Archivio del Tag ‘solitudine’
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Charleston, il mostro stragista e l’apposita esercitazione
A Charleston, South Carolina, il 21 enne Dylan Roof è entrato nella chiesa negra ed ha sparato all’impazzata, uccidendo nove presenti, fra cui il senatore democratico Clementa Pinckney, 41 anni, padre di due figli. Era il 17 giugno. Quello stesso era in corso a Charleston un’esercitazione federale che prevedeva esattamente un eccidio: i poliziotti partecipanti dovevano prepararsi nel caso di “Active Shooter”. Si tratta di una definizione inventata dal Department of Homeland Security, che designa uno scenario di una strage di massa rapida e imprevedibile, dove alla fine l’uccisore si toglie la vita. Come potete verificare, di esercitazioni del genere, in Usa, se ne tengono di continuo. E’ una coincidenza che si ripete sistematicamente. L’11 Settembre 2001, la Federal Emergency Management Agency (Fema, la protezione civile) aveva in programma una esercitazione, chiamata “Tripod”, che simulava un attacco chimico al World Trade Center e l’evacuazione delle Torri; sicchè il personale e i mezzi della Fema erano già sul posto la notte del 10; quanto ai militari, avevano in corso varie esercitazioni proprio allora.A Londra il 7 luglio 2005, quattro “terroristi islamici” insospettabili fecero saltare quattro stazioni della metropolitana. Immediatamente un cittadino di nome Peter Power, direttore di “Visor Consultants”, un’azienda privata sotto contratto con la polizia della città di Londra, telefona alla Bbc radio tutto eccitato e racconta come lui, per conto di un cliente anonimo, aveva in corso una esercitazione che simulava attacchi simultanei «esattamente dentro le stazioni del metro dove si sono poi verificate quella mattina, ho ancora i capelli dritti quando ci penso». Il giovane Dylan, squilibrato, drogato, arrabbiato e razzista, è la tipica figura dell’assassinio solitario, venuto dal nulla, ricorrente in America. Voleva provocare la guerra civile razziale, bianchi contro neri, dice al primo interrogatorio. I media sono stati lesti a riportare tutto delle foto e delle frasi d’odio che aveva postato sul suo sito: lui con la pistola, lui con la bandiera confederata.Quello su cui sorvolano è che il sito, “lastrhodesian.com”, è situato a Mosca, capitale della Federazione Russa. Come e perché un ragazzo del South Carolina, con conoscenze Internet alquanto elementari, e pochi “amici” nei social media, abbia ritenuto di usare un e-mail host russo, “yandex.com” (preferito da esperti hacker che vogliono sfuggire alle infiltrazioni Nsa) ed un host del web di Mosca (“reg.ru”), è un mistero. Ma dalla Russia emana il Male, come si sa… Ammesso poi che le foto sul sito siano state postate da lui. Alcune sembrano aggiunte dopo, quando lui ormai era in galera, o ritoccate con Photoshop (in due foto identiche, appare con una bandierina diversa appuntata sul giubbotto). Anche un suo lungo “Manifesto” di odio razziale trovato “sul web” ha l’aria di essere falso.La sera in cui è entrato nella chiesa episcopale metodista africana “Emanuel”, Roof ha chiesto chi fosse il reverendo: pare avesse dunque un bersaglio preciso nel pastore Clementa C. Pinckney, che era anche senatore democratico dello Stato, figura rispetatta e di fama crescente nella comunità locale. Il senatore aveva proposto da poco che i poliziotti fossero obbligati per legge a indossare una telecamera sul petto, proposta che aveva avanzato dopo che un negro di nome Walter Scott, disarmato, era stato preso a revolverate nella schiena da un agente di polizia mentre scappava: tragedia dell’odio avvenuta a North Charleston solo nell’aprile scorso. Probabilmente era quello che chi controlla la mente di Dylan voleva eliminare. Le altre vittime saranno state danni collaterali.(Maurizio Blondet, “Charleston, c’era un’esercitazione simulante il massacro”, dal blog di Blondet del 23 giugno 2015).A Charleston, South Carolina, il 21 enne Dylan Roof è entrato nella chiesa negra ed ha sparato all’impazzata, uccidendo nove presenti, fra cui il senatore democratico Clementa Pinckney, 41 anni, padre di due figli. Era il 17 giugno. Quello stesso era in corso a Charleston un’esercitazione federale che prevedeva esattamente un eccidio: i poliziotti partecipanti dovevano prepararsi nel caso di “Active Shooter”. Si tratta di una definizione inventata dal Department of Homeland Security, che designa uno scenario di una strage di massa rapida e imprevedibile, dove alla fine l’uccisore si toglie la vita. Come potete verificare, di esercitazioni del genere, in Usa, se ne tengono di continuo. E’ una coincidenza che si ripete sistematicamente. L’11 Settembre 2001, la Federal Emergency Management Agency (Fema, la protezione civile) aveva in programma una esercitazione, chiamata “Tripod”, che simulava un attacco chimico al World Trade Center e l’evacuazione delle Torri; sicchè il personale e i mezzi della Fema erano già sul posto la notte del 10; quanto ai militari, avevano in corso varie esercitazioni proprio allora.
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Rassegnarci a perdere tutto: è lo scopo della crisi infinita
La lunga crisi economica, e non solo economica ma anche sociale, costituzionale, morale, culturale, sta letteralmente rieducando i popoli: questa è la riforma delle riforme. Insegna loro una lezione importante e penetrante. L’uomo impara ad interiorizzare una diversa e molto più modesta e docile concezione di se stesso, dei suoi diritti fondamentali, delle sue prospettive esistenziali. Taglia pretese e aspettative. Accetta ciò che viene. Si rassegna. La crisi prevedibilmente verrà portata avanti, con gli strumenti di destabilizzazione descritti nei miei precedenti articoli (“Comunitarismo e Realismo”, “Questa non è una Crisi Economica”), finché questa lezione non sarà stata assimilata e finché la precedente maniera di considerare il mondo, la società, i diritti dell’uomo, non sarà stata dimenticata o perlomeno “sovrascritta” da una nuova coscienza, imperniata sugli elementi seguenti. Il rating delle agenzie finanziarie e le variabili “necessità” del mercato sono la fonte normativa suprema, superiore ai principi costituzionali e prevalgono su di essi; lo Stato di diritto e garanzia è finito. Conseguentemente, i diritti di partecipazione democratica e di rappresentanza del cittadino sono condizionati e comprimibili.Le scelte di politica economica, del lavoro, dei rapporti internazionali discendono da fattori di mercato superiori alla volontà popolare e sono dettate ai popoli dall’alto, da organismi tecnocratici sovranazionali, che non sono responsabili degli effetti di tali scelte e possono mantenerle in vigore quali che siano i loro effetti, mentre esse non sono rifiutabili dai popoli e dai loro rappresentanti. Se così non fosse, si metterebbe in pericolo il Pil, il rating, lo spread. In effetti, gli Stati sono politicamente impotenti e subalterni, essendo indebitati in una moneta che non controllano più essi, ma un cartello bancario, da cui essi dipendono per rifinanziarsi. Il cittadino è essenzialmente passivo: subisce senza poter reagire, interloquire, negoziare, le tasse, le tariffe, i prezzi imposti dallo Stato, dei monopolisti dei servizi, dell’energia, di molti beni essenziali. Subisce senza poter reagire il tracciamento di tutte le sue azioni, spostamenti, incassi, spese, consumi.Lo Stato, la pubblica amministrazione, le imprese private monopolistiche che operano in concessione, lo governano e agiscono su di lui da lontano, con mezzi telematici, senza che egli possa interagire con tali soggetti. Come lavoratore, deve accettare una strutturale mancanza di garanzie e pianificabilità, di stabilità dei rapporti e dei redditi, di continuità occupazionale, di prospettiva di carriera e persino di una pensione sufficiente a vivere.Come consumatore, deve accettare i prezzi e le tariffe fissate da monopoli multinazionali o da monopoli locali ammanicati con la casta politica. Deve accettare senza discutere che lo Stato, pur potendo investire e rilanciare l’economia e l’occupazione, scelga piuttosto di lasciare milioni e milioni di persone senza lavoro e nella miseria, nonché senza servizi pubblici decenti, per rispettare i parametri astratti e senza alcuna utilità verificabile, o addirittura dannosi. Deve accettare che i suoi risparmi, sia in valori finanziari che in beni immobili, siano posti in line e gli vengano gradualmente sottratti con le tasse, le bolle, i bail-in, e che non gli rendano più niente, e che i rendimenti siano solo per i grandissimi capitali, quelli di coloro che comandano la società, e che si muovono in circuiti finanziari off shore dove non si pagano le tasse.In fatto di ordine pubblico, deve accettare che la sicurezza sia garantita in misura limitata e in modo pressoché occasionale, che molti delitti e traffici criminali si svolgano in modo tollerato, che molti malfattori non vengono perseguiti o vengano subito rilasciati. Deve rinunciare ad essere tranquillo e padrone sul suo territorio. Deve rinunciare ad avere un territorio suo proprio. Deve inoltre abituarsi a non considerarsi portatore di diritti inalienabili e propri di cittadino, in quanto vede gli immigrati anche clandestini preferiti a lui nei servizi sanitari, nell’edilizia popolare, nell’assistenza pubblica in generale, e protetti quando commettono abitualmente reati. Deve capire che è lo Stato, dall’alto e insindacabilmente, a dare e togliere diritti, a stabilire chi ha diritti, chi non ne ha, chi ne ha di più, chi ne ha di meno. Deve accettare come giusti, normali, inevitabili nonché benefici, i flussi di immigrazione massicci che stravolgono la composizione etnica e culturale del suo ambiente sociale.Deve accettare la fine delle comunità e delle formazioni intermedie, perché tutti gli umani, indistintamente, sono resi per legge e per prassi amministrativa omogenei, equivalenti, monadi solitarie e senza volto davanti allo schermo, al fisco, agli strumenti di monitoraggio e, se necessario, ai droni. Deve accettare la fine delle identità e dei ruoli naturali: fine della famiglia naturale in favore di quella Fai Da Te, fine della differenziazione tra i sessi in favore della scambiabilità del gender, fine della nazione come comunità storica etico culturale in favore del villaggio globale omogeneizzato, fine delle democrazie parlamentari nazionali sovrane in favore di un senato mondialista, bancario e massonico. Deve imparare che il suo ruolo è la passività obbediente, che non ci sono alternative; e a rifiutare come populista, infantile, fascista, comunista, retrivo qualsiasi pensiero strutturalmente critico verso questo nuovo ordine di cose.(Marco Della Luna, “Pedagogia della crisi continua”, dal blog di Della Luna del 26 maggio 2015).La lunga crisi economica, e non solo economica ma anche sociale, costituzionale, morale, culturale, sta letteralmente rieducando i popoli: questa è la riforma delle riforme. Insegna loro una lezione importante e penetrante. L’uomo impara ad interiorizzare una diversa e molto più modesta e docile concezione di se stesso, dei suoi diritti fondamentali, delle sue prospettive esistenziali. Taglia pretese e aspettative. Accetta ciò che viene. Si rassegna. La crisi prevedibilmente verrà portata avanti, con gli strumenti di destabilizzazione descritti nei miei precedenti articoli (“Comunitarismo e Realismo”, “Questa non è una Crisi Economica”), finché questa lezione non sarà stata assimilata e finché la precedente maniera di considerare il mondo, la società, i diritti dell’uomo, non sarà stata dimenticata o perlomeno “sovrascritta” da una nuova coscienza, imperniata sugli elementi seguenti. Il rating delle agenzie finanziarie e le variabili “necessità” del mercato sono la fonte normativa suprema, superiore ai principi costituzionali e prevalgono su di essi; lo Stato di diritto e garanzia è finito. Conseguentemente, i diritti di partecipazione democratica e di rappresentanza del cittadino sono condizionati e comprimibili.
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Elezioni 2015, siamo al day-after di un sistema che muore
Il mio motto “Chi va a votare avvelena anche te, digli di smettere” ha trovato un altro 10% di cittadini stanchi di sedersi al tavolo assieme ai bari. Questa inesorabile costante avanzata verso la contestazione globale del sistema di rappresentanza fasulla che ci opprime da quaranta anni (iniziò nel ’76 col 14% di astenuti dal voto) questa volta ha fatto presa in particolare nelle cosiddette Regioni rosse dopo aver trionfato nelle scorse elezioni nelle zone in cui l’elettorato è stato tradizionalmente ostile al centro-sinistra. Anche il cemento armato della gestione clientelare dei governi a guida Pci-Pds-Ds-Pd ha mostrato di non reggere alla infiltrazione dell’acqua cheta dei cittadini che, sempre più numerosi, ripudiano i vecchi idoli e fanno crollare gli altari. Il paese sente di non essere governato e si ribella astenendosi dal partecipare ai ludi elettorali in maniera sempre più massiccia e sprezzante. La disaffezione porta l’anarchia in ogni aspetto della vita associata. La mini-astuzia ministeriale di far votare i cittadini a cavallo della festa della Repubblica e i soldi spesi per la campagna pubblicitaria di partecipazione non hanno funzionato.È un dialogo tra sordi. Il sistema sanitario veneto era già in pareggio prima della elezione dell’enologo Zaia (è l’eredità amministrativa austroungarica) e nessuno crede veramente che l’ennesimo cappone del pollaio di Berlusconi farà miracoli in Liguria. I successi dei provocatori Salvini e Grillo sono il sintomo di una malattia, non la cura. Gli italiani aspettano una NUOVA REPUBBLICA che stronchi la selezione a rovescio della classe dirigente che viene attuata a partire dal 1958 con la riforma Fanfani che aprì la porta delle candidature agli impiegati di partito. La disaffezione verso il sistema ha investito anche l’Europa che era la sola idea nuova scaturita dalle rovine della guerra mondiale. Ora è rappresentata da un vecchietto di modesta statura fisica e intellettuale, incapace di assorbire la crisi greca (tutta la Grecia rappresenta meno del 2% del prodotto lordo europeo: chi non può assorbire una perdita del 2%?).L’Europa non fa più figli e non vuole adottare quelli provenienti da altri continenti vicini. Li lasciamo annegare mentre noi anneghiamo in solitudine nei nostri eccessi di liquidità che non sappiamo più impiegare che per comprare obbligazioni di banche sclerotizzate. Le Regioni italiane non servono ad altro che ad arricchire alcune centinaia di impiegati delle segreterie di finti partiti che cercheranno di riempirsi le tasche prima del naufragio che sanno inevitabile. Saranno anche più avidi dei predecessori. Giolitti rimproverò Mussolini alla Camera, dicendo «questo governo mangia troppo», e Mussolini di rimando: «Anche ai suoi tempi si mangiava». Risposta di Giolitti: «Sì, ma si sapeva stare a tavola». Bei tempi.(Antonio De Martini, “Il day after di un sistema che muore”, dal “Corriere della Collera” del 1° giugno 2015).Il mio motto “Chi va a votare avvelena anche te, digli di smettere” ha trovato un altro 10% di cittadini stanchi di sedersi al tavolo assieme ai bari. Questa inesorabile costante avanzata verso la contestazione globale del sistema di rappresentanza fasulla che ci opprime da quaranta anni (iniziò nel ’76 col 14% di astenuti dal voto) questa volta ha fatto presa in particolare nelle cosiddette Regioni rosse dopo aver trionfato nelle scorse elezioni nelle zone in cui l’elettorato è stato tradizionalmente ostile al centro-sinistra. Anche il cemento armato della gestione clientelare dei governi a guida Pci-Pds-Ds-Pd ha mostrato di non reggere alla infiltrazione dell’acqua cheta dei cittadini che, sempre più numerosi, ripudiano i vecchi idoli e fanno crollare gli altari. Il paese sente di non essere governato e si ribella astenendosi dal partecipare ai ludi elettorali in maniera sempre più massiccia e sprezzante. La disaffezione porta l’anarchia in ogni aspetto della vita associata. La mini-astuzia ministeriale di far votare i cittadini a cavallo della festa della Repubblica e i soldi spesi per la campagna pubblicitaria di partecipazione non hanno funzionato.
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Carpeoro: attenti alla magia, il potere la usa contro di noi
La “costruzione dell’effetto” è alla base della magia. Che cos’è la magia? Era la manipolazione antica. Era il modo di manipolare, magari dei sacerdoti egizi, che dovevano “costruire” i miracoli. La magia esiste, ma non la faccio io: la fa la mia “costruzione dell’effetto” sul soggetto passivo. E’ il soggetto passivo che attiva il mago: il mago è attivo se c’è un soggetto passivo. Chomsky lo spiega in cinque parolette. A seconda dell’ordine in cui le mettete, ottenete in effetto diverso. Lo vogliamo chiamare effetto di manipolazione? Effetto magico? Miracolo? Chiamiamolo come vogliamo. Le cinque parole sono: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Il risultato cambia, a seconda dell’ordine in cui queste parole sono disposte. E il risultato finale è la costruzione dell’effetto magico. Chi era il mago? “Magia” viene da un termine sanscrito, “Mg”, che significa “conoscere”: così, “magia” ha la stessa radice di “magister”. Il mago poi diventa il maestro, cioè lo scienziato, perché conosce: costruisce l’effetto perché conosce i termini della produzione dell’effetto, che è l’effetto magico. Ma la magia quando nasce? Nasce quando l’uomo ha bisogno del potere.La magia è potere. Perché i grandi Rosacroce e i grandi filosofi hanno studiato la magia ma non l’hanno praticata? Perché non erano interessati al potere, erano interessati all’essere. Quindi, l’effetto magico è una costruzione di potere: serve a far fare a qualcuno quello che voglio io, in base a un percorso che io ho disegnato. Il vero esoterismo, la vera esperienza spirituale, non è un’esperienza di attività, è un’esperienza di complementarietà. Si è complementari al corso delle cose, non le si modifica. Tommaso da Kempis, che era un grande Rosacroce e viene invece spacciato dalla Chiesa cattolica per un insegnante di catechismo nelle scuole, scrive che il vero cristiano insegna con l’esempio, non con la predica. E non è una modalità attiva: non interferisco con quello che fai tu, ti faccio solo vedere quello che faccio io. Perché uno dovrebbe studiare la magia, astenendosi però dal praticarla? La magia è intesa come storia dell’esoterismo, come formazione di un pensiero. Noi siamo abituati a studiare una certa storia, sui libri di scuola, e non ci insegnano che c’è anche una meta-storia, come c’è una fisica e una metafisica.C’è una storia fatta di avvenimenti, di date, e c’è una storia fatta di ragionamenti – di pensieri, di mutamenti all’interno del corpo sociale, del costume, della spiritualità delle persone – che porta a dei mutamenti storici. Certo, quella di Hitler è una storia di nazismo, fatta di date. Ma ci sarebbe mai stata, quella storia di nazismo, se non ci fosse stata la storia di un pensiero antecedente, magari dettato da uno scienziato che si chiamava Gobineau, che 60-70 anni prima del nazismo scrisse un libro che si chiama “L’evoluzione delle razze”? Era l’anticamera della discriminazione razziale. Quindi, in realtà, come c’è una storia, c’è anche una meta-storia: quella di chi si occupa di studiare il pensiero, che è l’unica cosa che ci sopravvive, se è valido. Quando Cartesio dice “cogito, ergo sum”, non dice “cogito, ergo sum aeternum”, non ne fa un ragionamento di immortalità, ma di “essere”: io sono, in quanto penso, e non ho bisogno di essere immortale. Perché tutti gli esoteristi che si sono dedicati alla magia – e l’hanno praticata – sono andati incontro a una negatività? Perché la pratica della magia è il perseguimento del potere.Io, con la magia, modifico la tua vita, il corso delle cose. Lo modifico. Se invece pratichi l’essere, tu “sei”. Se vogliono imitarti ti imitano, però non imponi dei modelli comportamentali. Uno dei clichè dell’ufologia è quello dei “vigilanti”, degli “osservatori”, personaggi di una cultura superiore che hanno però il divieto di interferire. Si tratta di un archetipo, piuttosto che di uno stereotipo, presente anche nei fumetti. Anche nella Bibbia troviamo dei personaggi che devono osservare ma non intervenire. Se sono veramente di origine divina, non intervengono mai. E ci sono esempi assolutamente simbolici di non-intervento. Le ultime parole di Cristo in croce: Dio, perché mi hai abbandonato? Sono parole da uomo, non da Dio: Cristo muore da uomo. E quelle parole certificano il non-intervento del Dio che fa morire suo figlio. Potrebbe intervenire e impedire questa cosa tremenda, ma non lo fa. Perché il non-intervento è il divino: se dobbiamo concepire una presenza del divino, dobbiamo concepirla in termini di non-intervento. Invece, tutta la nostra cultura religiosa magica ci ha insegnato a chiederlo, l’intervento. Madonna, fammi vincere al Superenalotto. Ci hanno insegnato a chiedere la grazia. Ma la grazia non è una cosa che ti viene data, è un tuo stato: tu sei nella grazia, se scegli l’essere. E non sei nella grazia – il contrario di grazia si chiama disgrazia – se sei nel potere.La grazia è una condizione dell’essere, non è una cosa che ti viene concessa perché la chiedi. Mi spiace deludere tutti quei napoletani che si rivolgono alla statua di San Gennaro, ma purtroppo è così. Noi abbiamo immaginato la religione in termini magici, ed è solo in termini magici che andiano a Lourdes, a Medjugorje, aspettandoci di vedere le Madonne piangere, perché quello è un effetto magico. Direte: ma allora, i miracoli? I miracoli sono nelle pieghe di questa vita, sono nascosti; quando sono evidenti non sono miracoli. Il miracolo è il nascosto, la magia è il manifesto. Il nascosto è l’essere, il manifesto è il potere. Il potere non è mai occulto. A nascondersi sono i suoi agenti, che si nascondono per non essere individuati. Ma il potere, in quanto tale, è manifesto per sua autodefinizione. Parlare di poteri occulti è un ossimoro: il solo fatto che se ne parli dimostra che non sono occulti; se fossero occulti non se ne parlerebbe.Complottismo e massoneria? Ok. Come si chiama la loggia massonica più vituperata? P2. E perché si chiama P2? E’ la secondogenita, evidentemente. Ma della prima, chi parla? Nessuno. E come mai? Elementare: se c’era una P2, ci sarà stata anche una P1. Eppure i giornali sono arrivati fino alla P5, ma della P1 non parleranno mai. Perché? Nella P2 – o meglio: in quei 500 nomi indicati da Gelli – c’erano tutti “vice”, a livello militare e ministeriale. Vicepresidenti, sottosegretari. Quindi, se nella P2 c’erano i vice, nella P1 cosa c’era? Evidente: i numeri uno. E’ così difficile scriverlo? E allora perché non lo scrive nessuno? Dunque, la manipolazione che cos’è, veramente? E’ la costruzione di un effetto magico. Dato che vi devo sopraffare, devo quindi fare l’astrazione (quindi: togliervi dalla realtà), e devo fare l’estrazione, devo fare l’ostruzione, poi devo fare l’istruzione e infine la distruzione. Sono cinque parolette simpatiche da ricordare. A seconda di come le si mette in ordine, è possibile ricostruire tutti gli eventi del mondo degli ultimi cento anni.Tutte le operazioni che sono state fatte sono fondate su queste frasi. Stiamo parlando di magia, di cultura magica. E i grandi maghi non hanno mai operato la magia. Il più grande mago rinascimentale – per definizione non mia, ma di una grande studiosa di Oxford, Frances Yates – era Giordano Bruno. Era un mago: viene chiamato “magus”, ma non operava magie. Il mago dell’epoca si chiamava Geordie, prendeva un insetto di metallo a forma di scarabeo e lo faceva volare. L’insetto volava, c’era la magia. Poi bisogna capire perché volava – la costruzione dell’effetto magico. Il primo atto di magia che ricordiamo è quando Mosè separa le acque. E’ un atto magico, certo. Ma bisogna capire quanto questo atto sia costruito per una situazione gerarchica. E’ il potere, che irrompe nella storia solo quando, nella società nomade, compare la figura dell’uomo modificatore. Chi è il modificatore per eccellenza? Il coltivatore: che ha bisogno di razionalizzare, di stare sempre nello stesso posto, di difendere il territorio o di conquistarlo, quindi nasce la guerra. E ha bisogno di stabilire una gerarchia sociale, col controllo di chi lavora per lui. Quindi nasce la religione.Potere, guerra, religione: tutte componenti magiche, perché devono modificare, in base a delle conoscenze, il corso naturale degli eventi. Ecco perché, mentre l’essere è complementarietà, il potere è magia. La magia è finalizzata al potere. I grandi maghi che hanno praticato la magia non hanno fatto un bella fine. Il satanismo promette un potere straordinario, successo, ricchezza. Perché Faust si vende l’anima? Per il potere. Poi si accorge che non se ne fa niente, di quella roba lì. Prendiamo Oscar Wilde, che era un Rosacroce prima che un massone. Wilde costruisce un’intera sua opera, sul simbolismo del potere, “Il ritratto di Dorian Gray”. Quel ritratto è costruito su uno specchio magico: l’immagine allo specchio invecchia e Dorian Gray rimane giovane. E’ il cosiddetto capovolgimento iniziatico. E’ un effetto magico, no? Oscar Wilde dice: la magia ti dà il potere, ma il frutto di questo potere è che Dorian Gray diventa un infelice maligno, che cerca di creare il male.Noi però possiamo “essere” il male, se scegliamo il potere, ma non possiamo fare in modo che ogni nostra azione sia solo male. Quindi accade che quella che rimane giovane è la parte peggiore. Così alla fine Dorian Gray rompe lo specchio, invecchia improvvisamente e muore felice, perché distrugge il meccanismo di potere che lo aveva reso prigioniero di uno schema. Che lo schema si chiami eterna bellezza, eterna giovinezza o eterna ricchezza, non importa, non cambiano i termini del discorso, perché quello è il potere: il potere di essere eternamente belli, giovani, ricchi, capaci di influire sulla vita degli altri. E’ una trappola, un “maya” che ti rende infelice. E siccome ogni essere umano ha come prima aspirazione la felicità, per essere felici bisogna ritrovare la propria complementarietà e, appunto, “essere”.Io l’ho studiata, la magia, ma come storia del pensiero. E badate, a volte la magia produce anche degli effetti. Ricordo le vecchie del mio paese, che facevano riti per allontanare le malattie. Ma questi effetti sono la costruzione di volontà di potere: non sono mai quegli effetti che noi pensiamo, perché la costruzione dell’effetto magico è sempre un artificio. Qual è il problema? E’ un artificio di cui a volte conosciamo la costruzione, perché siamo in grado di ricostruire tutte le condizioni che l’hanno creato. La natura è dominata dalle sue leggi, ma noi non le conosciamo tutte. A volte si ottengono degli effetti dovuti a leggi che noi non conosciamo, ma che in quel momentio intervengono perché – senza volerlo – ne abbiamo creato le condizioni. Poi magari rifacciamo l’esperiemento, e non riesce. E non ci rendiamo conto che magari non siamo nello stesso posto alla stessa ora, che il magnetismo non è uguale, che magari abbiamo mangiato troppo maiale nei giorni precedenti e quindi il nostro modo di sprigionare energia cambia. Il gesto di riconoscimento dei Rosacroce era un indice rivolto verso l’alto e un indice rivolto verso il basso. E’ lo stesso del Padre Nostro, “come in cielo, così in terra”.Negli ultimi secoli, nella storia del pensiero, c’è stata una deriva magica. La magia è sempre una deriva: essendo una scelta di potere, che consiste nel modificare gli altri, la natura, il prossimo, gli ambienti, non può che portare lì. E’ a monte, il problema. Quando tu scegli il potere, e magari non hai ancora fatto niente di male, devi star sicuro che lo farai, perché la conseguenza del potere è quella. Si dice di un Papa: ha fatto questo e quello. Be’, ci sta. Perché dal momento in cui, ad esempio, diventi Papa nel 1963, e rimani Papa fino all’anno 1978, come fai a non parlare con Gelli? Scusate, ci parlavano presidenti della Repubblica, presidenti degli Stati Uniti, pure i cardinali – e tu che fai, non ci parli? Ma questo è legato al fatto che diventi Papa, non al fatto che ti chiami Mario Rossi. Quando i politici fanno determinate cose, sono conseguenti alla loro scelta di vita, che è quella che ti condiziona e ti cambia. Nel momento in cui capisci come la devi gestire, la tua vita, capisci che ti devi sottrarre al gioco del potere.L’homo faber è colui che ha creato l’alchimia. La magia ne è l’aspetto deteriore. La trasmutazione dei metalli degli alchimisti veri non riguarda il potere, ma l’essere, tant’è vero che quelli che volevano ottenere l’oro venivano chiamati, volgarmente, “soffiatori”, perché soffiavano nel mantice, mentre l’alchimista spirituale era quello che doveva trasformare il proprio “piombo” in “oro”. L’alchimista vero non insegna nulla agli altri, e scrive testi così ermetici di cui, nella maggior parte dei casi, nessuno ci capisce niente. Perché scrivono, allora? Perché, nel momento in cui capisci qual è la loro chiave, loro te l’hanno trasmessa. Ci sono due modi di trasmettere la conoscenza: uno si chiama iniziazione, l’altro si chiama tradizione. Quando io ti inizio, ti spiego: ti do la scatola e la chiave. Quando invece trasmetto soltanto la scatola, ma non la chiave, ti do lo stesso contenuto, ma tu non sai cosa c’è dentro, quando a tua volta lo trasmetti. E’ come quando si diceva la messa in latino: mia nonna quelle parole le sapeva perfettamente, ma non sapeva cosa significassero.I testi alchemici conservano quella conoscenza – per chi si sa procurare le chiavi. Credo che la ricerca della chiave faccia parte di un percorso formativo che è fondamentale. C’è da fare un percorso, che fa parte della formazione iniziatica. Compiere questo percorso è la migliore garanzia per difendersi dalla tentazione della magia. Perché il potere è tentatore. Ti tenta, approfittando delle tue debolezze contestualizzate: approfittando di quando sei povero e offrendoti del denaro, di quando sei solo offrendoti compagnia, di quando hai fame offrendoti del cibo. Perché l’altra componente che il potere ha costruito, rispetto a questa società – e questo non emerge sufficientemente dagli studi sulla manipolazione fatti finora – è l’incapacità dell’accettazione: diventi incapace di accettare quello che dovresti. Mago è chi usa la conoscenza per modificare la realtà, ma noi non dobbiamo modificare la realtà: dobbiamo modificare gli occhi con cui la guardiamo. Se avessimo la percezione della realtà totale, non avremmo bisogno di nulla. Ma al potere fa comodo quel tipo di cultura, quella che aiuta la sottomissione degli altri, la soggezione, la manipolazione. Non gli fa comodo la cultura della libertà.La libertà è: non aver bisogno. Se uno ha bisogno, non è libero. Se ho bisogno di conquistare le donne, gli uomini, le macchine, il denaro, il potere, il trono, l’ermellino, lo scettro, il maglietto del massone – se ne ho bisogno, non sarò mai un uomo libero. Per eliminare il bisogno occorre avere la consapevolezza dell’essere – la consapevolezza della nostra divinità, che è nel pensiero. Tutto quello in cui abbiamo creduto ci conduce a perseguire la magia, quindi il potere, invece dell’essere. La nostra storia politica, sociale, umana, è stata danneggiata da interpretazioni magiche, sempre. Tutta la cultura cristiana del miracolo, della retribuzione paradisiaca, ha effetti deleteri perché funzionali al potere: trasformare la religione cristiana in quella di Costantino. Ma Costantino non era cristiano, è stato battezzato solo in punto di morte. Non bisogna confondere la religione con la spiritualità. Io la spiritualità la chiamo religione individuale. Quando la religione è individuale non fa danni; quando diventa collettiva bisognare stare attenti, perché lì succedono i guai. La religione collettiva serve alla società, non all’uomo. Alla nostra società sono serviti i benedettini che hanno copiato (a modo loro) le cose, hanno conservato documenti e opere d’arte. Agli individui invece sarebbe servito, per esempio, non cominciare a combattere i Mori, che ai tempi erano molto più civili di noi: nella Terza Crociata, il “feroce Saladino” firma col suo nome, mentre Riccardo Cuor di Leone ci mette la croce, perché non sa scrivere.Quello tra magia, religione e potere è un rapporto drammatico, uno schema che bisogna rompere. Non bisogna praticare la magia, non bisogna praticare la religione come prassi e come struttura. E non bisogna assoggettarsi al potere – né come soggetti passivi, né tantomeno come soggetti attivi. Non vale la regola “se comando io sono il padrone”, perché se comando io sono prigioniero di quelli che comando, senza saperlo. Ovviamente non mi fanno compassione, i potentati del mondo, ma so che sono prigionieri come posso esserlo io. Sono prigionieri di un sistema di privilegi, non importa se goduti o subiti – sempre privilegi sono. Il grande sogno dei Rosacroce del ‘600 si manifesta quando Tommaso Moro scrive “Utopia”, quando Campanella scrive “La città di Dio”, quando Bacone scrive “La nuova Atlantide”, quando Johann Valentin Andreae (che è il rifondatore dei Rosacroce con questo nome) scrive “Cristianopolis”. Di cosa parlano? Di una società che non ha le regole del potere. Ognuno è utile, perché tutti condividono. Società che sarà l’anticamera di cosa? I Rosacroce sono i padri del socialismo, l’utopia di una società giusta.Poi il potere si impadronirà del socialismo, cioè dell’abolizione della proprietà privata. E nascerà anche il comunismo: una diagnosi giusta, che però mira a costruire un potere diverso, collettivo e non più individuale, ma sempre potere. Tutti questi passaggi ruotano attorno alla magia. Quella del mago è la figura più antica che possiate immaginare. Possono chiamarlo sciamano, stregone, ma sempre mago rimane. Poi il mago antico si scinde: diventa sacerdote, diventa medico e guaritore, diventa capo del villaggio. Ma in origine è il primo riferimento vero dei primi coltivatori che stanno creando la gerarchia, stanno creando la guerra (perché tutte le guerre nasceranno per il territorio), stanno creando il potere, stanno creando la religione. E nasce tutto dalla magia: nasce dal configurare la conoscenza come potere, e non più come essere. E questo avviene per necessità: perché serve, non perché è giusto; perché è utile a quell’evoluzione sociale, in quel momento. La magia è un archetipo fortissimo, tutti quanti ne siamo affascinati, soggiogati, in qualche modo coinvolti, pur rifiutandola. Dobbiamo averne consapevolezza: gli effetti magici sono storia, sono pensiero, ma non sono fatti – e non sono neanche vita.Dobbiamo conoscerla, la magia, per imparare a evitarla. Il cerchio magico tracciato dal mago non è mai reale, ma è efficace: la costruzione dell’effetto magico funziona sulle regole che detta il mago, o che il mago conosce ma non svela. Chomsky ha codificato 10 forme di manipolazione collettiva, ma non si è mai occupato di manipolazione individuale. E sappiate che la manipolazione individuale, nonostante quello che pensano i complottisti, è infinitamente più pericolosa, perché è infinitamente meno riconoscibile. C’è un Chomsky che spiega come funziona la manipolazione collettiva, mentre la manipolazione individuale non l’ha mai codificata nessuno. Sapete quante persone sono state danneggiate seriamente da gente che le ha manipolate? Massoni, esoteristi, maghi, Golden Dawn, stregoni da strapazzo, gente che voleva fare le orge. Sapete quanta gente finisce a farsi di pasticche, o in manicomio, o a pensare di essere posseduta dal demonio? Avete idea dei danni della manipolazione individuale? Contate le casistiche, andate nei reparti psicologici degli ospedali e scoprite quante persone sono finite in terapia.(Gianfranco Carpeoro, estratti dell’intervento alla conferenza su magia e manipolazione il 23-24 agosto 2014 a Subiaco. Massone, ex avvocato, giornalista e saggista, studioso di esoterismo e già “gran maestro” del Rito Scozzese, Carpeoro è uno dei massimi esperti di simbologia ermetica).La “costruzione dell’effetto” è alla base della magia. Che cos’è la magia? Era la manipolazione antica. Era il modo di manipolare, magari dei sacerdoti egizi, che dovevano “costruire” i miracoli. La magia esiste, ma non la faccio io: la fa la mia “costruzione dell’effetto” sul soggetto passivo. E’ il soggetto passivo che attiva il mago: il mago è attivo se c’è un soggetto passivo. Chomsky lo spiega in cinque parolette. A seconda dell’ordine in cui le mettete, ottenete un effetto diverso. Lo vogliamo chiamare effetto di manipolazione? Effetto magico? Miracolo? Chiamiamolo come vogliamo. Le cinque parole sono: astrazione, estrazione, ostruzione, istruzione, distruzione. Il risultato cambia, a seconda dell’ordine in cui queste parole sono disposte. E il risultato finale è la costruzione dell’effetto magico. Chi era il mago? “Magia” viene da un termine sanscrito, “Mg”, che significa “conoscere”: così, “magia” ha la stessa radice di “magister”. Il mago poi diventa il maestro, cioè lo scienziato, perché conosce: costruisce l’effetto perché conosce i termini della produzione dell’effetto, che è l’effetto magico. Ma la magia quando nasce? Nasce quando l’uomo ha bisogno del potere.
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Abolire l’Ue, fabbrica di odio, prima che distrugga l’Europa
A chi cedono sovranità gli Stati nazionali? E poi: sono davvero gli Stati nazionali a cedere sovranità? «Come ha detto recentemente Prodi in un articolo pubblicato da “Il Messaggero”, l’Ue è una commissione intergovernativa la cui unica funzione è l’imposizione di un modello ordo-liberista in cui la potenza politica dello Stato viene messa al servizio di una (meticolosissima) regolazione, finalizzata alla riduzione delle risorse destinate alla società, e all’asservimento e precarizzazione integrale del lavoro», sostiene Franco “Bifo” Berardi. «Il ricatto ha costretto il governo greco a recedere parzialmente, ma il pericolo è che il nazionalismo diventi la sola via di uscita per sfuggire a una Unione che appare sempre più una prigione per il semplice fatto che essa è davvero una prigione». L’espressione “dall’euro non si esce”, che un tempo sembrava una rassicurazione nei confronti di chi aveva un debito consistente, oggi suona al contrario: «Potete anche morire di infarto, non smetteremo di affondarvi le unghie nella carne». Sicché, «parlare di cessione di sovranità a questo punto diviene una truffa».Non sono gli Stati nazionali che cedono sovranità all’Unione, scrive Berardi su “Sinistra in Rete”. «Il fatto che la gestione della guerra Euro-Russa venga assunta direttamente dal presidente francese e dalla cancelliera tedesca significa che di cessione di sovranità non se ne parla neppure». Certo, di tanto in tanto «qualche baggiano racconta che l’Europa deve parlare con una sola voce». Ma lo sappiamo, sono solo «sciocchezze», perché «gli Stati nazionali mantengono intera la loro funzione di governo della popolazione e di decisione sulla guerra». L’Unione Europea, continua Berardi, «stabilisce una cosa soltanto: in che misura gli Stati nazionali rispettano la sola regola che conta: riduzione delle risorse e asservimento del lavoro». Di conseguenza, «non ha più alcun senso attendersi una riforma o una democratizzazione dell’Ue, o anche solo un’attenuazione del rigore finanziario». Non restaurare la sovranità nazionale ma “correggere” l’Unione? Impossibile: «Dato che l’Ue altro non è che una macchina di asservimento ordo-liberista, dietro ogni cessione di sovranità vi è solo cessione di risorse sociali».Berardi teme che un ritorno alla sovranità nazionale monetaria comporti il rischio di «un’involuzione autoritaria», fino alla «guerra civile in molte zone d’Europa». Eppure, ammette, «è quello che succederà, perché è la conseguenza dello strangolamento finanziario progressivo, e ancor di più dell’odio e della sfiducia crescente che i popoli d’Europa provano l’uno per l’altro», dato «il vincolo che li strangola». A questo punto, ragiona Berardi, «o si lascia l’iniziativa di avviare la chiusura dell’esperienza europea alle destre nazionaliste, e il collasso porterà alla guerra civile europea, o un movimento europeo prende l’iniziativa di dichiarare conclusa l’esperienza dell’Unione e inizia il reset dell’unità europea partendo da alcune grandi questioni». Ovvero: una conferenza internazionale sul debito e un’altra sulla migrazione e sull’allargamento dei confini. «Per questo occorrerebbe un’intelligenza e un coraggio politico che non si trova da nessuna parte, a quanto pare. Perciò rassegnamoci alla prima alternativa: la miseria, la violenza, la guerra, il nazismo. Oppure no?».Recentemente, Tsipras ha detto: «Siamo stati lasciati soli». E’ vero, conferma Berardi: «La società europea non ha espresso alcuna solidarietà, se si eccettua l’enorme manifestazione di Madrid». Quanto all’Italia, «la società e la cultura italiana semplicemente non esistono più». La società e la cultura francese? «Sono entrate in un tunnel identitario, da cui il Fronte Nazionale può emergere come forza di governo». In Germania, poi, «nessuno pare rendersi conto dell’odio anti-tedesco che sta montando in ogni città d’Europa: nonostante alcuni flebili distinguo, la società e la cultura tedesca appaiono compatte come accadde nei momenti più tragici». Attenzione: «Il consenso dei tedeschi fa paura, e non si tratta di esprimere “internationale solidaritat”. Si tratta di attaccare l’ordine dello sfruttamento cui i lavoratori tedeschi sono sottoposti». Che fare? Se ci arrenderemo di fronte all’encefalogramma piatto della società europea, dice “Bifo”, sarebbe il collasso sistemico inevitabile a costringerci al brusco risveglio. «Come ha detto Tsipras da qualche parte, non possiamo certo pretendere che i greci, dopo aver fatto da cavia per il “risanamento finanziario”, facciano da cavia per il ritorno alla moneta nazionale. Ma il collasso sistemico arriverà. Più tardi arriva peggio è, per due ragioni facili da capire: più a lungo dura l’Unione Europea, più povera diviene la società. Più a lungo dura l’Unione Europea, più forte e rabbiosa diventa la destra sovranista e nazionalista».A chi cedono sovranità gli Stati nazionali? E poi: sono davvero gli Stati nazionali a cedere sovranità? «Come ha detto recentemente Prodi in un articolo pubblicato da “Il Messaggero”, l’Ue è una commissione intergovernativa la cui unica funzione è l’imposizione di un modello ordo-liberista in cui la potenza politica dello Stato viene messa al servizio di una (meticolosissima) regolazione, finalizzata alla riduzione delle risorse destinate alla società, e all’asservimento e precarizzazione integrale del lavoro», sostiene Franco “Bifo” Berardi. «Il ricatto ha costretto il governo greco a recedere parzialmente, ma il pericolo è che il nazionalismo diventi la sola via di uscita per sfuggire a una Unione che appare sempre più una prigione per il semplice fatto che essa è davvero una prigione». L’espressione “dall’euro non si esce”, che un tempo sembrava una rassicurazione nei confronti di chi aveva un debito consistente, oggi suona al contrario: «Potete anche morire di infarto, non smetteremo di affondarvi le unghie nella carne». Sicché, «parlare di cessione di sovranità a questo punto diviene una truffa».
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I cent’anni di Ingrao e l’estinzione della sinistra italiana
Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.Pietro Ingrao, uno strano Charlie Brown che ha fatto scuola: il suo stile «attraverso Bertinotti giunge sino a noi, essendo palese l’ascendenza ingraiana anche di Landini». Ingrao, ricorda Giannuli, appartiene a quella seconda generazione di dirigenti comunisti che ebbe la sua prima formazione nell’Italia fascista e scoprì solo in un secondo momento il comunismo, attraverso il tunnel doloroso della guerra, della Resistenza, per incontrarsi con Togliatti prima ancora che con Gramsci. Si enfatizzò l’antifascismo «come negazione assoluta e incontaminata del fascismo», eppure «il fascismo seminò concetti che poi sono restati, finendo impastati con la successiva cultura politica dell’Italia repubblicana». Usi obbedir tacendo: la cultura della disciplina. Ingrao era stato influenzato dalla figura di Giuseppe Bottai, «il maggior intellettuale del regime e, insieme, il gerarca più attivo nel promuovere la formazione delle giovani generazioni». Dalle sue riviste, continua Giannuli, presero le mosse alcuni dei nomi migliori dell’intellettualità post-fascista e antifascista: Salvatore Quasimodo e Nicola Abbagnano, Enzo Paci, Mario Alicata, Vitaliano Brancati, Cesare Pavese, Vasco Pratolini. E poi Vittorio Sereni, Giuseppe Ungaretti, Enzo Biagi, Renato Guttuso, Sandro Penna, Eugenio Montale. «Diversi di loro, come Giame Pintor, li ritroveremo fra i primi a combattere con la Resistenza».Ad avvicinare Bottai e Ingrao, «due figure inconsuete del Novecento italiano», secondo Giannuli «non fu solo la propensione all’eresia e la profonda compenetrazione fra politica e cultura, ma anche il gusto del dubbio sistematico, la propensione all’astrattezza», nonché «una certa sofisticatezza intellettuale e l’eterna insoddisfazione per la propria ricerca». In controluce, anche «il forte narcisismo, l’irresolutezza, la mancanza di tempismo politico, lo scarso coraggio». Bottai divorziò da Mussolini solo all’ultimo, e «non senza un profondissimo tormento interiore», mentre Ingrao «ha avuto sempre fede nel Partito, contro il quale non cercò mai di aver ragione» Tant’è vero che «in nome di questa fede approvò – colpa non da poco, anche se condivisa con molti – il brutale intervento sovietico in Ungheria». Così, Ingrao «piegò il capo dopo la sconfitta all’XI congresso». In più «restò fedele al partito anche quando (contro le sue convinzioni) esso cessò di essere comunista, per distaccarsene anni dopo e da solo. Era fedeltà all’ideale o feticismo organizzativo? Lasciamo decidere a chi ci legge».Questo attaccamento insieme fideistico e tormentato, continua Giannuli, lo ha portato ad essere “l’uomo delle occasioni mancate”: nel 1966 tentò di dare battaglia all’XI congresso, ma senza avere il coraggio di presentare una sua mozione di minoranza e finendo sconfitto senza neppure aver combattuto davvero la sua battaglia. Tre anni dopo, assistette inerte all’espulsione del gruppo del “Manifesto” (tutti suoi storici seguaci) senza avere il coraggio di votare contro (come fecero Cesare Luporini e Lucio Lombardo Radice) e neppure di astenersi, ma «tristemente votò a favore». Nel 1973 incassò la proposta di compromesso storico di Berlinguer, accennando solo una “lettura di sinistra” che non spostava di un millimetro i termini politici della questione (fu più esplicito nella critica il vecchio Longo). Nel 1976, infine, «incassò con altrettanta mancanza di coraggio anche la politica di Unità Nazionale, accontentandosi di andar a fare il presidente della Camera». Altra ombra sul suo passato: «Non si dissociò neppure per un attimo dalla politica della fermezza sul caso Moro», evitando di adoperarsi per una trattativa che avrebbe potuto salvare il leader democristiano.Ingrao, prosegue Giannuli, ebbe un suo momento di fulgore dall’80 all’84, quando Berlinguer ruppe con Amendola e cercò il suo appoggio, per reggere la svolta del dopo-terremoto e della “questione morale”, ma con l’unico risultato di inasprire l’isolamento identitario e settario del Pci, che ne avviava la decadenza. «L’ultima occasione di incidere nella storia di questo paese la ebbe con la trasformazione del Pci in Pds». Dopo essersi messo alla testa del cartello di opposizione che sfiorò il 30% al congresso di scioglimento, «come sempre gli mancò il coraggio del passo successivo: guidare la scissione di Rifondazione». Ingrao infatti si tirò indietro: «Preferì restare inutilmente nel Pds per uscirne, da solo e fra le lacrime, pochi anni dopo». Spiegazione: «In queste ripetute battaglie perse senza esser date, ha inciso certamente la sua devozione al partito, assunto non come mezzo ma come fine in sé». Era spesso accusato di astrattezza, dice Giannuli, e i detrattori avevano ragione: Amendola, il leader della destra riformista del Pci, forniva a «analisi datatissime, come quella di Pietro Grifone sulla contrapposizione fra rendita e profitto in Italia», ma almeno era molto concreto nella proposta, sempre incerta fra alleanze sociali destinate a non tradursi mai in alleanze politiche.«In politica estera, dopo il 1970, Ingrao non ha mai proposto l’uscita dalla Nato», aggiunge Giannuli. Sul piano istituzionale invece ha puntato sulle autonomie locali, senza però prevedere la proliferazione incontrollata di poltrone. «Altra proposta caratterizzante della sua azione sul piano istituzionale – continua Giannuli – fu il tentativo di ridare centralità al Parlamento, attraverso un regime assembleare che scavalcasse la tradizionale divisione fra maggioranza ed opposizione. Il frutto fu la riforma dei regolamenti parlamentari del 1971 che proprio Ingrao, in veste di capogruppo alla Camera, trattò con il capogruppo della Dc, Andreotti. Ma il risultato finale non fu quello di un improbabile regime assembleare, quanto la premessa del consociativismo Dc-Pci». Libertà e autonomia ai parlamentari? «In presenza di un partito retto con la ferrea regola del centralismo democratico, come era il Pci, era una pretesa piuttosto irragionevole». Indeterminata anche la sua critica al “socialismo reale” dei regimi dell’est. Poi il Muro è crollato, e il vecchio Ingrao è scomparso dai radar. Proprio come la sinistra italiana, che dopo Tangentopoli ha consegnato il paese al dominio dell’élite neoliberista, quella della privatizzazione universale che impone i suoi diktat tramite l’Ue a guida tedesca e il braccio secolare dell’euro.Cent’anni di solitudine, anche se carismatica, collezionando sconfitte incassate per mancanza di coraggio. Questo l’impietoso ritratto che, da storico, Aldo Giannuli dipinge dell’anziano Pietro Ingrao, gran veterano della sinistra comunista. Al centesimo compleanno, il 29 marzo, attorno al vecchio leone del granitico Pci di Togliatti e Berlinguer c’è il nulla cosmico: disoccupazione record e Jobs Act, fine dei diritti dei lavoratori, precariato universale, povertà e paura, Costituzione rottamata, legge elettorale di regime. La fine della democrazia moderna, archiviata dai diktat dell’élite. Rileggendo Ingrao con gli occhiali di Giannuli, si svela il mistero della fine della sinistra italiana: la sinistra che non ha “visto” la crisi e non ha più saputo “leggere” il mondo, per poi arrendersi al nuovo potere cosmopolita degli oligarchi globalizzati e, all’occorrenza, accomodarsi a tavola per votare leggi-capestro e abbattere gli ultimi diritti, in cambio di poltrone, confidando ancora e sempre nell’antica fiducia di un elettorato “di sinistra”, pronto a qualunque autolesionismo pur di avere l’illusione di opporsi al cattivo di turno, prima Craxi e poi Berlusconi.
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Privatizzazioni, tariffe alle stelle. Indovina chi ci guadagna
Mentre il mantra delle privatizzazioni continua ad essere il faro delle elites politico-finanziarie che governano il paese (Legge di stabilità, Sblocca Italia, spinta sui trattati Ttip e Tisa), restano relegati in un angolo gli studi che, a 20 anni di distanza dall’avvio delle liberalizzazioni, ne dimostrano il totale flop, non solo in riferimento agli impatti sociali – la progressiva perdita di ogni funzione pubblica e sociale – bensì anche nel merito delle promesse fatte, ovvero la drastica riduzione delle tariffe come risultato del libero agire della concorrenza. Lo studio recentemente pubblicato dalla Cgia di Mestre è da questo punto di vista inequivocabile: solo i prezzi dei medicinali e delle tariffe dei servizi telefonici hanno subito una diminuzione. E si tratta di settori per i quali la diminuzione dei costi si spiega più con la continua evoluzione, per l’alto tasso d’innovazione tecnologica (telefonia) e di ricerca scientifica (farmacia) che non con motivazioni intrinsecamente legate alla “bontà” della concorrenza.
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Licenziare il precariato? Lavoro a minuti e nero di gruppo
La nuova disciplina del lavoro (job) varata pochi giorni fa dal governo (government) e ottusamente osteggiata dai sindacati (trade unions), rappresenta per i lavoratori italiani una grande occasione di riscatto, crescita e progresso (anal intruder). Ce lo confermano, tra l’altro, i festeggiamenti di numerosi lavoratori precari sottopagati, italiani fin qui ignobilmente sfruttati che finalmente vedono una luce in fondo al tunnel, gente come Sergio Marchionne, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Giorgio Squinzi, titolare di un’associazione che li riunisce da anni. Naturalmente ci vorrà qualche tempo perché la grande riforma si affermi nel paese, un periodo di assestamento necessario a migliaia di imprenditori per accorgersi che un lavoratore venticinquenne affamato e disposto a tutto è preferibile a un lavoratore cinquantenne cresciuto dando un certo valore alla parola “diritti” (rights).Molto bene anche la legalizzazione della pratica del demansionamento (mobbing) per cui un impiegato potrà essere spostato al reparto pulizie cessi senza possibilità di ricorso, e se deciderà di licenziarsi per questo non potrà contare sul reintegro ma soltanto su un risarcimento economico (two onions and one tomato). Ma la più entusiasmante novità riguarda la scomparsa dei lavoratori precari, che da oggi non esistono più e sono un ricordo del passato, anche se alcune categorie di privilegiati ancora resistono ed altre se ne creeranno. Eccole:I Lavoratori a Progetto del Settimo Giorno – Chiamati il giovedì per un progetto che terminerà il venerdì mattina, potranno puntare tutto su un malore del capo del personale che li proroghi fino a domenica sera (il famoso settimo giorno). Compiuti i settant’anni, avranno una pensione commisurata al loro impegno, pari al decimo della somma algebrica tra giorni lavorati e settimane passate a curarsi l’ulcera, per un somma non eccedente i sei euro al mese.I Lavoratori Intermittenti – Ispirati alle allegre lucine dell’albero di Natale, potranno mangiare solo in alcuni giorni e digiunare invece a intervalli regolari. La riforma prevede per loro un’indennità di disoccupazione, quantificata in sette undicesimi della quarta parte del salario dell’ultimo giorno lavorato, solo se precedente al giugno del 1924. In più, alcuni benefits, come la pensione sociale – dopo i settant’anni – di euro 4,75. Lordi.I Lavoratori Licenziati Collettivi – Nonostante i volenterosi sforzi del governo, non si è trovata parola più gentile di “licenziati” (nemmeno in inglese, straordinario!) per definire questi (ex) lavoratori. Il fatto di essere licenziati in compagnia (collettivamente) addolcisce un po’ il loro triste destino: non saranno soli, insomma, ma in compagnia dei loro (ex) colleghi. Questo potrà garantire qualche forma di socialità, come per esempio il digiuno collettivo, il lavoro nero collettivo, lo sfratto collettivo (per quelli in affitto).I Lavoratori a Partita Iva – Sicuro rifugio dalla crisi, molti lavoratori ex-precari cederanno alla tentazione di diventare imprenditori, aprendo una Partita Iva e avviando così una revisione della loro collocazione sociale che avrà come primo passo l’aperto disprezzo per i lavoratori dipendenti, considerati privilegiati con troppi diritti.Come si vede, ogni sostanziale riforma richiede tempo. Ma tutti questi piccoli problemi aperti non possono fare ombra alla grande novità, quella accolta con fragorosi applausi di approvazione delle parti più deboli della società, come Giorgio Squinzi e Sergio Marchionne.(Alessandro Robecchi, “Lavoro a minuti e nero di gruppo, così si licenzia il precariato”, da “Micromega” del 25 febbraio 2015).La nuova disciplina del lavoro (job) varata pochi giorni fa dal governo (government) e ottusamente osteggiata dai sindacati (trade unions), rappresenta per i lavoratori italiani una grande occasione di riscatto, crescita e progresso (anal intruder). Ce lo confermano, tra l’altro, i festeggiamenti di numerosi lavoratori precari sottopagati, italiani fin qui ignobilmente sfruttati che finalmente vedono una luce in fondo al tunnel, gente come Sergio Marchionne, Angelino Alfano, Maurizio Lupi e Giorgio Squinzi, titolare di un’associazione che li riunisce da anni. Naturalmente ci vorrà qualche tempo perché la grande riforma si affermi nel paese, un periodo di assestamento necessario a migliaia di imprenditori per accorgersi che un lavoratore venticinquenne affamato e disposto a tutto è preferibile a un lavoratore cinquantenne cresciuto dando un certo valore alla parola “diritti” (rights).
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Il 2015? Peggiore del 2014 e purtroppo migliore del 2016
Una previsione facile facile: il 2015 sarà sicuramente peggiore del 2014. In compenso sarà migliore del 2016. Abbiamo finito l’anno sotto il segno del Patto di Stabilità. Che è quello che precede la stabilità definitiva, il rigor mortis, l’immobilità che accompagna la dipartita. Il paese è allo sfacelo: industriale, tecnologico, organizzativo, morale. Il Jobs Act è espressione misteriosa nei suoi dettagli esecutivi, ma chiarissima nel suo significato finale, nel “vettore di uscita”: licenziamenti sempre più facili, introduzione per legge del diritto dei padroni di licenziare i dipendenti. E, cosa ancora più strategicamente importante: eliminazione di fatto della contrattazione collettiva. Così ogni lavoratore è solo contro chi gli dovrebbe dare lavoro. Cioè impossibilitato a difendersi. In questo modo un’altra fetta importante del reddito nazionale sarà trasferita dai più poveri ai più ricchi. Ovvio che “crescere”, in questa prospettiva, sarà impossibile, poiché la massa di denaro che viene sottratta ai più poveri equivarrà a ridurre la massa di denaro destinata ai consumi (essendo evidente che i più ricchi non potranno, neanche se volessero, spendere il troppo che hanno a disposizione). Che equivale a tagliare il ramo su cui si è seduti.Ma aspettarsi da questi signori una visione strategica è come sperare nella Befana. Tutti potrebbero capirlo, ma il fatto è che la gente comune non ha letto Aristotele, e quindi non sa che è impossibile che chi è troppo ricco «segua i dettami della ragione». Chi è ricco vuole sempre essere «più ricco». Solo i poveri pensano che si accontenterebbero se fossero ricchi: appunto perché non sono ricchi! I dati lo dimostrano. Nell’ultimo decennio, il 10% del reddito nazionale è stato prelevato dalle tasche dei più poveri per andare ai più ricchi. E non basta, perché ne vogliono ancora di più. Una specie di bulimia invincibile. Renzi è il loro uomo. L’hanno portato al potere con il consenso del 40% degli italiani. Non è vero per niente, ma questo lo pensano tutti. In primo luogo i giornalisti e i commentatori. In realtà Renzi l’ha scelto meno del 20% degl’italiani. Ma, in virtù della legge elettorale, il suo potere è praticamente assoluto. Ecco perché il 2015 sarà peggiore del 2014: perché gl’italiani non hanno letto Aristotele (“La politica”), laddove dice che «le Costituzioni rette sono quelle che hanno di mira il bene comune».A parte l’espressione comica dell’“avere di mira”, che fa venire in mente un cecchino che sta sparando sul “bene comune”, è chiaro cosa Aristotele intendeva dire: tenetevi una Costituzione Retta, se già ce l’avete, altrimenti vi verrà data una Costituzione Storta, che è quella che ha di mira l’estensione della ricchezza e del potere dei più ricchi. E’ proprio quello che è accaduto: avevamo un Costituzione Retta, e ce la siamo fatta scippare. Non c’è già più, sostituita da una Costituzione Storta. Dove la gente non ha più non solo un reddito accettabile, ma nemmeno gli strumenti per difendersi. La gente, le masse, sono state trasformate in individui isolati, in monadi sole, che si specchiano nello schermo di un computer, o di un televisore. Epicuro, l’inventore dell’idea di monade, è morto da tempo e non c’è nessuno che spieghi alle genti che, se vogliono liberarsi, dovranno aprire una finestra e guardare fuori da se stessi.Sembra – stando a uno studio di Tullio De Mauro – che un discreto 40% di italiani (che sanno tutti leggere e scrivere) non sia più in grado di capire bene quello che legge e, soprattutto, quello che vede in tv. Così tu credi di comunicare, ma nessuno ti capisce. Altro che finestre da aprire! Che fare nel 2015? Cambiare il vocabolario odierno e tornare a quello di prima. Quello con cui fu scritta la Costituzione Retta del 1948. Per esempio, con quel vocabolario si potevano dire cose semplici e comprensibili. Come questa: i nani proprietari universali, cioè i banchieri, ci stanno portando in guerra. La gente ancora capisce cosa significa guerra. Banchiere è cosa nota. Nano è un po’ più difficile da capire, essendo una metafora. Ma s’intende qui “nano intellettuale”, cioè persona che capisce poco quello che fa e dice lui stesso. Questi vogliono fare la guerra perché sanno che il loro castello di carte si sta rompendo. E pensano che con la guerra, che tutto distrugge, noi non ci accorgeremo di niente. Cosa pensate a proposito del prezzo del petrolio? Che scenda perché lo dicono le leggi del mercato? Niente affatto. Non ci sono leggi di mercato in questo casino che affonda. Scende perché Washington vuole abbattere la Russia e l’Iran e poi andare all’assalto di Pechino. E’ una dichiarazione di guerra “di carta”, dove brucerà molta carta (i nostri risparmi), prima di trasformarsi in una guerra vera, con armi del tutto nuove che noi non conosciamo nemmeno.Loro pensano di salvarsi, perché sanno che saranno le genti, cioè noi, che ci romperemo per primi l’osso del collo. Il che è vero, verissimo. Ecco perché ci serve, urgentemente, il vecchio vocabolario dove le parole erano italiane e chiare. Dove se dicevi “fuori” voleva dire fuori. Ecco io propongo che il 2015 dica: «Fuori l’Italia dalla Nato e fuori la Nato dall’Europa». Cominciamo da qui. In guerra ci vadano loro. Noi non abbiamo nemici e abbiamo ancora qualche pezzo di una Costituzione Retta da difendere, per esempio l’articolo 11. Spendiamo 70 milioni di euro al giorno (ho scritto “al giorno”) per tenere in piedi una Difesa che non serve a nulla. Cioè che serve a “loro”. In caso di guerra non reggerebbe dieci minuti. Quei denari potremmo usarli per sviluppare l’agricoltura, e l’industria, e la scuola e moltiplicare i posti di lavoro. Magari non ci riusciamo, perché siamo monadi un po’ istupidite, ma non è che siamo – collettivamente intesi – peggio dei nani di cui sopra. In ogni caso, se aprissimo qualche finestra, almeno il giro sulla giostra attorno al sole sarebbe più bello, avrebbe un senso per noi e i nostri figli. Sarebbe un buon anno, invece che “il loro anno”.(Giulietto Chiesa, “Pane e al pane e vino al vino”, da “Il Fatto Quotidiano” del 1° gennaio 2015).Una previsione facile facile: il 2015 sarà sicuramente peggiore del 2014. In compenso sarà migliore del 2016. Abbiamo finito l’anno sotto il segno del Patto di Stabilità. Che è quello che precede la stabilità definitiva, il rigor mortis, l’immobilità che accompagna la dipartita. Il paese è allo sfacelo: industriale, tecnologico, organizzativo, morale. Il Jobs Act è espressione misteriosa nei suoi dettagli esecutivi, ma chiarissima nel suo significato finale, nel “vettore di uscita”: licenziamenti sempre più facili, introduzione per legge del diritto dei padroni di licenziare i dipendenti. E, cosa ancora più strategicamente importante: eliminazione di fatto della contrattazione collettiva. Così ogni lavoratore è solo contro chi gli dovrebbe dare lavoro. Cioè impossibilitato a difendersi. In questo modo un’altra fetta importante del reddito nazionale sarà trasferita dai più poveri ai più ricchi. Ovvio che “crescere”, in questa prospettiva, sarà impossibile, poiché la massa di denaro che viene sottratta ai più poveri equivarrà a ridurre la massa di denaro destinata ai consumi (essendo evidente che i più ricchi non potranno, neanche se volessero, spendere il troppo che hanno a disposizione). Che equivale a tagliare il ramo su cui si è seduti.
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.
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Monbiot: stiamo tutti male, rassegnati all’era della solitudine
Come possiamo definire questo nostro tempo? Non è il tempo dell’informazione: la sconfitta dei movimenti di educazione popolare ha lasciato un vuoto che ora viene colmato da teorie di marketing e ipotesi di complotti. Come l’età della pietra, quella del ferro e quella dello spazio, l’era digitale ci dice molto sui prodotti, ma poco sulla società. L’antropocene, in cui gli esseri umani producono il maggior impatto sulla biosfera, non basta a differenziare questo secolo dai precedenti venti. Qual’ è l’evidente trasformazione sociale che contrassegna il nostro tempo distinguendolo da quelli che lo hanno preceduto? A me appare ovvio: questa è l’Era della Solitudine. Quando Thomas Hobbes sostenne che nello stato di natura, prima che emergesse un’autorità che esercitasse un controllo, eravamo tutti in guerra “l’uno contro l’altro”, non avrebbe potuto fare un errore più grande. Fin dall’inizio eravamo creature sociali, una sorta di api mammifere, che dipendevano completamente le une dalle altre.Gli ominidi dell’Africa orientale non avrebbero potuto sopravvivere da soli neanche una notte. Siamo costituiti, in misura maggiore rispetto a quasi tutte le altre specie, dalla relazione con gli altri. L’epoca in cui stiamo entrando, in cui viviamo separati, non è simile a nessun’altra epoca precedente. Tre mesi fa abbiamo letto che la solitudine è diventata un’epidemia tra i giovani adulti. Ora veniamo a sapere che è un disagio altrettanto grave nelle persone più anziane. Uno studio dell’“Independent Age” rileva che il disturbo grave da solitudine affligge 700.000 uomini e 1 milione 100.000 donne oltre i 50 anni, e si sta sviluppando ad una velocità impressionante. E’ improbabile che l’Ebola uccida così tante persone quante vengono colpite da questo malessere. L’isolamento sociale è una causa di morte precoce potente quanto il fumo di 15 sigarette al giorno; la ricerca rileva che la solitudine è doppiamente mortale dell’obesità. Le forme di demenza, la pressione alta, l’alcolismo e gli infortuni – come anche la depressione, la paranoia, l’ansia e il suicidio – si presentano più frequentemente quando vengono interrotte le relazioni. Non siamo in grado di stare soli.Certo, le fabbriche hanno chiuso, la gente si sposta in auto invece che con i mezzi pubblici, si collega a YouTube invece di andare al cinema. Ma questi cambiamenti non sono sufficienti, da soli, a spiegare la velocità del nostro collasso sociale. A questi cambiamenti strutturali si è accompagnata una sorta di ideologia di negazione della vita, che rafforza ed esalta il nostro isolamento sociale. La guerra dell’uomo contro l’uomo – in altri termini la competizione e l’individualismo – è la religione del nostro tempo, giustificata da una mitologia che inneggia ai combattenti solitari, agli operatori in proprio, agli uomini e donne che si fanno da soli, e vanno avanti da soli. Per la più sociale delle creature, che non può prosperare senza amore, non è disponibile ora qualcosa di simile alla società, ma solo un eroico individualismo. Ciò che conta è vincere. Il resto sono danni collaterali.I ragazzi inglesi non aspirano più a diventare ferrovieri o infermiere, più di un quinto di loro adesso afferma di “volere soltanto diventare ricchi”: per il 40% del campione considerato, le uniche ambizioni sono la ricchezza e la fama. Un’indagine governativa in giugno ha rivelato che la Gran Bretagna è la capitale europea della solitudine. Siamo meno portati degli altri popoli europei ad avere strette amicizie o relazioni con i nostri vicini. Perché sorprenderci, quando siamo pressati da ogni parte a lottare come cani randagi intorno alla spazzatura? Il riflesso di questo cambiamento è la modificazione del nostro linguaggio. Il nostro più feroce insulto è quello di perdente. Non parliamo più di popolo. Ora parliamo di individui. Questo termine così alienante e atomizzante è diventato talmente pervasivo, che persino le organizzazioni assistenziali che cercano di combattere la solitudine lo utilizzano per descrivere quei bipedi che prima erano conosciuti come esseri umani.Raramente completiamo una frase senza usare il termine personale. “Parlando personalmente (per distinguermi dal pupazzo di un ventriloquo), preferisco amici personali piuttosto che la moltitudine impersonale e coloro che personalmente appartengono al genere che non è il mio. Anche se questa è solo una mia personale preferenza, altrimenti detta la mia preferenza”. Una delle tragiche conseguenze della solitudine è che la gente si consola con la televisione: due quinti delle persone anziane affermano che il dio con un solo occhio (il televisore) è la loro principale compagnia. Questa cura fai-da-te peggiora la malattia. Una ricerca di economisti dell’università di Milano indica che la televisione incentiva le aspirazioni competitive. Questo corrobora fortemente il paradosso reddito-felicità: il fatto che, quando i redditi della nazione aumentano, la felicità non aumenta con essi. L’ambizione, che aumenta con il reddito, fa sì che la meta, la completa soddisfazione, retroceda davanti a noi.I ricercatori hanno rilevato che chi guarda a lungo la televisione ricava meno soddisfazione da un certo livello di reddito rispetto a coloro che la guardano poco. La televisione accelera la giostra dell’edonismo, spingendoci a prodigarci ancor di più per poter mantenere lo stesso livello di soddisfazione. Per rendervi conto del perché questo può accadere, dovete solo pensare alle pervasive vendite all’asta che ci sono ogni giorno in Tv, “Dragon’s Den”, “The Apprentice” e le innumerevoli forme di competizione carrieristica che la televisione propone, l’ossessione generalizzata per la fama e la ricchezza, la pervasiva sensazione, nel vedere tutto questo, che la vita sia altrove diversa da dove siete voi. Allora qual’ è la questione? Che cosa ci guadagnamo da questa guerra di tutti contro tutti? La competizione spinge la crescita, ma la crescita alla lunga non ci fa diventare più ricchi. Le cifre rese note in questa settimana mostrano che, mentre le entrate dei direttori di società sono cresciute di oltre un quinto, i salari della forza lavoro complessivamente sono diminuite in termini reali rispetto allo scorso anno.I capi oggi guadagnano – scusate, voglio dire prendono – 120 volte di più della media dei lavoratori a tempo pieno (nel 2000, il rapporto era di 47 volte). E anche se la competizione ci rendesse più ricchi, non ci renderebbe più felici, poiché la soddisfazione prodotta da un aumento del reddito verrebbe pregiudicata dagli effetti della competizione in termini di ambizione. Oggi l’1% al livello più alto possiede il 48% della ricchezza globale, ma nemmeno queste persone sono felici. Un’indagine del Boston College su persone con una ricchezza media di 78 milioni di dollari ha riscontrato che anche loro sono affette da ansia, insoddisfazione e solitudine. Molti di loro hanno confessato di sentirsi finanziariamente insicuri: per sentirsi al sicuro ritenevano di aver bisogno, mediamente, di circa il 25% in più di denaro. (E se lo ottenessero? Senza alcun dubbio avrebbero bisogno di un ulteriore 25%). Una persona dichiarò che non sarebbe stata tranquilla finché non avesse avuto un miliardo di dollari in banca.Per questo abbiamo distrutto la natura, degradato il nostro modo di vivere, sottomesso la nostra libertà e le nostre prospettive di soddisfazione a un edonismo compulsivo, atomizzante e triste, nel quale, dopo aver consumato tutto il resto, incominciamo a depredare noi stessi. Per questo abbiamo distrutto l’essenza dell’umanità: la capacità di relazionarsi. Certo esistono dei palliativi, programmi brillanti e attraenti come “Men in sheds” e “Walking Football”, creati da enti assistenziali per persone anziane e sole. Ma se vogliamo rompere questo cerchio e tornare a stare insieme dobbiamo affrontare il sistema divoratore del mondo e delle persone, in cui ci siamo cacciati. La condizione pre-sociale di Hobbes era un mito. Ma adesso stiamo entrando in una condizione post-sociale che i nostri predecessori non avrebbero creduto possibile. Le nostre vite stanno diventando orribili, brutali e lunghe.(George Monbiot, “L’era della solitudine”, dal blog di Monbiot del 14 dicembre 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”).Come possiamo definire questo nostro tempo? Non è il tempo dell’informazione: la sconfitta dei movimenti di educazione popolare ha lasciato un vuoto che ora viene colmato da teorie di marketing e ipotesi di complotti. Come l’età della pietra, quella del ferro e quella dello spazio, l’era digitale ci dice molto sui prodotti, ma poco sulla società. L’antropocene, in cui gli esseri umani producono il maggior impatto sulla biosfera, non basta a differenziare questo secolo dai precedenti venti. Qual’ è l’evidente trasformazione sociale che contrassegna il nostro tempo distinguendolo da quelli che lo hanno preceduto? A me appare ovvio: questa è l’Era della Solitudine. Quando Thomas Hobbes sostenne che nello stato di natura, prima che emergesse un’autorità che esercitasse un controllo, eravamo tutti in guerra “l’uno contro l’altro”, non avrebbe potuto fare un errore più grande. Fin dall’inizio eravamo creature sociali, una sorta di api mammifere, che dipendevano completamente le une dalle altre.
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Renzi conta zero, l’Eni vede sfumare anche Southstream
Ancora a metà novembre, la Mogherini («fa un certo effetto pensare che sia la “lady Pesc” della Ue») dichiarava di ritenere strategico il progetto di Southstream per la sicurezza energetica del continente, e altrettanto aveva detto Renzi qualche giorno prima. Dopo neppure due settimane, il progetto è saltato: prima è stata l’Eni a chiamarsi fuori, poi la stessa Gazprom. Requiem per un gasdotto. Cosa ha determinato questo collasso? Ovviamente – scrive Aldo Giannuli – hanno pesato le sanzioni per la questione ucraina. Ma non si tratta solo di questo: «In primo luogo c’è da dire che la politica ostruzionistica degli americani e le loro pressioni sui partner europei erano riuscite a ritardare l’opera di anni: il 31 marzo scorso avrebbe dovuto iniziare la posa dei primi tubi, ma non c’erano neppure le più lontane premesse. Per cui, quando è arrivata la crisi ucraina, è stato più facile bloccare un progetto che non aveva avuto alcun avvio concreto». Inoltre, anche Mosca aveva cominciato a frenare, non più sicura della convenienza della grande infrastruttura.Giannuli parla di «calcoli più accurati», effettuati dai russi, in base ai quali risulta ci sia stata «una sopravvalutazione della massa di gas che sarebbe transitata e, contemporaneamente, una sottovalutazione dei costi dell’opera, per circa 68 miliardi di dollari». L’apertura della prospettiva cinese, con il viaggio di Putin a Pechino, peraltro, aveva indebolito l’interesse sul versante europeo, continua Giannuli. Certo, «una forte difesa del progetto da parte degli alleati europei (italiani e tedeschi in primo luogo, ma anche piccoli come bulgari e greci, interessati ai diritti di transito del gasdotto) forse avrebbe potuto rilanciare l’operazione». Ma i tedeschi si sono molto raffreddati («e c’è da capire quanto pesi, in questo, la partita dei capitali russi congelati nelle banche tedesche»), mentre gli italiani «pesano poco o nulla, forse meno dei bulgari, anche se la Mogherini è “lady Pesc” e Renzi il presidente di turno (a proposito: mi pare che il “semestre italiano” stia passando senza alcun segno memorabile)».Poi, continua Giannuli, c’è stato anche «l’opportuno scandalo Nigeria», che ha messo nei guai Scaroni e Descalzi, provocando anche qualche frizione fra il secondo e il presidente del Consiglio, e anche l’Eni è scesa a più miti consigli («chi lo dice che gli scandali non servono a niente?»). Infine, «il colpo di grazia è venuto dalla caduta dei prezzi del petrolio: se davvero restassero intorno ai 60 dollari per uno o due anni, la concorrenzialità del gas sarebbe azzerata e il rientro dell’investimento si perderebbe nelle brume di un futuro lontanissimo». Ripercussioni geopolitiche: «Con la messa in crisi dell’asse Berlino-Mosca e la fine del progetto Southstream, la Russia perde gran parte del suo interesse verso la Ue e, anzi, vede l’avanzare del progetto dell’area di libero scambio Usa-Ue come rivolto contro di sé». Per cui, «diventa molto più interessante lo scenario del collasso della Ue».E questo, sostiene Giannuli, rende molto più comprensibile l’improvvisa simpatia manifestata dal capo del Cremlino per il Front National di Marine Le Pen, nonché l’invito ufficiale rivolto Matteo Salvini, leader della Lega Nord. Traduzione: «Appurato che Renzi conta in Europa quanto il due di coppe, Putin punta le sue carte sull’opposizione anti-renziana in ascesa e Renzi perde uno dei suoi pochi interlocutori a livello internazionale». Ma non è tutto. Di interlcotutori strategici, forse il presidente del Consiglio ne perde anche un altro, cioè Israele, «che constata come il suo protetto non sia in grado di sbarrare la strada alla strategia petrolifera dei sauditi e affini». In altre parole, anche la vicenda Southstrem dimostra che «Renzi è sempre più solo», precario leader di un’Italia in stato di abbandono.Ancora a metà novembre, la Mogherini («fa un certo effetto pensare che sia la “lady Pesc” della Ue») dichiarava di ritenere strategico il progetto di Southstream per la sicurezza energetica del continente, e altrettanto aveva detto Renzi qualche giorno prima. Dopo neppure due settimane, il progetto è saltato: prima è stata l’Eni a chiamarsi fuori, poi la stessa Gazprom. Requiem per un gasdotto. Cosa ha determinato questo collasso? Ovviamente – scrive Aldo Giannuli – hanno pesato le sanzioni per la questione ucraina. Ma non si tratta solo di questo: «In primo luogo c’è da dire che la politica ostruzionistica degli americani e le loro pressioni sui partner europei erano riuscite a ritardare l’opera di anni: il 31 marzo scorso avrebbe dovuto iniziare la posa dei primi tubi, ma non c’erano neppure le più lontane premesse. Per cui, quando è arrivata la crisi ucraina, è stato più facile bloccare un progetto che non aveva avuto alcun avvio concreto». Inoltre, anche Mosca aveva cominciato a frenare, non più sicura della convenienza della grande infrastruttura.