Archivio del Tag ‘stragismo’
-
Berlino trema: lo stragista Amri fu incoraggiato dalla polizia
«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.Pare che la “persona di fiducia” abbia dovuto faticare a convincere Amri. Gli disse: «Ammazziamo questi miscredenti». Insisteva: «Abbiamo bisogno di uomini di buona volontà per fare questi attentati qui in Germania». A citare il fatale colloquio è un ex frequentatore degli stessi circoli, «che dice di essere stato avvicinato alla stessa persona per fare l’attentato in Germania», scrive Maurizio Blondet sul suo blog. Come altri, il testimone aveva rifiutato perché voleva combattere in Siria. E ha confermato che l’informatore della polizia avrebbe insistito nel cercare un «un uomo affidabile per un attacco con un camion». Dunque “l’uomo di fiducia” della polizia tedesca era un agente provocatore: al soldo dell’Isis o dei servizi di Berlino? «La polizia sapeva da luglio che Anis Amri progettava una strage», scriveva “Globalist” già il 22 dicembre. Avverte oggi l’emittente “Rbb”: «Un siriano ex coinquilino di Amri aveva avvertito ben due volte la polizia prima dell’attentato». Ma l’allarme non diede esito, racconta il “Morgenpost”: «Amri è stato tenuto sotto osservazione solo nei giorni feriali. Nei fine settimana e nei giorni festivi il controllo cessava. E l’ufficio del procuratore generale non è mai stato informato della cessazione dell’osservazione».Le autorità tedesche, riassume Blondet, avevano impedito la rapida espulsione di Amri (non presentando alle autorità tunisine le sue impronte digitali, che pure avevano). In più, le forze di sicurezza «gli avevano fatto sapere di essere sotto controllo, e più volte». Lo avevano persino «aspettato alla fermata dell’autobus da Dortmund». Secondo lo “Spiegel”, «il dossier su Amri è stato grossolanamente falsificato, posticipando date e celando un arresto». Se la storia del passaporto abbandonato sul camion-kamikaze è la fotocopia di altre analoghe vicende, da Charlie Hebdo alla strage di Nizza, Blondet fa notare che le modalità di reclutamento di Anis Amri sono le medesime di un altro maghrebino in azione in Francia, Mohammed Merah, che scatenò il terrore a Tolosa nel 2012: «I servizi francesi stavano per reclutare Merah un mese prima dei suoi delitti», ha dichiarato alla Corte d’Assise l’ex capo della sicurezza tolosana. Per il “Foglio”, lo “stragista di Al-Qaeda”, era «un’operazione dell’intelligence francese finita male». E’ saltato fuori anche un video-testamento del giovane: «Sono innocente. Ho scoperto che il mio miglior amico Zouheir lavora per i servizi segreti francesi».Zouheir, scrive il quotidiano “Le Monde”, fece anche parte della squadra di negoziatori che cercò di convincere Merah alla resa durante l’assedio all’appartamento. Il giovane gli si ribellò con queste parole: «Mi hai mandato in Iraq, Pakistan e Siria per aiutare i musulmani. E ora ti riveli essere un criminale e un capitano dei servizi francesi. Non lo avrei mai creduto». Adesso, aggiunge Blondet, la deposizione giudiziaria del capo dei servizi a Tolosa conferma: Merah fu avvicinato da un settore dell’intelligence, la Dgcri (Direction Centrale du Reinseignement Interieur) dopo un viaggio in Pakistan. Ma in realtà, precisa il funzionario, i servizi francesi lo conoscevano bene fin dal 2006, quando Merah era ancora un ragazzino: lo avevano schedato insieme a suo fratello Abdelkadher, dopo un viaggio in Egitto compiuto «apparentemente per imparare l’arabo». Poi, nel 2010, al ritorno dal viaggio in Pakistan, lo interrogano «perché sospettato di aver ricevuto addestramento militare». Sempre nel 2010, arrestato dalla polizia afghana a Kandahar, Merah viene «sottoposto a “debriefing” da due specialisti francesi», i quali «hanno giudicato che, dato il suo carattere curioso e viaggiatore, lo si poteva orientare verso un reclutamento».Un rapporto dei servizi risalente al 21 febbraio 2012, un mese prima del primo omicidio presunto di Merah, recita: «Mohamed Merah ha spirito aperto e astuto. Non ha alcuna relazione con una rete terrorista, ha un profilo viaggiatore». Conclusione: conviene «verificarne l’affidabilità», raccomanda il rapporto. «E’ un approccio di reclutamento», ha spiegato l’ex funzionario dei servizi di Tolosa. Sembra l’accurata formazione di un agente professionale, a cui si impartiscono competenze linguistiche e militari, da avviare alla carriera di infiltrato. «Sappiamo anche che Merah ha cercato di arruolarsi nell’esercito francese nel 2008, e poi nella Legione Straniera, respinto per i suoi precedenti penali», conclude Blondet: «Povero, tragico patriota Merah, usato e distrutto come jihadista perché bisognava addossargli delitti le cui vere ragioni sono inconfessabili». Forse, anche attraverso la giustizia francese e le indagini giornalistiche tedesche, sta cominciando a sbriciolarsi un muro di menzogne sanguinose. Osservando in controluce gli attentati “islamisti” che hanno martoriato l’Europa colpendo sempre e solo nel mucchio (popolazione inerme: mai obbiettivi-simbolo del potere), nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” Gianfranco Carpeoro legge le “firme nascoste” – non islamiche, ma occidentali e massoniche – dello stragismo affidato a manovalanza jihadista. E oggi dice: «Entro un paio d’anni, magari attraverso fonti come Wikileakes, emergerà la prova che l’Isis è un’emanazione diretta dei servizi atlantici che fanno capo ai Bush».«Vai, ammazza la gente per strada. E mi raccomando: prima di scappare, lascia il passaporto ben in vista sul sedile». Fondamentale, il documento: perché poi – quando gli spareranno, per farlo tacere per sempre – nessuno dubiti che a cadere sia il vero colpevole, lo stragista. «Anis Amri fu istigato da un informatore della polizia», titola l’“Huffington Post”, svelando «l’indagine che fa tremare l’intelligence tedesca». Lui, il giovane tunisino responsabile della strage al mercatino di Natale, a Berlino, il 19 dicembre scorso, venne ucciso quattro giorno dopo, a Sesto San Giovanni, in un conflitto a fuoco con la polizia di Milano. La notizia? Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di far strage di passanti nella capitale tedesca. Semmai, avrebbe voluto andare a combatte in Siria nelle file dell’Isis. A convincerlo a uccidere (12 vittime e 56 feriti) sarebbe stata una “persona di fiducia” della polizia tedesca. Lo affermano due media, il “Berliner Morgenpost” e la radio “Rbb”. Hanno scoperto che a istigare il giovane sarebbe stata una “persona di fiducia” (Vertrauensperson) che per conto della polizia del Nordreno Westfalia s’era infiltrata tra i frequentatori del predicatore Abu Wala, un reclutatore dell’Isis arrestato nel novembre 2016, un mese prima della strage del mercatino.
-
Omicidi e stragi, la guerra segreta degli inglesi contro l’Italia
“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.Questo ha determinato il corso degli eventi della storia successiva, praticamente fino ai giorni nostri. Al tavolo della pace, quando le grandi potenze vincitrici cominciarono a spartirsi il mondo in aree di influenza, all’interno del campo atlantico la Gran Bretagna pretese e ottenne, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, una sorta di diritto di supervisione sull’Italia. Quindi l’Italia, dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, è paese che appartiene all’area di influenza britannica. C’è una differenza importante tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Gli Usa hanno combattuto anche in Italia una guerra contro il comunismo. La Gran Bretagna non ha combattuto solo quella, ma anche una guerra contro l’Italia, in modo particolare contro quella parte della classe dirigente italiana del secondo dopoguerra – penso ai De Gasperi, ai Mattei, ai Fanfani, ai Vanoni fino ad Aldo Moro, sovranista – cioè, che pur nel contesto di un’alleanza internazionale, l’alleanza atlantica, si muoveva con una propria visione sulla base di un proprio interesse nazionale. Era l’Italia del dopoguerra, uscita a pezzi, che però voleva crescere, riprendersi, ricostruire le proprie istituzioni, il proprio sistema economico. E per poterlo fare aveva bisogno di quella materia prima che è il sangue, l’ossigeno per ogni sistema, e cioè il petrolio, l’energia. Questo è stato all’origine di un conflitto con la Gran Bretagna che dura ancora oggi.La Gran Bretagna, che ha esercitato un controllo pressoché assoluto sul nostro sistema di informazione, ha usato la stampa, i giornali, gli opinion leader, gli intellettuali per orientare l’opinione pubblica e tentare di condizionare le scelte politiche dei partiti e dei governi. Una di queste grandi scelte su cui la Gran Bretagna ha tentato di condizionarci è stata la politica mediterranea, la politica energetica e petrolifera dell’Italia. De Gasperi, presidente del Consiglio nel 1953, aveva il mandato britannico di sciogliere l’Agip. Mattei, nel 1953, era stato messo alla presidenza dell’Agip per scioglierla. E invece di sciogliere l’Agip lui fondò l’Eni, grazie anche a un decreto di De Gasperi. E dopo aver fondato l’Eni, Mattei cominciò ad attuare una propria politica. Non era accettata l’Italia di Mattei, dell’Eni, al tavolo delle grandi compagnie internazionali, in modo particolare di quelle britanniche, con pari dignità. Era ammessa a sedersi, tutt’al più, su uno strapuntino, ma Mattei e l’Italia di quegli anni non volevano assolutamente dipendere dal punto di vista energetico dalla Gran Bretagna. Per cui cercarono autonomamente le fonti di approvvigionamento, offrendo ai paesi produttori di petrolio, che erano quasi tutti controllati dalle compagnie britanniche, condizioni più favorevoli.C’era la famosa regola del fifty-fifty: 50% ai produttori, 50% alle compagnie petrolifere straniere. Questa era una regola imposta dalle “sette sorelle”. Mattei cambiò le regole dello scambio, proponendo il 25% alle compagnie e il 75% ai produttori: i paesi produttori trovarono più conveniente fare affari con l’Italia che non con la Gran Bretagna. Questo disturbò parecchio gli inglesi. La rivelazione di questo libro è l’esistenza di una vera e propria macchina della propaganda occulta britannica. E questa macchina venne scagliata contro De Gasperi e contro il suo erede politico Attilio Piccioni, attraverso la macchina del fango. De Gasperi venne coinvolto in uno scandalo, il famoso scandalo Guareschi – De Gasperi delle lettere che poi risultarono false, fabbricate dalla propaganda occulta inglese, e Piccioni venne coinvolto in un altro scandalo, quello famosissimo di Wilma Montesi, la ragazza trovata morta su una spiaggia di Tor Vaianica. Il figlio, Piero Piccioni, venne coinvolto in quello scandalo; e il padre, ministro degli esteri, sodale di De Gasperi e protettore di Enrico Mattei, venne travolto da quell’ondata di fango. Poi lo scandalo si rivelò infondato, perché le responsabilità del figlio di Piccioni non erano quelle che la campagna ispirata dalla macchina occulta britannica gli aveva attribuito, tant’è che Piero Piccioni qualche anno dopo fu prosciolto, risultò innocente.Questo è solo un esempio di come la Gran Bretagna è intervenuta pesantemente nelle nostre vicende interne, e adesso ho citato due episodi che sono collegati alla guerra specifica energetico-petrolifera. L’Iran di Mohammad Mosaddeq, primo ministro, aveva nazionalizzato il petrolio britannico. La Gran Bretagna reagì imponendo l’embargo, e l’Italia dell’Eni e di De Gasperi violò quell’embargo. Winston Churchill, allora premier britannico – nel libro ci sono dei documenti desecretati inglesi – ordinò ai suoi apparati di “dare una lezione” agli italiani, perché avevano osato violare l’embargo imposto dagli inglesi contro l’Iran. Sono emersi nuovi documenti sulla guerra scatenata dalla macchina della propaganda occulta contro Enrico Mattei. Attraverso la sua politica, Mattei emarginò progressivamente le compagnie che curavano gli interessi britannici, in aree che gli inglesi consideravano, per importanza – sto citando testualmente un documento – seconde soltanto alla Gran Bretagna stessa. Aree come la Libia, come l’Egitto, come l’Iran, come l’Iraq che per gli inglesi erano di vitale importanza. Mattei andò a ficcare il naso, con la sua politica, in queste zone, disturbando, anzi addirittura emarginando, nel corso degli anni, la presenza britannica.In questi documenti Mattei venne definito dagli inglesi – cito testualmente – «un pericolo mortale per gli interessi britannici nel mondo». E c’è un altro documento che fa venire la pelle d’oca. E’ del 1962. Gli inglesi dicono che Mattei «è una verruca, è un’escrescenza da rimuovere in ogni modo». Scrivono: «Abbiamo tentato di fermarlo in tutti i modi e non ci siamo riusciti: forse è giunto il momento di passare la pratica alla nostra intelligence». Sei mesi dopo, Enrico Mattei morì in un incidente aereo che oggi sappiamo con certezza, anche sul piano giudiziario, essere stato causato da un atto di sabotaggio. Aldo Moro? La vicenda Moro si colloca esattamente nello stesso contesto della vicenda di Enrico Mattei. Aldo Moro è stato l’erede della politica mediterranea di Mattei. Tra il 1969 e il 1975, Moro è stato l’ispiratore della politica estera italiana. Era ministro degli esteri in diversi governi, e riuscì a mettere a segno ulteriori colpi contro gli interessi inglesi. Certo, non è che gli italiani scherzassero, a loro volta. In Libia, nel 1969, con Moro ministro degli esteri, ci fu un colpo di Stato che rovesciò la monarchia filo-britannica e portò al potere il colonnello Muhammar Gheddafi, addestrato nelle accademie militari italiane. E’ vero che Gheddafi cacciò via gli italiani, ma subito dopo nazionalizzò il petrolio, che era controllato dalle compagnie britanniche, espulse dalla Libia le basi militari britanniche e iniziò un rapporto privilegiato con gli italiani, grazie al quale l’Italia conobbe un periodo di grande benessere economico.E poi, negli anni successivi, ci furono altri colpi messi a segno, come in Iraq, dove il regime nazionalista aveva espropriato, nazionalizzato il petrolio controllato dalle compagnie britanniche. E l’Eni era riuscita a penetrare anche lì, grazie ovviamente ai successori della politica energetica di Mattei, ma soprattutto grazie alla politica estera di Aldo Moro. Tra i documenti di “Colonia Italia“, ce n’è uno che veramente fa venire i brividi, riportato con tutti i suoi riferimenti archivistici, per cui chiunque voglia andare a controllare può farlo. Nel gennaio del 1969, il responsabile della macchina della propaganda occulta a Roma dice: «Attraverso la macchina della propaganda occulta non abbiamo ottenuto grandi risultati contro questa classe dirigente italiana». Quindi invita il suo governo: «Dobbiamo adottare altri metodi». Quali metodi? Questa parte del documento è oscurata ancora oggi. E’ ancora oggi coperta dal segreto. Io chiedo continuamente agli opinionisti, ai direttori dei giornali, alla stampa: ma perché non chiedete al governo britannico la desecretazione di quella parte del documento, in cui sono spiegati gli “altri metodi” da utilizzare contro l’Italia a partire dal 1969?Nel 1969 ci fu la strage di piazza Fontana e iniziò una stagione di sangue, lo stragismo, il terrorismo, che toccò il suo punto più alto con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. E anche qui c’è da dire qualcosa a proposito dell’intervento britannico. Nel 1976 – questo è provato, perché lo dicono gli stessi documenti inglesi desecretati e conservati nell’archivio di Stato di Kew Gardens, a disposizione di tutti – ci fu un tentativo di colpo di Stato organizzato o progettato dagli inglesi nei primi sei mesi del 1976 per bloccare la politica di Aldo Moro. Quel progetto venne sottoposto all’attenzione degli alleati francesi, tedeschi e americani. I francesi aderirono immediatamente, perché l’Italia era un concorrente temibile anche per i francesi, non solo per gli inglesi, mentre americani e tedeschi si mostrarono molto più scettici, e dissero agli inglesi: «Ma voi siete pazzi! Un colpo di Stato in Italia, a parte i contraccolpi negativi nell’opinione pubblica per l’alleanza atlantica, in Italia c’è una sinistra forte, c’è una organizzazione sindacale molto radicata, cioè ci sarebbe una reazione e quindi un bagno di sangue!»Gli inglesi allora misero da parte il progetto di un colpo di Stato vero e proprio, classico. Però c’è un altro documento, pubblicato nel libro. Scrivono: «Visto che non è possibile attuare un colpo di Stato militare classico, per l’opposizione di Germania e Stati Uniti, passiamo al piano-B». Qual era questo piano-B? Purtroppo, anche in questo caso, come nel documento che ho citato prima, c’è soltanto il titolo. E il titolo è agghiacciante. Testualmente: “Appoggio a una diversa azione sovversiva per bloccare Aldo Moro”. Quale poteva essere questa “azione sovversiva” naturalmente io non lo so, perché anche questa parte del documento è ancora oggi secretata, protetta dal segreto. A suo tempo venne oscurata persino agli americani e ai tedeschi. E anche in questo caso non mi trattengo dal chiedere agli opinionisti italiani, alla stampa italiana: siamo in un paese in cui rivendichiamo tutti i giorni verità e giustizia; beh, quando ci troviamo di fronte a documenti di questo tipo, ma che ci vuole a chiedere agli inglesi di desecretare anche questo documento per capire quale poteva essere la “diversa azione sovversiva” contro Moro?Magari non c’entra nulla con il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro, le cui responsabilità ovviamente ricadono sulle Brigate Rosse italiane. Magari, attraverso la desecretazione di quel documento, scopriamo che la diversa azione sovversiva con cui gli inglesi volevano bloccare Aldo Moro era soltanto una scampagnata della regina Elisabetta in Italia… Ci sono due documenti drammatici, che segnano due fasi drammatiche della nostra storia: piazza Fontana e l’assassinio di Aldo Moro. Entrambi questi documenti sono incompleti. Sono ancora oggi secretati. E visto che la Gran Bretagna è un paese nostro amico, addirittura nostro alleato, sarebbe utile per noi sapere se questo paese amico ha avuto un qualche ruolo, oppure no, nella strage di piazza Fontana e nell’assassinio di Aldo Moro. Allo stato delle nostre ricerche, ho ragione di ritenere che oggi il controllo britannico sul nostro paese sia ancora più forte di prima.(Giovanni Fasanella, dichiarazioni rilasciate a Claudio Messora il 12 novembre 2015 per la video-intervista “I documenti Uk che fanno gelare il sangue, da Enrico Mattei ad Aldo Moro”, pubblicata su “ByoBlu” per presentare il libro “Colonia Italia”, Chiarelettere – 483 pagine, euro 18,90 – che Fasanella ha scritto insieme a Mario José Cereghino. Il possibile ruolo occulto della Gran Bretagna nella “sovragestione” dell’Italia è tornato drammaticamente in primo piano nel febbraio 2016 con l’uccisione al Cairo del giovane Giulio Regeni, ingaggiato in Egitto da una Ong collegata all’università di Cambridge; secondo molte fonti indipendenti, tra cui l’ex inviato di “Panorama” Marco Gregoretti, il lavoro di Regeni sarebbe stato utilizzato dall’Mi6, il controspionaggio inglese. La stessa intelligence britannica, sempre secondo Gregoretti, avrebbe “sacrificato” Regeni, utilizzando killer egiziani, per creare un incidente diplomatico tra Italia ed Egitto in vista di un possibile intervento militare italiano in Libia. E Fulvio Grimaldi, ex giornalista Rai, segnala che l’Italia, tramite l’Eni, ha raggiunto un accordo strategico con l’Egitto per lo sfruttamento di un immenso giacimento di gas, nel Mediterraneo, in acque egiziane, fatto che ha sicuramente irritato e preoccupato gli inglesi).“Colonia Italia”. Giornali, radio e tv: così gli inglesi ci controllano. Le prove nei documenti top secret di Londra. Sono cose che dobbiamo sapere. Quando si pensa alle ingerenze dall’estero nei confronti del nostro paese si pensa sempre agli Stati Uniti d’America. Ma basta aprire una cartina geografica e vedere dov’è l’Inghilterra, un’isola del Nord Europa, e dove sono stati per molti decenni – a ancora oggi – i suoi interessi economici, strategici, militari. In Nord Africa, nel Medio Oriente e in Estremo Oriente. E cosa c’è tra la Gran Bretagna e i suoi interessi? C’è il Mediterraneo e, al centro del Mediterraneo, l’Italia. Quindi già dai tempi del Risorgimento, l’Italia per la Gran Bretagna era una postazione di fondamentale importanza, attraverso la quale poteva controllare i suoi domini e le sue rotte marittime. Poi l’Italia perde la Seconda Guerra Mondiale e, tra Gran Bretagna e Stati Uniti, c’è una visione molto conflittuale sul problema Italia: per gli Stati Uniti noi eravamo un paese cobelligerante, cioè che si era autoliberato dal nazifascismo combattendo al fianco degli alleati. Per la Gran Bretagna invece noi eravamo un paese sconfitto tout-court. Punto e basta. Quindi un paese soggetto ai vincoli, imposti attraverso trattati internazionali, dalle potenze vincitrici alle nazioni sconfitte.
-
Strana morte di Chelazzi: indagava sui mandanti delle stragi
«Tutti sono utili ma nessuno è indispensabile. Poi però ci sono le eccezioni. Una di queste era il magistrato Gabriele Chelazzi: morto d’infarto in una caserma romana della Guarda di Finanza dopo esser stato “lasciato solo”, come da lui stesso scritto, nell’indagine sui mandanti delle stragi del ‘92-93». A parlare è l’ex superpoliziotto Michele Giuttari, a sua volta fermato – ripetutamente, dall’allora capo della polizia Gianni De Gennaro, l’uomo del G8 di Genova – di fronte al “secondo round” dell’indagine sul Mostro di Firenze: la caccia ai veri mandanti, all’ombra di Pacciani e dei suoi “compagni di merende”, Vanni e Lotti. «Tutti colpevoli, per carità, ma non da soli: Pacciani, nato e vissuto in estrema povertà, alla fine degli anni ‘90 disponeva di un patrimonio di 900 milioni di lire: da dove provenivano tutti quei soldi?». Questa la molla che allora spinse la Procura di Firenze a sollecitare l’altra indagine, quella “fermata”: col trasferimento di Giuttari all’ufficio stranieri e poi con la sua incriminazione, insieme al pm perugino Mignini (con accuse poi destitute di ogni fondamento, 8 anni dopo). Nel frattempo l’inchiesta era “morta”. Come il giudice Chelazzi che, anni prima, insieme a Giuttari era riuscito – in tempi rapidissimi – ad arrestare gli esecutori e incriminare il gotha di Cosa Nostra per gli attentati di Firenze, Milano e Roma. Mancavano i mandanti, e se ne stava occupando – ancora – Chelazzi. Trattativa Stato-mafia: chi tocca muore?
-
Anche la Spagna nel copione “Isis”, con il solito passaporto
«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», a Barcellona. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisone del presidente Kennedy.Quella del camion lanciato a bomba contro la folla, sottolinea Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, è una modalità tristemente “pratica”, a basso rischio organizzativo: un furgone non desta sospetti, l’azione criminale può essere rapida, solitaria e micidiale. Il destino dell’attentatore? Sempre lo stesso: viene abbattuto subito, sul posto, come i 5 kamikaze che avrebbero colpito Cambrils, poco dopo Barcellona, o viene comunque ucciso nel giro di poche ore, al massimo qualche giorno, come Anis Amri, caduto a Milano in un conflitto a fuoco con la polizia italiana dopo aver provocato la “strage di Natale” a Berlino. Per l’atroce massacro di Barcellona la polizia ha arrestato due sospetti, ma – precisa il “Corriere della Sera – tra questi «non c’è l’autore materiale dell’attentato», che si sarebbe dileguato. L’uomo identificato, Bouhlel, potrebbe avere le contate: «Se trovano il passaporto, poi lo uccidono», ha sostenuto Maurizio Blondet, in relazione agli altri attentati-fotocopia di Nizza, Berlino e Londra. Un tragico copione? Ebbene sì, sostiene Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni”: «Dati gli strumenti a disposizione dell’intelligence, è matematicamente impossibile, oggi, che si possano compiere stragi senza disporre di connivenze e coperture, negli apparati di sicurezza, da parte di funzionari infedeli, complici dei veri mandanti dei terroristi».Per la prima volta, la sigla “Isis” – qualunque cosa significhi – colpisce il Sud Europa, dopo aver mietuto vittime in Francia, Belgio, Germania e Gran Bretagna. Una minaccia indiretta rivolta all’Italia, paese fortunamente non ancora finito nel mirino, forse anche per il suo ruolo strategico di “autostrada mediterranea” dei migranti? In realtà, sostiene Carpeoro, «gli addetti ai lavori sanno bene che il dispositivo antiterrorismo del nostro paese è il migliore del mondo». Dispositivo particolarmente vigile, aggiunge Magaldi, che fornisce una spiegazione ancora una volta di stampo massonico: «Oggi, i servizi segreti italiani collaborano strettamente con settori dei servizi Usa riconducibili alla super-massoneria internazionale progressista, ostile all’egemonia anche stragistica delle Ur-Lodges neo-conservatrici». Affermazioni estremamente impegnative, che Magaldi – già affiliato alla superloggia “Thomas Paine” – probabilmente circostanzierà nel “sequel” del libro “Massoni”, in uscita entro fine anno, scritto forse anche con il contributo di un eminente supermassone molto controverso come il finanziere George Soros, promotore delle Ong che fanno capo a “Open Society”, struttura sospettata di aver ispirato e supportato golpe, “regime change”, primavere arabe e rivoluzioni colorate, fino all’attuale esodo dei migranti africani e mediorientali veso l’Europa, via Italia.In ogni crimine, la svolta nelle indagini scatta sempre in un momento preciso: quando gli investigatori individuano il movente. Quello del cosiddetto Mostro di Firenze (16 vittime) non è ancora stato accertato: non a caso, in carcere erano finite soltanto tre persone, i “compagni di merende”, e la sentenza indicava la necessità di sviluppare altre indagini, dato che Pacciani – il cui patrimonio si era misteriosamente gonfiato – non poteva aver fatto tutto da solo, con il semplice “aiuto” di Vanni e Lotti. Anche per questo, forse – la mancanza di un movente credibile – le autorità giudiziarie hanno riaperto l’inchiesta. Ipotesi, formulata dall’avvocato di una delle vittime: quegli oscuri delitti accompagnarono in modo cronometrico le tappe di sangue del terrorismo che, all’epoca, devastò l’Italia. Delitti efferati, per distrarre l’opinione pubblica? Gli indagatori della “pista esoterica”, come l’avvocato Paolo Franceschetti, propendono per un’altra ipotesi: delitti rituali, atrocemente compiuti secondo modalità “magico-cerimoniali”. Lo sostenne il criminologo Francesco Bruno, ingaggiato dall’allora capo del Sisde, Vincenzo Parisi: fu il primo a parlare di connotazioni “religiose”. Nel romanzo “Nel nome di Ishmael”, lo scrittore Giuseppe Genna – con il quale si complimentò Cossiga, per l’acume dimostrato – l’oscura setta che, nel libro, uccide bambini, lo fa nella convinzione di “propiziare” attentati politici che seguono, di poche ore, il ritrovamento dei piccoli cadaveri. Attentati e omicidi di rilievo internazionale, da Aldo Moro a Olof Palme, fra retroscena popolati da personaggi del calibro di Kissinger.Per Magaldi, l’ex plenipotenziario della Casa Bianca, nonché fondatore della Trilaterale con David Rockefeller e i Rothschild, è stato anche al vertice della Ur-Lodge “Three Eyes”, che nel libro “Massoni” è indicata come la vera “mente” della Loggia P2 di Licio Gelli e della strategia della tensione in Italia negli anni ‘70. Un’altra superloggia, la “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi fondata da Bush padre all’inzio degli anni ‘80, sarebbe invece l’ispiratrice del neo-terrorismo internazionale, da Al-Qaeda all’Isis: ne avrebbero fatto parte Osama Bin Laden e il “califfo” Abu Bakr Al-Baghdadi, oltre all’entourage Bush e a politici europei come Tony Blair (inventore delle “armi di distruzione di massa” di Saddam) e Nicolas Sarkozy (fautore dell’abbattimento di Gheddafi), nonché il turco Erdogan (organizzatore, in Turchia, delle “retrovie” dell’Isis nell’attacco alla Siria). Una “Spectre del terrore”, che disporrebbe di propri uomini in alcune strutture di intelligence, a loro volta capaci di “coltivare” manovalanza islamista per gli attentati. «La cosiddetta Isis sta aumentando l’intensità delle stragi», ha sostenuto Carpeoro, «perché una parte di quella élite sta “disertando”, si sta sfilando dalla “filiera del terrore”». Carpeoro azzarda un pronostico: «Nel giro di due anni al massimo, magari attraverso Wikileaks, avremo le prove del fatto che Al-Qaeda e Isis sono un’emanazione dei Bush».«I Mossos, i poliziotti catalani, entrano nel furgone abbandonato sulle Ramblas dopo aver controllato che non avesse esplosivi all’interno e trovano un passaporto spagnolo di un uomo di origine marocchina residente a Melilla, l’enclave iberica in Marocco», scrive la “Stampa”, all’indomani dell’ennesima strage, Barcellona, 17 agosto 2017. Il solito passaporto? Come quello ritrovato sul cruscotto dell’auto del commando di Charlie Hebdo, quello abbandonato sul posto dallo stragista di Berlino poi ucciso in Italia. E’ normale, andare a fare un attentato portando con sé il documento d’identità? E’ normale “dimenticarlo” a bordo del mezzo utilizzato per compiere una strage? Il massacro che inaugurò la modalità dell’investimento di pedoni – Nizza, 14 luglio 2016 – fu preceduto anch’esso da una storia di passaporti: due anni prima, ricorda “Today”, sui social media arabi comparve «un annuncio di “smarrimento” di documenti, intestati a Mohamed Lahouaiej Bouhlel, poi identificato come il franco-tunisino alla guida del camion scagliato contro la folla nell’attacco che ha ucciso almeno 84 persone», nel capoluogo della Costa Azzurra. Se è per questo, ricorda Massimo Mazzucco, passaporti di “kamikaze” furono prodigiosamente ritrovati persino nell’inferno fumante di Ground Zero, l’11 Settembre. E un altro famoso passaporto, quello di Lee Harvey Oswald, fu prontamente ritrovato a Dallas, a pochi minuti dall’uccisione del presidente Kennedy.
-
Potere e denaro, dal caso Moro all’Isis fino al Russiagate
Andreotti e Cossiga: sarebbero stati soprattutto loro a impedire che Aldo Moro venisse liberato dai Gis dei carabinieri del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, insieme ai Nocs della polizia. Reparti speciali che, si dice, avevano individuato la prigione romana dello statista democristiano. E’ la tesi, più volte esposta (anche in libri di successo) da un magistrato di lungo corso come Ferdinando Imposimato, già pm e poi presidente onorario della Cassazione. La sua versione, suffragata da testimoni-chiave delle forze dell’ordine: il blitz decisivo fu impedito da Andreotti e Cossiga. Movente: ambivano entrambi alla carica alla quale sarebbe stato destinato Moro, il Quirinale. Gli americani? C’entrano, ma fino a un certo punto: perché poi, al dunque, “ritirarono” il loro uomo, Steve Pieczneick, in un primo momento inviato a Roma per controllare (e depistare) le indagini. Regia dell’operazione Moro: affidata alla Gladio, costola dell’intelligence Nato, in Italia gestita da uomini della P2 come il generale Giuseppe Santovito, allora a capo del Sismi. Nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, Gianfranco Carpeoro aggiunge un nome, quello del politologo statunitense Michael Leeden, tuttora attivissimo: sarebbe stato il vero burattinaio di Gelli. Per Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni”, la P2 era il terminale italiano della Ur-Lodge “Three Eyes”, potentissima superloggia internazionale di stampo antidemocratico.
-
Scarpinato: Falcone ucciso da mafia e 007, su ordine di chi?
Il 23 maggio 1992 esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali. Di che tipo? Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una «aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali».Traduzione: insieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa Nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come “instrumentum regni” e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica. Questa convergenza di interessi criminali la rivelò per primo Elio Ciolini, un ambiguo personaggio implicato nelle indagini per la strage di Bologna, legato al mondo dei servizi segreti, della massoneria e dell’eversione nera. Nel 1992 era in carcere a Bologna e il 4 marzo e il 18 marzo, poco prima che si scatenasse l’inferno, anticipò ai magistrati che nel marzo-luglio del ’92 sarebbe stato ucciso un importante esponente della Dc, sarebbero state compiute stragi e poi si sarebbe distolto «l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia». Tutti quegli eventi puntualmente si verificarono: il 12 marzo ’92 fu assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia; il 23 maggio fu consumata la strage di Capaci; il 19 luglio quella di via D’Amelio; poi – sempre come Ciolini aveva anticipato – la strategia stragista si spostò al Centro-Nord con le mattanze di Milano e Firenze e gli attentati a Roma.Tutte azioni rivendicate da comunicati a nome della “Falange Armata”, sigla di un’organizzazione eversiva che serviva appunto a distogliere l’opinione pubblica dal pericolo mafioso. Ma Ciolini non fu l’unico ad avere la “sfera di cristallo” che gli consentì di rivelare con così largo anticipo l’unitarietà e il respiro strategico della lunga campagna stragista. Il 21 e il 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa “Repubblica”, vicina ai servizi segreti, pronosticò che di lì a poco ci sarebbe stato un bel “botto esterno” per giustificare uno voto di emergenza che avrebbe sparigliato i giochi di potere in corso per la elezione del nuovo presidente della Repubblica. Anche questo evento puntualmente si verificò il 23 maggio: il “botto esterno” di Capaci azzerò le manovre per portare alla presidenza della Repubblica il senatore Giulio Andreotti e contribuì all’elezione dell’outsider Oscar Luigi Scalfaro.Molti collaboratori di giustizia ci hanno confermato in seguito che un selezionato numero di capi della Commissione regionale di Cosa Nostra, riuniti alla fine del 1991 in un casolare della campagna di Enna, avevano discusso per vari giorni quel complesso progetto politico che stava dietro alle stragi. Un progetto che fu tenuto segreto ad altri capi e ai ranghi inferiori dell’organizzazione, ai quali venne fatto credere che le stragi servivano solo a scopi interni alla mafia, cioè a costringere lo Stato a scendere a patti, garantendo in vari modi impunità e benefici penitenziari. E invece – come la Dia evidenziò già nel 1993 – dietro quella campagna si celavano menti raffinate e soggetti esterni, il cui ruolo attivo emerge anche nella fase esecutiva delle stragi. Purtroppo, dopo 25 anni di indagini, non è stato ancora possibile identificarli. Sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al ministero della giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura.Da Falcone si passa poi a Borsellino, appena 57 giorni dopo. Chi era il personaggio non appartenente alla mafia che, come ha rivelato il collaboratore Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage di via D’Amelio, assistette alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta? Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi. Altri pezzi mancanti su via D’Amelio? Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, in un colloquio intercettato il 14 dicembre ’93, poco dopo il rapimento del loro figlio Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Quell’intercettazione è agli atti del processo, ma quegli “infiltrati” è stato impossibile identificarli e assicurarli alla giustizia.Chi è in possesso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino trafugata, con una straordinaria e lucida tempistica, pochi minuti dopo l’immane esplosione di via D’Amelio? Su quell’agenda è noto che Paolo aveva annotato i terribili segreti intravisti negli ultimi mesi di vita. Segreti che l’avevano sconvolto e convinto di non avere scampo, perché – come confidò alla moglie Agnese – sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma solo quando altri lo avessero deciso. Chi erano questi “altri”? L’elenco delle domande che sinora non hanno avuto risposta disegna i contorni di un iceberg ancora sommerso che né le inchieste parlamentari né i processi sono mai riusciti a portare alla luce, per una pluralità di fattori che si sommano e delineano un quadro inquietante. Possibile che i magistrati che indagano da 25 anni non siano riusciti a fare luce su tutto questo? E come si fa, quando vengono sottratti ai magistrati documenti decisivi per l’accertamento di retroscena occulti? Ho già accennato alle carte di Falcone e all’agenda di Borsellino, episodi che si inscrivono in una lunga tradizione di carte rubate sui misteri d’Italia: dalla sparizione delle bobine con gli interrogatori di Aldo Moro nella prigione delle Br al trafugamento dei documenti segreti del generale Carlo Alberto dalla Chiesa dopo il suo assassinio.Ma penso anche alla miniera di tracce documentali custodita nella villa di via Bernini a Palermo, dove Salvatore Riina aveva abitato negli ultimi anni della sua latitanza. Si impedì ai magistrati di perquisire l’abitazione di Riina immediatamente dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993: ci assicurarono che il luogo era strettamente sorvegliato giorno e notte, mentre in realtà fu abbandonato poche ore dopo quella stessa assicurazione, lasciando campo libero a squadre di “solerti pulitori” che ebbero agio per diversi giorni di far sparire ogni cosa, smurando persino la cassaforte e ridipingendo le pareti per eliminare eventuali tracce di Dna. Chi è in possesso da 24 anni di quei documenti e che uso ne ha fatto? Decine di mafiosi, anche boss di prima grandezza, hanno collaborato con la giustizia. Certamente più di molti uomini delle istituzioni. Purtroppo tacciono ancora tanti boss che sanno tutto: i fratelli Graviano, Santapaola, Madonia e altri capi detenuti. E anche alcuni collaboratori danno l’impressione di sapere molto più di quel che dicono, ma di autocensurarsi. E penso anche ai silenzi prolungati e all’amnesia generalizzata di alcuni esponenti delle istituzioni, che solo con il forcipe delle indagini penali si sono decisi, a distanza di anni, a rivelare brandelli di verità.Quali erano i segreti sul coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi e omicidi eseguiti dalla mafia che Giovanni Ilardo, capomafia legato ai servizi segreti e alla destra eversiva, aveva promesso di rivelare ai magistrati pochi giorni prima di essere assassinato il 10 maggio 1996, proprio mentre si apprestava a mettere a verbale le sue dichiarazioni iniziando a collaborare? Lo stesso Ilardo era stato il primo a indicare Pietro Rampulla, anch’egli mafioso ed estremista di destra, come l’artificiere della strage di Capaci, che infatti sarebbe stato poi condannato con sentenza definitiva. Alcuni eventi recenti, ancora in corso di verifica processuale, sembrano dimostrare che purtroppo questa non è solo una tragica storia del passato. Per esempio le recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, capo dell’importante mandamento di Resuttana, membro di una famiglia mafiosa implicata in stragi e delitti eccellenti del passato e vecchia amica di apparati deviati delle istituzioni. Racconta Galatolo che alla fine del 2012 il capo latitante di Cosa Nostra, Messina Denaro, protagonista della stagione stragista del 1992-’93, ha ordinato l’omicidio del pm Nino Di Matteo, impegnato nelle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, con un’autobomba.Galatolo ha dichiarato che sia lui sia altri capi erano rimasti colpiti dal fatto che l’identità dell’artificiere messo a disposizione da Messina Denaro, doveva restare ignota a tutti, compresi i capi di Cosa Nostra. Una circostanza che, ancora una volta, contrastava palesemente con le regole mafiose e indicava la partecipazione anche in quel progetto stragista di soggetti esterni, portatori di interessi criminali convergenti con quelli della mafia. Prima che Galatolo iniziasse a collaborare rivelando l’episodio, un esposto anonimo aveva già messo al corrente la magistratura che Messina Denaro aveva ordinato una strage su richiesta di suoi “amici romani” per interessi politici che andavano oltre quelli di Cosa Nostra. Continuare a ricercare la verità è un dovere non solo istituzionale, ma anche morale. Il modo più autentico per onorare la memoria, per dare un senso al sacrificio dei tanti servitori dello Stato e alla morte di tante vittime innocenti le cui vite sono state inghiottite nei gorghi tumultuosi di quello che Giovanni Falcone definì “il gioco grande del potere” una guerra sporca giocata con tutti i mezzi nel “fuori scena” della storia.(Roberto Scarpinato, dichiarazioni rilasciate a Marco Travaglio per l’intervista “Strage di Capaci, una verità a brandelli: interessi politici oscuri tramano ancora”, pubblivata dal “Fatto Quotidiano” il 23 maggio 2017. Scarpinato, già membro del pool antimafia siciliano, è oggi procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo).Il 23 maggio 1992 esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali. Di che tipo? Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una «aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali».
-
Manchester Satanic e terroristi Nato, nessuno è innocente
Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.Ora, secondo l’“Independent”, Salman Abedi, il figlio stragista di Manchester, si trovava nella Libia Orientale nel 2011, quando gli aerei britannici bombardavano le truppe del governo libico per portare al potere i Takfiri. Era giovanissimo. Secondo i suoi compagni di scuola, cambiò allora: «Prima era un ragazzo di compagnia, beveva, fumava erba – ma quando tornò dalla Libia nel 2011 era un’altra persona. Diventò religioso. Per qualche tempo è stata innalzata una bandiera nera con scritte in arabo sul tetto della casa degli Abedi a Elsmore Road». Spero che i lettori non abbiano dimenticato come, sotto gli auspici di Hillary Clinton allora segretaria di Stato, carichi e carichi di armamenti saccheggiati dai forniti arsenali di Gheddafi furono spediti in Siria, per armare i Takfiri mercenari arruolati per abbattere il legittimo governo. Una sporchissima faccenda in cui trovò la morte l’ambasciatore Usa Chris Stevens, sacrificato con la sua scorta di Marines per non far saltare fuori la storia. Potevano essere salvati, un commando era pronto a decollare dalla Sicilia, fu dato l’ordine di “stand-down”. Insomma la strage “islamica” di Manchester è un effetto collaterale delle sovversioni britanniche in Libia e in Oriente in obbedienza ai neocon americani. A meno che non sia un’operazione voluta dagli stessi servizi britannici – l’attentatore era ben noto agli agenti – per distrarre l’opinione pubblica da qualcos’altro (Brexit? Elezioni?).Personalmente penso che valga più la prima ipotesi. Ma, come si dice: mai sprecare un disturbato mentale utilizzabile come islamista kamikaze. Quanto alla pop-star Ariana Grande, idolo delle giovanissime: nel 2014, in una intervista a “Billboard”, ha rivelato di essere divenuta “kabbalista” (complimenti) secondo «gli insegnamenti del rabbino Philip Berg», un agente d’assicurazione di New York, fondatore di una organizzazione magica chiamata Centro della Kabbala. Ariana Grande non è la sola celebrità ad aderirivi: Naomi Campbell, Madonna, Leonardo Di Caprio, Britney Spears, Demi Moore e (poteva mancare?) Paris Hilton si dice ne facciano parte. La giovanissima Ariana Grande ne deve essere particolarmente addentro, perché in una intervista ha parlato di come talora venga “abitata” da presenze inequivocabili: «Appena ho chiuso gli occhi ho sentito questa vampata davvero forte vicino alla mia testa… quando ho chiuso gli occhi ho iniziato di nuovo con i sussurri per molto tempo… ho iniziato a vedere questa immagine veramente inquietante, come con forme rosse».Sul web naturalmente si sono affollati complottisti che hanno intuito “messaggi” kabbalisti, per esempio, nell’età dell’attentatore e nella data della strage (22 è il numero delle lettere ebraiche su cui si basa la magia della Kabbala); altri hanno indicato simboli kabbalistici nei videoclip della piccola. La cosa ci stupirebbe poco e poco ci interessa. Oltretutto un produttore cinematografico che ha passato la vita ad Hollywood, Jon Robberson, ha appena accusato l’industria cinematografica hollywoodiana di essere «un nido di pedo-criminalità di natura luciferina». Il che, naturalmente, ci stupirà ancor meno. Stupirebbe di più il fatto che nessun giudice in Usa voglia riprendere in mano la faccenda della strana morte di Seth Rich, un addetto del comitato elettorale democratico che aveva rivelato a Wikileaks migliaia di mail compromettenti sul funzionamento interno del partito: fra cui i trucchi e i giochi sporchi con cui quel partito favoriva la Clinton e sabotava l’altro candidato, Bernie Sanders. «Seth Conrad Rich, 27 anni, fu assassinato per strada l’8 luglio in Washington Dc, da una o diverse persone che non gli rubarono nulla di quello che indossava, lasciando anche la sua ventiquattrore, il suo orologio o il cellulare». Julian Assange accusò Hillary come mandante dell’omicidio (Hillary: «Ma non c’è un drone, qualcosa, per ammazzarlo?»). Il fatto è che si stanno accumulando prove, indizi e testimonianze che puntano ai colpevoli nel Partito Democratico. Ma i giudici e i politici Usa sono tutti concentrati a cercare prove sul delitto originale di Trump, quello di essere un agente di Putin.(Maurizio Blondet, “Manchester Satanic, nessuno è innocente”, dal blog di Blondet del 25 maggio 2017).Ora viene fuori che il papà dell’attentatore di Manchester, il signor Ramadan Abidi, era un uomo reclutato dai servizi britannici, coinvolto in un vasto piano dell’esercito libico per assassinare Gheddafi, salvato – dopo che la sua copertura era stata svelata – dai servizi che l’avevano fatto esfiltrare con la famiglia. Il “Lybia Herald” lo indica come «un federalista della Cirenaica, che lottava per l’autonomia della regione, ma non noto per affiliazione religiosa». E’ stato nella Libia orientale che fu innescata la insurrezione tribale che portò alla caduta ed uccisione di Gheddafi, nel marzo 2011. Arrivarono carichi di armi dal Qatar. Truppe speciali britanniche erano sul terreno ad aiutare i rivoltosi: la “Bbc” riportò allora che sei elementi Sas erano stati catturati dalle truppe fedeli a Gheddafi; negli stessi giorni, sei “corpi speciali olandesi” (sic) furono catturati nella Libia occidentale mentre, dissero, aiutavano l’esfiltrazione di loro connazionali. Dunque, membri della Nato stavano assistendo (comandando, guidando) il Gruppo Islamico Libico Combattente, il cui capo sul fronte orientale era Abdelhakim Belhadj, noto esponente di Al-Qaeda.
-
Servizi deviati? No: a decidere è la politica (anche le stragi)
Perché chiamarli “servizi deviati”, se i servizi segreti si prestano a fare una manovra riguardo a un traffico di droga che gli consente di acchiappare dei terroristi che stanno per mettere delle bombe? I servizi segreti fanno un lavoro sporco, ci dobbiamo rassegnare: uno può rinunciare ad averli, i servizi, ma non può pensare di avere servizi segreti trasparenti. I servizi segreti, pur di sapere se viene fatto un attentato al Papa, devono fargli vendere l’eroina, a qualcuno. Devono fare cose inconfessabili: per questo si chiamano servizi segreti. Devono fare cose sotto copertura, che non si devono venire a sapere. Ci sono Stati – molto piccoli – che non li hanno, i servizi, eppure vanno avanti lo stesso. Ma se li hai, devono essere segreti. Poi, dato che rispondono al governo, semmai a essere “deviato” è il governo: è il governo a chiedere qualcosa di “deviato”, ai suoi servizi, che sono alle dipendenze di una responsabilità anche politica. Non puoi dare ai servizi segreti responsabilità che non hanno. Interventi di servizi stranieri? Fa parte del gioco: anche noi interveniamo nelle cose straniere. Ognuno ha il suo interesse nazionale, che non si tutela solo entro i confini. Ma è sempre l’autorità politica a dare l’input.Quando i servizi segreti italiani hanno ricevuto l’ordine di mettersi a disposizione della Gladio, l’operazione Stay Behind, l’hanno ricevuto da Cossiga, che era il ministro degli interni: dunque erano deviati loro o era deviato Cossiga? Certo che i servizi sono “al di sopra della legge”. E sono pure dotati della “licenza di uccidere”, proprio come il titolo del primo film di James Bond. Poi ci sono aspetti decisamente criminali, da parte di alcuni servizi segreti. C’è tutta una serie di attività di auto-finanziamento a cura di servizi come il Mossad (e, fino a dieci anni fa, i servizi bulgari), che fanno operazioni su commissione. Sono sempre autorizzate, questa operazioni: le autorità politiche non danno ai servizi tutti i soldi che loro richiedono, e quindi tollarano che, a scopo di auto-finanziamento, il servizio esegua azioni per conto terzi. A volte lavorano per qualche imprenditore che gli chiede qualche favore. Di mezzo c’è sempre, comunque, una responsabilità politica. In Italia i servizi rispondono solo a una commissione parlamentare e al ministro dell’interno, a cui si può contestare se è stato fedele, o meno, all’interesse nazionale. Da noi non puoi rivolgerti direttamente ai servizi: ti rivolgi al ministero dell’interno, chiedendo di attivare i servizi per monitorare ad esempio un’industria farmaceutica, o traffici finanziari. Ma tutto fa capo, sempre, al ministero.Il primo ministro può anche essere ignaro, dell’attività dei servizi, solo se non funziona il rapporto gerarchico con il referente diretto dei servizi, cioè il ministro dell’interno. Ma l’Italia è un paese bislacco, carente di responsabilità politica: da noi è capitato spesso che sia stato il presidente del Consiglio a chiedere espressamente al ministro dell’interno di non informarlo, su certe cose. E’ accaduto quando i servizi hanno gestito il pagamento del riscatto di certi sequestrati, e hanno pagato i rapitori con fondi che non dovevano comparire. Chi gestì quelle operazioni di liberazione, e con che soldi? Forse a questo punto vi date delle risposte, ricordando l’allora presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfaro, già ministro dell’interno: rispose “non ci so”, quando gli chiesero dove fossero finiti certi famosi fondi neri. Scalfaro sapeva che gli sarebbe toccato tirar fuori l’elenco delle “operazioni” attuate per accumulare quei fondi neri. Quand’era ministro, il presidente del Consiglio aveva detto a Scalfaro: fa’ pure tutte quelle cose, ma fa’ in modo che io non ne sappia niente.Poi c’è l’ulteriore problema che è stato posto, ad esempio, durante il nazismo: la catena gerarchica ufficiale, che sotto il nazismo ha funzionato benissimo, era una catena perfetta. Gli ordini più terribili – uccidere, aprire i gas nei lager, sterminare ostaggi (come quelli delle Fosse Ardeatine) – gerarchicamente erano corretti. Ai soldati nazisti è stato contestato il fatto che, a certi ordini, bisognerebbe disobbedire. Ma è un problema molto delicato: perché, se fai passare questa linea, finisci col non ritrovartelo più, un esercito. Perché la linea gerarchica di un esercito, di un’operazione militare, dev’essere assoluta. Se tu la incrini, poi rimetti alle valutazioni individuali di ogni soldato a quale ordine obbedire e a quale no. Secondo voi sopravvive, un esercito, a questo? E’ un problema molto delicato, che vale anche per i servizi. Il servizio segreto che ha favorito la strage di Bologna, quello di Giannettini, si doveva rifiutare? Dire questo è eticamente giusto, però si stabilisce un principio che è contro la sopravvivenza di quell’organo: se uno mette in discussione la catena gerarchica, poi ognuno stabilisce per i fatti suoi quel che è giusto e quello che non è giusto, e quella cosa lì non esiste più.Attività criminali, come lo stragismo? Il rapporto con l’interesse nazionale lo stabilisce la responsabilità politica, siamo sempre lì. C’era una catena gerarchica che ha ritenuto utile, per l’interesse nazionale, la strategia della tensione e l’esistenza di opposti estremismi: “servivano” un estremismo violento di destra e un estremismo violento di sinistra, in maniera che la Dc sopravvivesse, potendo dire “noi, moderati, siamo i migliori”. Se c’è un potere politico che stabilisce qual è l’interesse nazionale, il funzionario dei servizi segreti esegue ordini. Ci sono dei campi in cui non esiste la libertà, etica, di fare o non fare una cosa: noi puoi rimettere alla valutazione di ciascun agente dei servizi quale ordine eseguire e quale no. A quel punto è meglio scioglierli, i servizi: fare a meno di averli. Quello che non si può fare è tenerli, e poi contestare il fatto che eseguano gli ordini che ricevono, dal potere politico, quando – per legge – sono assoggettati al potere politico.A volte i servizi segreti sono stati interessati ad acquisire informazioni dalla massoneria, altre volte sono stati interessati a utilizzare la massoneria come copertura per certe operazioni. A volte i servizi hanno avuto interesse ad affiancarsi a certe massonerie e non a certe altre, sperando che crescessero e proliferassero quelle più vicine al loro modus operandi. Ma è accaduto anche con i sindacati, con i partiti. Non fa una grossa differenza: se una funzione statuale come quella dei servizi, peraltro con uno status un po’ particolare, decide che per fare una certa operazione le è utile la Cgil, cerca di acquisire la collaborazione della Cgil. Anch’io ho avuto rapporti coi servizi: a suo tempo, mi era stato proposto anche di fare loro da consulente, con un bel compenso mensile. Solo che ho rifiutato. Ho detto: se la cosa è nell’interesse dello Stato la faccio gratis. Se non è nell’interesse dello Stato – e fortunamente non faccio parte di una catena gerarchica – perché dovrei farla pure a pagamento? Ho rifiutato proprio per quello: non volevo mettermi in un rapporto gerarchico, volevo essere io a valutare l’eticità di quello che mi veniva richiesto.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web “Carpeoro Racconta” del 30 aprile 2017, ripresa su YouTube).Perché chiamarli “servizi deviati”, se i servizi segreti si prestano a fare una manovra riguardo a un traffico di droga che gli consente di acchiappare dei terroristi che stanno per mettere delle bombe? I servizi segreti fanno un lavoro sporco, ci dobbiamo rassegnare: uno può rinunciare ad averli, i servizi, ma non può pensare di avere servizi segreti trasparenti. I servizi segreti, pur di sapere se viene fatto un attentato al Papa, devono fargli vendere l’eroina, a qualcuno. Devono fare cose inconfessabili: per questo si chiamano servizi segreti. Devono fare cose sotto copertura, che non si devono venire a sapere. Ci sono Stati – molto piccoli – che non li hanno, i servizi, eppure vanno avanti lo stesso. Ma se li hai, devono essere segreti. Poi, dato che rispondono al governo, semmai a essere “deviato” è il governo: è il governo a chiedere qualcosa di “deviato”, ai suoi servizi, che sono alle dipendenze di una responsabilità anche politica. Non puoi dare ai servizi segreti responsabilità che non hanno. Interventi di servizi stranieri? Fa parte del gioco: anche noi interveniamo nelle cose straniere. Ognuno ha il suo interesse nazionale, che non si tutela solo entro i confini. Ma è sempre l’autorità politica a dare l’input.
-
La mafia? Creata dai massoni inglesi, per sabotare l’Italia
Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndgrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».Nella sua analisi sul biennio 1992-1993, che decretò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica, Dezzani smonta la tesi dominante sul quel cruciale periodo della storia italiana: «Alla base delle stragi in Sicilia e “sul continente”, non ci fu il braccio di ferro tra malavita e Stato sul 41 bis, ma un più ampio ampio ed ambizioso progetto con cui le “menti raffinatissime” vollero ridisegnare la mappa economica e politica dell’Italia, inserendola nella più vasta cornice del Nuovo Ordine Mondiale». L’omicidio dell’eurodeputato Salvo Lima? «Va collegato alla cruciale elezione del presidente della Repubblica di quell’anno». Le uccisioni di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino? «Sono analoghi ammonimenti lanciati al Parlamento, ma allo stesso tempo sono anche un avvertimento alla giustizia italiana affinché si fermi al livello “insulare” delle indagini, senza approfondire i legami tra Cosa Nostra ed i servizi segreti della Nato». E le bombe del 1993 «sono un “lubrificante” per consentire agli anglofili del Britannia di smantellare a prezzi di saldo l’Iri e l’industria pubblica».In questo contesto, scrive Dezzani nel suo blog, «la mafia è uno strumento dell’oligarchia atlantica per perseguire obiettivi addirittura in contrasto con gli interessi di Cosa Nostra: è infatti assodato che la stagione stragista debilitò gravemente Cosa Nostra, “spremuta” nella strategia della tensione del 1992-1993 fino quasi a svuotarla». E non è certo un’eccezione l’impiego del crimine organizzato da parte degli angloamericani, già nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Dezzani esplora altri momenti cruciali del Belpaese, scovandovi lo zampino della malavita. Per esempio sul caso Moro, a partire dal sequestro, il 16 marzo 1978: «E’ ormai appurato che la ‘ndrangheta abbia partecipato al “commando12” che rapì il presidente della Dc, reo di turbare gli assetti internazionali con la sua apertura al Pci». Non solo: il capo della Nuova Camorra Organizzata, Raffaele Cutolo, ha dichiarato che «avrebbe potuto salvare Moro, se i servizi segreti non si fossero opposti». Prima ancora, la strage di piazza Fontana, 12 dicembre 1969: l’ecatombe che inaugura la strategia della tensione «è perpetrata dalla destra eversiva di Franco Freda, in stretto contatto con la ‘ndrangheta». E ancora: l’omicidio di Enrico Mattei, 1962. «E’ Cosa Nostra a sabotare, all’aeroporto di Catania Fontanarossa, il velivolo su cui trovò la morte il presidente dell’Eni, scomodo alle Sette Sorelle».Rileggendo la storia a ritroso, il binomio atlantico-mafia compare già al momento dello sbarco angloamericano in Sicilia del 1943: «E’ il mafioso Lucky Luciano a facilitare la conquista dell’isola, e papaveri di Cosa Nostra presenziano anche all’armistizio di Cassibile, che sancisce la fine delle ostilità tra l’Italia e gli Alleati». Quasi un secolo prima ci fu un altro famosissimo sbarco, quello di Garibaldi a Marsala, nel 1860, con i “picciotti” impegnari a dare «un contributo determinante alla spedizione di Mille, benedetta e protetta da Londra». Domande: cosa sono, davvero, la mafia, la camorra e la ‘ndragheta? Perché affiorano in tutti i passaggi della storia italiana a fianco di Londra e Washington? E perché sono sovente associate ad un’altra organizzazione segreta di matrice anglosassone, la massoneria speculativa? Generalmente non se parla, nei film e nei prodotti televisivi sulla mafia, e nemmeno tra le migliaia di pagine stampate. Sulla mafia, scrive Dezzani, «campano non soltanto i malavitosi, ma anche i “professionisti dell’antimafia” che pullulano nei tribunali, pennivendoli del calibro di Roberto Saviano ed il variegato mondo di preti, intellettuali e soloni che ruota attorno alla “lotta alla mafia”». Nessuno di loro, però, secondo Dezzani, ha «intuito la vera natura del crimine organizzato». Ci arrivò Falcone, quando osservò che la mafia «presenta forti analogie con le Triadi cinesi, la malavita turca e la Yakuza giapponese».Con un approccio storico e geopolitico che analizza gli interessi strategici, Dezzani arriva a concludere che mafia, camorra e ‘ndragheta sono «società segrete paramassoniche dedite al crimine, vere e proprie “sette” che rispondono alle logge inglesi ed americane, sin dalla loro origine agli inizi dell’Ottocento». Sarebbe una verità «perfettamente nota agli “addetti ai lavori”», cioè «vertici della mafia, politici, Grande Oriente d’Italia, Cia, Mi6». Una realtà «spesso intuita e talvolta accennata da onesti magistrati e seri studiosi», ancge se nessuno ha finora prodotto uno studio organico sul tema. Dezzani parte dal quesito chiave: perché le mafie si sviluppano in tre regioni meridionali quasi contemporaneamente, tra gli anni ‘10 e ‘30 dell’Ottocento? Le risposte più frequenti sono di natura socio-economica: l’arretratezza del Meridione, il retaggio della dominazione spagnola, la presenza del latifondo, le mentalità della popolazione, la diffusione di miseria e povertà. «Sono risposte fuorvianti», vosto che «il reddito pro-capite del Regno delle Due Sicilie era paragonabile a quello del resto d’Italia», e la povertà era «simile a quella di alcune zone del Piemonte e del Veneto, che non produssero crimine organizzato». Inoltre, «la dominazione spagnola aveva interessato pure la “civilissima” Lombardia» e, per contro, «altre regioni meridionali persino più povere (come il Molise e la Basilicata) non conobbero le mafie, che germogliarono invece in due ricche capitali come Palermo e Napoli».Per scoprire le autentiche origini del fenomeno mafioso, secondo Dezzani occorre «tuffarsi nella storia, accantonando analisi pseudo-economiche, per afferrare le forze vive e la geopolitica dell’epoca». E’ lo stesso procedimento che porta a dimostrare come l’Isis «non sia altro che uno strumento degli angloamericani per balcanizzare il Medio Oriente e dividerlo lungo faglie etniche e religiose, piuttosto che il frutto spontaneo del fondamentalismo islamico». Così, Dezzani si tuffa nella storia, partendo dagli anni a cavallo tra ‘700 e ‘800, quando il mondo è in fiamme per la guerra tra Francia rivoluzionaria e le altre monarchie europee: «La Rivoluzione Francese, in cui Londra ha giocato un ruolo determinante (si pensi agli “anglofili” come Honoré Mirabau, il marchese de La Fayette e Philippe Égalité), è sfruttata dagli inglesi per liquidare la Francia come grande potenza marittima, estendere i propri domini in India e rafforzare l’egemonia su un’area chiave del mondo: il Mar Mediterraneo, da unire in prospettiva al Mar Rosso ed all’Oceano Indiano con il canale di Suez».Il Regno di Napoli, di fronte all’avanzata delle truppe rivoluzionarie francesi, è costretto ad aprire i propri porti alla flotta inglese, «senza sapere che, così facendo, firma la sua condanna a morte: gli inglesi sbarcano infatti coll’obiettivo di rimanerci anche dopo la guerra, installandosi così nello strategico Sud Italia che presidia il Mar Mediterraneo». Per un certo periodo, continua Dezzani, gli inglesi diventano addirittura padroni del Regno: quando infatti il francese Gioacchino Murat si insedia a Napoli, il re Ferdinando IV si rifugia in Sicilia protetto dagli inglesi e Lord William Bentinck governa l’isola come un dittatore de facto. Sotto l’ombra del potere inglese, «arriviamo così alle origini di Cosa Nostra». Un grande esperto di mafia come Michele Pantaleone ricorda che nel Meridione il brigantaggio assunse una funzione “sociale” solo dopo il 1812, quando il potere feudale venne eliminato: Pantaleone scrive che lo «spirito di mafiosità» sorse in concomitanza con la formazione delle famigerate “compagnie d’armi”, create dalla baronia siciliana nel 1813 a difesa dei diritti feudali. Lo “spirito di mafiosità”, dunque, prende forma tra il 1812 e il 1850: «Il suo epicentro è nel palermitano e di qui si irradia verso la Sicilia orientale».Il 1812, anno citato in tutti i testi di storia sulla mafia, è quello in cui il “dittatore” Lord William Bentinck impone al re, esule a Palermo, l’adozione di una Costituzione sulla falsariga di quella inglese, di comune accordo con i baroni siciliani: «Gli stessi baroni che creano quelle “compagnie d’armi”», antesignane della futura mafia. «Strane davvero queste “compagnie”, “consorterie” o “sette” che iniziano a pullulare dopo il 1812: presentano singolari analogie con la massoneria speculativa che gli inglesi innestano ovunque arrivino: segretezza, statuti, rituali d’iniziazione, mutua assistenza, diversi gradi di affiliazione, livelli sconosciuti agli altri aderenti». E poi, continua Dezzani, le nuove “compagnie” accampano anche «la pretesa di non essere volgari criminali, ma “un’aristocrazia del delitto riconosciuta, accarezzata ed onorata”, proprio come i massoni si definiscono gli “aristocratici dello spirito” in contrapposizione all’antica nobiltà di sangue. “Mafia” nei rioni di Palermo significa “bello, baldanzoso ed orgoglioso”».La Restaurazione reinsedia Ferdinando IV, ora Ferdinando I delle Due Sicilie, sul trono di Napoli. Il sovrano, nel 1816, si affretta a revocare la Costituzione scritta dagli inglesi, «considerata come un’insidiosa minaccia alle sue prerogative». Ma è tardi: «I germi inoculati dagli inglesi, le misteriose sette criminali che dalla periferia di Napoli e Palermo si irradiano verso i palazzi di baroni e notabili, però crescono. Corrodono il Regno delle Due Sicilie dall’interno, emergendo come un vero Stato nello Stato: trascorreranno poco meno di cinquantanni prima che contribuiscano in maniera determinante allo sfaldamento del Regno borbonico». È tra il 1820 ed il 1830 che lo scrittore Marc Monnier (1829-1885) situa la comparsa a Napoli di una misteriosa setta paramassonica, la “bella società riformata”, dedita ad attività illecite: «E’ la futura camorra, che nel 1842 scrive il primo statuto definendo i vari gradi di affiliazione sulla falsa riga della libera muratoria, da “giovanotto onorato” a “camorrista”, passando per “picciotto di sgarro” e così via». Quasi contemporaneamente, al di là dello Stretto di Messina, la mafia è già ad uno stadio avanzato, perché nel 1828 il procuratore di Girgenti scrive dell’esistenza di un’organizzazione di oltre 100 membri di diverso rango, «riuniti in fermo giuramento di non rilevare mai menoma circostanza delle operazioni». Idem per la ‘ndrangheta in Calabria.Nel 1848, continua Dezzani, Londra incendia l’Europa usando come cinghia di trasmissione la solita massoneria speculativa: è la “Primavera dei popoli”, cui seguiranno tante altre primavere di complotti, da quella di Praga del 1968 a quella araba del 2011. Nel Mediterraneo gli inglesi si adoperano per staccare la Sicilia, avamposto strategico per ogni operazione militare e politica in quel quadrante, dal Regno Borbonico: i “baroni”, gli stessi che comandano le malfamate “compagnie d’armi”, insorgono contro Ferdinando II, proclamando decaduta la corona borbonica e affidandosi alla corona d’Inghilterra, disposta a difendere l’indipendenza dell’isola. Il contesto internazionale non è però favorevole alla secessione e Ferdinando II reprime manu militari l’insurrezione, guadagnandosi l’appellativo di “re bomba”, dipinto dalla stampa anglosassone come un despota sanguinario e illiberale. «Le carceri, che già allora sono il principale centro di propagazione delle mafie, si riempono di patrioti-liberali e “picciotti”, uniti dal comune retroterra massonico: si saldano così legami che saranno presto utili». Geopolitica, ancora: i rapporti tra Napoli e Londra sono ai minimi storici anche la contesa sullo zolfo siciliano, sicché Ferdinando II si avvicina alla Russia, allora acerrima rivale degli inglesi: sono gli anni del Grande Gioco, in cui Londra e San Pietroburgo si sfidano in Eurasia per l’egemonia mondiale.Quando nel 1853 scoppia la guerra di Crimea, prosegue Dezzani, il Regno delle Due Sicilie rimane rigorosamente neutrale: nega addirittura alle navi inglesi e francesi dirette verso Sebastopoli di attraccare nei propri porti per rifornirsi. Il primo ministro inglese, Lord Palmerston, non ha dubbi: il Regno Borbonico, nonostante la grande distanza geografica, è diventato un vassallo della Russia. Chi partecipa alla “Guerra d’Oriente” è invece il Regno di Sardegna, consentendo così al primo ministro, Camillo Benso, conte di Cavour, di acquisire un ruolo da protagonista nell’ormai imminente riassetto dell’Italia: «La storiografia certifica che Cavour, da buon reapolitiker qual è, non ha in mente “l’unità” della Penisola, bensì “l’unificazione” doganale, economica e militare di tre regni autonomi. Il Regno sabaudo allargato a tutto il Nord Italia, lo Stato pontificio ed il Regno borbonico: la soluzione, seppur caldeggiata da francesi e russi, è però osteggiata dagli inglesi, decisi a cancellare il potere temporale della Chiesa Cattolica e a sostituire gli infidi Borbone con i più sicuri Savoia, tradizionali alleati dell’Inghilterra sin dal Settecento».È infatti “l’inglese” Giuseppe Garibaldi, l’eroe dei due mondi celebrato dalla stampa angloamericana nonché 33esimo grado della massoneria, a sbarcare nel maggio del 1860 a Marsala, feudo inglese per la produzione di vino, protetto dalle due cannoniere inglesi Argus e Intrepid. «La reazione della marina militare borbonica è nulla, perché la massoneria ha ormai assunto il controllo delle forze armate e dei vertici dello Stato. Le strade e le grandi città sono invece passate sotto il controllo del crimine organizzato: “i picciotti”, che agiscono sempre in sintonia con i “baroni”, danno un aiuto determinante all’avanzata dei Mille». E così «il Regno delle Due Sicilie, svuotato da uno Stato parallelo che è cresciuto dentro lo Stato di facciata, si squaglia rapidamente: Reggio Calabria non oppone alcuna resistenza, mentre Napoli precipita nel caos, lasciando che il vuoto di potere sia colmato dalla camorra, lieta di accogliere Garibaldi e le sue truppe». Nasce in questo modo il Regno d’Italia, «che ancora oggi paga il prezzo del suo peccato originale». Ovvero: «È uno Stato strutturalmente debole, nato senza possedere il monopolio della violenza, costretto a convivere con due gemelli siamesi, le mafie e la massoneria speculativa, che non solo altro che meri strumenti in mano a chi ha davvero orchestrato l’Italia unita: l’impero britannico».Londra, sottolinea Dezzani, non è certo animata da nobili sentimenti: ha defenestrato i russofili Borbone per sostituirli con i fedeli Savoia, ha creato a Sud delle Alpi una media potenza da opporre alla Francia (si veda la Triplice Alleanza), ha partorito uno Stato sufficientemente robusto da reggersi in piedi, ma abbastanza debole da non insidiare la sua egemonia sul Mar Mediterraneo. «Le stesse mafie che hanno corroso il Regno delle Due Sicilie sono lasciate infatti in eredità allo Stato unitario: è un’eredità avvelenata, finalizzata a compiere una perdurante opera di destabilizzazione nel Meridione, cosicché non possa mai sfruttare il suo enorme potenziale geopolitico di avamposto verso Suez, il Levante ed il Nord Africa». E attenzione: «Le mafie come strumento inglese di destabilizzazione non sono una peculiarità del Sud Italia». Dezzani cita le Triadi cinesi che smerciano nel Celeste Impero Celeste quell’oppio per cui Londra ha addirittura combattuto una guerra (1839-1842): le analogie con la mafia, come notava Falcone, sono incredibili. «Tatuaggi, mutua assistenza, omertà, segretezza, riti d’iniziazione, diversi gradi di affiliazione, struttura piramidale: anche le Triadi sono sette criminali paramassoniche e, non a caso, quando i comunisti prenderanno il potere nel 1949, ripareranno nella colonia britannica di Hong Kong».Non c’è alcun dubbio che l’Italia “liberale” fondata nel 1861 sia terreno fertile per il crimine organizzato: mafia, camorra e ‘ndrangheta «si sviluppano nelle rispettive regioni come Stati paralleli a quello unitario, prosperando più che ai tempi del Regno delle Due Sicilie». Per Dezzani, «massoneria e mafie, benedette da Londra, sono i motori dell’Italia liberale, un edificio che sembra spesso vicino al crollo, totalmente ripiegato su se stesso». La mafia contribuisce a mantenere l’Italia in un perenne stato di fibrillazione, guidando ad esempio la rivolta del “sette e mezzo” che paralizza la Sicilia nel 1866, quasi l’antefatto del drammatico 1992. Il fenomeno mafioso, aggiunge Dezzani, è contenuto finché la destra storica, quella di Cavour, resta al potere. Ma poi esplode con l’avvento nel 1876 della sinistra storica: «Sotto la presidenza del Consiglio di massoni come Agostino Depretis e Francesco Crispi, è inaugurato il “Vice-Regno della mafia” che dal 1880 circa si estende fino al 1920». Lo Stato liberale «abdica a favore del baronato». E l’intera Sicilia, formalmente governata da Roma, è in realtà un feudo anglo-mafioso: «Londra non ha bisogno di staccare l’isola del governo centrale come ai tempi di Ferdinando II, perché esercita il controllo de facto con la “setta” criminale paramassonica».Secondo Dezzani, è la stessa organizzazione che negli Stati Uniti assume nomi evocativi come “Mano Nera” o “Anonimi Assassini”: «Quando nel 1909 il commissario della polizia di New York, Joseph Petrosino, sbarca a Palermo per indagare sui legami tra mafia americana e siciliana, “i picciotti” non si fanno scrupoli a sparargli in testa». Nessuno deve disturbare i rapporti tra mafia e politica: il trasformismo parlamentare dell’epoca giolittiana è terreno fertile per la malavita, «determinante per l’elezione degli onorevoli espressi dalle popolose regioni meridionali». Un cambiamento, ammette Dezzani, si registra solo dopo la marcia su Roma del 1922, con l’irruzione sulla scena di Benito Mussolini, che certo «è una vecchia conoscenza di Londra sin dalla Prima Guerra Mondiale e dalla campagna interventista del “Popolo d’Italia”», ed vero che «conquista la presidenza del Consiglio con l’appoggio determinante degli inglesi e della massoneria di piazza del Gesù», ma il duce del fascismo «tende ad emanciparsi in fretta». Secondo Dezzani, «l’omicidio Matteotti del 1924 può infatti essere considerato il primo tentativo inglese di rovesciarlo e ha certamente un certo peso sulla decisione del 1925 di abolire la libera muratoria (sebbene numerosi massoni, primo fra tutti Dino Grandi, restino al governo)».Fedele alla massima “tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato”, Mussolini non può ovviamente accettare la convivenza con istituzioni parallele al governo, come la mafia. Nell’ottobre 1925 Cesare Mori è nominato prefetto di Palermo e, in poco meno di quattro anni, infligge un duro colpo a Cosa Nostra, avvalendosi dei “poteri eccezionali” affidatigli da Mussolini: nel 1927 il tribunale di Termini Imerese condanna oltre 140 mafiosi a durissime pene. Chi, ovviamente, stigmatizza la condotta del governo italiano è l’Inghilterra. Dezzani cita l’ambasciatore Ronald Graham, che scrive al premier Chamberlain: «Il signor Mori ha certamente restaurato l’ordine. Ha eliminato numerosi mafiosi e ras ed anche numerosi innocenti con mezzi molto dubbi, comprese prove fabbricate dalla polizia e processi di massa». Al che, aggiunge Dezzani, «mafie e massoneria, sorelle inseparabili, piombano quindi “nel sonno”, in attesa di essere risvegliate al momento opportuno: proprio come ai tempi delle guerre napoleoniche, sbarcheranno in Sicilia con gli inglesi, accompagnati questa volta anche dalle forze armate statunitensi».È il 1943 e la mafia non solo facilita lo conquista dell’isola attraverso Lucky Luciano, ma addirittura «presenzia alla firma dell’armistizio di Cassibile nella persona di Vito Guarrasi, lontano parente di Enrico Cuccia (la cui famiglia è originaria del palermitano)». Finché il “continente” è occupato dai tedeschi, gli angloamericani coltivano la ricorrente idea di separare la Sicilia dal resto dell’Italia: è il momento d’oro del separatismo e del bandito Giuliano, destinato a scemare man mano che le truppe alleate risalgono la penisola. «Perché infatti accontentarsi della Sicilia se, come ai tempi d’oro dell’Italia liberale, è possibile costruire dietro lo Stato di facciata un secondo Stato, retto dalle mafie a dalla massoneria? Inizia così la lunga stagione dei “misteri italiani” dove mafia, camorra e ‘ndrangheta figureranno a fianco di servizi segreti “deviati” e logge massoniche in decine di omicidi ed attentati: dal disastro aereo di Enrico Mattei alle bombe del 1993, dal sequestro Moro al rapimento dell’assessore campano Ciro Cirillo». Inutile stupirsi, insiste Dezzani: «Il fenomeno rientra nella norma, perché sin dalle origini nella prima metà dell’Ottocento le mafie non erano altro che società segrete paramassoniche, dedite al crimine e obbedienti alle logge inglesi e americane».Un pentito, Giovanni Gullà, ha rivelato agli inquirenti i meccanismi di “Mamma Santissima”, la nuova ‘ndrangheta, che contribuirà in maniera decisiva alla strategia della tensione: «La “Santa” si spiega nella logica della “setta segreta”: si è inteso creare una struttura di potere sconosciuta agli altri per ottenere maggiori benefici». Secondo Gullà, «la “Santa”, come setta segreta, è l’esatto corrispondente della massoneria coperta rispetto a quella ufficiale». Certo, «l’appartenente alla ‘ndrangheta non può essere massone», ma questo vale solo «per la ‘ndrangheta “minore” e la massoneria pubblica». La “Santa” invece «rappresenta una struttura segreta dentro la stessa ‘ndrangheta». E quindi, «se il fine mutualistico può essere soddisfatto con l’ingresso di massoni nella struttura e viceversa, nessun ostacolo può essere frapposto». La “Santa”, conclude Dezzani, è dunque l’élite della ‘ndrangheta, «costituita negli anni ‘70 nel nome di tre personaggi storici, tutti risalenti al Risorgimento, tutti massoni, tutti ottime conoscenze di Londra: Giuseppe Garibaldi, Giuseppe Mazzini e Giuseppe La Marmora». Dalla “pax britannica” dell’ordine liberale alla “pax americana” dal 1945 a oggi. L’eventuale fine della mafia? Di ordine geopolitico: «È un sistema internazionale entrato ormai in crisi irreversibile, schiacciato dalla crisi del capitalismo anglosassone e dall’emergere di nuove potenze». Per Dezzani sarebbe il caso di sfruttare il declino dell’egemonia angloamericana «per liquidare anche quelle società segrete paramassoniche che da due secoli corrodono il Meridione e l’Italia, impedendo di sfruttarne l’enorme potenziale come ponte naturale tra Europa e Asia».Spaghetti, pizza e mafia. Sicuri che l’onorata società sia interamente made in Italy? La Sicilia a Cosa Nostra, la Campania alla camorra, la Calabria alla ‘ndrangheta: «Sono accostamenti triti e ritriti, spesso impiegati per dipingere l’intera Italia come un paese mafioso, corroso dal crimine, e quindi da collocare ai margini del sistema internazionale, tra gli Stati semi-falliti». Per un analista geopolitico come Federico Dezzani, la verità è più complessa. E ha un’origine non solo italiana, anche se la mafia ha tratto alimento dal brigantaggio, nato nel Sud come ribellione armata alla ferocia dell’esercito piemontese all’epoca dell’Unità d’Italia. Da allora – 1861 – il paese affronta il problema mafioso: migliaia di inchieste, libri, analisi economiche e sociali. «Ma è possibile affrontare la questione in termini geopolitici?», si domanda Dezzani? La sua risposta è sì. Ed è decisamente spiazzante: «Mafia, camorra e ‘ndrangheta sono società segrete paramassoniche, inoculate dagli inglesi all’inizio dell’Ottocento per destabilizzare il Regno delle Due Sicilie e trasmesse all’Italia post-unitaria per minare lo Stato e castrarne la politica mediterranea».
-
Il terrore, per farci ingoiare l’Ue che fabbrica crisi e guerre
Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l’Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell’Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell’Europa. Le stragi terroriste sono contro l’Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l’Europa minaccia un ministro britannico. La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea.L’escalation delle proposte europeiste va in una sola direzione, quella del ferro e del fuoco. Non c’è un solo accento autocritico verso tutte le guerre terroristiche che l’Europa ha scatenato nel mondo. Non c’è una sola richiesta di maggiore democrazia e giustizia sociale. Anzi l’europeismo guerrafondaio spiega ai popoli del continente che per avere sicurezza a qualche diritto bisognerà pure rinunciare, qualche altro intervento militare lo si dovrà pure fare. L’europeismo vuole bruciare le tappe per diventare come gli Stati Uniti, ma di quel paese pare invidiare soprattutto Guantanamo e i droni. E naturalmente le multinazionali. Se si dovessero spiegare gli eventi solo con la categoria del “a chi giova” le stragi terroriste di questi due anni avrebbero un solo beneficiario: l’europeismo guerrafondaio. Ma anche se non si volesse leggere lo stragismo europeo con le stesse lenti con cui alla fine abbiamo visto quello italiano. Se anche si considerassero irripetibili su scala europea quei legami tra terroristi fascisti, servizi segreti, poteri occulti che hanno tracciato la via delle stragi italiane, da piazza Fontana alla stazione di Bologna. Se anche davvero non ci fossero mai stati rapporti tra il terrorismo jihadista, L’Isis e le potenze occidentali ed europee, in ogni caso la reazione europeista alle stragi è un aggravamento del male.Le nazioni si forgiano nel sangue, dicevano i nazionalisti dell’800. È certo che questo superstato europeo privo di qualsiasi vera democrazia finora non ha certo scaldato i cuori dei suoi sudditi. Ora le stragi potrebbero cambiare il quadro e finalmente si potrà chiedere di amare la Troika. Non so se ci sia un disegno occulto e se tutte le affermazioni siano in malafede, ma so che il terrorismo jihadista sta stabilizzando la peggiore Europa, quella che sta distruggendo la sua democrazia e il suo stato sociale. Il nazionalismo del passato ha trascinato l’Europa nella catastrofe, ora l’europeismo ripropone la stessa avventura. Non si esce dalla spirale guerra terrorismo senza una rottura, e questa rottura va fatta proprio contro il sistema di potere europeo, che è al centro di quella spirale.(Giorgio Cremaschi, “Il più pericoloso dei nazionalismi è l’europeismo”, da “Micromega” del 26 marzo 2016).Samuel Johnson alla fine del 1700 affermò: il patriottismo è l’ultimo rifugio dei mascalzoni. Oggi penso che il peggiore e più pericoloso dei nazionalismi sia il patriottismo europeista. Ne stanno spargendo a piene mani tutti i governi e le élites del potere europeo dopo la strage di Bruxelles. Dopo anni nei quali l’Europa era apparsa solo come il vincolo feroce che faceva sprofondare nella fame la Grecia, dopo le miserie e le infamie sui migranti, dopo i colpi a tutti i diritti sociali e alle costituzioni democratiche sferrati nel nome dell’Euro, quasi non pare vero che si possa di nuovo proclamare la santità dell’Europa. Le stragi terroriste sono contro l’Unione Europea, proclamano i governanti. La nostra civiltà è minacciata aggiungono tutti i componenti del coro. Guai a votare contro l’Europa minaccia un ministro britannico. La malafede di tutte queste affermazioni è però mostrata da tutte le proposte che seguono subito dietro ai proclami. Ci vuole una polizia europea, ci vogliono carceri europee, ci vuole un esercito europeo, ci vuole una guerra europea.
-
Lo straordinario coraggio del popolo siriano parla a tutti noi
Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dell’Isil nei campi gestiti dalla Nato costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’Occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.Più di due anni fa, la mia ex-videoredattrice indonesiana pretese una risposta in tono alterato: «Così tante persone muoiono in Siria! Ne vale davvero la pena? Non sarebbe più semplice e migliore per i siriani mollare e lasciare che gli Stati Uniti abbiano ciò che esigono?». Cronicamente pietrificata, questa giovane donna era sempre alla ricerca di soluzioni facili per mantenersi al sicuro, e con significativi vantaggi personali. Come tanti altri oggi, di questi tempi, per sopravvivere e andare aventi, hanno sviluppato un sistema contorto che poggia su tradimenti, autodifese e inganni. Come rispondere a una domanda del genere? Era legittima, dopo tutto. Eduardo Galeano mi disse: «La gente sa quando è il momento di combattere. Non abbiamo il diritto di dirglielo… e quando lo decide, è nostro obbligo sostenerla, anche guidandola se ci avvicina». In questo caso, il popolo siriano ha deciso. Alcun governo o forza politica potrebbe imporre a un’intera nazione tale enorme eroismo e sacrificio.I russi l’hanno fatto durante la Seconda Guerra Mondiale, e i siriani lo fanno ora. Due anni fa risposi così: «Ho assistito al crollo totale del Medio Oriente. Non c’era più niente in piedi. I paesi che hanno optato per la propria strada sono stati letteralmente rasi al suolo. I paesi che hanno ceduto ai dettami occidentali hanno perso anima, cultura ed essenza, trasformandosi alcuni nei luoghi più miseri della terra. E i siriani lo sapevano: se si arrendevano, sarebbero divenuti un altro Iraq, Yemen o Libia, perfino Afghanistan». E così la Siria si oppose. Decise di combattere, per sé e per la sua parte nel mondo. Ancora una volta, elesse il suo governo e si appoggiò al suo esercito. Qualunque cosa gli occidentali dicessero, qualsiasi tradimento le Ong scrivessero, la semplice logica lo dimostrava. Questa nazione modesta non ha media così potenti da condividere i propri coraggio e agonia col mondo. Sono sempre gli altri che ne commentano la lotta, spesso in modo del tutto dannoso. Ma è innegabile che, mentre le forze sovietiche fermarono l’avanzata dei nazisti a Stalingrado, i siriani sono riusciti a fermare le forze fasciste alleate degli occidentali nella sua parte del mondo.Naturalmente la Russia ne è direttamente coinvolta. Naturalmente la Cina osserva, anche se spesso nell’ombra. E l’Iran ha dato aiuto. Ed Hezbollah del Libano ha fatto ciò che descrivo spesso, una lotta epica assieme a Damasco contro i mostri estremisti inventati e armati da Occidente, Turchia e Arabia Saudita. Ma il merito principale deve andare al popolo siriano. Sì, ora non c’è più nulla del Medio Oriente. Ora sono più le lacrime che le gocce di pioggia a scendere su questa terra antica. Ma la Siria è in piedi. Bruciata, ferita, ma in piedi. E come è stato ampiamente riportato, dopo che le forze armate russe sono giunte in soccorso della nazione siriana, oltre 1 milione di siriani è potuto reintrare a casa… spesso trovando solo cenere e devastazione, ma a casa. Come le persone tornarono a Stalingrado, oltre 70 anni fa.Quindi quale sarebbe la mia risposta a tale domanda ora: “sarebbe più facile il contrario”, arrendersi all’Impero? Credo qualcosa del genere: «La vita ha un senso, è degna di essere vissuta solo se possono essere soddisfatte certe condizioni di base. Non si tradisce un grande amore, sia esso per un’altra persona o per un paese, l’umanità o gli ideali. Se non lo si fa, sarebbe meglio non nascere affatto. Allora dico: la sopravvivenza del genere umano è l’obiettivo più sacro. Non qualche effimero vantaggio o ‘sicurezza’ personale, ma la sopravvivenza di tutti noi, persone, nonché della sicurezza di tutti noi, esseri umani». Quando la vita stessa è minacciata, la gente tende a opporsi e a combattere, istintivamente. In quei momenti, alcuni dei capitoli più monumentali della storia umana sono stati scritti. Purtroppo, in quei momenti, milioni morirono. Ma la devastazione non è a causata da coloro che difendono la nostra razza umana. E’ causata dai mostri imperialisti e dai loro succubi.La maggior parte di noi sogna un mondo senza guerre, senza violenza. Vogliamo che la vera bontà prevalga sulla Terra. Molti di noi lavorano senza sosta per tale società. Ma fino a quando non sarà costruita, fino a quando ogni egoismo estremo, avidità e brutalità sarà sconfitto, dobbiamo lottare per qualcosa di molto più “modesto”, per la sopravvivenza dei popoli e dell’umanesimo. Il prezzo è spesso orribile. Ma l’alternativa è un grande vuoto. Semplicemente il nulla, alla fine, e nient’altro! A Stalingrado, milioni morirono per farci vivere. Nulla rimase della città, tranne che acciaio fuso, mattoni sparsi e un oceano di cadaveri. Il nazismo fu fermato. L’espansionismo occidentale iniziava la ritirata, all’epoca verso Berlino. Ora la Siria, con calma ma stoicamente ed eroicamente, si oppone ai piani sauditi, qatarioti, israeliani, turchi e occidentali per distruggere il Medio Oriente. E il popolo siriano ha vinto. Per quanto tempo, non lo so. Ma ha dimostrato che un paese arabo può ancora sconfiggere potenti orde assassine.(Andre Vltchek, “La Siria è la Stalingrado del Medio Oriente”, dalla rivista oline “New Eastern Outlook” del 2 gennaio 2016, ripreso dal newsmagazine “Aurora”. Andre Vltchek è un filosofo e scrittore russo, anche regista e giornalista investigativo, ideatore di “World Vltchek”, applicazione per Twitter).Giorno e notte, per anni, una forza travolgente s’è abbattuta su questa nazione tranquilla, una delle culle della civiltà umana. Centinaia di migliaia sono morti, e milioni sono stati costretti a fuggire all’estero o sono stati sfollati. In molte città e villaggi non una casa è rimasta intatta. Ma la Siria è, contro ogni previsione, ancora in piedi. Negli ultimi 3 anni ho lavorato in quasi tutti gli angoli della Siria, denunciando la nascita dell’Isil nei campi gestiti dalla Nato costruiti in Turchia e Giordania. Ho lavorato nella alture occupate del Golan, e in Iraq. Ho lavorato anche in Libano, un paese ora costretto ad ospitare più di 2 milioni (per lo più siriani) di rifugiati. L’unico motivo per cui l’Occidente ha iniziato la sua orribile campagna di destabilizzazione, era perché “non poteva tollerare” la disobbedienza della Siria e la natura socialista del suo Stato. In breve, il modo in cui la dirigenza siriana metteva il benessere del suo popolo al di sopra degli interessi delle multinazionali.
-
Chi pilota l’Isis ha il terrore che smettiamo di avere paura
«Non c’è un solo governo, al mondo, che non sia controllato da quei poteri»: per Fausto Carotenuto, già analista strategico-militare dei servizi segreti, è deprimente assistere alla farsa dei media mainstream, che si affannano a presentare “la mente”, “il basista” e “l’ottavo uomo” della strage di Parigi, come se si trattasse delle indagini per una normale rapina alle Poste. In compenso, su voci alternative come “Border Nights”, può capitare di avere – in appena un paio d’ore, grazie a semplici collegamenti Skype – informazioni e analisi di altissima qualità, capaci di superare centinaia di ore di infotainment e chilometri di carta stampata. E’ accaduto anche martedì 17 novembre, a quattro giorni dalla mattanza: ospiti della trasmissione, oltre a Carotenuto, un indagatore come Paolo Franceschetti (delitti rituali, Rosa Rossa, Mostro di Firenze), il regista Massimo Mazzucco (11 Settembre), Gioele Magaldi (“Massoni, società a responsabilità illimitata”) e un secondo massone, Gianfranco Carpeoro, esperto di codici simbolici: «Scordatevi qualsiasi altra pista, quello di Parigi è stato un attentato progettato da menti massoniche o para-massoniche e destinato innanzitutto ad altri massoni, i soli in grado di cogliere immediatamente il significato di quella data, 13 novembre».Non un giorno a caso, ma quello in cui – spiega Carpeoro – nel lontano 1307 un gruppo di Templari riuscì a lasciare Parigi sfuggendo alle persecuzioni ordinate da Filippo il Bello: quei Templari riapararono in Scozia, dove si unirono a logge massoniche, all’epoca ancora “operative”, professionali (dedite cioè alla costruzione di cattedrali) per poi dar vita, in seguito, alla massoneria moderna. Già avvocato, pubblicitario e scrittore, eminente studioso di linguaggio simbolico nonché ex “sovrano gran maestro” della massoneria italiana di rito scozzese, Carpeoro ha aderito al “Movimento Roosevelt” fondato da Magaldi per contribuire al “risveglio” della politica italiana in chiave anti-oligarchica. Su Parigi la pensa come Carotenuto e lo stesso Magaldi: è semplicemente impossibile, sul piano tecnico, che i commando di jihadisti in azione nella capitale francese abbiano potuto agire da soli, senza la copertura decisiva di settori “infedeli” delle forze di sicurezza. In più, Carpeoro ravvisa la possibile applicazione del modulo standard concepito dalla Cia per attuare la strategia della tensione, basato su tre direttrici simultanee: due attentati strategici (uno principale, l’altro di riserva) e un terzo obiettivo, tattico-diversivo, per sviare la polizia e centrare più facilmente il “bersaglio grosso”.Secondo questo copione, sistematicamente attuato, il presidente Hollande potrebbe esser stato addirittura all’oscuro del complotto, sostiene Carpeoro: probabilmente il “bersaglio grosso” doveva essere lui, insieme agli altri spettatori allo stadio. «Poteva essere una strage ben peggiore, con persone uccise dall’esplosivo e altre dal caos scatenato dal panico, sugli spalti. Ma qualcosa è andato storto, perché qualcuno ha intercettato i kamikaze fuori dallo stadio. Solo a qual punto, quindi, i terroristi potrebbero aver ricevuto l’ordine di sterminare il pubblico del teatro Bataclan. Le sparatorie nel centro di Parigi? Solo un diversivo per distogliere le forze di polizia, ignare dell’operazione in corso». Obiettivo comunque raggiunto grazie al Piano-B, la strage nel teatro: terrore diffuso, insicurezza, bisogno di protezione e quindi maggiore disponibilità ad accettare strette repressive e persino la prospettiva della guerra. Retroscena: «Bisogna capire con chi parlò Hollande nei giorni precedenti, tenendo conto che negli ultimi anni, si veda la Libia ma non solo, è stata sempre la Francia a dare il via ai grandi sconvolgimenti geopolitici». Qualcuno potrebbe aver proposto a Hollande di aprire le danze anche stavolta (un mese fa, il capo dell’Eliseo annunciò di voler bombardare l’Isis in Siria), in cambio di un allentamento della stretta di Bruxelles sulla finanza pubblica francese.Non a caso, il governo di Parigi ha risposto all’attentato con massicci blitz dell’aviazione in Siria accanto alla Russia, e ha annunciato che per questo motivo la Francia sforerà il tetto europeo per la spesa pubblica. Se Magaldi ricorda quanto già rivelato un anno fa nel suo libro esplosivo – il ruolo della superloggia segreta “Hathor Pentalpha” dietro alla strategia della tensione (internazionale) avviata con l’11 Settembre – un ex stratega dell’intelligence come Carotenuto, ora impegnato sul fronte opposto anche attraverso il network “Coscienze in rete”, non usa giri di parole: «Per distruggere l’Isis in tre settimane non serve neppure una bomba, basta chiudere i rubinetti: bloccare via terra, cielo e mare i rifornimenti che l’Isis riceve ogni giorno, come le centinaia di Tir che varcano regolarmente il confine turco». Finora si è lasciato fare? Inutile stupirsene: «Non esiste terrorismo, e nemmeno strapotere mafioso, senza una protezione diretta da parte dei vertici. Come dimostra la storia delle Br, a lungo “imprendibili” e poi liquidate, lo Stato è infinitamente più forte di qualsiasi avversario di quel genere: se gli attentati hanno successo, è solo perché qualcuno, dall’interno, ha collaborato coi terroristi».L’ultima cosa che manca, oggi, è la manovalanza: «Non si può pensare che milioni di persone si rassegnino ad avere fame per sempre», dice ancora Carpeoro: «Questo sistema economico, radicalmente ingiusto, alla lunga non può che produrre rivoluzioni». Proprio per questo, dice ancora l’ex “sovrano gran maestro” della massoneria non-allineata di Palazzo Vitelleschi, gli elementi più lucidi della super-massoneria interazionale anglosassone hanno iniziato a opporsi all’élite oligarchica. Magaldi conferma: proprio a loro, oltre che all’opinione pubblica europea, è rivolto il terrorismo di Parigi, concepito come monito nei confronti dell’élite democratica, «in fase di riorganizzazione dopo decenni di dominio da parte dell’ala neo-aristocratica e reazionaria del massimo potere». Proprio quei poteri, chiosa Carotenuto, hanno operato ininterrottamente nella medesima direzione, la guerra, a partire dall’11 Settembre: Iraq e Afghanistan, Somalia, Yemen, poi le «finte primavere arabe» che hanno destabilizzato paesi come Egitto e Tunisia, fino alla doppia carneficina della Libia e della Siria. «Identico l’obiettivo: creare il caos, e in quel caos fra crescere la manovalanza del terrore, ieri Al-Qaeda e oggi Isis». Movente: «Solo in condizioni di evidente emergenza l’opinione pubblica occidentale più accettare la guerra e, entro i propri confini, decisive restrizioni della libertà che consegnano ancora più potere ai soggetti dominanti».Per Carpeoro, dietro a tutto questo non c’è neppure una grande visione, sia pure distorta: «C’è solo brama di potere, di dominio: se il 50% dell’energia di cui ho bisogno proviene da uno di quei paesi, non posso tollerare che vi si instauri una democrazia», in grado di insediare un governo che cambi le carte in tavola e pretenda diritti. Forse, sotto questo aspetto, la strage di Parigi – che è un’esibizione minacciosa – può essere anche un segnale di debolezza: gli egemoni ricorrono alla legge della paura perché temono di perdere terreno? Per Carotenuto, non è neppure questione di geopolitica o banche: «Al-Qaeda e l’Isis sono soltanto strumenti. Il vero obiettivo è dominare la nostra mente, condizionandola in eterno per renderci inoffensivi e rassegnati». Guai a dare la caccia ai fantasmi, insiste Carpeoro: si rischia solo di credere alla fiaba dell’Uomo Nero, proprio come vorrebbero gli egemoni. «Il potere è uno schema», non una piramide: «Puoi abbattere il vertice, e il giorno dopo i peggiori leader sono sostituiti con altri, identici. Il problema siamo noi, che accettiamo un sistema senza valori, che prevede che qualcuno stia meglio se altri stanno peggio: dobbiamo svegliarci, rifiutare questo tipo di società». E’ possibile che il “risveglio” sia già partito, ai piani alti? Lo spaventoso massacro di Parigi ne sarebbe una conferma: l’élite stragista comincia ad avere paura, al punto da scatenare l’orrore in mondovisione?«Non c’è un solo governo, al mondo, che non sia controllato da quei poteri»: per Fausto Carotenuto, già analista strategico-militare dei servizi segreti, è deprimente assistere alla farsa dei media mainstream, che si affannano a presentare “la mente”, “il basista” e “l’ottavo uomo” della strage di Parigi, come se si trattasse delle indagini per una normale rapina alle Poste. In compenso, su voci alternative come “Border Nights”, può capitare di avere – in appena un paio d’ore, grazie a semplici collegamenti Skype – informazioni e analisi di altissima qualità, capaci di superare centinaia di ore di infotainment e chilometri di carta stampata. E’ accaduto anche martedì 17 novembre, a quattro giorni dalla mattanza: ospiti della trasmissione, oltre a Carotenuto, un indagatore come Paolo Franceschetti (delitti rituali, Rosa Rossa, Mostro di Firenze), il regista Massimo Mazzucco (11 Settembre), Gioele Magaldi (“Massoni, società a responsabilità illimitata”) e un secondo massone, Gianfranco Carpeoro, esperto di codici simbolici: «Scordatevi qualsiasi altra pista, quello di Parigi è stato un attentato progettato da menti massoniche o para-massoniche e destinato innanzitutto ad altri massoni, i soli in grado di cogliere immediatamente il significato di quella data, 13 novembre».