Archivio del Tag ‘Stoccolma’
-
Carpeoro: Olanda criminale come l’Ue, deruba gli italiani
Con le manovre per la procedura d’infrazione procede il piano contro l’Italia, concepito per abbattere il governo gialloverde e insediare Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte, con l’incarico di schiacciare il nostro paese sotto il peso di un’austerity mostruosa. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, il primo – giorni fa – a ventilare l’avvento di Draghi a Palazzo Chigi, dopo che a fine ottobre avrà dovuto lasciare la presidenza della Bce. Ma a determinare l’eventuale caduta del governo Conte – aggiunge Carpeoro, in diretta web-streaming du YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nighs” – non sarà tanto la procedura d’infrazione, quanto la crescita esplosiva (e opportunamente pilotata) dello spread. «E questa sarebbe l’Europa?», si domanda Carpeoro, spazientito. «Non c’è un’ombra di solidarietà tra i paesi Ue: e i primi a pretendere che all’Italia sia inflitta la massima dose di rigore sono proprio i paesi come l’Olanda, che in questi anni si sono distinti per scorrettezza». Peggio: «L’Olanda ha introdotto un legislazione fiscale che non esito a definire criminale, attirando le nostre maggiori aziende e sottraendo in tal mondo risorse preziose all’Italia. A livello europeo è possibile dover essere governati, di fatto, da dei veri e propri criminali?».Avvocato e saggista, Carpeoro si è distinto per la sua denuncia contro la massoneria di potere, di stampo reazionario e neo-feudale: un’élite che usa la finanza come clava, e all’occorrenza anche il terrorismo (strategia della tensione) per giustificare la continua, progressiva erosione della democrazia con l’alibi della sicurezza. Europeista convinto, Carpeoro accusa di anti-europeismo sostanziale i protagonisti della Disunione Europea, che da Bruxelles e Francoforte impongono al continente il diktat neoliberale. L’ultimo grande argine a questa deriva, secondo Carpeoro, è stato il premier socialista svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986 alla vigilia dei grandi eventi che, dopo il crollo del Muro di Berlino, avrebbero spianato la strada all’attuale tecnocrazia Ue. Risultato: «Siamo nelle mani di gente come Jean-Claude Juncker, che si vanta impunemente della ricchezza del suo paese, il Lussemburgo», dimenticando di dire che il Granducato è stato per decenni uno Stato-canaglia, «un paradiso fiscale che si è arricchito a spese di altri paesi europei, a cominciare dall’Italia».Inglorioso primato, ora passato all’Olanda: dopo la Fiat, anche Mediaset ha annunciato il trasferimento della domiciliazione fiscale, migrando verso i lidi olandesi. Si segnala anche l’attivismo del Biscione, impegnato in acquisizioni a tutto campo, in Europa, nel settore televisivo. Per Carpeoro, è la prova del fatto che l’anziano Berlusconi voglia «mettere al riparo il suo patrimonio, per difenderlo dall’assalto che – dopo la sua morte – dovranno subire i suoi figli». Copione classico, da anni: lo sport più in voga, in Europa (inaugurato dal club del Britannia, incluso Draghi) è il saccheggio del Belpaese. Carpeoro è disgustato: «Ma che razza di Europa è mai questa? Qui si lasciano emigrare le industrie nella parte orientale dell’Ue, dove si permette che gli operai vengano pagati pochissimo, e poi non si fa niente per evitare che i migranti africani finiscano per fare concorrenza, al ribasso, agli operai italiani. Se però qualcuno – come Salvini – si permettere di dire che l’immigrazione incontrollata è folle, e che quantomeno i migranti dovrebbero essere distribuiti anche negli altri paesi europei, gli si dà subito del fascista. E mai nessuno, in Italia, che denunci i criminali olandesi», a cui l’Unione Europea consente di attuale questa loro “pirateria fiscale” a spese dell’Italia, in barba a qualsiasi idea di collaborazione europea, o almeno di rispetto delle regole più elementari.Con le manovre per la procedura d’infrazione procede il piano contro l’Italia, concepito per abbattere il governo gialloverde e insediare Mario Draghi al posto di Giuseppe Conte, con l’incarico di schiacciare il nostro paese sotto il peso di un’austerity mostruosa. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, il primo – giorni fa – a ventilare l’avvento di Draghi a Palazzo Chigi, dopo che a fine ottobre avrà dovuto lasciare la presidenza della Bce. Ma a determinare l’eventuale caduta del governo Conte – aggiunge Carpeoro, in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nighs” – non sarà tanto la procedura d’infrazione, quanto la crescita esplosiva (e opportunamente pilotata) dello spread. «E questa sarebbe l’Europa?», si domanda Carpeoro, spazientito. «Non c’è un’ombra di solidarietà tra i paesi Ue: e i primi a pretendere che all’Italia sia inflitta la massima dose di rigore sono proprio i paesi come l’Olanda, che in questi anni si sono distinti per scorrettezza». Peggio: «L’Olanda ha introdotto un legislazione fiscale che non esito a definire criminale, attirando le nostre maggiori aziende e sottraendo in tal mondo risorse preziose all’Italia. A livello europeo è possibile dover essere governati, di fatto, da dei veri e propri criminali?».
-
Renzi al Bilderberg con Gruber, ma il vero potere è altrove
La 67ma riunione del gruppo Bilderberg si terrà a Montreux, in Svizzera, dal 30 maggio al 2 giugno. Politica, economia, industria, finanza e media: tra i circa 130 partecipanti, nella “delegazione” italiana ci saranno Matteo Renzi, Stefano Feltri del “Fatto Quotidiano” e Lilli Gruber. Lo conferma, in una nota, l’“Huffington Post”. Saranno trattati 11 grandi temi globali in quattro giorni, tra questi anche ambiente e futuro: “Un ordine strategico stabile”, “Quale futuro per l’Europa?”, “Cambiamenti climatici e sostenibilità”. E poi “Cina”, “Russia”, “Il futuro del capitalismo”, “Brexit”. E ancora: “L’etica dell’intelligenza artificiale”, “I social media come arma”, “L’importanza dello spazio”, “Le minacce cyber”. «A iniziare le conferenze del gruppo – scrive l’“Huffington” – fu un’idea del magnate statunitense David Rockefeller. La prima riunione si tenne il 29 maggio del 1954 all’Hotel Bilderberg nei Paesi Bassi e il punto focale dell’incontro fu la crescita dell’antiamericanismo che si respirava in Europa occidentale». Lo stesso Bilderberg oggi spiega che a Montreux è invitato «un gruppo eterogeneo di leader politici ed esperti dell’industria, della finanza, del mondo accademico, del lavoro e dei media».Fondato nel 1954, il Bilderberg Meeting è una conferenza annuale «progettata per favorire il dialogo tra Europa e Nord America», spiega lo stesso club sul proprio sito. Ogni anno, tra 120-140 leader politici ed esperti dell’industria, della finanza, del lavoro, del mondo accademico e dei media sono invitati a prendere parte al Meeting. Circa due terzi dei partecipanti provengono dall’Europa e il resto dal Nord America; circa un quarto dalla politica e dal governo e il resto da altri campi. Il Bilderberg si definisce «un forum per discussioni informali su questioni importanti». Gli incontri «si svolgono secondo la Chatham House Rule, che stabilisce che i partecipanti sono liberi di utilizzare le informazioni ricevute, ma né l’identità né l’affiliazione degli oratori o di altri partecipanti possono essere rivelate». Grazie alla natura privata del Meeting, i partecipanti «prendono parte come individui piuttosto che in qualsiasi veste ufficiale, e quindi non sono vincolati dalle convenzioni del proprio ufficio o da posizioni prestabilite». In quanto tali, «possono prendere tempo per ascoltare, riflettere e raccogliere idee». Non vi è alcun ordine del giorno dettagliato, non vengono proposte risoluzioni, non vengono votate né emesse dichiarazioni politiche.Da anni, il Bilderberg fa parlare di sé lasciando trapelare (o addirittura presentando apertamente) la lista degli invitati. «Tanta sovraesposizione – sostiene il saggista Gianfranco Carpeoro, acuto analista delle dinamiche del potere – sembra fatta apposta per lasciare al riparo, nell’ombra, i veri centri di potere». Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”, spiega che il Bilderberg (come la Trilaterale e la Chatham House inglese, il Council on Foreign Relations statunitense, il Gruppo dei Trenta, la stessa Bce) sono in realtà istituzioni “paramassoniche”, cioè progettate da massoni ma aperte a “profani”. In pratica, cinghie di trasmissione del vero potere, che per Magaldi è esercitato – in modo occulto – dalle 36 superlogge sovranazionali che hanno in mano governi, finanza e geopolitica. Fanno parte di questa categoria i think-tanks come l’Aspen Institute, il Forum di Davos, il Club di Roma. Sono gli incubatori dell’attuale mondialismo, che le Ur-Lodges di segno neo-conservatore hanno sostanzialmente imposto al pianeta dopo il crollo dell’Urss, al termine di una lunga preparazione avviata nel 1971 con il Memorandum neoliberista di Lewis Powell (Wall Street) e completata nel 1975 con il manifesto “La crisi della democrazia”, saggio firmato da Samuel Huntington, Michel Crozier e Joji Watanuki su commissione della Trilaterale.Attraverso l’analisi della massoneria di potere, nel suo lavoro editoriale Magaldi sintetizza la traiettoria dell’Occidente nell’ultimo mezzo secolo: l’espansione del progressismo varato da Roosevelt in base alla dottrina economica di Keynes (benessere diffuso) proseguì fino alla presidenza di Lyndon Johnson, ma – dopo l’omicidio di Jfk – fu brutalmente fermata da altri due delitti politici, l’assassinio di Bob Kennedy e Martin Luther King. In Europa, l’Italia fu il campo di battaglia che vide opporsi le due anime della supermassoneria: un funzionario kennediano come Arthur Schlesinger jr. fu determinante nel neutralizzare i tre tentativi di golpe condotti nella pensiola. E al colpo di Stato dei colonnelli in Grecia, i progressisti risposero nel ‘74 con la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, fatta scattare non a caso il 25 aprile, per ricordare la liberazione antifascista dell’Italia. Quattro anni dopo fu rapito e ucciso Aldo Moro, politico che intendeva preservare la sovranità italiana di fronte al nuovo globalismo che stava già progettando l’Ue. Poco prima del sequestro, Moro fu minacciato e intimidito a Washington da Kissinger: fu lo stratega del golpe cileno ad “avvertire” il leader democristiano che avrebbe rischiato la vita, insistendo con l’alleanza con il Pci di Berlinguer.Nel suo libro, Magaldi rivela che Kissinger è stato l’eminenza grigia della “Three Eyes”, la superloggia che più di ogni altra, prima dell’11 Settembre, si è impegnata per fermare l’avanzata dei diritti sociali in Occidente. Sempre Magaldi sostiene che la P2 di Gelli non era che il braccio operativo italiano della “Three Eyes”. In un recente convegno a Milano, il Movimento Roosevelt – di cui Magaldi è presidente – ha ricordato le figure di Olof Palme e Thomas Sankara. Due massoni progressisti, assassinati nella seconda metà negli anni ‘80 alla vigilia dell’avvento della globalizzazione neoliberista del pianeta, che avrebbe incluso anche la Cina e che oggi colpisce duramente l’Africa: lo stesso Sankara, leader carismatico del Burkina Faso, si era opposto alla schiavitù finanziaria del debito. Palme, unico premier europeo ucciso mentre era in carica, fu freddato a Stoccolma nel 1986. Un uomo scomodo: fautore del miglior welfare europeo e dell’impegno diretto dello Stato nell’economia sociale, avrebbe ostacolato la nascita di questa Ue, di segno oligarchico. Un anno dopo l’omicidio Palme scomparve da Roma il professor Federico Caffè: era considerato il maggior economista keynesiano d’Europa, capace di fornire agli Stati gli strumenti per consentire ai governi di sostenere finanziariamente le economie, puntando al benessere dei cittadini.Il neoliberismo è oggi la nuova religione universale: ne fanno professione anche Lilli Gruber, Matteo Renzi e lo stesso Mattia Feltri, ospiti del Bilderberg. La teologia neoliberale prevede che siano gli attori finanziari a decidere le politiche degli Stati, a prescindere dalle elezioni: i governi sono ricattati dal debito statale, che si chiama ancora “pubblico” ma è stato privatizzato, essendo detenuto da fondi d’investimento privati. Di qui il dogma dello “Stato minimo”: obbligo di tagliare la spesa pubblica, fino a ridurre a zero il ruolo sociale dello Stato con il pareggio di bilancio. Una linea politica risultata disastrosamente evidente in Italia con l’avvento di Monti nel 2011, fedele esecutore dell’austerity imposta da Bruxelles. Nel frattempo, alla crisi sociale determinata dal rigore finanziario si è accompagnata l’esplosione del caos geopolico planetario, innescato dal crollo dell’Urss e deflagrato con l’attentato del 2001 alle Torri Gemelle, per arrivare fino al terrorismo targato Isis. Una dinamica infernale, che Magaldi riconduce alla Ur-Lodge “Hathor Pentalpha” creata dai Bush per esportare in tutto il mondo la strategia della tensione. Obiettivo: imporre a mano armata la globalizzazione neoliberista. Una narrazione, questa, da cui restano lontanissimi politici come Renzi e giornalisti come Mattia Feltri e Lilli Gruber, che non ha mai neppure citato il libro di Magaldi (ben noto invece ai signori del Bilderberg e a tutti i veri potenti di questi anni, da Napolitano a Draghi).La 67ma riunione del gruppo Bilderberg si terrà a Montreux, in Svizzera, dal 30 maggio al 2 giugno. Politica, economia, industria, finanza e media: tra i circa 130 partecipanti, nella “delegazione” italiana ci saranno Matteo Renzi, Stefano Feltri del “Fatto Quotidiano” e Lilli Gruber. Lo conferma, in una nota, l’“Huffington Post”. Saranno trattati 11 grandi temi globali in quattro giorni, tra questi anche ambiente e futuro: “Un ordine strategico stabile”, “Quale futuro per l’Europa?”, “Cambiamenti climatici e sostenibilità”. E poi “Cina”, “Russia”, “Il futuro del capitalismo”, “Brexit”. E ancora: “L’etica dell’intelligenza artificiale”, “I social media come arma”, “L’importanza dello spazio”, “Le minacce cyber”. «A iniziare le conferenze del gruppo – scrive l’“Huffington” – fu un’idea del magnate statunitense David Rockefeller. La prima riunione si tenne il 29 maggio del 1954 all’Hotel Bilderberg nei Paesi Bassi e il punto focale dell’incontro fu la crescita dell’antiamericanismo che si respirava in Europa occidentale». Lo stesso Bilderberg oggi spiega che a Montreux è invitato «un gruppo eterogeneo di leader politici ed esperti dell’industria, della finanza, del mondo accademico, del lavoro e dei media».
-
Carpeoro: ma con questi politici, l’Italia resterà sottomessa
Alla vigilia delle elezioni europee hanno azionato una tenaglia attorno a Salvini. Esempio: la nave Sea Watch. Salvini non voleva che entrasse nel porto, invece c’è entrata. Come? Grazie alla magistratura, che l’ha sequestrata. Quindi l’ha fatta attraccare e ha fatto esattamente quello che Salvini non voleva: ha fatto sbarcare i migranti. Poi vedrete che l’inchiesta verrà archiviata, ma intanto Salvini è stato beffato. E faranno sbarcare tutti i migranti in questo modo: ormai hanno capito come fare. Ogni volta che Salvini dirà “questa nave non entra”, la magistratura la sequestrerà e farà sbarcare i migranti. Ormai hanno trovato il trucco. Ma vi pare che le cose si possano fare così? D’altro canto, Salvini ha commesso i suoi errori. Questi politici hanno tutti lo stesso difetto: mettono le ambizioni al di sopra del progetto. Salvini pensa di prendere i voti solo con il culto della personalità. E questo in Italia funziona, ma solo a breve termine. Funziona per chi vuole vincerne una sola, di elezione. Chi vuole vincerne tante, invece, deve fare operazioni a lungo termine. Peraltro, in Italia, nell’immediato non si può fare più niente. Siamo talmente “imbalsamati” che gli obiettivi immediati ce li dobbiamo scordare. Dobbiamo capire tutti che ci tocca versare lacrime e sangue: fare fatica, facendo le cose giuste, però – perché adesso abbiamo lacrime, sangue e fatica ma facendo le cose sbagliate.Bisogna avere il coraggio di dire, agli italiani: “Io sono a lungo termine; se pretendete da me gli 80 euro il mese prossimo, rivolgetevi a qualcun altro”. Se poi gli italiani preferiscono così… Ma in questo modo il “qualcun altro” dura solo un giro, come Renzi. Nel frattempo restiamo sottomessi ai diktat del regime politico-finanziario europeo? L’Italia non deve contestare l’Europa, deve contestare il modo in cui è stata rappresentata la sua situazione economica. Il nostro paese ha il patrimonio artistico più grande del mondo, che non viene minimamente valutato. Gli altri, nei bilanci mettono finanche le noccioline; e noi non possiamo mettere a bilancio il nostro patrimonio artistico? Non è un bene? Non è un valore? Non è un patrimonio? Se io a casa ho un Renoir, nella dichiarazione dei redditi lo devo indicare. Invece lo Stato, nella “dichiarazione dei redditi” che fa per l’Europa, non ci può mettere il Colosseo. Se noi ottenessimo la revisione dei parametri economici – per un discorso di verità, non di bugia – possono garantire che il debito pubblico verrebbe azzerato. Gli stessi trattati europei non escludono neppure che, nel proprio patrimonio, si possano indicare dei beni di cui effettivamente si dispone. Non si tratta di rivedere le leggi, ma solo di dire la verità: di fare cioè delle dichiarazioni patrimoniali veritiere.Non osiamo farci valere: dipende dalla scarsa personalità dei nostri politici? Sono ricattabili, i politici italiani: tutti. Quindi, nel momento in cui alzano la voce, qualcuno gli telefona e gli dice: attenti, che in archivio ho un dossier, su di voi. Chi ha i dossier? I vari Attali, i vari Ledeen. Quali interessi difendono? I loro. Sono interessi anche personali: secondo voi questi personaggi chiedono la carità all’angolo della chiesa? Lavorano per banche, fondazioni finanziarie: tutte cose che hanno creato loro, che gestiscono loro, che manipolano loro. Le banche e gli organismi finanziari sono cose neutre, astratte: tutto dipende da chi li governa, da come li gestisce. E’ quello che intendo, quando parlo di “sovragestione”. Sarebbe un danno, per loro, se l’Italia potesse riscattarsi? No, non sarebbe un danno. Hanno semplicemente interesse a speculare sulle disgrazie: e quelle dell’Italia sono ottime, per specularci. Ma è solo una questione di guadagno: non hanno niente, contro l’Italia. Vorrei confortare tutti quanti: non c’è un odio verso il nostro paese. E’ come con la Grecia: nel momento in cui c’è la disgrazia, ci si specula sopra. Così funzionano, i pescecani. E la nostra disgrazia consiste nel fatto che, a suo tempo, non abbiamo rivendicato il nostro reale assetto economico e patrimoniale. Responsabilità di chi sedette al tavolo delle trattative per conto dell’Italia: è chiaro che la partita la perdi, se non cali i tuoi assi.Per contro, a quel tavolo non potevamo non sederci. Se fossimo rimasti fuori dal club europeo avrebbero strangolato la lira in modo inimmaginabile – come infatti stava già accadendo prima ancora dell’euro: don lo Sme e con la grande speculazione, la lira si sarebbe trasformata in una moneta ridicola. Mi si fa notare che un paese come la Corea del Sud è rimasto felicemente indipendente? Certo, ma in quel caso non hanno fatto l’Unione Asiatica: lì non c’è quel tipo di connessione finanziaria e di sovragestione che c’è da noi. Nel nostro caso, la sovragestione finanziaria esisteva già – prima ancora della creazione dell’Unione Europea. La grande speculazione c’era, eccome. La sterlina non è stata affatto strangolata? Certo, perché ha un impero suo: si chiama Commonwealth. Ha risorse, mercati e vie d’uscita enormi. Per questo la Gran Bretagna è stata costretta a uscire, dall’Ue: stava perdendo il Commonwealth. Ci sarà il boom del Brexit Party? Ormai in Inghilterra non si capisce più niente. Comunque il Regno Unito può andare dove vuole, tanto non va da nessuna parte, oggi. Se l’Europa fosse un organismo intelligente, darebbe all’Inghilterra una moratoria di 10 anni. Le direbbe: “Fa’ quello che vuoi. Esci, resta”. Invece di strangolarla, le dovrebbe dire: “Hai dieci anni di tempo, per decidere quello che vuoi fare”. Ma l’Europa non è un organismo intelligente.Ora si contestano anche le radici cristiane dell’Europa. Ma qualcuno può negare che il Cristianesimo faccia parte della storia europea? Fino al 100 dopo Cristo era un soggetto estraneo, limitato a una tradizione mediorientale. Poi ha fatto irruzione in Occidente – come anche il mitraismo e il sincretismo alessandrino, che univa le religioni greca, egizia e mitraica. C’erano tante influenze, perché ormai l’Impero Romano era una entità internazionale: c’era stata una specie di globalizzazione, e quindi è arrivato anche il Cristianesimo. Il problema? Aveva successo. Nei primi tre secoli del primo millennio era diventato, nell’Impero Romano, la religione maggioritaria. Al punto che Costantino fiutò la possibilità di farne una base solida del proprio potere imperiale, e così lo dichiarò religione di Stato. E dire che i cristiani erano stati perseguitati anche sanguinosamente, da imperatori come Traiano. Il guaio è che, una volta diventato religione di Stato, il Cristianesimo ha preso tutti i vizi del potere. Nella sua dimensione strutturale (che prima non aveva) si è plasmato proprio sul potere imperiale. E questa crescita – compresa questa sorta di tara – si è poi trasferita, pari pari, da impero a impero: dall’Impero Romano, poi sgretolato dalle invasioni, al risorgente Sacro Romano Impero.Il Sacro Romano Impero si fondava sul Cristianesimo: era il suo pilastro, tant’è vero che tutti gli imperatori venivano incoronati dal Papa (salvo momenti di frizione e conflitto per il potere materiale). Proprio il Sacro Romano Impero ci ha accompagnato direttamente fino alle porte dell’umanesimo e del Rinascimento. E cosa ha trasferito, fino ai giorni nostri? La trazione franco-germanica: comandavano francesi e tedeschi, esattamente come oggi. Questa è la vera radice europea. La storia ha una grande forza: esiste anche per chi non la riconosce. Contestare le radici cristiane dell’Europa (che non sono le uniche) è sbagliato. E’ un passaggio retorico, ma comunque irrilevante: perché alla fine la verità è che, oggi come allora, comandano i francesi e i tedeschi (a prescindere dalle istituzioni formali europee). Certo, la ricostruzione della storia non è facile, e spesso non è così veritiera. Abbiamo esempi anche recenti: una certa retorica vuole che l’Italia sia stata liberata dai partigiani, ma – se non fossero sbarcati gli americani – qui si girerebbe ancora con l’orbace.I partigiani sono stati il simbolo della reazione di una parte nobile del popolo, ma in pratica – piaccia o meno – l’Italia è stata liberata dagli americani. Si può discutere anche sul concetto di “liberazione”, certo. Ma resta il fatto che l’Italia, da sola, non si sarebbe liberata del fascismo. Americani o russi, non importa: qualcuno, da fuori, doveva intervenire. Liberata e rioccupata? Normale: la penisola è sempre stata occupata. E’ come il cesso della stazione, l’Italia: non lo trovi mai libero. Ma siamo noi che ci facciamo occupare. Non l’abbiamo difeso in niente, il nostro paese. Non abbiamo il senso dello Stato, ci manca il senso della nazione. Seguiamo poco persino la nazionale di calcio, perché non è divisiva: preferiamo le squadre di club, perché siamo campanilisti. Qualcuno si domanda perché Napoleone spogliò l’Italia di tanta arte: era il prezzo da pagare per il supporto dei francesi contro l’Impero Austro-Ungarico? Ma tutti quelli che sono venuti in Italia hanno spogliato il nostro paese. Ben prima di Napoleone, il Re di Francia (Francesco I) si portò via Leonardo: non si prese soltanto l’arte, ma pure l’artista.Alla vigilia delle elezioni europee hanno azionato una tenaglia attorno a Salvini. Esempio: la nave Sea Watch. Salvini non voleva che entrasse nel porto, invece c’è entrata. Come? Grazie alla magistratura, che l’ha sequestrata. Quindi l’ha fatta attraccare e ha fatto esattamente quello che Salvini non voleva: ha fatto sbarcare i migranti. Poi vedrete che l’inchiesta verrà archiviata, ma intanto Salvini è stato beffato. E faranno sbarcare tutti i migranti in questo modo: ormai hanno capito come fare. Ogni volta che Salvini dirà “questa nave non entra”, la magistratura la sequestrerà e farà sbarcare i migranti. Ormai hanno trovato il trucco. Ma vi pare che le cose si possano fare così? D’altro canto, Salvini ha commesso i suoi errori. Questi politici hanno tutti lo stesso difetto: mettono le ambizioni al di sopra del progetto. Salvini pensa di prendere i voti solo con il culto della personalità. E questo in Italia funziona, ma solo a breve termine. Funziona per chi vuole vincerne una sola, di elezione. Chi vuole vincerne tante, invece, deve fare operazioni a lungo termine. Peraltro, in Italia, nell’immediato non si può fare più niente. Siamo talmente “imbalsamati” che gli obiettivi immediati ce li dobbiamo scordare. Dobbiamo capire tutti che ci tocca versare lacrime e sangue: fare fatica, facendo le cose giuste, però – perché adesso abbiamo lacrime, sangue e fatica ma facendo le cose sbagliate.
-
Magaldi: gialloverdi al 70% se osano sfidare il Deep State
Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).Non se ne esce mai, dal trappolone europeo? Certo, e non se ne uscirà fino a quando il cosiddetto Deep State sarà saldamente radicato in tutti i gangli vitali dello Stato. Burocrati e tecnocrati, servizi segreti pubblici e privati, banca centrale, uffici ministeriali, Quirinale. Ne ha parlato apertamente un parlamentare pentastellato, Pino Cabras, il 30 marzo a Londra. Eletto alla Camera in Sardegna lo scorso anno, Cabras – storico collaboratore di Giulietto Chiesa – ha partecipato al convegno “Un New Deal per l’Italia e per l’Europa”, promosso dal Movimento Roosevelt, soggetto meta-partitico fondato da Magaldi per rigenerare in senso democratico la politica italiana, stimolando i partiti a fare di più per recuperare la perduta sovranità popolare. Decisamente fuori programma l’esplicita ammissione di Cabras: a unire Lega e 5 Stelle, alleati ma sostanzialmente divisi su tutto, è l’impegno a resistere insieme alle “mostruose” pressioni del Deep State, che si è attivato per frenare il cambiamento promesso: dare più soldi agli italiani, ampliando il welfare e tagliando le tasse. Ed è intervenuto sin dal primo giorno, lo “Stato profondo”, inserendo le sue pedine nell’esecutivo Conte. Postilla: senza i “controllori di volo” (esempio, Tria al posto di Savona), il governo non sarebbe mai nato.Di Maio e Salvini hanno accettato la sfida: meglio di niente, si sono detti, perché solo il governo gialloverde (benché azzoppato in partenza) avrebbe potuto almeno tentare di cambiare qualcosa, liberando l’Italia dall’incubo dell’austerity. Ce l’ha fatta? No, purtroppo. Si è visto bocciare persino la timida richiesta di portare il deficit al 2,4%, cioè ben al di sotto del famigerato tetto del 3% imposto da Maastricht (e che la Francia di Macron violerà, con l’alibi della protesta dei Gilet Gialli). Proprio i Gilet Jaunes, sostiene Magaldi, erano un regalo della massoneria progressista internazionale. Il piano: destabilizzare la Francia, sentinella dell’euro-rigore, proprio mentre l’Italia friggeva, per quel misero 2,4%, sulla graticola della Commissione Europea. Ma il governo Conte non ne ha saputo approfittare: raro caso di insipienza politica e di mancanza di coraggio, di assenza di visione. Ora i pericoli sono dietro l’angolo: senza la necessaria benzina finanziaria per mantenere le promesse, i 5 Stelle sono già in picchiata nei sondaggi. Regge la Lega, ma solo per ora, grazie alla muscolarità (verbale) di Salvini. Però il tempo vola: in soli due anni, Matteo Renzi è passato dal 40% all’estinzione politica.Si spera nelle europee, per erodere il potere dello “Stato profondo” neoliberista che utilizza come clava l’asse franco-tedesco? Pie illusioni: secondo Magaldi non cambierà proprio niente, fino a quando la bandiera della protesta sarà agitata dai sedicenti sovranisti, velleitari demagoghi delle piccole patrie. Per chi non se ne fosse accorto, impera la globalizzazione: tutto è fatalmente interconnesso. Nessun paese, da solo, può sperare di uscire indenne da una fiera diserzione. Parla per tutti la Grecia, che disse “no” all’euro-tagliola. Risultato: Tsipras fu intimidito e costretto a piegarsi, tradendo la volontà del popolo. Alla Grecia arrivarono aiuti finanziari, ma solo per soccorrere le banche tedesche e francesi esposte con Atene. Il paese è stato sventrato, svenduto e distrutto, riducendo i greci in povertà. E nessuno Stato europeo è intervenuto in suo soccorso. In Francia, era stato François Hollande a candidarsi come anti-Merkel, promettendo di allentare il rigore di bilancio imposto da Bruxelles. Esito inglorioso: blandizie e minacce, compresi gli attentati terroristici targati Isis. In pochi mesi, Hollande ha ceduto su tutta la linea, rassegnandosi al ruolo di docile esecutore dell’ordoliberismo Ue.Anni fa, proprio Magaldi sosteneva che solo l’Italia avrebbe potuto accendere la miccia del cambiamento. «L’Italia traccia le strade», diceva Rudolf Steiner, attribuendo al Belpaese un ruolo storico di battistrada. Una specie di destino: prima il “format” dell’Impero Romano, poi il Rinascimento e la democrazia comunale, le prime università, le prime banche. Italia caput mundi, nel bene e nel male: in fondo, Hitler si considerava allievo del maestro Mussolini. Proprio l’Italia primeggiò ancora una volta nel dopoguerra: fece il record mondiale di crescita, con il boom economico, anche se non tutti applaudivano. L’uomo-simbolo di quegli anni ruggenti, Enrico Mattei, fu disintegrato a bordo del suo aereo. Oggi, dopo mezzo secolo, l’Europa è ancora una volta alle prese con il “problema” Italia, grazie a un governo teoricamente non-allineato a Bruxelles. Esecutivo capace di firmare un memorandum d’intesa commerciale con la Cina, che irrita pericolosamente gli Usa e manda su tutte le furie Parigi e Berlino, ovvero i due maggiori nazionalismi anti-europeisti su cui si regge l’infame Disunione Europea, quella che ha lasciato morire impunemente i bambini greci, negli ospedali rimasti senza medicine.Non bastano più, dice Magaldi, le sole analisi degli economisti democratici che in questi anni hanno smascherato tutte le bugie del neoliberismo. La prima: tagliare il debito pubblico risana l’economia. Falso: lo dimostra la scienza economica, da Keynes in poi, e lo confermano Premi Nobel come Krugman e Stiglitz. Ovvero: il deficit strategico – a patto che sia massiccio, e investito con oculatezza – può valere anche il 400%, in termini di Pil. Tradotto: oggi spendo dieci, e domani incasserò quattro volte tanto (lavoro, salari, consumi, e infine anche tasse). Beninteso: lo sanno tutti, a cominciare da quelli che fingono di non saperlo. Come Mario Draghi, che fu allievo del maggior economista keynesiano europeo – italiano, tanto per cambiare: il professor Federico Caffè. Tesi di laurea del giovane Draghi: l’insostenibilità di una moneta unica europea. Farebbe ridere, se non ci fosse da piangere. Specie se si calcola che Draghi fu accolto a bordo del Britannia, all’epoca della grande spartizione della Penisola, alla vigilia delle privatizzazioni degli anni ‘90 che hanno sabotato la nostra florida economia. Lo stesso Draghi ha lasciato il segno anche in Grecia: prima come manager della Goldman Sachs, la banca-killer che gonfiava i bilanci di Atene, e poi – a disastro compiuto – come inflessibile censore della Bce, in seno alla spietata Troika europea.Ancora lui, Mario Draghi, è l’uomo a cui risponde, di fatto, il governatore di Bankitalia. E proprio da Ignazio Visco, il presidente Mattarella – con una mossa senza precedenti – spedì l’allora premier incaricato, Conte, a prendere appunti su come non attuarlo affatto, il cambiamento appena promesso agli elettori. Pino Cabras lo chiama “Stato profondo”, e difende la strategia di Di Maio e Salvini: accettare la logica di una guerra di logoramento, dice Cabras, è l’unica soluzione praticabile. Non la pensa così Gioele Magaldi: a suo parere, è una tattica perdente. Nel libro “Massoni”, uscito nel 2014 per Chiarelettere, ridisegna la mappa del Deep State, presentandolo come interamente massonico. Un potere a due facce: quella progressista (da Roosevelt ai Kennedy, fino allo svedese Olof Palme) spinse avanti la modernità dei diritti sociali in senso democratico, nei decenni del grande benessere diffuso. L’altra faccia, oligarchica – Merkel e Macron, Prodi e D’Alema, lo stesso Draghi – ha chiuso i rubinetti della finanza pubblica, inaugurando la globalizzazione del rigore e quindi l’impoverimento generale della popolazione occidentale, fino alla quasi-sparizione della classe media (che infatti oggi in Italia vota Salvini e Di Maio).Contro questo regime, insiste Magaldi, non valgono più né le pregevoli rivelazioni dei tanti economisti onesti, né i recenti tatticismi dei gialloverdi. Serve una rivoluzione, a viso aperto. Un paese che dica: “Adesso sforiamo il tetto di Maastricht. E se non vi va bene, sospendiamo la vigenza dei trattati europei”. Addirittura? Certo, altra via non esiste. Se ci si piega al racket, l’estorsione continua all’infinito. Anche in politica: la molla su cui fa leva il prevaricatore è sempre la stessa, la paura. Se si smette di avere paura, tutto il castello crolla. Perché quel ricatto è basato su un sortilegio psicologico, come quello che rende misteriosamente tenebroso l’invisibile Mago di Oz, in apparenza invincibile: in realtà è soltanto una bolla, che può dissolversi in un attimo. E’ già successo, nella storia. Sotto la sferza della Grande Depressione, la destra economica consigliò a Roosevelt di tagliare il debito – pena, l’apocalisse. Ma il presidente, ispirato da Keynes, fece l’esatto contrario: espansione smisurata del deficit. Risultato: l’America, che era alle prese con l’incubo quotidiano della fame, divenne una superpotenza. Non è che siano cambiate, le regole: il sistema è sempre quello capitalista. Non solo: è diventato universale, incorporando anche Russia e Cina (che infatti, così come gli Usa e il Giappone, non hanno nessuna paura di fare super-deficit, sapendo che è il solo modo per alimentare il mercato interno dei consumi, e quindi l’occupazione).Il Mago di Oz ora si chiama Unione Europea, si chiama Eurozona. Una vergogna mondiale, senza più democrazia: comanda la Bce, insieme alla Commissione formata da tecnocrati non-eletti. Non c’è una vera Costituzione, e il Parlamento Europeo non può eleggere il governo europeo. Siamo precipitati nella barbarie di un neo-feudalesimo, una specie di Sacro Romano Impero. D’accordo, ma per volere di chi? Magaldi non ha esitazioni nell’indicare i responsabili: massoni reazionari. Militano nelle Ur-Lodges neoaristocratiche. Sono strutture segrete e trasversali, spregiudicate e apolidi, senz’altra patria che il denaro. Hanno deformato la stessa geopolitica: quando parliamo di Russia, Europa, Cina e Stati Uniti, dovremmo invece saper distinguere tra élite oligarchiche ed élite a vocazione democratica. Esistono anche quelle, infatti: sono di segno progressista. Negli ultimi decenni sono state costrette a cedere il passo alla plutocrazia neoliberista, ma adesso stanno rialzando la testa. Lo stesso Magaldi ammette di agire d’intelligenza con alcune di queste strutture, come la superloggia Thomas Paine. Problema pratico, innanzitutto: se è stata la supermassoneria a creare il problema, non può che essere la stessa supermassoneria (lato B, progressista) a contribuire a risolverlo.Magaldi non demonizza le Ur-Lodges, non ne fa una speculazione complottistica. Se la massoneria sa di aver fondato la modernità – Stato di diritto, laicità delle leggi, suffragio universale democratico – è umano che pensi (sbagliando) di poter fare quello che vuole, della sua “creatura”. La distorsione è cominciata negli anni ‘70, con il saggio sulla “Crisi della democrazia” commissionato dalla Trilaterale, potente entità paramassonica. La tesi: troppa democrazia fa male. Dove siamo arrivati, oggi? Lo si è visto: un certo signor Pierre Moscovici, non votato da nessuno, ha il potere di bocciare il bilancio del governo italiano regolarmente eletto. Lo si può subire in silenzio, un affronto simile? Nossignore: la verità va gridata. Lo stesso Moscovici sa benissimo che un deficit robusto farebbe volare l’economia. Una volta, lo sapeva anche la sinistra (che oggi tace). Lega e 5 Stelle? Si limitano a brontolare, ma poi ingoiano il rospo. Peggio: sparano a vanvera contro la massoneria, fingendo di non sapere che sono proprio i supermassoni oligarchici a ostacolare il loro governo. Cosa aspettano a vuotare il sacco?Magaldi è esplicito: le Ur-Lodges progressiste sono pronte ad aiutarli, se smetteranno di essere ipocriti sulla massoneria, come se non sapessero che persino il governo gialloverde pullula di massoni occulti, non dichiarati. Sperano nelle europee, leghisti e grillini? Errore grave: nessuno verrà in aiuto dell’Italia, se non sarà il nostro paese – per primo – ad alzare la testa. Come? Nell’unico modo possibile: una rivoluzione gandhiana, basata sull’obiezione ideologica. Può svanire in attimo, la grande paura del Mago di Oz, se solo qualcuno avrà l’elementare coraggio democratico che oggi ancora manca, ai gialloverdi. Una rivoluzione potrebbe spazzarli via in un amen, i mammasantissima del peggior Deep State. Restano invece al loro posto, i boiardi dello “Stato profondo”, proprio perché a proteggerli – prima di ogni altra cosa – è proprio la nostra stessa paura. Per Magaldi, scontiamo anche un vuoto culturale: da riempire, per la precisione, ricorrendo al socialismo liberale teorizzato da Carlo Rosselli. Una corrente di pensiero illuminante ma rimasta in ombra, schiacciata dal fascismo e dallo stesso socialismo massimalista, prima ancora che dal comunismo. Poi venne l’atroce neoliberismo, nelle due versioni: quella sfrontata, della destra economica reaganiana, e quella – più ambigua nella forma ma identica della sostanza – del “terzismo” di Anthony Giddens adottato dall’ex-sinistra occidentale, da Blair fino a D’Alema, grandi protagonisti dell’attuale post-democrazia.Il succo non cambia: Stato minimo. Il privato ha sempre ragione. Nei fatti, il neoliberismo è un imbroglio: santifica l’impresa, ma a spese dello Stato. E quando scoppia Wall Street, è il bilancio pubblico a tenere in piedi le banche-canaglia. Turbo-globablizzazione mercantile, e addio diritti. Delocalizzazioni, privatizzazioni. Parola d’ordine, per i non privilegiati: arrangiarsi. Dogma assoluto: demolire l’impresa pubblica, che era il cemento armato del boom italiano. In Svezia, Olof Palme impegnò lo Stato a salvare le aziende traballanti, a due condizioni: management statale, e lavoratori coinvolti come azionisti (con tanto di dividendi, a fine anno). Fu ucciso a Stoccolma nel 1986, all’uscita di un cinema. Tuttora sconosciuto il killer, ma non il mandante: possiamo chiamarlo Deep State. Con Palme, questa Europa cialtrona non sarebbe mai potuta nascere. Al leader svedese, il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano il 3 maggio. Sul podio altri due giganti, lo stesso Rosselli e l’africano Thomas Sankara, anch’essi assassinati. Non difettavano di coraggio: sapevano di dover combattere, sfidando il potere ostile a viso aperto. E’ quello che dovrebbe fare anche l’Italia, ribadisce Magaldi. Sapendo che, da sole, le élite possono fare poco. Se però si sveglia il popolo, allora non c’è Deep State che tenga. E’ così che funzionano, le rivoluzioni che mandano avanti, da sempre, la storia dell’umanità.(Le riflessioni di Gioele Magaldi sono tratte dalla diretta web-streaming su YouTube “Gioele Magaldi Racconta” del 1° aprile 2019, condotta da Fabio Frabetti di “Border Nights”).Primo round: il governo gialloverde fa qualcosa di veramente eretico, straordinario e rivoluzionario. Ovvero: annuncia un deficit del 7-8%, o anche del 10%. Secondo round: l’eurocrazia insorge, massacrando l’Italia con ogni mezzo. E quindi minacce, ritorsioni, spread a mille, bocciatura del bilancio (e assedio dei media pro-Ue, a reti unificate). Terza mossa: il governo si dimette, clamorosamente, appellandosi agli elettori. Magari indice un referendum, come quello voluto in Grecia da Tsipras. Poi affronta nuove elezioni, e incassa un plebiscito: gialloverdi al 70% dei consensi. A quel punto, finalmente, la resa dei conti: epurazione di tutti i burocrati infiltrati dal potere-ombra negli uffici che contano, cominciando dai ministeri. Un sogno? Per ora, sì. Ma se non si agisce in questo modo, sostiene il sognatore Gioele Magaldi, la rivoluzione non l’avremo mai. E attenzione: per come siamo ridotti, proprio una rivoluzione – pacifica, democratica – è l’unica soluzione possibile, l’unica via d’uscita dignitosa dall’euro-stagnazione inflitta a tutta l’Europa, e in particolare all’Italia, dai signori del neoliberismo. Sono i super-oligarchi che impongono regole di ferro agli altri, ma campano alla grande facendosi fare leggi su misura per il loro business, anche truccando i conti pubblici come fa la Germania (che dichiara un debito all’80% del Pil mentre quello reale è il triplo).
-
Battisti ammette: commise gli omicidi. Protetto da Parigi?
Cesare Battisti, l’ex terrorista dei Pac arrestato a gennaio dopo quasi 40 anni di latitanza, ha ammesso per la prima volta, davanti al Pm di Milano Alberto Nobili, di essere responsabile dei 4 omicidi per cui è stato condannato. Battisti è stato arrestato in Bolivia e quindi estradato in Italia: era scomparso dal Brasile, dove il nuovo governo di Jair Bolsonaro aveva annunciato che avrebbe posto fine al regime di protezione di cui godeva. All’ex leader dei Pac, Proletari Armati per il Comunismo, era stata inflitta una condanna in via definitiva per quattro omicidi, due commessi materialmente e due in concorso: quello del maresciallo degli agenti di custodia Antonio Santoro, ucciso a Udine il 6 giugno 1978, quello del gioielliere Pierluigi Torregiani e del commerciante Lino Sabbadin, che militava nel Msi, uccisi entrambi dai Pac il 16 febbraio 1979, il primo a Milano e il secondo a Mestre; e quello dell’agente della Digos Andrea Campagna, assassinato a Milano il 19 aprile 1978. Battisti si era finora sempre dichiarato innocente. Ora ha invece ammesso per la prima volta le proprie responsabilità di fronte ai Pm milanesi. Secondo Gianfranco Carpeoro, saggista, è verosimile che Battisti fosse stato infiltrato in Italia, all’epoca degli anni di piombo, dai servizi segreti francesi.
-
Magaldi: Grillo in declino, senza idee. Orfano di Casaleggio
Bei tempi, quando Beppe Grillo attraversava a nuoto lo Stretto di Messina. Grande performance da sempre, lo spettacolo del vitalismo anche fisico del leader, come già Mao nello Yangtze. Era il 12 ottobre 2010, e l’autoironico Vaffa-man aveva 64 anni. Poco prima, ai NoTav “assediati” dalla polizia in valle di Susa, aveva detto: «Un bel giorno, un pugno di cinesi si misero in marcia e alla fine la vinsero, la loro rivoluzione. Bene, ascoltate: voi oggi siete quei cinesi». Era il Grillo che nel 2008 aveva tentato di concorrere alle primarie del Pd, rimediando le pernacchie del profetico Fassino: «Se vuol fare politica, Grillo si accomodi: può sempre fondare un suo partito». Detto fatto: l’ha fondato, ha battuto il Pd nel 2013 alla Camera e adesso, dopo l’alluvione di voti del 2018, è addirittura al governo (dopo aver sfrattato Fassino persino dal Comune di Torino). Ma a quanto pare, l’unica traccia della ventilata rivoluzione, ben poco “cinese”, è la lealtà dei 5 Stelle verso i NoTav, contro la grottesca Torino-Lione. Tutto il resto è evaporato nello zero-virgola del governo gialloverde, dopo le roboanti promesse della vigilia. Ecco perché oggi Grillo deve affrontare la peggiore delle nemesi, con gli ex supporter che bruciano le bandiere grilline davanti al teatri dove l’ex comico si esibisce. Tradimento? Questione di termini. Ma come chiamarla, la burla del finto reddito di cittadinanza, il sussidio nel quale il Sud aveva creduto in massa? L’altro guaio è che il nuotatore dello Stretto è rimasto solo, dopo aver perso Gianroberto Casaleggio.Tra chi se l’aspettava, la grigia parabola pentastellata, c’è il presidente del Movimento Roosevelt, Gioele Magaldi, osservatore privilegiato della scena italiana e autore del bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) che fotografa l’identità supermassonica dei peggiori globalizzatori. Una cupola reazionaria, che ha fondato l’attuale oligarchia del denaro chiamata neoliberismo: pochi ricchissimi, a spese della classe media che si sta impoverendo ovunque. O si cambia radicalmente paradigma, riesumando Keynes – con lo Stato che torna a investire massicciamente, non certo con deficit ridicoli come quello messo insieme dal governo Conte – o prima o poi assisteremo a una ribellione turbolenta e pericolosa. E a bruciare bandiere potrebbero non essere più solo i grillini delusi. In diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Magaldi evoca scenari cupi: dato che in Europa la maggioranza della popolazione sta sempre peggio, precarizzata e terremotata dalle politiche di rigore, è impensabile che si continui così, cioè raccontando – all’infinito – che lo Stato deve “risparmiare”. Prendiamo l’Italia, in avanzo primario da anni: il governo toglie ai cittadini (con le tasse) più soldi di quanti ne conceda in servizi (spesa pubblica). Il saldo, per i contribuenti, è negativo. Risultato: disoccupazione record, Pil crollato, perso il 25% del potenziale industriale. Di fronte a questo, valgono poco i minuetti di Di Maio e le ciance bellicose e velleitarie di Di Battista.Solo teatro, per canalizzare il dissenso dirottandolo verso obiettivi innocui? Secondo Magaldi, la storia poteva finire diversamente se Gianroberto Casaleggio non fosse prematuramente scomparso, nel 2016. L’ideologo grillino aveva quello che agli altri manca: una visione. Era persino riuscito a convertire al messianismo del web un uomo come Grillo, che un tempo – nei suoi show – fracassava i computer. Non è il caso di santificarlo, Casaleggio senior: aveva i suoi difetti, ammette Magaldi. Per esempio: lo slogan fondante dell’identità grillina, l’idolatria dell’onestà, «ricorda da vicino la “questione morale” agitata dal Berlinguer che convise gli operai a ingoiare l’austerità, la rinuncia ai loro diritti sociali». Per intenderci: «L’onestà non può essere un valore politico: chi ruba deve vedersela coi magistrati, prima che con gli elettori». Una falsa pista, che avvelena l’aria: «La pretesa “diversità morale” dei comunisti italiani, sempre pronti a presentarsi come gli unici onesti in un mondo politico corrotto – dice Magaldi – rivela il vizio storico di quel comunismo che poi, ovunque sia salito al potere, ha creato oligarchie autoritarie e antidemocratiche».Se non altro, al di là delle fascinazioni berlingueriane – aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt – Casaleggio si sforzava di proiettare l’oggi nel domani, sulla base di una precisa visione del futuro. Fino a “fabbricare” da zero una nuova leva della politica italiana, spinta da speranze pulite. E’ un fatto innegabile, e si è verificato grazie al coraggio dello stesso Grillo, pronto a sparare i suoi “vaffa”– in assoluta solitudine – contro una casta impresentabile e decadente, avvinghiata ai propri privilegi mentre il paese scivolava verso il baratro della crisi. Poi, però, alla prova dei fatti, l’alternativa ha rivelato giorno per giorno la sua inconsistenza. Programmi deboli, poche idee, città come Roma amministrate in modo inguardabile. Idem il governo: ordinaria amministrazione, sotto la scure di Bruxelles. Cos’è mancato? «Un impianto ideologico solido, alternativo al dogma neo-aristocratico del neoliberismo». Casaleggio avrebbe potuto cambiare il corso delle cose? Forse sì, sostiene Magaldi, anche in base a un indizio rivelatore: «Aveva disposto che il mio saggio, “Massoni”, venisse presentato col massimo risalto sul web grillino. Obiettivo: insegnare ai pentastellati a distinguere tra massoni corretti e massoni sleali, senza sparare nel mucchio. Oggi invece il Movimento 5 Stelle demonizza la massoneria nel suo insieme, con una discriminazione che è pure incostituzionale. E lo fa in modo spregevolmente ipocrita: sa benissimo, infatti, che il governo gialloverde pullula di massoni, sia tra i ministri che tra i sottosegretari».Per inciso: era massone anche Gianroberto Casaleggio, spiega Magaldi, che in un libro di prossima uscita dettaglierà l’identità massonica dell’ideologo pentastellato. «Il problema – dice – è che la massonofobia è indice di fragilità: se sei debole, cioè senza veri argomenti, hai paura del massone, perché temi che sia più forte di te, in quanto dotato di una maggiore solidità ideologica». E non è vero nemmeno questo: «Oggi, purtroppo, le obbedienze massoniche italiane sono piene di “peones” confusi, che non rappresentano un pericolo per nessuno». La vera massoneria che conta è quella delle Ur-Lodges sovranazionali, che colonizzano le istituzioni italiane, europee e mondiali. Nel suo libro, Magaldi ne smaschera le trame, facendo nomi e cognomi e mettendo alla berlina i supermassoni neo-feudali. E questo, a Gianroberto Casaleggio piaceva: «Ebbi con lui uno scambio breve ma intenso», rivela l’autore. «Resto convinto che sarebbe stato proficuo, il nostro incontro, a partire dal banco di prova delle elezioni comunali di Roma, dove avevamo proposto di affiancare, al gruppo di Virginia Raggi, l’esperienza e la capacità di un economista post-keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt». Forse ci sarebbe stato il tempo di arrivare alle politiche 2018 con programmi meno volatili e con basi economiche assai più solide, da contrapporre all’ordoliberismo disonesto di Bruxelles, incarnato dai tecnocrati della Disunione Europea, tutti al servizio di inconfessabili interessi privatistici.Invece siamo arrivati al rogo delle bandiere grilline, in Puglia: «Piuttosto ovvio, se avevi promesso un vero reddito di cittadinanza. Cioè, tecnicamente: soldi che lo Stato dovrebbe assegnare a chiunque, a prescindere dal reddito». Una selva di contraddizioni: «Al Sud è molto rilevante l’economia sommersa: il sussidio elargito da Di Maio potrebbe finire a famiglie che campano di lavoro nero, a scapito di famiglie – magari meno abbienti – che invece le tasse le pagano». Meglio, sostiene Magaldi, l’alternativa proposta dal Movimento Roosevelt: il diritto al lavoro sancito per legge dalla Costituzione. Ovvero: lo Stato sarebbe obbligato ad assorbire la disoccupazione. Si parlerà anche di questo, il 30 marzo a Londra, al convegno internazionale promosso alla Westminster University. Tra i relatori lo stesso Galloni, accanto a Ilaria Bifarini, Antonio Maria Rinaldi, Danilo Broggi, Guido Grossi. «Ci sarà anche Pino Cabras, deputato 5 Stelle», annuncia Magaldi: «Storico collaboratore di Giulietto Chiesa, Cabras fece un’ottima presentazione del libro “Massoni” in Sardegna. Qualcuno, nel Movimento 5 Stelle, lo ha dissuaso dal partecipare all’evento di Londra. Ma lui ha la schiena diritta, e sa bene che vale la pena misurarsi con noi: insieme a svariati interlocutori europei, nella capitale britannica avremo modo di mettere a fuoco un vero piano per l’uscita strutturale dall’euro-crisi, che viene presentata come economica e invece è interamente politica».C’è bisogno di tutte le forze spendibili, insiste Magaldi, per rompere l’incantesimo della paura: la demonizzazione del deficit porta direttamente al declino, attraverso l’austerity. Il che è folle, in un mondo che non è mai stato così ricco di risorse e tecnologie. Quello che serve è “un New Deal rooseveltiano per l’Europa”, ispirato a Keynes: è il modello che – espandendo la spesa strategica – ha storicamente prodotto benessere diffuso, in tutto l’Occidente. Passaggio obbligato: trovare il coraggio politico di dire “no” al pensiero unico che ha inquinato cancellerie, ministeri e tecnocrazie, trasformando la governance europea in un incubo orwelliano fondato sulla post-verità. Verrà il giorno, dice Magaldi, in cui gli oligarchi soccomberanno. «E alla fine ci ringrazieranno – aggiunge – perché, senza un’inversione di rotta, la situazione sociale in tutta Europa si farà insostenibile», come dimostrano in modo squillante gli stessi Gilet Gialli in Francia. Certo, la rivoluzione della trasparenza ha un costo: ne sapeva qualcosa il leader svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986. Voleva un’Europa libera e socialdemocratica, con pari opportunità per tutti. Valori fondanti: come il socialismo liberale di Carlo Rosselli, assassinato dai fascisti e detestato dai comunisti, e il sovranitarismo panafricano per il quale perse la vita Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso, portavoce della ribellione contro la schiavitù neo-coloniale del debito.Rosselli, Palme e Sankara sono le tre icone che il Movimento Roosevelt ha scelto di illuminare, al convegno in programma il 3 maggio col patrocinio del Comune di Milano, alla vigilia delle europee: un’occasione – anche – per pesare le intenzioni dei candidati dei vari schieramenti politici in rotta verso Strasburgo. A che punto è la notte del neoliberismo? Lo capisce, il Pd zingarettiano, che per aiutare l’Italia deve buttare a mare 25 anni di fallimentare centrosinistra? Si rende conto, la Lega di Salvini, che non basta alzare dighe contro i disperati che arrivano dall’Africa? E i 5 Stelle, a loro volta, che intenzioni hanno? In Europa pensano di fare la stessa melina che stanno inscenando a Roma – ottenendo il falò delle loro bandiere e il tracollo dei consensi alle regionali – o comprendono che è il caso di compiere un drastico cambio di passo, come forse lo stesso Casaleggio avrebbe raccomandato? Magaldi ha idee terribilmente chiare: serve un network trasversale di politici “bonificati” dalla bugia neoliberista. Un’Europa democratica, sovrana, liberalsocialista. Investimenti robusti, epocali, per relegare il fantasma dello spread nella spazzatura della storia. Come ci si può arrivare? Formando politici nuovi, in tutta Europa. La consapevolezza del cambiamento crescerà in modo inesorabile, sostiene Magaldi. Fino al bel giorno in cui qualcuno dovrà mandare a stendere i signori di Bruxelles. Con ben altro coraggio che quello sin qui dimostrato dal governo Conte, e dai 5 Stelle smarriti e orfani di Casaleggio.Bei tempi, quando Beppe Grillo attraversava a nuoto lo Stretto di Messina. Grande performance da sempre, lo spettacolo del vitalismo anche fisico del leader, come già Mao nello Yangtze. Era il 12 ottobre 2012, e l’autoironico Vaffa-man aveva 64 anni. Poco prima, ai NoTav “assediati” dalla polizia in valle di Susa, aveva detto: «Un bel giorno, un pugno di cinesi si misero in marcia e alla fine la vinsero, la loro rivoluzione. Bene, ascoltate: voi oggi siete quei cinesi». Era il Grillo che nel 2008 aveva tentato di concorrere alle primarie del Pd, rimediando le pernacchie del profetico Fassino: «Se vuol fare politica, Grillo si accomodi: può sempre fondare un suo partito». Detto fatto: l’ha fondato, ha battuto il Pd nel 2013 alla Camera e adesso, dopo l’alluvione di voti del 2018, è addirittura al governo (dopo aver sfrattato Fassino persino dal Comune di Torino). Ma a quanto pare, l’unica traccia della ventilata rivoluzione, ben poco “cinese”, è la lealtà dei 5 Stelle verso i NoTav, contro la grottesca Torino-Lione. Tutto il resto è evaporato nello zero-virgola del governo gialloverde, dopo le roboanti promesse della vigilia. Ecco perché oggi Grillo deve affrontare la peggiore delle nemesi, con gli ex supporter che bruciano le bandiere grilline davanti al teatri dove l’ex comico si esibisce. Tradimento? Questione di termini. Ma come chiamarla, la burla del finto reddito di cittadinanza, il sussidio nel quale il Sud aveva creduto in massa? L’altro guaio è che il nuotatore dello Stretto è rimasto solo, dopo aver perso Gianroberto Casaleggio.
-
Chi smaschera il debito ci rimette la vita: Sankara insegna
Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.«Con una lucidità e una lungimiranza degne di un vero rivoluzionario – scrive Ilaria Bifarini – Sankara anticipa quanto solo ora alcuni economisti hanno trovato il coraggio di proporre». Ovvero: «Annullare il debito, per permettere alla popolazione di continuare a vivere». Disse Sankara: «Loro, i finanziatori, certo non moriranno se noi non ripagheremo il debito, mentre il nostro popolo sì». La soluzione? Incentivare l’economia nazionale fondata sulla produzione diretta di beni, limitando le importazioni. Lo stesso Sankara, ricorda Bifarini, si vantò dell’abito che indossava – una camicia di cotonella, prodotta dagli artigiani burkinabé. Riguardando il video di quello storico discorso, la Bifarini annota: «La platea è sconcertata ma applaude, la forza trascinatrice è quella di un rivoluzionario, la lungimiranza di un visionario». Solo due mesi e mezzo dopo, a soli 37 anni, Sankara verrà assassinato. Era perfettamente cosciente del rischio che correva: «È possibile – disse – che, a causa degli interessi che minaccio, a causa di quelli che certi ambienti chiamano “il mio cattivo esempio”, con l’aiuto di altri dirigenti pronti a vendersi la rivoluzione, potrei essere ammazzato da un momento all’altro. Ma i semi che abbiamo seminato in Burkina e nel mondo sono qui», aggiunse.Quei semi, sappiatelo, «nessuno potrà mai estirparli: germoglieranno e daranno frutti». Concluse: «Se mi ammazzano, arriveranno migliaia di nuovi Sankara». Purtroppo, osserva Ilaria Bifarini, la sua profezia «si è avverata solo a metà», e i nuovi Sankara «verranno uccisi sul nascere». Proprio a Sankara, il Movimento Roosevelt dedica un importante convegno, in programma il 3 maggio a Milano. Tema: il modello Sankara come antidoto alla crisi dei migranti. In altre parole: restituire piena sovranità all’Africa, in modo da fermare l’esodo dei profughi economici. Nel convegno, la figura di Sankara sarà equiparata a quelle di Carlo Rosselli, martire antifascista e fautore del socialismo liberale, e del premier svedese Olof Palme, assassinato a Stoccolma nel 1986 da un killer tuttora sconosciuto. Olof Palme aveva impegnato lo Stato nel supportare le aziende svedesi in difficoltà, imponendo l’azionariato diffuso tra gli stessi operai, e si era battuto per la libertà dell’Africa protestando – prima di chiunque altro – per la scandalosa detenzione di Nelson Mandela. Come Sankara, Palme sapeva bene a quali risultati avrebbe condotto il neoliberismo coloniale nel continente nero, che costò la vita al giovane presidente del Burkina Faso.Temi di strettissima attualità, come sappiamo, che la stessa Ilaria Bifarini ha sviscerato nel saggio “I coloni dell’austerity”: è proprio l’imperialismo neoliberista a depredare l’Africa, spingendo verso l’Europa i “privilegiati” che possono pagarsi il viaggio della speranza sui barconi. Sono migranti attratti dal miraggio di un’Europa che in realtà non ha più intenzione di accoglierli, alle prese a sua volta con le contorsioni di una crisi più finanziaria che economica, innescata dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice che ha inquinato la politica. In che modo? Mettendo fine al socialismo liberale ispirato da Rosselli, di cui proprio il carismatico Olof Palme era il leader più autorevole. Da allora, l’Europa ha cominciato a parlare una sola lingua: quella del Trattato di Maastricht, che ha impoverito gli europei e allineato il vecchio continente allo schema di dominio che – dopo la breve e illusoria parentesi della decolonizzazione – ha finito per schiavizzare l’Africa di Sankara.Sono passati trent’anni anni da quando il presidente rivoluzionario del Burkina Faso, ribattezzato “il Che Guevara africano”, venne ucciso – secondo la ricostruzione ormai ufficiale – dal suo ex braccio destro nonché successore Blaise Campaorè, verosimilmente appoggiato dai francesi e da altre forze internazionali. Come ricorda Ilaria Bifarini nel suo blog, Sankara era divenuto un personaggio «troppo scomodo, per il piano egemonico mondiale messo in atto dai poteri finanziari internazionali attraverso lo strumento del debito». Studiosa di economia (“bocconiana redenta”), nonché autrice di saggi di successo – dalla crisi neoliberista dell’euro a quella dei migranti – Ilaria Bifarini rievoca il celebre “discorso sul debito” tenuto da Sankara nel 1987 ad Addis Abeba all’assemblea dell’Oua, l’Organizzazione per l’Unità Africana. Un’orazione memorabile, «di una forza e di una chiarezza straordinarie», che rappresenta «un appello a tutti i rappresentanti internazionali a considerare le cause e la reale natura del debito, che non è altro che una nuova e ancora più pervasiva forma di schiavitù, quella finanziaria». Lasciateci in pace, disse Sankara: non abbiamo bisogno degli aiuti della Banca Mondiale e del Fmi, di cui gli africani poi diventano prigionieri.
-
Magaldi: niente è come sembra, e in troppi stanno barando
Viviamo strani giorni, cantava Battiato. Prendi l’Italia: in soli cinque anni ha voltato le spalle al conducator Renzi, trionfatore alle europee con il 40%, per dare una chance all’alieno governo gialloverde. Ma non doveva regnare in eterno, il Fanfarone di Rignano? Com’è possibile che si sia letteralmente estinto, consegnando il paese (provvisoriamente) agli apprendisti stregoni grillini e ai vetero-leghisti già forcaioli, abilmente riciclati da Salvini? Esecutivo bifronte, in tutti i sensi: diviso ormai sul 90% del programma, e incagliato su troppi nodi difficili da sbrogliare. Tanto peggio per i 5 Stelle, i più esposti al vento contrario: facile alzare la voce coi migranti, grazie a una politica low-cost, tutta immagine e quasi senza stanziamenti. Più complicato esaudire il sogno costoso del reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio. Tutti colpevoli, in ogni caso. Il loro peccato? Uno: non aver osato assolvere al compito ricevuto dagli elettori, e cioè riscattare l’Italia liberandola dalla tagliola di un’Ue finita in mano a un potentissimo clan di oligopolisti prezzolati. Lo afferma Gioele Magaldi, il primo a cantare fuori dal coro neo-sovranista di fronte al cedimento del governo Conte sul deficit 2019. Il presidente del Movimento Roosevelt è stato anche il primo (oltre che l’unico) a smascherare il teatrino dell’austerity: dietro il rigore – ha spiegato nel saggio “Massoni” – c’è assenzialmente un club di supermassoni reazionari. Ecco perché, anziché sparare a casaccio contro “l’Europa”, sarebbe più utile fare nomi e cognomi.Lo stesso dicasi per l’altro tasto dolente, assai caro a tanta parte del popolo del web: l’odiato imperialismo yankee, il Deep State che trasforma la superpotenza egemone in uno strumento di violenza e guerra, sfruttamento e oppressione (tema in auge praticamente sempre, ora rinverdito dalle vistose pressioni Usa sul Venezuela di Maduro). A costo di ripetersi, Magaldi insiste: sono stato proprio io – dice, in web streaming su YouTube – a spiegare, più precisamente di altri, quale America ha fatto del male agli americani e al resto del mondo. Brutto spettacolo: le trame golpiste della superloggia “Three Eyes”, il neoliberismo a mano armata, i neocon. Ma erano americani anche i Roosevelt e i Kennedy, così come Martin Luther King. E se tutte le potenze mondiali hanno sempre e solo perseguito la logica mercantile del dominio, almeno – dice Magaldi, convinto atlantista – gli Stati Uniti restano la prima democrazia del mondo e la prima repubblica a essersi dotata di un governo parlamentare elettivo, sulla scorta di una Costituzione che proclamò l’estrema eresia del “diritto alla felicità”, per tutti, in un mondo allora retto soltanto da imperi e monarchie, senza diritti e senza suffragio universale. Questo ovviamente non assolve l’America dai suoi peccati, ma almeno – sottolinea Magaldi – dovrebbe imporre il sano esercizio dei distinguo: buoni e cattivi non sono mai la stessa cosa, anche se coabitano sotto la stessa bandiera.Viviamo strani giorni, inutile negarlo: i 5 Stelle sprofondano alle regionali in Abruzzo facendo impallidire il 40% incassato un anno fa dagli abruzzesi alle politiche, ma lo stesso Salvini – pensando a Renzi – farebbe meglio a non dormire sugli allori. E se il voto è diventato così volatile, ragiona Magaldi, è perché gli italiani sono veramente stufi di essere presi in giro: l’allora padrone del Pd aveva solo finto di sfidare Bruxelles, e i gialloverdi sembrano scivolare lungo la stessa china. Non avendo osato tener duro sul deficit per alimentare la crescita, saranno costretti – vista l’inevitabile flessione del Pil – a procedere con sanguinosi tagli lineari. Strani giorni, appunto: mentre diventano sempre più evanescenti le categorie del Novecento, destra e sinistra, visti soprattutto gli imbarazzanti portavoce del centrodestra e del centrosinistra, stenta ancora ad affermarsi una visione del presente più realistica, capace cioè di fotografare il vero scontro: da una parte l’apolide oligarchia del denaro, dall’altra i difensori della sovranità democratica (che non è né di destra né di sinistra, ma è stata confiscata dai poteri privatizzatori col servile contributo di entrambi gli schieramenti, che per tutta la Seconda Repubblica hanno solo e sempre fatto finta di combattersi, per poi eseguire i dettami neoliberali della medesima élite transnazionale).Strani giorni, questi, in cui Di Maio – in preda al panico pre-elettorale da sondaggi – organizza fuori tempo massimo uno sgangherato gemellaggio con frange dei Gilet Gialli, ottenendo uno scontro diplomatico con la Francia, in rivolta contro il supermassone Macron. Più che azzoppato, il ducetto dell’Eliseo: praticamente impresentabile, eppure capace di siglare il tragicomico Trattato di Aquisgrana con Angela Merkel, con la quale poi Giuseppe Conte si intrattiene amabilmente al bar, sparlando dei suoi “azionisti” politici, i 5 Stelle. Tanto teatro, e pochissima sostanza commestibile. Non è sul tavolo – su nessun tavolo – il cambio di paradigma, keynesiano, per il quale Gioele Magaldi si batte. In queste sabbie mobili, il Movimento Roosevelt annuncia inziative di sapore strategico nei prossimi mesi. A Londra il primo appuntamento, il 30 marzo: un’agenda da aggiornare con Nino Galloni, Guido Grossi, Ilaria Bifarini, Antonio Maria Rinaldi e altri cervelli dell’economia democratica, per chiarire che – obbedendo a questa Ue – non si va da nessuna parte.Poi in Sicilia è in arrivo un forum sui migranti, per ribadire che il Mediterraneo e l’Africa si possono (e si devono) abbracciare, con una visione strategica di partnership, nel segno del rispetto per la sovranità del terzo mondo. Una battaglia costata la vita a Thomas Sankara, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, il 3 maggio. L’evento milanese vuol recuperare la memoria di Sankara ma anche di Carlo Rosselli, alfiere italiano del socialismo liberale «assassinato dai fascisti ma detestato anche dai comunisti». Due icone, per il fronte progressista universale che si richiama ai diritti dell’uomo, esattamente come lo svedese Olof Palme, altro massone progressista, ucciso a Stoccolma dai sicari dell’oligarchia euro-atlantica che progettava questa globalizzazione e questa Unione Europea. Globalizzazione che poi ha realizzato, sottolinea Magaldi, con il pieno contributo di supermassoni neo-aristocratici mediorientali, asiatici, cinesi e russi.Ecco perché è così difficile, oggi, “nazionalizzare” una geopolitica ormai interamente “privatizzata” da opachi comitati d’affari, che – all’occorrenza – si dedicano anche al terrorismo, alle “rivoluzioni colorate”, ai maxi-attentati come quello dell’11 Settembre per poi incassare i dividendi della “guerra infinita” (Iraq e Afghanistan, Libia e Siria), fino all’estrema propaggine dell’orrore, incarnata dall’Isis del supermassone Al-Baghdadi. Ci stanno sanguinosamente prendendo in giro? Esatto, ribadisce Magaldi. E la via d’uscita, insiste, è una sola: si chiama democrazia. Un’Ue non-democratica non può continuare a tiranneggiare il governo italiano, che sarà pieno di difetti ma è stato votato dai cittadini. E se Lega e 5 Stelle fingono di dormire, Magaldi scommette sul cantiere del “Partito che serve all’Italia”: un modo per dire che, prima o poi, il velo dovrà cadere. Obiettivo: smascherare il vero avversario e consentire allo Stato di tornare a spendere per i cittadini, mettendo fine allo scandalo silenzioso dell’avanzo primario, con gli italiani che – da troppi anni – versano allo Stato più denaro, sotto forma di tasse, di quanto il governo non ne spenda per loro.Viviamo strani giorni, cantava Battiato. Prendi l’Italia: in soli cinque anni ha voltato le spalle al conducator Renzi, trionfatore alle europee con il 40%, per dare una chance all’alieno governo gialloverde. Ma non doveva regnare in eterno, il Fanfarone di Rignano? Com’è possibile che si sia letteralmente estinto, consegnando il paese (provvisoriamente) agli apprendisti stregoni grillini e ai vetero-leghisti già forcaioli, abilmente riciclati da Salvini? Esecutivo bifronte, in tutti i sensi: diviso ormai sul 90% del programma, e incagliato su troppi nodi difficili da sbrogliare. Tanto peggio per i 5 Stelle, i più esposti al vento contrario: facile alzare la voce coi migranti, grazie a una politica low-cost, tutta immagine e quasi senza stanziamenti. Più complicato esaudire il sogno costoso del reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio. Tutti colpevoli, in ogni caso. Il loro peccato? Uno: non aver osato assolvere al compito ricevuto dagli elettori, e cioè riscattare l’Italia liberandola dalla tagliola di un’Ue finita in mano a un potentissimo clan di oligopolisti prezzolati. Lo afferma Gioele Magaldi, il primo a cantare fuori dal coro neo-sovranista di fronte al cedimento del governo Conte sul deficit 2019. Il presidente del Movimento Roosevelt è stato anche il primo (oltre che l’unico) a smascherare il teatrino dell’austerity: dietro il rigore – ha spiegato nel saggio “Massoni” – c’è essenzialmente un club di supermassoni reazionari. Ecco perché, anziché sparare a casaccio contro “l’Europa”, sarebbe più utile fare nomi e cognomi.
-
Barnard: Julian Assange verso la morte. E voi codardi, zitti
Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.Dopo aver fatto da sentinella per 11 giorni sotto la finestra dove il giornalista australiano è sostanzialmente detenuto, Paolo Barnard getta la spugna. La denuncia che affida al suo blog è tale da coprire di vergogna l’intera opinione pubblica mondiale, a cominciare da attivisti per molti aspetti valorosi – come lo stesso John Pilger – che, dopo aver santificato Assange, oggi (nel momento del bisogno) lo hanno di fatto abbandonato al suo destino. Nessuna seria mobilitazione è in corso – in nessun paese – per premere sui governi in modo da scongiurare il peggio, ovvero: evitare che sia sottoposto a un processo “medievale”, negli Stati Uniti, l’uomo che sperava di migliorare il mondo (per la maggior libertà di tutti noi) rischiando in prima persona pur di rendere pubblico il lato oscuro del potere. Dal 2007, WikiLeaks ha pubblicato oltre un milione e 200.000 documenti riservati: dalla guerra in Afghanistan fino alle rivelazioni sulla corruzione in Kenya. Grazie a WikiLeaks il mondo ha scoperto come vengono torturati i prigionieri catturati dagli Usa e detenuti a Guantanamo.Nel 2010, il network di Assange ha svelato alla grande stampa (“New York Times”, “The Guardian”, “Der Spiegel”) il contenuto di alcuni documenti riservati, dai quali emergono aspetti nascosti della guerra in Afghanistan: l’uccisione di civili, l’occultamento dei cadaveri, l’esistenza di un’unità segreta americana dedita a «fermare o uccidere» i Talebani anche senza un regolare processo. Inevitabile che Julian Assange venisse perseguitato con il più ovvio dei pretesti, come l’accusa di “stupro” spiccata contro di lui nel 2010 dal tribunale di Stoccolma. Strano stupro: avrebbe avuto rapporti sessuali “non protetti”, ma con donne consenzienti. Il 7 dicembre 2010, Assange si presentò spontaneamente a Scotland Yard, dove venne arrestato (su mandato di cattura europeo). Dopo nove giorni di carcere venne rilasciato su cauzione. Il vero pericolo, fin da allora, è la possibile richiesta di estrazione negli Usa, una volta che Assange fosse trasferito in Svezia: l’accusa per spionaggio, negli Stati Uniti, può costare l’ergastolo e anche la pena di morte.Il fondatore di WikiLeaks è segregato dal giugno del 2012 nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, paese a cui aveva chiesto asilo politico. Lo status di rifugiato gli è stato concesso il 16 agosto 2012 dal governo di Rafael Correa, temendo che la Gran Bretagna lo arrestasse per estradarlo a Stoccolma. Nel gennaio 2016, il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria ha decretato che la permanenza forzata di Assange nell’ambasciata è configurabile come “detenzione arbitraria e illegale” da parte di Gran Bretagna e Svezia. Anche per questo, l’11 gennaio 2018 l’Ecuador ha confermato di aver concesso ad Assange la propria cittadinanza. Ricapitolando: l’uomo che rappreasenta la miglior fonte giornalistica del mondo è costretto a vivere in una stanzetta, da sei anni, per sottrarsi al pericolo di subire un processo sommario e magari di essere condannato a morte, una volta estradato negli Usa dopo il trasferimento in Svezia. E intanto sta franando anche il fragile diaframma che finora lo ha protetto. Il problema? Non c’è più Rafael Correa, alla guida dell’Ecuador.Il nuovo governo del paese centramericano è oggi totalmente pro-Usa, ricorda Paolo Barnard: e il neo-eletto presidente Lenìn Moreno ha definito il direttore di WikiLeaks «un sasso che mi sono ritrovato nella scarpa», e gli è totalmente ostile. Ormai la vita di Assange, nei pochi metri quadri in cui è ospitato, è diventata «un vero inferno di proibizioni e limiti». Assange è isolato dal mondo, senza cure, vessato dagli agenti interni. «Lo stanno demolendo nella psiche e nel corpo per costringerlo ad arrendersi e a uscire». L’autorevole “British Medical Journal” ha mandato uno specialista a visitarlo e ha denunciato come «drammatiche» le sue condizioni di salute, fisiche e mentali, dopo 6 anni di questo tipo di prigionia. E la situazione sta precipitando, avverte Barnard: «Da poche settimane si è venuto a sapere che ora esiste ufficialmente in America un’imputazione (cosiddetta segreta), cioè un capo d’accusa, contro Assange, cosa che prima mai era stata rivelata, ma che tutti temevano».Ciò significa che ora «la Gran Bretagna è sotto un’enorme pressione per estradarlo», appena uscisse dall’ambasciata. Peggio: potrebbe essere addirittura «prelevato di forza, col permesso dell’Ecuador». Il timore dell’esistenza di questa imputazione tenuta nascosta aggiunge Barnard, è stato precisamente il motivo per cui Julian Assange da 6 anni è costretto a vivere segregato nell’unica ambasciata che gli ha dato asilo, ma che ora gli è nemica. Ce ne sarebbe abbastanza per mobilitare almeno l’opinione pubblica, attraverso la stampa. E invece, scrive Barnard, arriva un’altra amara sopresa: i giornali non parlano più di Assange, perché sono stati minacciati. «Il prestigiosissimo inglese “The Guardian” – scrive Barbard – è il quotidiano che sotto la direzione di Alan Rusbridger lanciò gli scoop di WikiLeaks nel mondo, vendendo oceani di copie e sventolando Assange come un eroe del giornalismo». Ma ora, aggiunge, accade qualcosa d’incredibile. «Dal 2013, il quotidiano adotta un altro “whistleblower” di fama mondiale, Edward Snowden, e inizia a mollare Assange».In altre parole: si rischia di meno a parlare di Snowden, l’uomo che ha smascherato lo spionaggio di massa della Nsa, e che ora vive comunque al sicuro, a Mosca, protetto dalla Russia di Putin. È probabilissimo che, senza l’esempio di Assange, Snowden non avrebbe mai trovato il coraggio di uscire allo scoperto. Ma il “Guardian” sembra averlo dimenticato. E c’è di peggio: Barnard cita un editorialista del quotidiano inglese, Luke Harding, che si era lanciato in una crociata per tentare di dimostrare la presunta collusione di Putin con Trump nelle presidenziali 2016. Harding, che era già stato screditato per non aver prodotto praticamente una singola prova (ma solo illazioni), ora pubblica ora uno “scoop” proprio sul “Guardian”: Paul Manafort, il gran manager elettorale di Trump, secondo Harding avrebbe visitato Assange all’ambasciata diverse volte, e questo proverebbe che in realtà WikiLeaks ha davvero subdolamente pubblicato le nefandezze della Clinton per aiutare Donald, sotto ordini di Mosca. «La stampa mondiale riprende il cosiddetto scoop di Harding, e questo sembra essere il colpo di grazia per Julian. Ma in meno di 48 ore il tutto cade a pezzi», scrive Barnard. «In una settimana Harding viene demolito, al punto che il “Washington Post” scrive che il suo scoop sembra sempre più “una bufala”».Il 1° gennaio, lo stesso Barnard ha piantonato la sede del “Guardian” con un cartello appeso al collo. Il testo: “Sono un giornalusta. Assange era l’eroe del Guardian. Ora lo hanno degradato a falsario. Perché?”. Il sit-in di Barnard, a tre metri dall’ingresso della redazione del giornale, non passa inosservato: reporter, segretarie e tecnici rallentano, per leggere il suo cartello. Il secondo giorno, scrive, le cose si mettono male: «La security diviene ostile (“abbiamo ordini”), i colleghi che entrano ed escono evitano il contatto visivo, vengo fotografato da una guardia “sotto richiesta della direzione”». Nonostante ciò, alcuni giornalisti inglesi si fermano a parlare con il collega italiano, co-fondatore di “Report” con Milena Gabanelli. Le loro ammissioni sono penose: «Sì, dicono, c’è un ordine di squadra di mollare e screditare Assange; è una questione decisa dal gruppo editoriale, al top; si parla di pressioni insostenibili da parte del ministero degli esteri britannico e degli Usa; c’è addirittura shock, fra i giornalisti del “Guardian”, per questa decisione».Questo gli dicono, i cronisti inglesi. Uno di loro, Damien Gayle, addirittura rilancia su Twitter l’appello di Barnard per Assange, e giorni dopo gli confesserà: «Sono stato in ansia a twittarti, ma dovevo farlo perché la libertà di dissenso dovrebbe essere l’anima stessa del mio giornale. Spero non mi licenzino». È amaro, Barnard, dopo la sua generosa missione londinese: unico giornalista italiano (senza più giornali che lo pubblichino) a interessarsi della sorte del “prigioniero” più famoso del mondo. Osserva: «Sono convinto che tentare d’incriminare un direttore di testata, Julian Assange e WikiLeaks, per aver rivelato al mondo documenti riservati o dei servizi segreti su alcune nefandezze e crimini contro l’umanità di vari poteri attraverso l’uso delle “soffiate” (i “whistleblowers”), per poi punirlo con pene devastanti, può essere la fine del giornalismo». Infatti, aggiunge, «nessun “whistleblower” mai più avrà il coraggio di farsi avanti per svelare le porcherie segrete dei governi o delle corporations, e senza di loro il giornalista diviene al meglio un testimone di fatti, ma mai sarà in grado di rivelare la vere e profonde fonti degli eventi».La verità sul motivo per cui oggi praticamente tutti i governi del mondo appoggiano l’estradizione di Assange negli Usa – dopo le rivelazioni di WikiLeaks sulle porcherie elettorali della Clinton, sulle stragi americane in Iraq e Afghanistan o sulle reti di spionaggio della Cia su civili e aziende – non è assolutamente quella che ci raccontano, cioè che WikiLeaks avrebbe irresponsabilmente pubblicato segreti di Stato e di fatto aiutato Trump o l’Isis. Macché: il vero motivo, sottolinea Barnard, è questo: «Il potere rimane forte quando resta nell’oscurità. Una volta esposto alla luce del sole, comincia a evaporare». La frase non è di Barnard, ma dall’insigne politologo americano Samuel Huntington, co-autore del famigerato saggio “La crisi della democrazia” con cui il committente, la Commissione Trilaterale, a metà degli anni Settanta detterà le regole per lo svuotamento delle nostre democrazie. La frase sul potere, che diventa fragile se viene fatto uscire allo scoperto, Huntington l’ha scritta nel libro “American Politics. The promise of disharmony”, uscito nel 1983. «E’ questo il peccato mortale per cui oggi stanno distruggendo Julian Assange», sottolinea Barnard. «E’ solo per questo».Nonostante le imprecisioni di cui è responsabile, infatti, «WikiLeaks è l’unica pubblicazione al mondo che davvero ha devastato questo principio di dominio dei poteri, pubblicandone alla luce del sole le azioni più inconfessabili. E lo ha fatto grazie ai “whistleblowers”, e solo grazie a loro». Quindi, insiste Barnard, «se Assange sarà estradato negli Usa – il paese che nel nome della Sicurezza Nazionale (sotto cui sarebbe processato Assange) tortura, stermina innocenti coi “drones”, nega ogni diritto di legge ai detenuti e straccia ogni singola convenzione Onu sui diritti umani – questo direttore di testata sarà macellato come nessun giornalista prima, secondo l’infame principio del “ne ammazzi uno per avvisarne cento”. Impossibile che riceva un giusto processo in America, oggi».Inutilmente, Barnard ha fatto appello a tutti gli attivisti fino a ieri schierati con Assange, suggerendo loro di battere due strade di enorme peso, riguardo all’esilio coatto (e precario) del fondatore di Wikileaks. Primo atto d’accusa: la violazione, da parte della Gran Bretagna, dei princìpi della Magna Carta e dell’Habeas Corpus, cioè «i due pilastri della giurisprudenza mondiale, nati 800 anni fa proprio in Inghilterra». Seconda strada: la possibilità di accusare Londra in base alla Convenzione dell’Onu contro la Tortura, ratificata dagli inglesi nel 1987. Il trattato dice esplicitamente dice che tortura è “estrema sofferenza, sia fisica che mentale, inflitta di proposito a un individuo”. Il che è esattamente «ciò che i governi britannici stanno facendo ad Assange da 6 anni, confinato in semi-isolamento, privato di cure mediche, senza luce naturale e sorvegliato con ferocia a ogni mossa». Risposte? Nessuna. Salvo l’onesta e penosa ammissione di Damien Gayle, del “Guardian”: abbiamo paura di essere licenziati, se solo proviamo a riparlare di Assange.Era il 2011 quando un parlamentare socialista norvegese, Snorre Valen, osò candidare Julian Assange al Premio Nobel per la Pace: «Wilikeaks – disse – è il paladino della libertà di espressione e della trasparenza nel XXI secolo». Parole oggi improponibili, impensabili. Lo conferma la costernazione di Paolo Barnard, dopo 11 giorni spesi a Londra nella solitaria difesa del “prigioniero”. «Torno a casa – scrive – con la conferma di ciò che ho sempre pensato: ha vinto la Commissione Trilaterale, quando nel 1975 decise che il popolo andava reso “apatico” con l’esplosione dei mass media sia ortodossi che “alternativi” (oggi i social), dove infuriano epiche leggende mentre nessuno davvero fa un cazzo nelle strade perché è fatica e rischio, dove si creano i miti Vip per il palcoscenico, e dove i veri eroi rimangono soli come cani». Ha vinto Huntington, ha perso Assange? Peggio: abbiamo perso tutti, in partenza, se non siamo capaci di muovere un dito per tutelare un campione dell’informazione. Ad Assange, peraltro, lo stesso Barnard non ha mai fatto sconti: certi “leak” possono davvero aver messo in pericolo alcuni esponenti dell’intelligence, violandone la segretezza. In cambio, però, il mondo ha potuto aprire gli occhi su realtà sconvolgenti. Non è strano che l’establishment tenti di soffocare Assange, in modo che la sua punizione sia d’esempio per chiunque altro volesse imitarlo. Lo scandalo vero è il silenzio assordante dell’opinione pubblica, per la quale Assage ha messo in gioco la sua vita.Ci ha rivelato verità indicibili, rendendoci più consapevoli e quindi più liberi. Ma ora Julian Assange può crepare, nella sua stanzetta-prigione, senza che nessuno muova un dito per salvarlo: giornali, attivisti, intellettuali, politici, governi. Si è immolato per tutti, con le esplosive rivelazioni affidate a WikiLekas. Sperava di suscitare un’ondata di protesta capace di scuotere il potere. E immaginava che l’indignazione lo avrebbe protetto dalla vendetta dell’establishment. Ma si sbagliava: Julian Assange sta morendo giorno per giorno: l’ambasciata ecuadoregna di Londra, che finora l’ha tenuto al riparo dall’estradizione, potrebbe non tutelarlo più. È così forte, la pressione degli Usa – sull’Ecuador, e sulle autorità britanniche – che le teste di cuoio inglesi potrebbero fare irruzione nella sede diplomatica e caricare Assange, il martire dell’informazione libera, sul primo volo per Washington. È sconvolgente il report che Paolo Barnard fornisce da Londra, dove ha trascorso le feste natalizie presidiando il “carcere” di Assange, agitando vistosi cartelli. Desolazione e solitudine. Peggio: i giornalisti del “Guardian”, i primi a presentare Assange come un eroe, ora confessano di essere intimiditi e ricattati. Per questo nessuno rimetterà in prima pagina il direttore di WikiLeaks. Julian Assange è praticamente già morto. Alla faccia dei diritti civili e dei diritti umani di cui l’Occidente si vanta.
-
Migranti? Salvini ci distrae dal Mostro: il pareggio di bilancio
Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?Senza una drastica inversione di tendenza, scrive Barnard nel suo blog, l’Italia farà la fine della Svezia: pur essendo dotato di moneta sovrana, il paese scandinavo (patria storica del welfare avanzato) per reggere l’accoglienza dei migranti – tantissimi, 600.000 negli ultimi 5 anni, in un paese di 10 milioni di abitanti, «che in proporzione è come se l’Italia ne avesse avuti 3.600.000» – il governo di Stoccolma, socialdemocratico ma plagiato dal dogma neoliberista dell’Ue, ha letteralmente massacrando la popolazione svedese a suon di tasse. Risultato: le imminenti elezioni rischiano di vincerle a mani basse i populisti Democratici Svedesi, feroci sui migranti ma letteralmente muti sul vero dramma, il pareggio di bilancio. Proprio come Salvini, accusa Barnard, che di fronte all’esodo africano sembra «il vigile tonto che con la paletta pensa di fermare lo tsunami in spiaggia». La sinistra? «Fa venir da vomitare, usa i neri con un cinismo da impiccagione sul posto: non sanno proporre una soluzione sistemica al motivo per cui migrano, e predicano invece la loro accoglienza (a casa e a spese degli italiani sfigati, non certo a casa loro). Questo insulto alla geopolitica gli lava l’anima, ma poi lascia 389 milioni di africani nella disperazione e non risolve un cazzo da 26 anni». Sono almeno 500 milioni, scrive Barnard, gli esseri umani a rischio di migrazione: per ogni sorta di motivo, dal neo-colonialismo europeo all’emergenza climatica, «e non li fermerai mai coi divieti di Salvini». La soluzione? «Deve essere un accordo economico sistemico internazionale».In ogni caso, sottolinea Barnard, i migranti sono il problema numero 300 del nostro “portafoglio”: prima vengono sanità, pensioni, scuola e lavoro. Ben prima dei migranti ci cadono addosso le “chemiotasse” imposte dall’euro, il credito che le banche non concedono, l’Italia che non cresce più da vent’anni. Il problema numero uno è lui: il pareggio di bilancio, «cioè la dittatura Ue che dice che lo Stato deve darti 100 e poi tassarteli tutti e 100, cioè lasciarti nulla nel portafoglio – sanità, pensione, scuola, crescita». Eppure, fateci caso: «La lotta della Lega al nero che sbarca è diventata una tempesta solare», mentre l’opposizione leghista al vero nemico – il pareggio di bilancio – ormai «assomiglia sempre più a un petardo». Salvini? «Sta facendo sbiadire la mostruosità del pareggio di bilancio, che è la prima causa delle pene degli italiani, e li incoraggia a cercare da un’altra parte un capro espiatorio per la loro rabbia da crescente povertà e insicurezza: nell’immigrazione». Per Barnard «è un bypass velenoso, che Salvini alimenta ogni minuto». Il meccanismo «ha una presa micidiale sulla gente» ma è anche «distruttivo», come sta accadendo in Svezia, cioè il paese in crisi verso cui ci starebbe spingendo la Lega, con la sua miopia. Il paradosso, aggiunge Barnard, è che la Lega sulla carta doveva fare l’esatto contrario: mantenerci tutti concentrati sul pericolo numero 1, il pareggio appunto, non distrarci da esso con l’ossessione del pericolo numero 300, cioè gli sbarchi dei migranti.In Svezia ne hanno accolti una quota enorme, sopra il 5% della popolazione nazionale. Tutti assorbiti nel sistema produttivo: industria, sanità, servizi sociali. Economia in crescita, quindi: il Pil è salito del 3,3%, contro la media europea del 2%. Ottimo? No, niente affatto, spiega Barnard: perché poi, dati alla mano, nelle zone meno popolate (il 90% del paese) stanno chiudendo ospedali e consultori. «Ne soffrono le donne, a cui ora le autorità stanno insegnando come partorire in auto perché spesso la maternità più vicina è a oltre 100 km di distanza. Non solo: a volte le partorienti svedesi vengono respinte dai consultori perché sono stipati di pazienti, fra cui anche migranti». Le liste d’attesa in sanità sono letteralmente esplose: non per colpa dei migranti, però, ma per via dei tagli decisi – a monte – dal governo, preoccupato in modo demenziale di raggiungere ogni anno il pareggio di bilancio imposto dall’Ue. Ormai, «quello che viene vantato nel mondo come un sistema di welfare che assiste “dalla culla alla tomba” e che mantiene chi perde il lavoro in relativo agio, oggi fa acqua da tutte le parti». Idem il lavoro: «La disoccupazione svedese, che dovrebbe essere inesistente, è al 7%, e questo nonostante la già citata crescita». Un dato che «fa vergognare la nazione scandinava a confronto con la spietata America, dove i disoccupati sono al 3,9%».Crisi da rigore di bilancio, in salsa nordica: «Gli svedesi non trovano abbastanza case, e se le trovano costano una fortuna. In parte il problema è dovuto al fatto che i 600.000 migranti hanno assorbito alloggi, ma molto di più è dovuto a un mercato immobiliare selvaggio causato da politiche di governo e banca centrale che hanno permesso liquidità a costo quasi zero, quindi incentivato acquisti sempre più frenetici che hanno alzato i prezzi alle stelle, che a loro volta hanno costretto gli svedesi a indebitarsi con le banche da pazzi per avere una casa. Nel frattempo lo Stato non è affatto intervenuto con edilizia popolare per aiutare gli esclusi». Ecco allora il vero motivo del disastro che sta esasperando gli svedesi: e cioè «l’ossessione da parte del governo, persino in una nazione sovrana nella moneta, di pareggiare i bilanci, e addirittura di fare il surplus di bilancio». Per cosa, poi? «Solo poter vantare nelle casse dello Stato un assurdo bottino che contabilmente non ha senso, ma soddisfa i “numerini degli economisti europei”. Ecco come agiscono i pareggi e surplus di bilanci, cioè la macchina d’impoverimento peggiore della storia, in Svezia». E questa, aggiunge Barnard, è «la vera fucina dell’esasperazione dei cittadini, che poi sbagliano clamorosamente target e se la prendono coi migranti (come da noi)».Follia: il governo svedese «non solo pareggia i bilanci da anni, ma ora addirittura fa surplus di bilancio da 4 anni, e intende insistere in questa strage delle tasche dei cittadini fino al 2021 almeno». Questo, sottolinea Barnard, «è il motivo dei drastici tagli governativi a sanità, alloggi pubblici per gli ultra-indebitati, sicurezza e persino welfare. I fondi ai migranti, qui, sono irrilevanti». Altra follia: «Mentre il governo spende 100 per gli svedesi e li tassa 120, ha avuto la buona idea di aumentare le tasse, con l’aliquota massima oltre il 70%, e di tagliare a raffica una serie di sconti fiscali». Chi sta quindi sta assassinando i redditi svedesi? «Risposta: svedesi con pelle bianchissima seduti a Stoccolma, non stranieri di pelle scura (per noi italiani invece è il contrario: gli assassini economici sono in effetti stranieri, ma sempre di pelle bianca, e stanno a Bruxelles)». Terza follia: «Questa idrovora di tassazione e tagli di spesa pubblica nel portafoglio di aziende e famiglie svedesi accade mentre, secondo i dati del ministero delle finanze, il costo per ogni nativo svedese per l’accoglienza dei migranti è di 6.800 euro all’anno in ulteriori tasse. E questo grida vendetta, perché la Svezia è paese a moneta sovrana, e per definizione non necessita di tasse per spendere per qualsiasi cosa, inclusi i migranti. Quindi, se i migranti pesano in parte sui portafogli degli svedesi, la colpa è tutta e solo della scelta di governo di ubbidire ai diktat imperanti in Europa».Ed ecco che scatta il micidiale bypass delle colpe, conclude Barnard: un numero sempre maggiore di svedesi «mica se la prendono col loro demenziale governo e con le sue devastanti politiche fiscali». Al contrario, «se la prendono coi migranti». In pole position, nei sondaggi per le vicinissime elezioni, c’è il partito «di estrema desta e rabbiosamente anti-immigrazione», i Democratici Svedesi, dato addirittura vincente. E qui sta il dramma: se si osserva la piattaforma politica dei Democratici Svedesi, si scopre che il nazionalismo, la patria, l’identità e la xenofobia sono il 98%, mentre il resto «è un’accozzaglia di belle intenzioni su lavoro, anziani, sanità, commercio, ma nulla di specifico sulla vitale necessità di demolire ciò che davvero sta devastando famiglie e aziende svedesi, che è il pareggio (o surplus) di bilancio». Nel loro programma non esiste la voce “abolizione pareggi e surplus di bilancio”. «Strombazzano solo contro le politiche troppo generose sui migranti». Risultato? «Il dramma nordico rimarrà inalterato, esattamente come rimarrà inalterato il dramma italiano se Matteo Salvini, come i Democratici Svedesi, continua a gonfiare l’ipertrofica bolla delle navi nei porti, mentre pacatamente sta costruendo un nulla di fatto su “no euro”, “no pareggio di bilancio”, e su Italexit». E siatene certi, chiosa Barnard: «Dopo le roboanti boutade “macho” dell’uomo forte italiano, nel vostro portafoglio, nella sanità, nelle pensioni, nelle scuole, nel lavoro tuo e dei figli, nelle ‘chemiotasse’, nei crediti che non ti danno, e nell’Italia che non cresce da 20 anni non ci sarà un nero. Ci sarà Salvini».Se c’è qualcosa di “vomitevole”, nella politica italiana – per usare un’espressione cara al soave Macron – è l’ipocrita cinismo con cui la sinistra (politica, stampa, establishment) azzanna Salvini in materia di migranti. L’altro problema? Enorme: facendo tutto quel rumore solo sul problema degli sbarchi, non così importante nei numeri, il leader della Lega – messi da parte gli economisti sovranisti Claudio Borghi e Alberto Bagnai – sta letteralmente oscurando il vero dramma nel quale si dibatte il paese. Ovvero: il rigore finanziario imposto da Bruxelles fino al pareggio di bilancio, inserito nella Costituzione dal governo Monti con la complicità di Berlusconi e Bersani. Lo afferma Paolo Barnard, giornalista scomodo e acuminato polemista, il primo a denunciare “l’economicidio” del paese pianificato dalle élite europee neo-aristocratiche. Oligarchi, padroni della finanza e delle multinazionali: sono stati loro a progettare la catastrofe di questa Eurozona, allo scopo di amputare la spesa pubblica per privatizzare tutto e far crollare il sistema economico delle piccole e medie imprese, soffocate dalle tasse. Sempre meno, per tutti noi: “pareggio di bilancio” significa che lo Stato recupera, sotto forma di imposte, tutto quello che ha speso per i cittadini. Peggio ancora, il “surplus di bilancio”: lo Stato anticipa 100, ma poi riscuote 120 (non solo non lascia nulla, ma addirittura impoverisce attivamente il paese). Riuscirà a parlarne, Salvini, quando avrà finito di sbraitare a reti unificare contro “l’invasione” degli africani?
-
Con Palme e Sankara, Europa e Africa sarebbero oasi felici
Soltanto un anno e mezzo separa due omcidi eccellenti, tragicamente decisivi per la sorte dell’Africa e per quella dell’Europa, cioè i due continenti che oggi “dialogano” sulle due sponde del Mediterraneo a colpi di naufragi, soccorsi, respingimenti e menzogne. Era il 15 ottobre del 1987 quando i sicari occidentali spensero il giovane Thomas Sankara, profeta dell’emancipazione africana. Poco prima, dal vertice panafricano di Addis Abeba, il presidente rivoluzionario del Burkina Faso aveva lanciato la sua sfida all’Occidente: «Cancellate il nostro debito e, per favore, dimenticatevi di noi: il vostro “aiuto” è la nostra schiavitù». Migliaia di chilometri più a nord, nella capitale svedese, il premier Olof Palme – leader carismatico dei socialisti europei – sarebbe stato il miglior alleato possibile, per Sankara, se solo fosse stato ancora vivo: fu invece assassinato prima ancora del giovane africano, il 27 febbraio 1986, a Stoccolma, all’uscita di un cinema, da un killer tuttora sconosciuto. «La palma svedese sta per cadere», annunciò due giorni prima Licio Gelli in un telegramma al parlamentare statunitense Philiph Guarino, allora vicinissimo al politologo Michael Ledeen, che era accanto a Craxi (altro terzomondista europeo) durante la drammatica notte di Sigonella, in cui il leader del Psi osò sfidare l’America per proteggere i palestinesi e tutelare lo status italiano di potenza sovrana nel Mediterraneo.Prima di finire ad Hammamet, detronizzato da Mani Pulite, lo stesso Craxi aveva fatto in tempo a rilanciare, ad alta voce, la politica di Sankara: primo passo, la cancellazione unilaterale del debito a carico dei paesi del Terzo Mondo. Un tema particolarmente caro ad Olof Palme, che – alla vigilia dell’omicidio – stava per diventare segretario generale delle Nazioni Unite: carica su cui avrebbe riversato la sua statura morale e politica per cambiare paradigma e rimediare alla storica ingiustizia che oggi costringe milioni di esseri umani ad attraversare il Sahara verso il miraggio di un’Europa ormai barbarica, irriconoscibile, devastata dalla crisi. Che ne sarebbe, dell’Unione Europea, se fosse ancora in circolazione uno statista del calibro di Palme? E dove sarebbe, oggi, l’Africa, se la “primavera” di Sankara avesse potuto contagiare il continente nero? Certo non sarebbe andato in scena lo spettacolo dei barconi, dei negrieri, dei trafficanti di esseri umani. Il Burkina Faso stava diventando un modello pericoloso: siamo piccoli, diceva Sankara, ma cresceremo. Agricoltura, autosufficienza alimentare: obiettivi a portata di mano. Unica condizione: la cancellazione del debito. «I soldi che vi dobbiamo – scandì Sankara al vertice etiope – non sono niente, in confronto a quello che ci avete portato via, in decenni, in termini di risorse pregiate».Insisteva: «Accettare altri finanziamenti dal Fmi e dalla Banca Mondiale significa restare “schiavi” in eterno dell’Occidente». Diceva: facciamo un patto, diventiamo amici; voi ci abbuonate il debito, e noi ci dimentichiamo di tutto il male che ci avete fatto. Gli applausi della platea di Addis Abeba furono la condanna a morte per il leader africano, il cui carisma stava infiammando i giovani di paesi ben più importanti, come il Senegal e il Kenya, la Costa d’Avorio, il Camerun. Meglio ucciderlo, Sankara, facendogli fare la stessa fine di Palme. Risultato: un’Europa inquietante e impoverita, preda di oligarchie fameliche e antidemocratiche. E un’Africa ridotta all’esodo forzato: oltre al consueto sfruttamento coloniale – le risorse “rapinate” dall’Occidente grazie al solito dittatore ladro e “amico” dell’Europa, con l’aggravante del mastodontico “land grabbing” promosso dall’emergente potenza cinese – ora sta letteralmente esplodendo anche la tragedia climatica: il Sahara galoppa a vista d’occhio verso sud, rendendo sterile l’immensa fascia sotto il Sahel, fino a ieri coltivabile. Alle Nazioni Unite c’è chi paventa un “trasloco” mai visto nella storia: fino a mezzo miliardo di profughi climatici, in rotta verso l’emisfero nord.Scenari da apocalisse, che avrebbero bisogno di Premi Nobel per essere almeno inquadrati nella loro devastante pericolosità. Gli attuali leader, invece, si chiamano Juncker e Merkel, Macron, Draghi. Viene da chiedersi a quale differente umanità appartenessero i Palme e i Sankara. C’è da domandarsi da quale miracolosa genetica fossero scaturiti i Gandhi, i Mandela, i Martin Luther King. Visione globale e coraggio personale: qualità indispensabili ma in via di estinzione, a quanto pare, così come i migratori per i quali sta diventando proibitivo l’attraversamento stagionale delle regioni subsahariane ormai desertiche. Sembra che il pianeta Terra non riesca a sottrarsi all’autismo del capitale finanziario globalizzato, la regola del business che – pur di far soldi – non si accorge di stare segando il ramo su cui è appollaiato. Siamo stati abituati alla follia quotidiana del Pil suicida, che sta accumulando costi ambientali incalcolabili. Viviamo in un mondo che mai, nella sua storia, è stato così ricco e, al tempo stesso, così pieno di poveri. E mentre scrutiamo inutilmente l’orizzonte in attesa che torni il sale della giustizia, i maggiori climatologi ci avvertono che potremmo non avere il tempo di rimediare al disastro, perché la Terra potrebbe esaurire la sua pazienza molto prima che questa umanità impazzita si decida a rinsavire, mettendo fine all’orrore delle divisioni che la devastano.Soltanto un anno e mezzo separa due omcidi eccellenti, tragicamente decisivi per la sorte dell’Africa e per quella dell’Europa, cioè i due continenti che oggi “dialogano” sulle due sponde del Mediterraneo a colpi di naufragi, soccorsi, respingimenti e menzogne. Era il 15 ottobre del 1987 quando i sicari occidentali spensero il giovane Thomas Sankara, profeta dell’emancipazione africana. Poco prima, dal vertice panafricano di Addis Abeba, il presidente rivoluzionario del Burkina Faso aveva lanciato la sua sfida all’Occidente: «Cancellate il nostro debito e, per favore, dimenticatevi di noi: il vostro “aiuto” è la nostra schiavitù». Migliaia di chilometri più a nord, nella capitale svedese, il premier Olof Palme – leader carismatico dei socialisti europei – sarebbe stato il miglior alleato possibile, per Sankara, se solo fosse stato ancora vivo: fu invece assassinato prima ancora del giovane africano, il 27 febbraio 1986, a Stoccolma, all’uscita di un cinema, da un killer tuttora sconosciuto. «La palma svedese sta per cadere», annunciò due giorni prima Licio Gelli in un telegramma al parlamentare statunitense Philiph Guarino, allora vicinissimo al politologo Michael Ledeen, che era accanto a Craxi (altro terzomondista europeo) durante la drammatica notte di Sigonella, in cui il leader del Psi osò sfidare l’America per proteggere i palestinesi e tutelare lo status italiano di potenza sovrana nel Mediterraneo.
-
Dopo le elezioni, tutto come prima: l’Italia resta sottomessa
Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordololiberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 25%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».Esponente del Movimento Roosevelt, scrittore, simbologo, avvocato di lungo corso con un passato socialista, Carpeoro ha le idee chiare sul voto: «Centrodestra o 5 Stelle, non cambia niente: non esiste un rischio maggiore, è la stessa cosa. Perché chiunque vince, lo fa in nome di una sovragestione unica, che porta allo stesso tipo di governo», ha detto Carpeoro, a urne ancora aperte. «E’ assolutamente irrilevante, sapere chi vince: se i partiti che vincono sono quelli che vincono per effetto della sovragestione, devono rispondere alla sovragestione». Parole che Carpeoro ha affidato a Fabio Frabetti di “Border Nights”, nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube. «Non si scappa, se fai parte di quello schema. I 5 Stelle non ne facevano parte? Ma poi Di Maio ha fatto un bel viaggio a Londra, un bel viaggio in America… E comunque c’erano già le premesse anche prima, perché non è che Casaleggio fosse una realtà così staccata dal potere. Poi però con Di Maio hanno fatto capire che cosa vogliono fare, no?». Basta vedere l’ipotetico governo presentato in anticipo a Mattarella, con il neoliberista Fioramonti all’economia. «Non è che non pretendano garanzie, quelli a cui hai chiesto aiuto a Londra e in America: impongono il tuo appoggio, la tua la non-ostilità, l’assicurazione che non verrebbe ostacolato il loro progetto». E se vai al governo e poi non ne tieni conto? «Potresti fare la fine di Craxi, o quella di Olof Palme».Per Carpeoro, cha ha lanciato l’idea di promuovere in primavera un convegno sul grande leader svedese, assassinato a Stoccolma nel 1986 mentre era premier, in procinto di essere eletto segretario generale dell’Onu, Olof Palme – cui guardavano Craxi, il tedesco Helmut Schmidt e lo stesso Mitterrand – avrebbe cambiato volto all’Europa, impedendo l’instaurarsi del regime Ue (quello che, ancora oggi, sottrae all’Italia la possibilità di qualsiasi alternativa elettorale al dominio dell’oligarchia finanziaria). «Le sue idee sono ancora attuali, perché Olof Palme era avanti di trent’anni», sottolinea Carpeoro. «Aveva contestato agli Usa il fatto di fare guerre sempre a casa degli altri, aveva polemizzano aspramente con l’Urss per l’invasione di Praga, e soprattutto aveva un progetto economico basato su un sistema misto, pubblico-privato, con la compartecipazione dei lavoratori nelle aziende pubbliche e private, sistema che aveva consentito alla Svezia di uscire dalla crisi economica che invece colpiva gli altri paesi. In più era un ecologista, voleva affrancarsi dagli idrocarburi e dalla schiavitù del petrolio, sosteneva già progetti di energia alternativa». E’ stato fermato, colpito alla schiena da un killer invisibile e tuttora ignoto. «Faceva paura, perché avrebbe ostacolato gli interessi della sovragestione: tutta una serie di equilibri politici che su quelle realtà economiche sono fondati hanno rintenuto di farlo ammazzare. Aveva la capacità, le idee e la visione per costruire delle cose diverse».Da un gigante come Olof Palme ai nani dell’attuale politica italiana: Matteo Renzi in fuga dai giornalisti, con il Pd ridotto al 19%. La scissione di D’Alema e Bersani fermatasi sotto il 4%. Berlusconi appena sopra il 13%, dopo aver lanciato l’euro-maggiordomo Tajani, garantendo ai poteri forti europei il rispetto delle regole di ferro, l’austerity che sta devastando l’Italia. Il successo della Lega di Salvini, che sorprassa il Cavaliere e ormai tallona il Pd, è gravemente condizionato proprio dall’alleanza con Forza Italia, prona ai diktat di Bruxelles. Quanto ai 5 Stelle, hanno fatto il pieno nel centro-sud grazie alla promessa del reddito di cittadinanza, ma Di Maio ha già messo le mani avanti presentando il suo ipotetico esecutivo di tecnocrati: «Sembra il governo Monti senza Monti», commenta desolatamente Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt. Cosa accadrà ora? Se lo domandano tutti i giornalisti. Non Carpeoro: a prescindere dal nome del futuro premier e dal colore del suo partito, per gli italiani non cambierà assolutamente niente. Non cambia il programma: rigore, sofferenze, vincoli, sottomissione all’élite finanziaria che si è impadronita dell’Ue. Sono corsi a votare, gli italiani, ma – a quanto pare – è come se non avesse votato nessuno: tutto è esattamente come prima. La nave rischia di affondare, e la rotta (ancora una volta) non sarà decisa da chi siede a Roma.Tutto come prima: qualcuno sale e qualcuno scende, dopo le elezioni, ma la canzone non cambia. L’Italia resta sotto schiaffo, alla mercé dell’ordoliberismo finto-europeista che impone il rigore, cioè la depressione economica, sulla base di regole truccate come il tetto imposto alla spesa pubblica, non oltre il 3% del Pil, con il vincolo del pareggio di bilancio e l’incubo incombente del Fiscal Compact. L’unica vera notizia del 4 marzo è che ben tre italiani su quattro sono andati a votare: astensionismo limitato al 27%, contro l’atteso 35% annunciato dai sondaggi. Per il resto, previsioni rispettate al millimetro: la débacle di Renzi, il pletorico successo dei 5 Stelle, la preminenza aritmetica del centrodestra. Spiccioli di cronaca: Di Maio e soci sopra il 30%, Salvini davanti a Berlusconi, il Pd sotto il 20%. Nessuna delle liste-contro, da “Potere al Popolo” a CasaPound, ha raggiunto il 3%, cioè il sospirato accesso al Parlamento. Un pericolo – l’esclusione dall’aula – sfiorato dall’imbarazzante cartello “Liberi e Uguali” (D’Alema e Bersani, Grasso e Boldrini), dato oltre il 5% e invece fermatosi appena sopra la soglia minima per ottenere qualche poltrona. Risultato più che scontato: Parlamento ingovernabile, se non mediante larghe intese. «Troveranno il modo di mettersi d’accordo, anche Di Maio è pronto a fare inciuci», avverte Gianfranco Carpeoro. «Gentiloni o un altro? Non è che cambi granché. Il problema non è la figura, è quello che deve fare: o meglio, quello che sarà costretto a fare, perché l’Italia è sovragestita».