Archivio del Tag ‘tecnologie’
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Lo shopping che co-finanzia l’occupazione della Palestina
Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.I consumatori statunitensi non lo sanno, scrive Kane in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma l’acquisto di prodotti come Sabra Hummus e Sodastream», salse tradizionali e macchine per produrre acqua gasata, «potenzia l’occupazione militare di Israele in Palestina», che dura da 46 anni. «Alcune aziende hanno stabilimenti situati in una delle 125 colonie ufficialmente note nella Palestina occupata, le quali in base al diritto internazionale sono illegali». Altre aziende «contribuiscono al mantenimento dell’occupazione attraverso la cooperazione con le Forze di Difesa Israeliane», anche se l’obiettivo principale dell’esercito di Tel Aviv «è quello di proteggere gli insediamenti illegali e di esercitare il dominio sulle vite di milioni di palestinesi». L’acquisto “innocente” di quei prodotti, di fatto, «dà profitti alle aziende che sfruttano le terre e le risorse palestinesi». Sodastream, che trasforma l’acqua del rubinetto in acqua gassata e in altre bevande aromatizzate, è un caso di successo negli Usa: secondo la Cnn, nel 2012 ha raddoppiato i profitti (quasi mezzo miliardo di dollari) dopo esser stata acquistata da una società israeliana, che l’ha poi ceduta a un fondo finanziario d’investimento.Nella pubblicità, l’azienda si dichiara “amica dell’ambiente”. «Ma il lato meno progressista di Sodastream – scrive Kane – si trova nella posizione della sua fabbrica», nell’insediamento di Mishor Adumim, alla periferia di Gerusalemme. La compagnia sostiene di non aver violato il diritto internazionale perché la fabbrica avvantaggia la popolazione palestinese, ma secondo la rivista “Who Profits?” gli operai palestinesi «soffrono condizioni di lavoro difficili». Forza lavoro a basso costo da sfruttare, e senza il diritto di protestare – pena il licenziamento. Rafforzando l’insediamento, Sodastream «contribuisce a uccidere ogni possibilità di uno Stato palestinese vitale e contiguo», dal momento che il distretto industriale «è stato strategicamente costruito per interrompere un facile accesso tra Ramallah e Betlemme, due importanti città della Cisgiordania».Discorso analogo per i produttori di “hummus”, tradizionale salsa a base di pasta di ceci e semi di sesamo, aromatizzata con essenze mediterranee. Gli americani ne vanno pazzi e, secondo l’“Huffington Post”, il produttore israeliano Sabra Hummus ha conquistato il 60% del mercato Usa. Problema: l’azienda «è in parte di proprietà di una società israeliana denominata Strauss Group, che ha “adottato” una unità di élite» dell’esercito. Si tratta della Brigata Golani, ritenuta responsabile di alcune operazioni di “macelleria” contro i civili di Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”. Oltre ad equipaggiare i soldati con kit alimentari e per la cura personale, il Gruppo Strauss – riferisce sempre Kane – ha inoltre ammesso di sostenere anche finanziariamente questa unità militare, per «attività assistenziali, culturali ed educative», ad esempio «aiuti economici per i soldati svantaggiati, attrezzature sportive e ricreative, pacchetti di assistenza, libri e giochi per il club dei soldati». L’analista statunitense accusa anche l’altro grande produttore di condimenti israeliani, Tribe Hummus: la società sarebbe, in parte, di proprietà di Osem, struttura che «collabora con il Fondo Nazionale Ebraico (Jnf)», gruppo che «ha giocato un ruolo chiave prima ancora della creazione dello Stato di Israele, partecipando a progetti con il fondatore dello Stato ebraico, David Ben Gurion». In pratica: «Operazioni di pulizia etnica», per strappare ai palestinesi le loro terre. Divenuto proprietario del 13% dei terreni in Israele, il Jnf collabora attivamente col governo per demolire villaggi palestinesi.Altro capitolo, la gamma di prodotti Ahava, che popolano le migliori vie dello shopping statunitense: «In ebraico, “Ahava” significa “amore”», ricorda Alex Kane, «ma ciò che non sarà mai scritto sui prodotti è che sono realizzati in un insediamento in Cisgiordania, di proprietà delle industrie che stanno illegalmente sfruttando le risorse naturali palestinesi», in primo luogo i rinomati fanghi del Mar Morto, che l’azienda «scava, in violazione del diritto internazionale per lo sfruttamento delle risorse di un territorio occupato». Da questa “sindrome” non è immune l’industria tecnologica: forse non tutti sanno che un colosso mondiale come Hewlett Packard (stampanti, fotocamere, computer e smartphone) possiede anche Eds Israele, la società che controlla – con la biometria – i lavoratori palestinesi. Dal 2009, Hp gestisce le informazioni per l’infrastruttura tecnologica della marina militare e dell’esercito israeliano, oltre a collaborare al progetto “Smart City” nella «colonia illegale» di Ariel in Cisgiordania. Quanto alla telefonia, tra le società “sussidiarie” della compagnia telefonica che si occupa dei militari israeliani figurerebbe anche un marchio come Motorola.Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.
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Custodi dell’Appennino: l’importanza di essere piccoli
L’importanza di essere piccoli, nelle periferie della montagna italiana: fino a trasformare gli abitanti in spettatori partecipi, e poi addirittura in “custodi” dei loro spazi ricolonizzati e della loro cultura. Territorio e comunità, ovvero: l’ultima vera frontiera civile che ci resta, nel supermarket-mondo assediato dalla crisi globale, tra le macerie di istituzioni politiche in via di smantellamento, sotto il ricatto della crisi finanziaria. Sovranità democratica dei territori: è l’obiettivo di “SassiScritti”, coraggiosa associazione culturale attiva sull’Appenino tosco-emiliano, impegnata in una missione fondata sulla devozione civica, il recupero di borghi montani da far rivivere attraverso la cultura popolare. “Custodi” è in titolo del progetto, in lizza al concorso nazionale “Che Fare”, che mette in palio centomila euro per realizzare un sogno: è una vera e propria gara basata sull’eccellenza e fondata sulla democrazia del tele-voto, via web.
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Pallante: come tagliare il debito senza far soffrire nessuno
Uscire dalla crisi? La soluzione ci sarebbe: tagliare gli sprechi, quelli veri. Non certo la spesa sociale, che i tecno-devastatori stanno minando dalle fondamenta col risultato di far crollare la sicurezza quotidiana degli italiani, impoverendo il paese. Gli sprechi da tagliare – vere fabbriche di debito – sono le grandi opere inutili, l’immensa dispersione di energia e la peste chimica dell’agricoltura industriale, quella della grande distribuzione che oggi ci alimenta. Maurizio Pallante, fondatore del Movimento per la Decrescita Felice, ha le idee chiare: si può creare nuova occupazione senza fare nuovo debito, ma addirittura tagliandolo. Lo dimostra uno studio pubblicato dal “Sole 24 Ore” il 13 febbraio: per ogni 10 miliardi di euro investiti nella riduzione degli sprechi si possono ricavare 130.000 posti di lavoro di buona qualità, mentre investendo la stessa cifra in grandi opere si darebbe lavoro al massimo a 7.300 persone.
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Bunker Roy, la salvezza è scalza: ce la insegnano i poveri
Vorrei portarvi in un altro mondo, e condividere con voi una storia d’amore lunga 45 anni: con i poveri, quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. Sono cresciuto in India, con un tipo di istruzione molto snob, elitaria, e questo mi ha quasi distrutto. Ero pronto per essere un diplomatico, un professore, un medico: era tutto predisposto. Non sembra, ma all’epoca ero stato campione indiano di Squash, per tre anni. Tutto il mondo di fronte a me era a mia disposizione, tutto era ai miei piedi: non potevo sbagliare. Poi ho pensato che, tanto per curiosità, mi sarebbe piaciuto vivere e lavorare in un villaggio, per vedere com’era. Nel 1965 ho raggiunto quella che in India è stata definita la peggior carestia del Bihar, e per la prima volta ho vissuto la fame, la morte: gente che moriva di fame. Mi ha cambiato la vita.
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Rifkin: energia da ogni casa, la rivoluzione siamo noi
La seconda rivoluzione industriale, alimentata dal petrolio e dagli altri combustibili fossili, è entrata in un finale di partita molto pericoloso; i prezzi crescono, la disoccupazione resta alta, il debito si è impennato e la ripresa sta rallentando. Peggiora ancora il cambiamento climatico provocato dai combustibili fossili, base energetica dell’attività industriale. Di fronte a un collasso dell’economia globale, l’umanità è alla disperata ricerca di una nuova visione che ci porti nel futuro. Le grandi rivoluzioni economiche della storia si verificano quando le nuove tecnologie della comunicazione convergono con i nuovi sistemi energetici. Le rivoluzioni energetiche possono rendere il commercio più ampio ed integrato. Se accompagnate da rivoluzioni nei mezzi di comunicazione, consentono la gestione di nuove e più complesse attività commerciali.
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Petrella: se la green economy diventa un alibi ipocrita
«I paesi potenti non hanno alcun interesse a modificare le cause strutturali del disastro climatico. Al contrario tutti sembrano ormai convinti, al Nord come al Sud, che la soluzione alla crisi mondiale passi per il rilancio della crescita, dell’economia di mercato, ma di colore verde (automobile verde, energia verde, abitazione verde…)». Lo afferma Riccardo Petrella su “Le Monde Diplomatique”, contestando l’abuso della “green economy”: riconvertire l’industria serve a poco, se non si ferma la crescita che produce emergenze come quella dell’acqua e quella dei rifiuti.
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Grillo: non fermerete la rivoluzione della verità
Kamikaze della perestrojka: così lo staff di Gorbaciov etichettò, all’epoca, l’oscuro e ambiguo Boris Eltsin, che strattonava l’uomo del Cremlino per affrettare le riforme e poi, una volta al potere, instaurò la “democratura” di Mosca, in seguito corretta – a modo suo – da Vladimir Putin. Non corre quei rischi il kamikaze dell’antipolitica italiana, Beppe Grillo, il pirata della Rete, principe delle incursioni mediatiche più esplosive degli ultimi anni, da quando cioè il crollo del Muro di Berlino ha trascinato con sé anche i rottami della Prima Repubblica italiana, traslocati precariamente nella Seconda, ereditati da Silvio Berlusconi e “smascherati”, prima che da chiunque altro, dal comico genovese.