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Achtung Grillo, i nemici dell’Europa e quelli dell’Italia
Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.A dare l’allarme è lo stesso Enrico Letta, uomo Bilderberg: «Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25% questo sarebbe molto preoccupante», dichiara il premier a “La Stampa”. «Il rischio che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle europee è molto forte: non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo». Timore condiviso da un euro-oligarca come il tedesco Martin Schulz, secondo cui «la possibilità che nel prossimo Europarlamento ci sia tra un quarto e un quinto di deputati euroscettici o populisti è ormai più che probabile». Mai nessuno che si pronunci sulle cause del terremoto elettorale in arrivo. Eppure, aggiunge lo stesso Messora, basta ascoltare quello che Mario Monti (Bilderberg, Trilaterale, Goldman Sachs) ha appena detto alla Cnn: «Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale. Quindi, ci deve essere una operazione di domanda attraverso l’Europa, un’espansione della domanda». Mai stato così chiaro, Monti. «Come si distrugge la domanda interna? Alzi le tasse e svaluti i salari», dice Messora, «così la gente non ha più soldi e compra di meno».Ma non basta: lo Stato potrebbe sempre alzare la spesa a deficit, cioè investire sui cittadini, mediante politiche sociali (reddito di cittadinanza) o creando lavoro. «E allora cosa facciamo? Semplice: inventiamo il pareggio di bilancio e lo mettiamo addirittura nella Costituzione, così da rendere impossibile qualunque ripensamento. Era l’equazione che ci avrebbe matematicamente reso più poveri: se costringi la somma delle entrate e delle uscite di uno Stato ad annullarsi a vicenda, allora se punti sulle esportazioni devi per forza massacrare i portafogli». E’ quello che ha fatto Monti. Più “domanda attraverso l’Europa” significa «diventare un centro di produzione a basso costo per i ricchi paesi del nord (Germania in testa), una specie di Cina europea, così da non essere costretti a comprare dai trafficanti di diritti di Pechino, per togliere il mercato all’oriente spregiudicato». A quel punto, la strada è obbligata: tagliare i costi di produzione. «E siccome le materie prime le paghiamo sempre uguale, bisogna pagare di meno gli stipendi e diminuire i diritti (vi dice niente la battaglia per la modifica dell’articolo 18?)».E come li costringi, i lavoratori, ad accettare uno standard di vita meno dignitoso? Ci si arriva per gradi: «Li getti nella crisi più nera, svendi tutto il patrimonio di economia nazionale e permetti ai nuovi padroni di delocalizzare all’estero. Gli togli le case con Equitalia. Costringi le fabbriche a chiudere: meno offerta di lavoro uguale più domanda, cioè milioni di persone senza reddito disposte a qualunque cosa pur di avere un tozzo di pane». Il paradiso dei tedeschi, affamati di aziende da comprare in saldo e di lavoro a basso costo per il loro export. «Venire a fare shopping in Italia è come andare all’outlet nel periodo dei saldi». Per Messora, non è irrilevante il risvolto geopolitico: un’Europa germanizzata può «limitare lo strapotere commerciale dei Brics, e magari togliere potere a quella Cina che detiene la maggior parte del debito americano».Funziona così: «Prendi un paese massacrato dal debito pubblico, ricattabile, ma anche industrializzato, dunque con le possibilità e le competenze produttive per soddisfare la tua domanda, e lo trasformi in una miniera a basso costo. Un piano iniziato negli anni ’80, ai tempi di Kohl e Mitterrand». Per Messora, non è altro che «un disegno criminoso, deciso sulla testa dei popoli, senza consultarli». Una strategia complessiva che fonda tutte le sue possibilità sull’onnipotenza di una élite che domina incontrastata, attraverso il controllo della meta-finanza europea la costruzione di un’unica, enorme, sovra-nazione «dove il controllo democratico è inesistente (e dove i think-tank sostituiscono i parlamenti)». A questo progetto oligarchico, «i socialismi europei hanno venduto l’anima». Certo, resta ancora «un’opinione pubblica da condizionare, da convincere che non esistono altre strade». E allora, bisogna «monitorare le comunicazioni nei paesi euroscettici, per identificare i temi più rilevanti e per assoldare una squadra di piccoli Goebbels in grado di reagire prontamente e fare una propaganda mirata», accusando di “populismo” chi contrasta l’oligarchia dominante.E’ il tema della crociata alle porte: «Bisogna combattere i “populismi”, cioè chiunque insista nel coltivare la convinzione che le élite non abbiano un mandato divino a governare sul cielo e sulla terra (né le loro soluzioni siano le migliori a prescindere), ma la sovranità appartenga al popolo». E’ quello che fa l’anziano Scalfari, tra una cena e l’altra con Napolitano e Draghi: l’importante è demonizzare Grillo, evitando accuratamente di spiegare le ragioni del suo successo, cioè il fallimento catastrofico della resa italiana agli euro-diktat. Nella sua replica, Grillo sfotte Scalfari: mi ha paragonato, dice, agli invasori marziani evocati da Orson Welles nel 1938. «Alla bufala di Welles credettero sei milioni di persone, a Scalfari non crede neppure più De Benedetti», scrive Grillo. «E’ il tempo della panchina lunga, caro Eugenio, magari al Pincio. Tu, l’Ingegnere e Napolitano a ricordare i vecchi tempi. Quando gli elettori, il cosiddetto popolo così tanto disprezzato non contava nulla. Bei tempi quelli, ma non torneranno più». Da Palazzo Chigi, Enrico Letta strepita: «Fermiamo i nemici dell’Europa». A partire dalle prossime europee, milioni di cittadini cercheranno invece di fermare, innanzitutto, i nemici dell’Italia.Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.
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Baricco, Lou Reed e Matteo Renzi, l’ambidestro farlocco
«All’Italia serve una leadership risonante», dice Andrea Guerra, ad di Luxottica. Nella domenica in cui scompare Lou Reed, uno degli ultimi artisti pop capaci di raccontare la dannazione del mondo con occhi non ancora drogati dalla televisione, sui media impazza la gloriosa epifania di Matteo Renzi nella sua Emmaus, la mitica Leopolda. Alla fine, scrive Jacopo Jaoboni sulla “Stampa”, tra le frasi evocative resta quella di una studentessa della Scuola Holden, Andrea Marcolongo: «Siamo cresciuti a pane e sciatteria». L’altra, «la migliore», è del fondatore della Holden, il romanziere Baricco: «Il futuro è un ritorno». Citazione di Friedrich Holderlin, il poeta amato da Martin Heidegger, quello della poesia come forma del pensiero: «Io non faccio che tornare a casa, tornare a casa da vent’anni». Un altro pensatore, Marcello Veneziani, definisce il sindaco fiorentino «l’ambidestro per tutte le stagioni», e sintetizza: «In una notte buia e tempestosa, Berlusconi e Veltroni s’accoppiarono nel sonno e dalla loro unione nacque Matteo Renzi».Nessun rapporto carnale fu in realtà consumato, precisa Veneziani nel suo blog sul “Giornale”: si trattò piuttosto d’impollinazione involontaria e fecondazione a distanza, col telecomando. «Infatti il piccolo Matteo ebbe per culla la tv, che è poi il punto in comune tra i suoi genitori. Dal suo papà, Matteo prese la piacioneria spiritosa, il vincismo e l’egocentrismo, il fiuto del target e l’amore per i sondaggi; prese il dire, non il fare. Dalla sua mamma, Matteo prese il guscio, cioè la casa materna, detta la Sinistra, e ne condivise i cibi, le usanze, i parenti, l’arredo, il gergo». Ma, attenzione: «Non disse mai una cosa progressista che non fosse seguita da una cosa moderata». Da ambidestro, «è contro l’amnistia ed è per il reato di clandestinità. È governativo fuori e antigovernativo dentro, graffia i poteri forti ma poi si fa lisciare, compiace la sinistra attaccando il padre putativo d’Arcore, compiace la destra perché disubbidisce al nonno putativo del Colle».Altra aria, ovviamente, dalle parti di Baricco: ridicolo, dice, accusare Renzi di essere senza cultura – come se la politica media ne avesse. Ma cosa dice lo scrittore di così sorprendente alla Leopolda? Semplice, si risponde Jacoboni: mentre in sala vedi saltare un mucchio di improbabili sul carro del vincitore («i Franceschini, i Latorre, i Passigli, i tanti bersaniani trasmigrati, le vibrazioni negative di un modo d’essere che ha distrutto la sinistra in Italia»), Baricco avverte: il carro, semplicemente, non c’è. Non perché – come pure qualcuno capisce, il vero vincitore del momento è l’asse Letta-Napolitano, non Renzi – ma semmai perché «il giocattolo per Matteo è a portata di mano, ma proprio in questo momento la gente ha le pile scariche. E non è che io incontri solo fighette intellettuali, sto sempre in mezzo ai ragazzi, li ascolto. La gente non ha energia». Ecco il problema: l’energia. Ora la strettoia in cui s’è incuneato Renzi è più larga di un anno fa, ma è l’Italia che s’è ristretta. Tutti finto-renziani: «Gli danno il partito, non l’Italia. E l’Italia sta lì, moscia o esasperata».«Le pile sono scariche», dice l’autore di “Novecento”. E spiega: «Noi volevamo ridare contenuti a questa passione, che è l’essere di sinistra, ma per far questo dicevamo di abbandonare fiabe, leggende e miti che la sinistra si è raccontata per anni». Fiabe e miti come la giustizia sociale, l’eguaglianza, il welfare e i diritti del lavoro, la difesa delle comunità dagli artigli della globalizzazione predatoria? Ma dov’è stato, Baricco, in tutto questo tempo, in cui – mentre il vecchio mondo stava crollando – la sua maggiore preoccupazione sembrava quella di metterci in guardia dalla paura superstiziosa del futuro? Sfortunatamente, il peggiore futuro si sta avverando. Meno male che ci salverà il rivoluzionario Matteo Renzi. «Il suo sogno americano è Obama Fallaci, un mix», scrive Veneziani. «È bipolare in tutti i sensi». Boy scout a doppio taglio, «versione frivola e trendy dei Dc più una zaffata grillina», Renzi è leader in pectore grazie a tre requisiti: l’anagrafe, i sondaggi e le comparsate in tv dove è un magnifico venditore di se stesso. «Un curriculum adatto per promuovere un ipermercato, non per affidargli le sorti dell’Italia. Ma, pur di fermare Berlebù la sinistra è pronta a sposarne l’imitazione farlocca».«All’Italia serve una leadership risonante», dice Andrea Guerra, ad di Luxottica. Nella domenica in cui scompare Lou Reed, uno degli ultimi artisti pop capaci di raccontare la dannazione del mondo con occhi non ancora drogati dalla televisione, sui media impazza la gloriosa epifania di Matteo Renzi nella sua Emmaus, la mitica Leopolda. Alla fine, scrive Jacopo Jaoboni sulla “Stampa”, tra le frasi evocative resta quella di una studentessa della Scuola Holden, Andrea Marcolongo: «Siamo cresciuti a pane e sciatteria». L’altra, «la migliore», è del fondatore della Holden, il romanziere Baricco: «Il futuro è un ritorno». Citazione di Friedrich Holderlin, il poeta amato da Martin Heidegger, quello della poesia come forma del pensiero: «Io non faccio che tornare a casa, tornare a casa da vent’anni». Un altro pensatore, Marcello Veneziani, definisce il sindaco fiorentino «l’ambidestro per tutte le stagioni», e sintetizza: «In una notte buia e tempestosa, Berlusconi e Veltroni s’accoppiarono nel sonno e dalla loro unione nacque Matteo Renzi».
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Verità cercasi, prima che la montagna ci frani addosso
La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.Merci letteralmente scomparse dalla tratta, dove peraltro Italia e Francia sono già perfettamente collegate dalla ferrovia Torino-Modane che attraversa la valle di Susa, appena ammodernata con 400 milioni di euro per consentire ai treni di caricare anche i Tir e i grandi container navali. La montagna è la fatica che occorre, ogni volta, per spiegare che i container navali sbarcati a Genova ormai evitano il Piemonte e la Francia e corrono verso Rotterdam attraverso i valichi del nord. Mentre per i Tir – lungi dal caricarli sui treni – si sta scavando il secondo traforo autostradale del Fréjus, sempre in valle di Susa, cioè nel territorio a cui, per buon peso, si vorrebbe infliggere anche l’Armageddon di vent’anni di cantieri Tav, coi paesi devastati e la popolazione minacciata da pericoli per la salute (cancro, causa polveri con amianto e uranio) ammessi dagli stessi tecnici della grande opera, che riconoscono che i lavori potrebbero anche aprire serie incognite idrogeologiche.Un’impresa folle, sempre più improbabile e irreale per tutti – docenti universitari compresi – tranne che per i decisori politici, i parlamentari a corto di informazioni che però vanno in televisione e scrutano i No-Tav come animali strani, un po’ naif, forse affetti dalla sindrome Nimby, evidentemente non credibili, persino quando ricordano palesi verità ormai incresciosamente ufficiali come quelle provenienti dalla Francia: al netto delle rituali cortesie diplomatiche con l’Italia, Parigi ha infatti stabilito definitivamente che il capitolo Torino-Lione verrà riaperto, eventualmente, solo a partire dal remotissimo 2030. La montagna è impervia: ci sono voluti anni prima che Santoro, paladino di tante cause civili, si decidesse a spedire il fido Ruotolo nella valle in rivolta: accadde nel 2012, quando il contadino anarchico Luca Abbà precipitò (folgorato) dal traliccio su cui si era inerpicato per protesta, tallonato da un poliziotto. Rivisto un anno dopo, sempre grazie a Ruotolo, Luca Abbà non denuncia gli oscuri attentati incendiari che hanno colpito le imprese collegate al cantiere, ne prende nota e rivendica in linea di principio il diritto di ricorrere anche al sabotaggio come strumento legittimo di lotta.E’ esattamente questo atteggiamento, diffuso in larghi settori del movimento “ribelle”, che spinge il procuratore Caselli a chiarire che – dal punto di vista della legge – non sono ammissibili infrazioni alla legalità, specie se violente come l’intimidazione o il lancio di sassi e petardi contro operai e agenti. Per contro, lo stesso Ruotolo mette a fuoco le aziende colpite dagli incendi: alcune hanno alle spalle vicissitudini giudiziarie, qualcuna è stata addirittura sfiorata da indagini dei Ros sul rapporto opaco tra politica, affari e ‘ndrangheta. Anche questo fa parte della montagna grigia, in una serata in cui Beppe Grillo tuona da Trento contro il presidente Napolitano, che il giorno dopo il blitz al Senato per disinnescare l’antifurto della Costituzione, l’articolo 138, a tarda ora ha convocato al Quirinale i partiti delle larghe intese per “invitarli” a cestinare finalmente l’impresentabile legge elettorale, tanto vituperata quanto cara ai privatizzatori della democrazia.La montagna è questa deriva infinita, nella quale gli italiani – valsusini e non – hanno ormai la certezza di non contare più niente, e di non sapere neppure più bene come arrivare alla fine del mese. La soluzione, dice Giorgia Meloni, non può essere che la partecipazione democratica: rifiutare il vittimismo passivo e scendere in campo direttamente per cambiare le cose, nonostante l’insormontabile muraglia del patriziato economico, dell’oligarchia finanziaria, della lebbra partitocratica. E anche della catastrofe nazionale dell’informazione: su questo versante, almeno, Santoro e Travaglio hanno accorciato le distanze, recuperando terreno prezioso. Certo, c’è voluta la manifestazione di Roma. Tutti i civili appelli all’ascolto, rivolti dalla valle di Susa alle maggiori istituzioni, erano sempre caduti nel vuoto – lettera morta anche per giornali e televisioni. La montagna è ancora lì. Si chiama Troika, rigore, Fiscal Compact, pareggio di bilancio, tetto del deficit al 3% del Pil. Politici sintonizzati? Zero: non pervenuti. Aspettano che la montagna ci frani addosso?La montagna è una fatica di cui non si vede mai la vetta, è Giorgia Meloni che nella trasmissione di Santoro denuncia i 90 miliardi di euro che grazie al governo Letta il gioco d’azzardo legalizzato ha sottratto al fisco, sono i No-Tav che in quello stesso studio aggiungono sul conto anche i 24 miliardi iniziali (solo previsti, mai stanziati perché inesistenti) per la grande opera più ridicola, costosa e inutile d’Europa, di cui i politici in trasmissione ammettono di sapere poco o nulla, nonostante sia diventata un caso nazionale per via delle gravi accuse di eversione piovute sulla protesta. La montagna sono le due ore di trasmissione che scorrono prima di “scoprire” che il famoso cantiere di Chiomonte, epicentro dello scontro, non è certo quello del futuro tunnel ferroviario: si sta solo scavando una mini-galleria di servizio, archiviabile alla svelta se solo si volesse farla finita, una volta per tutte, con la leggenda del treno veloce – non più per i passeggeri ma per le merci, che notoriamente viaggiano a bassa velocità.
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Lavoro per tutti, e subito. Barnard: vi spiego come
Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».L’ex inviato di “Report”, oggi attivista della Modern Money Theory sviluppata dall’economista americano Warren Mosler, protesta per l’indifferenza che accoglie lo spettacolo «pietoso e straziante» degli operai in via di licenziamento, inutilmente esibito dalla televisione. Pochi istanti di visibilità, «poi spariscono dal mondo abbandonati nella loro disperazione». Sono soli: «Nessuno gli spiega l’economia». Spesso incolpano “in politici” e “i padroni”, ma restano «incapaci di vedere quanto assurdi, falsari e ignoranti sono i loro sindacati», ormai rassegnati solo a negoziare «il grado di abolizione dei diritti» e annichiliti nell’orizzonte del pensiero unico neoliberista, quello che ha distrutto lo Stato come potente operatore anche economico, in grado di tutelare la comunità nazionale. La Mmt, fondata sull’economia democratica di Marx e Keynes, ribalta lo scenario: se il mercato è in crisi e il settore privato è in agonia, come oggi in Italia, c’è qualcuno che, se vuole, ha la forza per cancellare, in un colpo solo, la tragedia della disoccupazione, che è la prima conseguenza (ma anche la causa) della crisi. Chi può fare il “miracolo”? Un solo soggetto: lo Stato.Oggi, riassume Barnard, il settore privato di imprese e banche è impossibile che trovi le risorse per l’occupazione e gli investimenti. «Inutile sbraitare con loro: il settore privato è pro-ciclico», cioè segue l’andamento del ciclo economico. «Se questo va bene, allora i datori di lavoro assumono e non licenziano, e le banche prestano alle aziende. Ma se il ciclo economico va male, allora licenziano, cassintegrano, e le banche non prestano alle aziende, o prestano a tassi impossibili». Oggi l’economia dell’Italia «non va male, va da vomitare», e quindi non è possibile aspettarsi nulla da imprese e banche, cioè dal settore privato, che è pro-ciclico. In questa situazione, l’unico settore che può intervenire è l’altro, quello pubblico. Il governo, «essendo colui che elargisce i soldi al paese, può decidere di andare contro il ciclo economico (anti-ciclo)». Quindi, quando l’economia «va da schifo», proprio il settore governativo «può invece investire alla grande». In altre parole: «Solo il governo può spendere mentre la nave affonda, il settore privato non lo farà mai». La soluzione? Investimenti strategici, sotto forma di spesa pubblica, per assumere milioni di italiani.Gli attivisti della Mosler Economics lo chiamano Plg, programma di lavoro garantito transitorio. Un piano speciale, targato Me-Mmt, concepito appositamente per «salvare i lavoratori dalla disperazione dei licenziamenti e della cassintegrazione». Missione: assumere, subito, tutti i licenziati e i cassintegrati d’Italia, con l’obiettivo finale di rilanciare il settore oggi più in crisi, quello privato. «Il Plg – spiega Barnard – assume in lavori programmati tutti i lavoratori disoccupati, pagandogli un “reddito di dignità” che sta di un pelo al di sotto del reddito medio del settore privato per le stesse mansioni. A quel punto, milioni di disoccupati italiani immediatamente percepiscono un reddito», a spese del governo «Cosa accade? Che lo spendono. E questo cosa fa? Aumenta le vendite delle aziende». Un effetto a cascata: l’incremento del fatturato delle aziende rilancia il settore privato, fino a far ripartire le assunzioni ordinarie.Va da sé che il piano statale di piena occupazione, studiato per salvare l’economia italiana, produrrebbe milioni di salariati in più, quindi un aumento della base imponibile del prelievo fiscale, ma «senza alzare le tasse di un centesimo». Lo Stato recupererebbe soldi semplicemente consentendo a milioni di italiani (e a migliaia di aziende) di avere di nuovo un reddito. L’unica condizione perché il “miracolo” si compia è che l’Italia affronti l’Unione Europea, rifiuti la politica di rigore e annunci che ricorrerà all’aumento temporaneo del deficit per ragioni di salvezza nazionale. «Italiani che lavorate o che non lavorate più, credetemi: questa è l’unica via, l’unica speranza, cioè un programma economico figlio di un secolo di storia dell’economia», conclude Barnard. «I sindacati oggi sono incapaci di qualsiasi proposta», assistendo alla perdita graduale dei diritti del lavoro duramente conquistati nel dopoguerra. Da Barnard, un appello diretto ai lavoratori: «Dovete essere voi a capire le basi dell’economia e a organizzarvi per pretendere che quanto sopra divenga politica di governo. Ora sapete cosa fare, fatelo».Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».
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Maradona, gli evasori e i pagliacci (tra sdegno e fiction)
Maradona, il calcio e le tasse: quando il senso civico «finisce nelle mani dei pagliacci». Che sarebbero, nell’ordine: l’ex grande giocatore argentino e il tele-intrattenitore più coccolato d’Italia, Fabio Fazio. Con la “complicità” indiretta di un grande eretico della televisione italiana, Gianni Minà, “colpevole” di aver contribuito a mitizzare il Pibe de Oro, facendone una sorta di eroe da presentare in prima serata – tra la Littizzetto e l’anonimo Raffaele Fitto – nel bel mezzo del Grande Nulla italiano. E’ il grigio campo di gioco nel quale il mainstream di regime cincischia a bordo campo, proprio come il Dieguito dei bei tempi, pur di non parlare della crisi che sta scotennando il paese. Perfetto, nella grande finzione, anche il sapiente dosaggio emotivo del vicedirettore della “Stampa”, Massimo Gramellini, bravissimo nel dispensare ai telespettatori il suo Libro Cuore
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Le Pen: no-euro e sfide a viso aperto, Grillo prenda nota
Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi due. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.Il “problema”, per i tecno-gestori della cupola politico-finanziaria che ci governa con potere praticamente assoluto, sono i numeri: quelli dei sondaggi che assegnano alla Le Pen il 24% delle intenzioni di voto dei francesi. Più o meno la stessa quota riservata in Italia ai grillini, valutati sopra il 20% e già sottostimati nella precedente tornata elettorale. Milioni di elettori, tra Francia e Italia, che formano una diga potenziale contro lo strapotere della Troika: anche se molto più vago di Marine Le Pen, lo stesso Grillo non può certo essere considerato un docile esecutore della politica di rigore, quella del massacro sociale neoliberista che sta piegando l’Europa grazie alla Bce di Draghi e ai super-commissari di Bruxelles, non eletti da nessuno ma sempre agli ordini di Angela Merkel, e prima ancora delle lobby planetarie che usano la Commissione Europea per far scrivere una dopo l’altra, sotto dettatura, le leggi-capestro buone solo per le multinazionali e i grandi cannibali della finanza mondiale, i Padroni dell’Universo.Proprio grazie alla straordinaria grinta di Marine Le Pen, ora il fronte anti-austerity ha davvero cambiato marcia, rileva il blog “Cobraf” in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”: la grande stampa internazionale bolla ancora il Front National come “fascista” per la chiusura brutale sull’immigrazione, ma la Le Pen si smarca dal passato paterno, rifiuta di considerarsi “destra”. In economia si definisce addirittura “socialista”, e attacca: «L’austerità porta a più deficit e più debito, e la follia fiscale rallenta lo sviluppo. Il commercio anche in Francia è ridotto come nel Sud Europa. Austerità e follia fiscale: ma per cosa? E’ per loro bella faccia che, anche nel 2014, dovremmo continuare a remunerare profumatamente i rapaci mercati finanziari, di cui siamo stati messi alle dipendenze?».Date un’occhiata al sito di Marine Le Pen, consiglia “Cobraf”: anziché di post, è pieno di video-interviste rilasciate alle maggiori testate, dalle tv nazionali ai santuari gauchisti come “Libération”. E attenzione: la leader del Fn si muove ovunque, in tutto il paese, facendosi riprendere anche in mezzo alle porcilaie, pronta a pronunciarsi su chissà quale crisi regionale alimentare. «Una donna di 46 anni, senza trucco, vestita con solo un maglione». Poi non ci si stupisca se fa il pieno di voti tra contadini e operai. Nessuna paura delle telecamere, la leader del Front National non si nasconde mai: «Al contrario, appena la inviti a un dibattito azzanna gli interlocutori con foga su qualunque argomento. E ovviamente tutti i suoi discorsi sono improvvisati: niente teleprompter che la segue come Obama».Marine Le Pen come Beppe Grillo? Con una differenza colossale, anzi tre. Sull’euro ha una posizione che più chiara non si può: l’uscita dalla moneta unica – pena l’abbandono dell’Unione Europea da parte della Francia – è il suo maggiore cavallo di battaglia, l’ascia di guerra impugnata per imporre all’élite finanziaria una soluzione democratica in alternativa all’agonia infinita della crisi. E a differenza del Beppe nazionale, la battagliera figliola di Jean-Marie Le Pen non resta in panchina: si candida. Né si trincera dietro l’incerta esegesi oracolare del blog, sempre fatalmente “interpretabile”, ma si getta nella mischia, senza nessuna paura dell’interdizione operata dalle televisioni in mano all’establishment. Vero, intorno alla Le Pen c’è il nulla: nessun dirigente di rilievo – come del resto intorno a Grillo, che però è “vegliato” dall’ombra di Casaleggio. Identica l’intransigenza contro gli immigrati: ma per affermare la linea dura nel Front National, Marine Le Pen non ha bisogno di diktat. Per questo, a Bruxelles, fa più paura di Grillo.
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Roma: la protesta tradita dallo spettacolo della paura
Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.“Più tensione che scontri”, alla fine, riconosce il “Fatto Quotidiano”, che riassume: “Bombe carta contro i ministeri, cariche della polizia e della finanza, 8 feriti non gravi tra gli esponenti delle forze dell’ordine, 15 fermati tra i manifestanti: è un bilancio meno grave del previsto quello registrato dopo la giornata di altissima tensione vissuta a Roma per la manifestazione degli antagonisti”. Il corteo del 19 ottobre ha riunito sindacati di base, movimenti contro le grandi opere, precari e sfrattati. In altre parole: l’Italia, quella più colpita dalla crisi. O meglio: quella parte di Italia che alla crisi ha finora cercato di reagire, sui territori, contestando l’establishment in modo frontale, senza fare sconti a partiti e sindacati. «Alzare il livello dello scontro» oggi non significa scagliare sassi contro la polizia, ma «costringere la politica a dare risposte», annunciava una ragazza col megafono, ripresa da “RaiTre”.Buio totale, invece, da “RaiNews24”: i corrispondenti disseminati lungo il tragitto del corteo si sono limitati al “bollettino di guerra”, al 99% rimasto in bianco: niente scontri – come nel più banale dispaccio meteo, quello che annuncia “precipitazioni assenti”. Massima enfasi, dai media, nei soli tre brevi episodi di scontro, per fortuna incruenti: il contatto sfiorato con i “ragazzi di Casapound” tempestivamente bloccati dalla polizia prima che potessero raggiungere il corteo, l’improvviso agguato agli agenti della Guardia di Finanza schierati davanti al ministero dell’economia – sassi, petardi, sprangate, cassonetti incendiati per coprire la ritirata – e i tre rudimentali ordigni, pericolosamente armati con chiodi, scovati all’approdo finale della manifestazione, attorno a Porta Pia. E i tele-giornalisti? Sempre a distanza di sicurezza, lontanissimi dalle voci autentiche della manifestazione. Lo scoop del secolo, filmato quasi sempre da lontano: niente barbari in piazza, ma italiani normali.«Ci sono anche famiglie, anziani, bambini», diceva il reporter di guerra della rete “all news” di Stato, quella che – ai tempi di Roberto Morrione – aveva presidiato in modo esemplare il delirio del drammatico G8 di Genova, con collegamenti continui dal cuore vivo dei cortei. Era il 2001, mille anni fa, con in prima fila il movimento no-global ad avvertire che sarebbe scoppiata una crisi storica, provocata da una selvaggia globalizzazione del business a scapito dei diritti. E ora che l’inferno è arrivato, sotto forma di Eurozona – rigore cieco e tagli al welfare, recessione e disoccupazione di massa – i politici asserragliati nel palazzo, agli ordini dell’élite finanziaria privatizzatrice, sono gli stessi di dodici anni fa. E i loro media – con l’aiuto dei soliti provvidenziali imbecilli muniti di passamontagna – hanno gioco facile, ancora una volta, nell’evitare di raccontare la realtà, facendosi schermo con lo scudo più ancestrale, il più comodo: quello della paura.Ce l’hanno fatta anche stavolta: i soliti violenti – poche decine di teppisti travestiti da normali manifestanti – insieme ai loro alleati di fatto (i media) hanno trasformato la “lunga marcia” dell’Italia più sofferente in un rodeo televisivo a beneficio delle telecamere, appostate nei punti sensibili del percorso nell’attesa di veder finalmente divampare provocazioni, fiamme e scontri. Imbarazzanti i collegamenti in diretta, come per un evento sportivo: l’unica “notizia” è stata, per ore, il carattere pacifico della manifestazione, corredata con dettagli asfissianti sull’imponente dispositivo di sicurezza a protezione dei palazzi governativi. Sfilavano decine di migliaia di persone – oltre 70.000, secondo gli organizzatori – portando nelle strade la voce delle principali trincee sociali italiane – No-Tav, No-Muos, disoccupati e precari, senza-casa, orfani del welfare – ma non una frase è riuscita a permeare il vero scudo schierato nella capitale, quello delle televisioni, trincerato dietro la muraglia di agenti antisommossa come se Roma fosse invasa dagli Unni.
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Cari africani, vi ingannano: l’Europa non è il paradiso
Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.Nella maggior parte del continente nero, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani e del progresso. «E i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla». Quando diventano adulti, la simpatia si trasforma in bramosia: «L’Europa è uno spot, dove tutto brilla». La distorsione della realtà è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio Continente e, per orgoglio, mente sulle proprie condizioni: «Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio».Secondo Foa, quando gli africani decidono di emigrare, «non conoscono neppure le nostre consuetudini sociali» e sono «talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche». Ciò che manca, insiste il giornalista, è una comunicazione adeguata. «Dobbiamo essere noi occidentali a smontare il mito dell’immigrazione, non ai nostri occhi ma a quelli degli africani. Nel loro interesse prima ancora del nostro. Perché l’illusione è fonte di tragedia, fonte di crudeltà. E fino a quando non verrà smascherata, il dramma continuerà a perpetuarsi, con la morte in mare o una vita d’inferno, immorale e inaccettabile, nella “scintillante” Europa».Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.
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Tv, nebbia sulla crisi: Report oscura le verità di Iacona
«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».Dopo averci a lungo intrattenuto sui guai del fisco e sulle inefficienze pubblica amministrazione, scrive Martini su “Il Main Stream”, il programma della Gabanelli ha presentato un’inchiesta sui motivi che spingono gli imprenditori a delocalizzare all’estero le aziende. Polonia: una voce narrante cerca di indorare la pillola, che spiegando che a Varsavia «fare impresa è possibile, perché l’imposizione fiscale sulle imprese è quasi inesistente, esiste la possibilità di licenziare incondizionatamente e con breve preavviso, non esiste il Trattamento di Fine Rapporto, non esiste la tredicesima, e in generale si lavora più a lungo per meno». Poi, “Report” mostra «come in Polonia i bambini vengano addestrati sin da piccoli ad acquisire la cultura imprenditoriale». Una “coordinatrice del programma di apprendimento dell’imprenditorialità” spiega che «fin dalla tenera età i piccoli giocano al “Piccolo Bancomat”, e che alle elementari si addestrano al gioco del “Piccolo Ministro delle Finanze”, dove ai bambini è dato di decidere quali spese tagliare».Proseguendo, la Gabanelli individua nella carenza di produttività il vero guaio italiano, e addita chi parla di uscita dall’euro a «ciarlatani che cercano di distrarre dai problemi reali». L’economista Lucrezia Reichlin spiega che l’idea di far acquistare i titoli del Tesoro dalla propria banca centrale è «molto pericolosa», in quanto «toglie incentivi al risanamento dei conti». E archiviare il rigore sui bilanci è ancora più pericoloso, perché «creerebbe inflazione», cioè «una tassa occulta che distrugge i risparmi». Molto meglio, sempre per la Reichlin, che anche l’Italia accetti un piano di “aiuti” dalla Bce, con relativo commissariamento. «La voce narrante conferma», racconta Martini, e passa a intervistare un giornalista di “Repubblica”, sicuro che – con l’uscita dall’euro – i risparmi degli italiani sarebbero decurtati di un terzo. Sempre la voce narrante di “Report” paragona l’uscita dalla moneta unica a «una patrimoniale sui cittadini italiani di centinaia di miliardi: di gran lunga la soluzione più costosa».Sistemati gli “uscisti”, continua Martini, si passa alle altre possibili soluzioni per uscire dalla crisi. «La risposta non può che essere una: fare come la Germania». Così, vengono illustrati gli effetti delle riforme tedesche dei primi anni 2000: aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, perdita di redditi e diritti per i lavoratori. Scelte che però “Report” presenta sotto una luce favorevole: hanno avuto luogo in un momento di crescita dell’economia mondiale, quindi al momento giusto. «A quei tempi la Germania è dimagrita, mentre noi siamo ingrassati, e adesso ci supera», dice la solita voce narrante, evidentemente soddisfatta del “sorpasso virtuoso” dei tedeschi messi a dieta. Infine, un accenno al Fiscal Compact: «Iacona, giustamente, lo indicava come una sciagura», mentre – per gli “esperti” citati dalla Gabanelli – dire che il Fiscal Compact applicato alla lettera strangolerebbe l’economia italiana è, senza mezzi termini, «una cavolata», dal momento che «con un po’ di inflazione e crescita economica il debito si aggiusta da solo». Come a dire: manco ce ne accorgeremo. Inutile spendere altre parole per smontare queste bufale, dice Martini, o spigare che «è truffaldino chiamare “Unione” un’organizzazione che ha il solo fine di portare alle estreme conseguenze la concorrenza tra nazioni, cioè tra lavoratori». Resta l’amarezza: la Gabanelli «fa disinformazione a spese nostre», e attraverso il suo potere mediatico «inocula, ad arte, veleno nelle menti dei cittadini». E l’etica del servizio pubblico? « Gabanelli, mi si passi il francesismo, se ne fotte».«Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».
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Vauro in val Susa: proiettili, Alfano e le Brigate Rodotà
«Io credo che questa lotta si vincerà, perché saranno sempre meno gli spettatori e sempre di più i partecipanti». Vauro Senesi, il mattatore satirico accanto a Santoro negli studi televisivi di “Servizio Pubblico”, crede nel successo della battaglia civile della valle di Susa contro l’inutile ecomostro Torino-Lione. «Per me avete già vinto, sul piano morale e anche su quello politico – aggiunge Giulietto Chiesa, con Vauro in val Susa il 12 ottobre – dal momento che la Francia ha rinviato il capitolo Tav al 2030», cioè nel futuro remoto. «Fondamentale, però – dice Vauro – evitare si lasciarsi rinchiudere nel recinto militarizzato dello scontro: è esattamente quello che vogliono certi apparati dello Stato, per localizzare una protesta che invece è ormai diventata nazionale, grazie all’abilità dei valsusini». Lo diceva il generale Giap, l’eroe vietnamita che riuscì a battere sia i francesi che gli americani: «In un piccolo campo di battaglia, un piccolo esercito non ha scampo. Per vincere, deve uscire dal recinto e dare battaglia su un campo grande».Convinzioni serissime, quelle di Vauro, dispensate in mezz’ora di comicità intensa, a tratti irresistibile, giusto per scacciare il clima di cupezza che la repressione fa gravare sulla valle “ribelle”. Sulla questione No-Tav, Vauro dichiara di esser stato “illuminato” da un politico. Fassino? «Ma no, Fassino non illumina neanche se gli dai fuoco!». A “illuminare” Vauro è stato «questo astro nascente della politica italiana: Alfano. Che, dicono i tg, è andato in val di Susa a sorpresa – nella giungla, col machete? Nei telegiornali tutti decantavano il suo coraggio». Domanda al pubblico: «Ma voi mangiate i bambini come facciamo noi comunisti? Mangiate gli alfani? Sapete, noi del centro Italia abbiamo di voi del nord una visione barbarica, e quando ho sentito che Alfano era venuto qui – non senza scorta, ma coraggiosamente – mi son chiesto: ma cosa gli fanno, agli alfani lassù? C’è la Sagra degli Alfani? Se li mangiano?». Alfano in val Susa: «Il muso duro dello Stato, cazzo. E io che credevo che lo Stato non ci fosse neanche più, andato a puttane insieme all’ex presidente del Consiglio». E invece: «Alfano dice: noi la Tav la faremo, nonostante le Brigate Rodotà».Già, perché poi a Rodotà hanno dato del quasi-fiancheggiatore del terrorismo, per aver preso le difese della valle di Susa. Vauro: «Difatti son venuto qui speranzoso: ‘sta a vedere che ci sono ancora le Brigate Rosse, in val di Susa. Roba di quando avevo ancora i pantaloni a campana e c’erano i Pooh! Dico: ma io vado a fare un bel revival. E invece qui non vedo nessun brigatista, nessun passamontagna: che delusione». Tornando ad Alfano: «Vi ricordate quando la maestra vi spiegava che lo Stato siamo noi, tutti insieme? Bene, Alfano è venuto e dirvi: lo Stato sono io, tiè. Lo Stato sono io, non voi, perché – nonostante voi – noi faremo la Tav. E allora uno si chiede: chi è questo Stato? E cosa rappresenta, oltre ad Alfano?». Le risposte vanno cercate all’Ilva di Taranto, a Lampedusa, alla Fiat di Pomigliano. Luoghi dove lo Stato «sembra rappresentare un intreccio fortissimo di interessi finanziari, criminali ed economici». E’ la stessa concezione delle famigerate grandi opere, che dovrebbero modernizzare il paese e creare lavoro, in una repubblica dove l’Aquila è ancora com’era il giorno dopo il terremoto, e dove basta un giorno di pioggia per provocare alluvioni e morti. «La grande opera che serve? La manutenzione del territorio: quella sì che crea lavoro, tanto e utile, anche su scala locale».Dunque, se una popolazione come quella valsusina «si ribella a una devastazione scellerata e pericolosa», uno Stato veramente democratico «si interroga sul perché di questa ribellione». E invece: istituzioni sorde e politica «latitante e connivente con l’intreccio di interessi finanziari e mafiosi che caratterizza tutta la crisi: perché non si salvano i piccoli imprenditori e invece si salva il Monte dei Paschi di Siena?». Siamo il paese che piange perché non ha motovedette ma poi si affretta a comprare gli F-35. E’ uno Stato che non vuole ascoltare, ma la voce di chi protesta arriva lo stesso: «Colpisce vedere le bandiere No-Tav che sventolano anche a Niscemi alle manifestazioni contro il Muos, l’installazione che piloterà i droni che andranno a bombardare, massacrando donne e bambini». Le comunità parlano la stessa lingua, che non è quella dei poteri forti. E vengono boicottate: con la disinformazione, e non solo. «Non a caso, dov’è cominciato tutto lo scorreggiamento sulle nuove Brigate Rosse? Buste con proiettili: non so chi le abbia mandate, ma sono vecchio abbastanza per ricordare. Mi son chiesto: strano che non si siano firmati “falange”, data la fantasia dei servizi. C’è qualcuno che da trent’anni, quando fa queste cose, si firma “falange armata”». Quindi, attenzione: «Non fatevi rinchiudere in un ring, non accettate di dare battaglia in un “piccolo cortile”: è quello che gli avversari vogliono, per ridurre la questione al solo piano militare». Vale anche per molti giornali, sempre a caccia di mostri: «Peccato che è morto Bin Laden, sennò era qui: un perfetto No-Tav».«Io credo che questa lotta si vincerà, perché saranno sempre meno gli spettatori e sempre di più i partecipanti». Vauro Senesi, il mattatore satirico accanto a Santoro negli studi televisivi di “Servizio Pubblico”, crede nel successo della battaglia civile della valle di Susa contro l’inutile ecomostro Torino-Lione. «Per me avete già vinto, sul piano morale e anche su quello politico – aggiunge Giulietto Chiesa, con Vauro in val Susa il 12 ottobre – dal momento che la Francia ha rinviato il capitolo Tav al 2030», cioè in un futuro remotissimo e improbabile. «Fondamentale, però – dice Vauro – evitare si lasciarsi rinchiudere nel recinto militarizzato dello scontro: è esattamente quello che vogliono certi apparati dello Stato, per localizzare una protesta che invece è ormai diventata nazionale, grazie all’abilità dei valsusini». Lo diceva il generale Giap, l’eroe vietnamita che riuscì a battere sia i francesi che gli americani: «In un piccolo campo di battaglia, un piccolo esercito non ha scampo. Per vincere, deve uscire dal recinto e dare battaglia su un campo grande».
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Grillo: stanno spolpando l’Italia, non lo dimenticheremo
Questo governo ha fatto solo annunci e ha aumentato le tasse dirette e indirette. Qualcuno ha detto che qualunque imbecille è capace di aumentare le tasse. Non ha tagliato nulla, auto blu, F-35, finanziamenti pubblici, pensioni d’oro, Province e mille altri sperperi non sono stati neppure sfiorati. Questo governo ha come obiettivo di resistere, resistere, resistere al cambiamento e vendere il patrimonio nazionale, quello che ne è rimasto, per guadagnare tempo. Neppure un pazzo affiderebbe alla coppietta del crack, Capitan Findus Letta e Pesce Palla Alfano, i destini di una nazione. Napolitano lo ha fatto, lo fa, si crede invulnerabile come chi è sopravvissuto a tutto e a tutti. Questo governo si è auto-eletto a norma di legge, ma gli italiani, il voto, la democrazia non c’entrano nulla. Elezioni, referendum, leggi popolari sono diventate un rito. A loro della volontà popolare non gliene frega un beneamato cazzo. Occupano Palazzo e istituzioni da decenni e non se ne vogliono andare.Questo governo ha al suo fianco l’informazione più vergognosa dell’intero Occidente. Ogni anno scende di qualche posizione, superata nel mondo, in modo surreale, da molti paesi africani. La stampa di Dada Amin e di Bokassa non è mai arrivata ai livelli sublimi di menzogna, diffamazione, leccaculismo dei giornali e telegiornali italiani. Di uno Scalfari domenicale al quale va ricordato che chi ha fottuto Prodi nell’urna sono stati Renzi e D’Alema, i suoi amici del cuore, e che il M5S voterà compatto per la decadenza di Berlusconi. Non siamo suoi pari, freni la lingua. Siamo in guerra e ormai non è più un modo di dire. E’ necessario schierarsi. Riconoscere gli amici dai nemici e prepararsi ai materassi. E’ una lunga marcia quella che ci aspetta. Hanno troppi interessi, troppi scheletri, troppi collegamenti con la criminalità organizzata, con le lobby più o meno occulte per uscire di scena. Questi sono gli eredi della P2, dei servizi deviati, della trattativa Stato-mafia. Troppi processi li attenderebbero. Molti finirebbero in galera o ai servizi sociali come Berlusconi, che è solo uno dei tanti predatori dell’Italia, forse neppure il peggiore.L’Italia viene spogliata come un carciofo, foglia dopo foglia, lasciando le famiglie nell’indigenza. In una settimana hanno licenziato due amministratori delegati, Cucchiani di Intesa San Paolo, che si opponeva all’acquisizione di Mps, che dovrebbe essere nazionalizzata con l’avvio di una commissione di inchiesta, e Bernabè di Telecom Italia, regalata a Telefonica da un governo imbelle. Tra poco sarà il turno delle cessioni di quote di Eni, Enel e Finmeccanica. Un italiano su otto non mangia perché il loro appetito è insaziabile. Per poter cambiare devono andarsene. Nessun compromesso con questa gentaglia. John Kennedy disse: «Perdona i tuoi nemici, ma non scordare mai i loro nomi». Faremo dei nodi ai fazzoletti. Noi non dimenticheremo.(Beppe Grillo, “I nodi al fazzoletto, non dimenticheremo”, dal blog di Grillo del 6 ottobre 2013).Questo governo ha fatto solo annunci e ha aumentato le tasse dirette e indirette. Qualcuno ha detto che qualunque imbecille è capace di aumentare le tasse. Non ha tagliato nulla, auto blu, F-35, finanziamenti pubblici, pensioni d’oro, Province e mille altri sperperi non sono stati neppure sfiorati. Questo governo ha come obiettivo di resistere, resistere, resistere al cambiamento e vendere il patrimonio nazionale, quello che ne è rimasto, per guadagnare tempo. Neppure un pazzo affiderebbe alla coppietta del crack, Capitan Findus Letta e Pesce Palla Alfano, i destini di una nazione. Napolitano lo ha fatto, lo fa, si crede invulnerabile come chi è sopravvissuto a tutto e a tutti. Questo governo si è auto-eletto a norma di legge, ma gli italiani, il voto, la democrazia non c’entrano nulla. Elezioni, referendum, leggi popolari sono diventate un rito. A loro della volontà popolare non gliene frega un beneamato cazzo. Occupano Palazzo e istituzioni da decenni e non se ne vogliono andare.
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I morti di Lampedusa e la festa dei politici mascalzoni
Nel Canale di Sicilia centinaia di migranti «sono morti affogati dalla legge Bossi-Fini e da una classe politica di mascalzoni», accusa Franco “Bifo” Berardi. Coincidenze: Lampedusa precipita l’Italia nel lutto proprio mentre «Letta, Alfano e Napolitano festeggiano la sconfitta di Berlusconi». Ma quei politici dimenticando un particolare: «Il programma con cui Berlusconi venne sulla scena politica nel 1993 si è integralmente realizzato». Il Cavaliere «voleva che dopo Tangentopoli i democristiani continuassero a governare» e, non trovando un “moderato” capace di realizzare il suo progetto, se ne dovette occupare personalmente. Missione compiuta: vent’anni dopo, sulla scena politica sono rimasti solo democristiani. «Ma soprattutto l’uomo di Mediaset e della P2 voleva distruggere la forza dei lavoratori, ridurre i salari alla metà e costringere i lavoratori a sottomettersi al ricatto infinito della precarietà».Obiettivo pienamente raggiunto, sostiene Berardi su “Micromega”, «grazie ai governi di centrosinistra e a quelli di centrodestra che si sono succeduti in perfetta coerenza e continuità». L’analista traccia un drammatrico parallelo tra Lampedusa e il resto d’Italia: «Nel Canale di Sicilia c’è una fossa comune nella quale per sempre giacciono migliaia di uomini, donne e bambini che le guerre armate dalla follia economica e religiosa cacciano dalle loro case a cercare lavoro e a trovare morte», mentre nelle varie regioni della penisola «decine di migliaia di migranti soffrono in campi di concentramento nazisti inventati dai democratici Turco e Napolitano e rinforzati dai non meno democratici Bossi e Fini con l’istigazione all’omicidio che si chiama “respingimento”». La caduta del Cavaliere sfidato da Alfano? «Un giorno di festa per una classe politica di mascalzoni e di servi».Per Berardi, gli inaffondabili esponenti del Palazzo «festeggiano la ritrovata forza di governo che permetterà loro di distruggere definitivamente la società italiana e di generalizzare a tutta la forza lavoro il decreto schiavista firmato per i lavoratori dell’Expo, che prevede l’imposizione di lavoro gratuito. Festeggiano l’unità che permetterà loro di eseguire i dettati degli speculatori che hanno sottomesso il progetto europeo agli interessi delle grandi banche, e passo passo stanno conducendo l’Europa verso la guerra civile». Intanto, dalle acque di Lampedusa si ripescano cadaveri, che finiscono dentro buste di plastica azzurra. «Quanti altri migranti devono uccidere ancora gli assassini in festa – conclude Berardi – prima che qualcuno cancelli l’infamia della loro legge?Nel Canale di Sicilia centinaia di migranti «sono morti affogati dalla legge Bossi-Fini e da una classe politica di mascalzoni», accusa Franco “Bifo” Berardi. Coincidenze: Lampedusa precipita l’Italia nel lutto proprio mentre «Letta, Alfano e Napolitano festeggiano la sconfitta di Berlusconi». Ma quei politici dimenticando un particolare: «Il programma con cui Berlusconi venne sulla scena politica nel 1993 si è integralmente realizzato». Il Cavaliere «voleva che dopo Tangentopoli i democristiani continuassero a governare» e, non trovando un “moderato” capace di realizzare il suo progetto, se ne dovette occupare personalmente. Missione compiuta: vent’anni dopo, sulla scena politica sono rimasti solo democristiani. «Ma soprattutto l’uomo di Mediaset e della P2 voleva distruggere la forza dei lavoratori, ridurre i salari alla metà e costringere i lavoratori a sottomettersi al ricatto infinito della precarietà».