte a Washington, e viene visto a Bruxelles come un affronto che riflette l’antipatia generale dell’amministrazione Trump verso l’Ue. Il presidente si è schierato a favore della Brexit e ha definito l’Ue «un nemico». Il cambiamento, che è stato segnalato per prima dall’emittente tedesca “Deutsche Welle”, significa potenzialmente che la missione dell’Ue avrebbe meno potere e accesso limitato all’amministrazione statunitense. «Ci risulta che ci sia stato un recente cambiamento nel modo in cui la lista delle priorità diplomatiche è implementata dal protocollo degli Stati Uniti», ha detto Maja Kocijančič, portavoce per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, che ha poi aggiunto: «Non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione dell’avvenuto cambiamento».«Stiamo discutendo assieme ai dipartimenti competenti nell’amministrazione le possibili implicazioni per la delegazione dell’Ue a Washington», ha affermato Kocijančič. «Ci aspettiamo che la prassi diplomatica stabilita negli ultimi anni venga rispettata». Alla richiesta di un commento, il Dipartimento di Stato ha inviato un messaggio automatico dicendo che, a causa dello “shutdown” governativo, «le comunicazioni con i media saranno limitate a eventi e questioni che riguardano la sicurezza di vite umane o la protezione di beni, o ritenute essenziali per la sicurezza nazionale». «Questo è un colpo basso all’Unione Europea del tutto irragionevole da parte dell’amministrazione Trump», ha detto Nicholas Burns, già sottosegretario di Stato per gli affari politici durante l’amministrazione di George W. Bush. «Tutto ciò in concomitanza con la campagna di Trump volta a raffigurare l’Ue come un concorrente, e non un partner, degli Stati Uniti. Continua, da parte dell’amministrazione Trump, la delegittimazione delle organizzazioni internazionali e dell’organizzazione sovranazionale che è l’Ue. Gli americani dovrebbero ricordare che l’Ue è il nostro più grande partner commerciale e il più grande investitore nella nostra economia», ha aggiunto Burns, secondo il quale «l’intera politica di Trump nei confronti dell’Ue continua a essere fuorviante e inefficace».(Julian Borger, “L’amministrazione Trump declassa lo status dell’Ue negli Stati Uniti, senza informare Bruxelles”, dal “Guardian” dell’8 gennaio 2019, articolo ripreso da Margherita Russo su “Voci dall’Estero”. Nel silenzio generale dei principali media italiani – scrive il newsmagazine – è passata la notizia secondo la quale il presidente Trump ha declassato l’Unione Europea allo status di semplice organizzazione internazionale. Il “downgrade” dello status diplomatico «non dovrebbe suscitare alcuna sorpresa, essendo soltanto la correzione della decisione alquanto azzardata di Obama di considerare l’Ue allo stesso rango di uno Stato sovrano». Eppure, sottolinea “Voci dall’Estero”, viene considerato – sia a Bruxelles che nei circoli di potere vicini alle amministrazioni precedenti a Trump – come un affronto, che rifletterebbe l’antipatia dell’attuale amministrazione americana verso l’Ue. «Un ulteriore colpo alla già traballante costruzione europea, in vista del sempre più probabile stravolgimento che si prospetta per le prossime elezioni del Parlamento Europeo»).Martedì 8 gennaio 2019, secondo fonti ufficiali, l’amministrazione Trump ha declassato lo status diplomatico della missione Ue a Washington, senza informarne Bruxelles né la missione stessa. Il declassamento da Stato nazionale a organizzazione internazionale rovescia una decisione presa nel 2016 dall’amministrazione Obama, che conferiva all’Ue un ruolo diplomatico più forte a Washington, e viene visto a Bruxelles come un affronto che riflette l’antipatia generale dell’amministrazione Trump verso l’Ue. Il presidente si è schierato a favore della Brexit e ha definito l’Ue «un nemico». Il cambiamento, che è stato segnalato per prima dall’emittente tedesca “Deutsche Welle”, significa potenzialmente che la missione dell’Ue avrebbe meno potere e accesso limitato all’amministrazione statunitense. «Ci risulta che ci sia stato un recente cambiamento nel modo in cui la lista delle priorità diplomatiche è implementata dal protocollo degli Stati Uniti», ha detto Maja Kocijančič, portavoce per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Ue, che ha poi aggiunto: «Non abbiamo ricevuto alcuna comunicazione dell’avvenuto cambiamento».
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Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
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Clinton, pedofili al potere: e Trump mobilita il Pentagono
Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dai Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, prove alla mano) hanno il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.«Che i media siano controllati e che si auto-censurino per salvarsi il sedere, lo sa anche un cacciavite», premette. «Ma che due notizie bomba sul presidente della nazione più potente del mondo, e accessibili a tutti, scomparire nel nulla sui maggiori media occidentali, per un ordine di scuderia, questo non lo credevo». Attenti: nei Pentagon Papers, nel Watergate, nell’Iran-Contras, nell’Iraq-gate, i fatti erano occulti. Qui invece «sono pubblici e accessibili da una pensionata, riguardano l’uomo più potente del pianeta, eppure sono stati ‘suicidati’ e sepolti da tutti i grandi media con un accordo e con una sincronia scioccanti». In pratica, «i media non esistono più». Trump è sotto attacco da parte di due “Stati ombra” ben noti: il raggruppamento dei servizi segreti (Cia, Nsa, Nga, Fbi) che va sotto il nome di Shadow Government, e le maggiori corporations coi loro lobbysti che foraggiano il Congresso: Big Oil, Big Pharma, Big Banks, Big Media, Arms Industry e Silicon Valley, che passano sotto il nome di Deep State. Nota per gli scettici: chiunque neghi l’esistenza e i poteri di questi apparati, liquidandoli con la parola “complottismo”, «non ha mai letto una pagina del “New York Times”, del “Washington Post” o sentito di P2 e stragismo in Italia, quindi è un cretino».Donald Trump? Un presidente «incontrollabile, e forse anche mentalmente instabile», ma proprio per questo «ha devastato la sacra tradizione di almeno 70 anni di presidenze americane, dove le politiche reali furono sempre influenzate o truccate da Shadow Government e Deep State, fino alla presidenza Obama inclusa». Conclusione: «Trump va quindi abbattuto. Ma quest’uomo è molto meno fesso di ciò che appare», scrive Barnard. O meglio: «Si è circondato di alcuni dei più brillanti ‘Rasputin’ di tutta la storia moderna». Messo sotto assedio, ha quindi contrattaccato con quei due numeri, 13818 – 82 FR 60839. Premessa: «Donald Trump è sotto una ‘Dresda’ di bombe per abbatterlo», fra cui il presunto accordo-scandalo con Putin per truccare le elezioni 2016, che coinvolge anche la sua famiglia (e la relativa inchiesta è nelle mani dell’implacabile ex direttore dell’Fbi Robert Mueller). Sconta «accuse di grave instabilità mentale da impeachment», apparentemente documentate dall’esplosivo bestseller “Fire and Fury” di Michael Wolff: «Una presunta serie di abusi sessuali ai danni di donne lungo la sua carriera sia da businessman che come politico». Poi c’è una sfilza di accuse a membri del suo governo (Steve Mnuchin, Ryan Zinke, Tom Price) per uso personale di denaro pubblico. «Tutti questi scandali s’appoggiano pesantemente sui poteri e/o sulle spiate dello Shadow Government».Ce n’è a sufficienza per demolire chiunque, osserva Barnard. E Trump, senza quel micidiale documento (che ha firmato il 20 dicembre 2017) sembrava un gigante dai piedi d’argilla. «Non controlla l’Fbi, prima diretta dal suo arci-nemico Comey e oggi da Christopher Wray che a sua volta non controlla l’Fbi». In più Trump «non controlla la Cia, diretta da Mike Pompeo, che a sua volta non controlla la Cia». Di più: «Non controlla la Nsa diretta dall’ammiraglio Michael Rogers, che a sua volta non controlla la Nsa». Donald Trump «non ha nessuna influenza sulla Nga, che gioca un ruolo centrale in tutte le inchieste di massima sicurezza in America». Questo, per quanto riguarda lo Shadow Government. «Poi è troppo ricco per poter essere comprato dal Deep State, che – specialmente con Wall Street e la dirigenza ebraica americana – è lo sponsor principale dei democratici, e di tutti i repubblicani ostili al presidente». Poi, continua Barnard, quattro giorni prima di Natale cade la bomba 13818 – 82 FR 60839. «E, usando un’impareggiabile espressione americana, “the shit hit the fan” (la merda finì nelle pale del ventilatore)». Attenzione: l’ordine esecutivo «è uno degli atti legislativi americani più dirompenti da sessant’anni». Cosa dice? Colpisce con le massime armi – militari, giuridiche e finanziarie – chiunque si renda colpevole di violazioni dei diritti umani e di corruzione, negli Usa e nel mondo».L’ordine esecutivo presidenziale «colpisce anche i governi esteri coinvolti, i loro funzionari, e qualsiasi complice in qualsiasi forma». Di più: «Va a colpire queste infami catene là dove gli fa più male, cioè nei soldi, con il blocco e la confisca dei loro denari, proprietà, titoli, azioni, anche nelle loro forme più maliziosamente nascoste o lontanamente imparentate». Certo, «sappiamo che Trump non è Mandela», e infatti quel decreto è stato scritto «per mitragliare a morte un settore ben preciso delle violazioni dei diritti umani». Nel mirino c’è una piaga indicibile: «Il mercato dei minori per pedofilia, nel bacino più ampio dei trafficanti di persone». Infatti, spiega Barnard, il presidente aveva anticipato questa legge il 23 febbraio 2017 in conferenza stampa, rilanciata dalla “Associated Press”, «dove parlò proprio di traffici umani per pedofilia». Ma perché? «Perché Trump sa bene che questo abominio, l’abuso di minori venduti, sembra aver infettato la maggioranza dei vertici del Deep State, col silenzio dello Shadow Government, e con un presunto forte coinvolgimento di una notissima beneficienza: la Clinton Foundation». Come fa Trump a saperlo? «Da anni ne parla in pubblico un ex pezzo grosso della Cia, più altre fonti autorevoli». Sicché, il suo “executive order” «colpirà proprio i suoi nemici».In questo preciso momento, giura Barnard, «negli Stati Uniti alcuni altissimi nomi stanno tremando, e precisamente dalla mattina del 21 dicembre scorso, quando l’“executive order” 13818 – 82 FR 60839 è stato pubblicato ‘in Gazzetta’ a Washington». Un conrattacco mortale: «Jfk fu ucciso per meno, a quanto sappiamo fino ad oggi. Infatti i ‘Rasputin’ di Trump sapevano che la vita del presidente sarebbe stata immediatamente in pericolo dopo quell’ordine esecutivo». Proprio per questo, infatti, «hanno fatto la pensata di tutte le pensate». Cioè: il ricorso d’emergenza al Pentagono. Nelle prime righe dell’“executive order”, il presidente scrive: «Io perciò decido che i gravi abusi dei diritti umani, e la corruzione, nel mondo costituiscono un’insolita e straordinaria minaccia alla sicurezza nazionale». Notare: le parole “minaccia” e “sicurezza nazionale”, pronunciate dal presidente degli Stati Uniti, «implicano l’immediata mobilitazione di tutto l’esercito americano, cioè del Pentagono. E’ di fatto un preallarme di guerra, e di conseguenza le protezioni intorno al presidente divengono massime. E quando si muove il Pentagono non esiste nulla al mondo, se non un arsenale nucleare straniero, che possa batterlo. Questo è ultra-chiaro a tutti gli apparati di Deep State e Shadow Government, che ora sono in “deep shit”, nella merda fino al collo, per essere chiari».Non è stato un caso che Trump abbia messo nei posti chiave a Washington tre generali, e un ammiraglio a capo dei più potenti 007 degli Usa, sottolinea Barnard. «Abbiamo il generale James “Mad Dog” Mattis come ministro della difesa, il generale John Kelly come White House Chief of Staff e il generale H. R. McMaster come Consigliere per la Sicurezza Nazionale. Poi, anche se boicottato dai suoi sottoposti, c’è l’ammiraglio Michael Rogers a capo dalla Nsa. Insomma, il Pentagono. Trump sarà anche scemo, ma cosa sia lo Shadow Government lo sapeva benissimo, e si è protetto». Protezioni salva-vita, ora che Trump – per sfuggire all’assedio di cui è vittima – incalza i suoi nemici, capeggiati da Hillary Clinton, con quell’ordine esecutivo concepito «per metterli in un angolo con indagini profonde sul traffico internazionale di minori per pedofilia, in cui sarebbero coinvolti molti vertici Usa del Deep State, inclusi i Clinton, col silenzio dello Shadow Government». “The Donald” lo sta facendo «coprendosi le spalle con l’intero esercito degli Stati Uniti». Del resto, l’argomento toccato è off limits: pedofilia e potere, “non aprite quella porta”. Nessuno aveva mai osato tanto: l’abuso di bambini, nelle alte sfere, è un tabù inaccessibile. Chi tocca, muore.«Esisterebbe dunque un traffico di minori per pedofili di altissimo livello ai vertici del Deep State, inclusi i Clinton», scrive Barnard. «Trump apprende questo da molte fonti, la prima delle quali è l’ex agente e dirigente pluridecorato della Cia Kevin M. Shipp. Costui, senza la fama attribuita al suo collega ‘whistleblower’ Edward Snowden, sta rivelando da anni il livello di marciume criminale che davvero permea lo Shadow Government in America». Shipp è stato esperto di anti-terrorismo, guardia del corpo di due direttori della Cia. Era ai vertici della Counterintelligence, ed è stato citato dal “New York Times” come «veterano della Central Intelligence Agency». In altre parole: «Non è proprio un signor nessuno nello Shadow Government americano». Barnard ricorda che da anni il “Washington Times”, il “New York Post” e l’inglese “Guardian” «riportavano notizie certe sui cosiddetti “Voli Lolita” – cioè voli su un jet privato per orge con minori – organizzati dal miliardario pedofilo Jeffrey Epstein». Per dire: «Bill Clinton, secondo gli atti del processo che condannò Epstein, fu ospite 26 volte su quei voli». Altri nomi di alto rango trovati nell’agenda “nera” del miliardario «furono Tony Blair, Michael Bloomberg, Richard Branson fra molti altri, e i cellulari delle minori schiave del sesso fra cui “Jane Doe N.3”», una ragazzina che negli atti processuali ha dichiarato di «essere stata costretta a rapporti sessuali con diversi politici americani, top businessmen, un premier famosissimo e altri leader internazionali».Nel 2006, continua Barnard, «Epstein fece una grassa donazione alla Clinton Foundation». Nella capitale Usa, la Ong di Conchita Sarnoff, “Alliance to Rescue Victims of Trafficking”, ha decine di files su “potere e pedofilia”. Un incubo? Certo. «Ora, provate a trovare traccia sui grandi media italiani o americani dell’esplosivo affare». Niente: silenzio assoluto sui nomi coinvolti, «come Bill e Hillary Clinton, Robert Mueller, Kevin M. Shipp». Sui media, le espressioni Deep State e Shadow Government neppure compaiono. «Attenti, non parliamo di una legge del Nicaragua, ma del presidente americano più discusso e delegittimato della storia». Silenzio stampa totale: ne accenna il solo “Financial Times”, «ma svuotando tutta la news». Peggio: il 19 gennaio, giunge al Congresso un memorandum «che sembra contenere le prove delle azioni della Clinton, coi soldi del Partito Democratico, col silenzio di Cia ed Fbi, per usare i poteri “tech” della Nsa permessi dalla legge Fisa, sotto la presidenza di Obama… e il tutto per spiare la campagna elettorale di Trump, per corrompere testimoni russi a dire il falso contro il neo-eletto presidente, e con la collusione di Londra».“Fox News” titola: “Molto più grave del Watergate”. Il sito di finanza “Zero Hedge” pubblica all’istante i Tweet di alcuni senatori americani sotto shock, con parole come «questo memorandum manderà a spasso un sacco di gente, al Dipartimento della Giustizia, e certi nomi finiranno in galera», dalla bocca del senatore Matt Gaetz. Roba da invadere le prime pagine di “New York Times” e “Repubblica”, passando per “Cnn”, “Bbc” e “Rai”. «Nulla. Vado su “Fox News”, e in prima non c’è più nulla! Perdo il fiato. Ma lo recupero quando “Zero Hedge” pubblica un Tweet del più autorevole fra gli autorevoli, Edward Snowden, che conferma tutto». Eppure, di nuovo – scrive Barnard – ago e filo «hanno cucito la bocca e le dita di tutto il mondo dei media che contano in un istante, e con un potere di assolutismo che davvero non credevo possibile a questo livello». Ipotesi: «E’ possibile che lo stesso Donald Trump sia parte di questa incredibile congiura del silenzio, per barattare coi suoi nemici e per poterli poi ricattare per anni, ma ciò non cambia la sostanza». Sotto i nostri piedi si sta spalancando un abisso: «Non fate figli», chiosa Barnard.Pedofili al potere, ai massimi vertici. Traffico di bambini, orge con minorenni. Nomi coinvolti? I maggiori, a cominciare dal clan Clinton. Da chi viene la denuncia? Da Donald Trump, che sta cercando di salvarsi – dall’impeachment e forse dall’omicidio, visto che «Kennedy fu ucciso per molto meno». Ma attenzione: mentre il Deep State trema, i grandi media tacciono: congiura del silenzio. Siamo in pericolo, scrive Paolo Barnard: Trump si fa difendere direttamente dal Pentagono, evocando lo stato di guerra, mentre i suoi nemici (accusati di pedofilia, probabilmente ricattabili a vita) hanno comunque il potere di silenziare giornali e televisioni. In altre parole: sta accadendo qualcosa di mai visto, a Washington. Una lotta mortale, tra un presidente sotto assedio e i suoi avversari “mostruosi”. Trump agisce solo per opportunismo, per salvarsi minacciando di spiattellare quello che sa, e che gli hanno rivelato ex funzionari della Cia come Kevin Shipp? Per contro, chi vuole farlo fuori adesso è nel panico da quando il presidente ha contrattaccato «con due numeri»: 13818, cioè l’ordine presidenziale esecutivo, e 82 FR 60839, cioè «il protocollo del medesimo presso l’Us Government Publishing Office». Una mossa “nucleare”, «ma talmente tanto che quegli apparati di potere, Shadow Government e Deep State, faticano a riprendersi». Una storia «agghiacciante», che Barnard ricostruisce nei dettagli.
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E’ finita: addio Flynn, Trump ridotto a zerbino dai neocon
Meno di un mese fa avevo messo in guardia sul fatto che negli Stati Uniti era in corso una rivoluzione colorata. Il mio primo elemento probatorio era stata la cosiddetta “indagine” che Cia, Fbi, Nsa ed altri stavano conducendo sul candidato che avrebbe dovuto diventare il Consigliere alla Sicurezza Nazionale del presidente Trump, il generale Flynn. Questa notte, il complotto per liberarsi di Flynn ha finalmente avuto successo e il generale Flynn ha offerto le sue dimissioni. Trump le ha accettate. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Flynn non era certo un santo o un uomo di tale saggezza da salvare il mondo con una mano sola. Non lo era. Però la figura di Flynn era la pietra angolare della politica di Trump sulla sicurezza nazionale. Per prima cosa, Flynn aveva osato l’impensabile: aveva osato dichiarare che l’ipertrofica comunità dell’intelligence americana doveva essere riformata. Aveva tentato anche di subordinare la Cia e gli stati maggiori riuniti al presidente attraverso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In altre parole, Flynn aveva cercato di strappare l’autorità e il potere assoluto alla Cia e al Pentagono, per riportarlo sotto il controllo della Casa Bianca.Flynn voleva anche collaborare con la Russia. Non perché fosse un amante della Russia, il solo pensiero che il direttore della Dia sia un fan di Putin è ridicolo, ma Flynn era razionale e aveva capito che la Russia non costituisce nessuna minaccia per gli Stati Uniti o per l’Europa e che la Russia e l’Occidente hanno interessi in comune. Questo è un altro psicoreato assolutamente imperdonabile a Washington Dc. Lo “Stato Profondo” neoconservatore ha ora costretto Flynn alle dimissioni, con lo stupido pretesto di una sua conversazione telefonica, su una linea aperta, non sicura e sicuramente monitorata, con l’ambasciatore russo. E Trump ha accettato queste dimissioni. Fin da quando Trump ha fatto il suo ingresso alla Casa Bianca, non ha fatto altro che ricevere colpi su colpi dai media dei neoconservatori sionisti, dal Congresso, dalle superbenpensanti “stelle” di Hollywood e anche dai politici europei. E Trump ha incassato tutti i colpi senza reagire. Non si è visto neanche una volta il suo famoso «sei licenziato!». Ma avevo ancora qualche speranza. Volevo avere qualche speranza. Credo che fosse mio dovere sperare. Ma ora Trump ci ha traditi tutti quanti.Ricordate che Obama aveva mostrato il suo vero volto quando aveva ipocritamente denunciato il suo amico e pastore reverendo Jeremiah Wright Jr.? Oggi Trump ha mostrato la sua vera faccia. Invece di respingere le dimissioni di Flynn e invece di licenziare quelli che avevano osato fabbricare queste ridicole accuse contro Flynn, Trump ha accettato le dimissioni. Questo non solo è un atto di vile codardia, ma è anche un tradimento, controproducente ed incredibilmente stupido, perché ora Trump rimarrà solo, completamente solo ad affrontare tipi come Mattis e Pence, i duri della guerra fredda, ideologici fino al midollo, gente che vuole la guerra e a cui, semplicemente, non importa nulla della realtà. Ripeto, Flynn non era il mio eroe. Ma, a tutti gli effetti, era l’eroe di Trump. E Trump lo ha tradito. Le conseguenze di una cosa del genere saranno immense. Per prima cosa, Trump è ora chiaramente a terra. Allo “Stato Profondo” ci sono volute solo alcune settimane per castrare Trump e costringerlo ad inchinarsi al vero potere. Quelli che si sarebbero schierati dalla parte di Trump ora sanno che non potranno contare sul suo appoggio e si allontaneranno tutti da lui.I neoconservatori saranno euforici per l’eliminazione del loro peggior nemico, e saranno così ringalluzziti da questa vittoria che continueranno a fare pressione, raddoppiando ogni volta la posta in gioco. E’ finita, gente, lo “Stato Profondo” ha vinto. D’ora in poi Trump sarà uno shabbos-goy, il fattorino per le consegne della lobby israeliana. Hassan Nasrallah aveva ragione a chiamarlo “un idiota”. I cinesi e gli iraniani rideranno apertamente. I russi no, saranno cortesi, sorrideranno e cercheranno di vedere se da questo disastro si potrà salvare un po’ di politica che abbia del buon senso. Qualcosa si potrà fare, ma tutti i sogni di partnership fra Russia e Stati Uniti sono morti stanotte. I leader europei, naturalmente, faranno festa. Trump non era affatto lo spauracchio terrificante che temevano. Viene fuori che è uno zerbino: ottimo per l’Unione Europea. Che cosa ne sarà di noi, dei milioni di anonimi “deplorabili” che cercano, meglio che possono, di resistere all’imperialismo, alla guerra, alla violenza e all’ingiustizia? Penso che avessimo fatto bene ad avere delle speranze, perché le speranze sono tutto quello che abbiamo. Nessuna prospettiva, solo speranze. Ma adesso, obbiettivamente, ci restano ben pochi motivi per sperare. Per prima cosa, la “palude di Washington” non verrà prosciugata. Semmai, la palude ha vinto.Possiamo solo trovare un po’ di consolazione in due fatti innegabili: 1. Hillary sarebbe stata molto peggio di qualunque versione della presidenza Trump; 2. Per sconfiggere Trump, lo “Stato Profondo” americano ha dovuto indebolire moltissimo gli Stati Uniti e l’Impero Anglo-Sionista. Proprio come le purghe di Erdogan hanno portato il caos nell’esercito turco, così la “rivoluzione colorata” anti-Trump ha inferto un enorme danno alla reputazione, all’autorità ed anche alla credibilità degli Stati Uniti. Il primo punto è ovvio, lasciatemi perciò chiarire il secondo. Nella loro rabbia piena di odio contro Trump e contro il popolo americano (il famoso “cesto di deplorabili”), i neoconservatori hanno dovuto mostrare la loro vera faccia. Con il loro rigetto del risultato elettorale, con i loro disordini, con la loro demonizzazione di Trump, i neoconservatori hanno fatto vedere due cose importanti: primo, che la democrazia americana è una barzelletta che non fa ridere, e che loro, i neoconservatori, sono un regime di occupazione, che governa contro la volontà del popolo americano.In altre parole, proprio come ad Israele, agli Stati Uniti non è rimasta nessuna legittimità. E, dal momento che gli Stati Uniti, proprio come Israele, sono incapaci di spaventare i loro nemici, a loro non rimane praticamente più nulla, nessuna legittimità, nessuna capacità di coercizione. Perciò sì, i neoconservatori hanno vinto. Ma la loro vittoria sottrae agli Stati Uniti l’unica possibilità di evitare il collasso. Trump, nonostante tutti i suoi difetti, metteva al primo posto gli Stati Uniti, come nazione, invece dell’Impero Globale. Trump era anche ben conscio che “ancora lo stesso” non era un’opzione praticabile. Voleva una politica tagliata sulle attuali capacità degli Stati Uniti. Senza Flynn e con i neoconservatori saldamente al comando, è tutto finito. Ritorneremo ad avere l’ideologia che ha il sopravvento sulla realtà. Trump avrebbe probabilmente potuto rendere l’America, beh, magari non “nuovamente grande”, ma almeno più forte, una grande potenza mondiale che avrebbe potuto negoziare e usare la sua influenza per ottenere dagli altri le migliori condizioni possibili. Ora è tutto finito.Con Trump al tappeto, Russia e Cina ritorneranno sulle loro posizioni ante-Trump: una resistenza ferma, sostenuta dalla volontà e dalla capacità di confrontarsi con gli Stati Uniti e di batterli a tutti i livelli. Sono abbastanza sicuro che oggi al Cremlino non ci sia nessuno che festeggia. Putin, Lavrov e gli altri si rendono sicuramente conto di che cosa è successo. E’ come se Khodorkovsy fosse riuscito a stroncare Putin nel 2003. Devo infatti dar credito agli analisti russi che, già da diverse settimane, paragonavano Trump a Yanukovich, anche lui eletto dalla maggioranza della popolazione, ma che non aveva mostrato la tempra necessaria per fermare la “rivoluzione colorata” scatenata contro di lui. Ma se Trump è il novello Yanukovich, gli Stati Uniti saranno la nuova Ucraina?Flynn era proprio la pietra angolare della così tanto sperata politica estera di Trump. C’era veramente la fondata possibilità che potesse riportare all’ordine le enormi, ipertrofiche e potentissime agenzie dalle tre lettere, e che focalizzasse la forza degli Stati Uniti contro i veri nemici dell’Occidente: i Wahabiti. Senza Flynn, l’intero edificio concettuale ora crolla. A noi rimarranno quelli come Mattis, con le sue dichiarazioni anti-iraniane. Pagliacci che fanno colpo solo su altri pagliacci. Oggi, la vittoria dei neoconservatori è un evento di enorme importanza, e probabilmente verrà completamente travisata dai media ufficiali. Ironicamente, anche i sostenitori di Trump cercheranno assolutamente di minimizzarla. Ma la realtà è che, salvo un miracolo dell’ultimo minuto, è finita per Trump e per le speranze dei milioni di persone che negli Stati Uniti e nel resto del mondo, avevano sperato di poter cacciare i Neoconservatori dal potere per mezzo di pacifiche elezioni. Questo, chiaramente, non succederà. Vedo nubi oscure all’orizzonte.(The Saker, “I neocon e lo Stato Profondo castrano la presidenza Trump, è finita gente!”, da “Saker Italia” del 14 febbraio 2017).Meno di un mese fa avevo messo in guardia sul fatto che negli Stati Uniti era in corso una rivoluzione colorata. Il mio primo elemento probatorio era stata la cosiddetta “indagine” che Cia, Fbi, Nsa ed altri stavano conducendo sul candidato che avrebbe dovuto diventare il Consigliere alla Sicurezza Nazionale del presidente Trump, il generale Flynn. Questa notte, il complotto per liberarsi di Flynn ha finalmente avuto successo e il generale Flynn ha offerto le sue dimissioni. Trump le ha accettate. Mettiamo subito in chiaro una cosa: Flynn non era certo un santo o un uomo di tale saggezza da salvare il mondo con una mano sola. Non lo era. Però la figura di Flynn era la pietra angolare della politica di Trump sulla sicurezza nazionale. Per prima cosa, Flynn aveva osato l’impensabile: aveva osato dichiarare che l’ipertrofica comunità dell’intelligence americana doveva essere riformata. Aveva tentato anche di subordinare la Cia e gli stati maggiori riuniti al presidente attraverso il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. In altre parole, Flynn aveva cercato di strappare l’autorità e il potere assoluto alla Cia e al Pentagono, per riportarlo sotto il controllo della Casa Bianca.
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11 settembre, nuove rivelazioni: l’America mentì su tutto
«Sono trascorsi 8 anni da quel tragico 2001 e ancora non conosciamo la verità su quello che accadde l’11 settembre». Lo afferma Giulietto Chiesa, autore del bestseller “La guerra infinita” (Feltrinelli) e del documentario “Zero”, accolto con interesse in tutta Europa. «Chi come noi dubitò fin dall’inizio delle versioni ufficiali – scrive, in un lungo reportage per “Megachip” – fu bollato come antiamericano e complottista: cioè furono definiti complottisti quelli che cercavano di smascherare il complotto, non quelli che lo costruirono. Malgrado tutto, comunque, la verità avanza». Clamorose rivelazioni, confessioni, libri: si disegna lentamente il più colossale depistaggio della storia.