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Fa crollare l’Italia, poi se la compra. Ma chi è BlackRock?
Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.Con la globalizzazione dell’economia, il valore complessivo delle attività finanziarie internazionali primarie è passato dal 50% al 350% del Pil mondiale, raggiungendo i 280.000 miliardi di dollari, di cui solo il 25% legato agli scambi di merci. E il valore dei derivati negoziati fuori dalle Borse (“over the counter”) a fine giugno 2013 aveva toccato i 693.000 miliardi di dollari, in gran parte legati al mercato delle valute: al Forex si scambiano in media 1.900 miliardi di dollari al giorno. Tutto ha avuto inizio col neoliberismo promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan: deregulation e meno vincoli per le megabanche, autorizzate a “giocare” con sempre nuovi prodotti finanziari come gli “hedge fund”, i fondi a rischio speculativi e le società di investimento spesso collegate alle banche, innanzitutto anglosassoni. Il colpo di grazia porta la firma di Bill Clinton, che negli anni ‘90 rende assoluta la deregolamentazione della finanza, abolendo il Glass-Steagal Act creato da Roosevelt negli anni ‘30 per limitare la speculazione alle sole banche d’affari e tenere il credito commerciale al riparo dalla “ruolette” finanziaria di Wall Street che aveva causato la Grande Crisi del 1929.A estendere al resto del mondo l’immediata cancellazione dei vincoli di sicurezza provvide il Wto, egemonizzato dagli Usa, su impulso delle megabanche, dell’allora segretario al Tesoro Larry Summers e del suo vice Tim Geithner, futuro ministro di Obama. Questo il clima in cui cominciò l’ascesa di BlackRock, autonoma dal 1992 e basata a New York, pronta a inserirsi in banche e aziende acquistando azioni, obbligazioni, titoli pubblici e proprietà, per un totale di oltre 4.500 miliardi, cioè pari al Pil della Francia sommato a quello della Spagna. BlackRock comincia anche a far politica: entra nel capitale delle due maggiori agenzie di rating, “Standard & Poor’s” (5,44%) e “Moody’s” (6,6%), ottenendo la possibilità di influire sulla determinazione di titoli sovrani, azioni e obbligazioni private, incidendo così su prezzo e valore delle attività acquistate o vendute. Quindi opera anche nell’analisi del rischio, vendendo “soluzioni informatiche” per la gestione di dati economici e finanziari, ed elabora dati che «incorporano anche pesanti elementi politici».Naturalmente sfrutta appieno la crisi del 2007: due anni dopo, lo stesso Geithner consulta proprio BlackWater per valutare gli asset tossici di Bear Stearns, Aig e Morgan Stanley. Compiti che BlackRock esegue, «agendo alla stregua di una sorta di Iri privato». Nel 2009 fa anche un colpo grosso, acquistando Barclays Investment Group, col suo carico immenso di partecipazioni azionarie nelle principali multinazionali. Il colosso finanziario americano informa e «manipola i propri clienti, utilizzando tecniche e software non diversi da quelli impiegati da Google (di cui ha il 5,8%) o dalla Nsa per sondare gli umori della gente», scrive “Limes”. Si serve della piattaforma Aladdin, «con almeno 6.000 computer in 12 siti più o meno segreti, 4 dei quali di nuova concezione, ai quali si rapportano 20.000 investitori sparsi per il mondo». Il suo centro studi d’eccellenza, il “BlackRock Investment Institute”, esamina le variabili politico-strategiche: il maxi-fondo è interessato al profitto «ma anche alla stabilità, sicurezza e prosperità degli Stati Uniti». Il fondatore e leader, Larry Fink, è considerato «il più importante personaggio della finanza mondiale», eppure resta «virtualmente uno sconosciuto» a Manhattan, secondo “Vanity Fair”.Proprio BlackRock, aggiunge “Limes” è probabilmente il vero regista della crisi italiana del 2011, o meglio della capitolazione dell’Italia di fronte agli appetiti della grande finanza. Lo spread fra i Bund tedeschi e i nostri Btp iniziò a dilatarsi non appena il “Financial Times” rese noto che nei primi sei mesi di quell’anno Deutsche Bank aveva venduto l’88% dei titoli che possedeva, per 7 miliardi di euro. «Molti videro un attacco al nostro paese ispirato da Berlino e dai poteri forti di Francoforte», ma forse – secondo “Limes” – non era così. La rivista di Caracciolo rivela che il potente istituto di credito tedesco aveva allora un azionariato diffuso, il 48% del capitale sociale era detenuto fuori dalla Repubblica Federale, e il suo azionista più importante era proprio BlackRock con il 5,1%. Peraltro, aggiunge la Bruzzone sulla “Stampa”, oggi la “Roccia Nera” detiene in Deutsche Bank una quota ancor maggiore (il 6,62%) e ne è il maggior azionista, seguito da Paramount Service Holdings, basato alle Isole Vergini Britanniche. «Si può escludere che il fondo non abbia avuto alcuna parte in una decisione tanto strategica come quella di dismettere in pochi mesi quasi tutti i titoli del debito sovrano di un paese dell’Ue?».«Se attacco c’è stato non è detto che sia stato perpetrato dalle autorità politiche ed economiche della Germania: è un fatto che a picchiare più duramente contro i nostri titoli a partire dall’autunno 2011 siano proprio “Standard & Poor’s” e “Moody’s”». Un’ipotesi, quella di Limes, che getta nuova luce su tanta parte della narrazione di questi anni sulla Germania, l’Europa e i Piigs, a partire dalle polemiche di quell’agosto bollente, «con Merkel e Sarkozy fustigati da Giuliano Amato sul “Sole 24 Ore”», anche se Amato – ricorda la Bruzzone – in quel 2011 era fra l’altro “senior advisor” proprio di Deutsche Bank. «E chissà che senza la decisione di Deutsche Bank di vendere i titoli di Stato di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna, la tempesta finanziaria non sarebbe iniziata». Un’ipotesi realistica, secondo la Bruzzone, che apre altri interrogativi: sugli intrecci fra potere finanziario e politico, sul “potere sovrano” degli Stati (anche della potente Germania) e sulla composizione azionaria di questi onnipotenti istituti. Banche, fondi, superfondi: di chi sono? Chi decide che cosa, al di là dei luoghi comuni ripetuti delle narrative ufficiali?La fine della Deutsche Bank come motore sano dell’economia industriale tedesca risale all’epoca del crollo dell’Urss, quando l’attenzione della finanza angloamericana si concentra sull’Europa. E avviene a seguito di misteriosi omicidi, scrive la giornalista della “Stampa”, ricordando che Alfred Herrhausen, presidente della banca e consigliere fidato del cancelliere Kohl – un uomo che aveva in mente uno sviluppo della mission tradizionale e stilò addirittura un progetto di rinascita delle industrie ex comuniste, in Germania, Polonia e Russia, andandone persino parlarne a Wall Street – venne «improvvisamente freddato fuori dalla sua villa», a fine 1989. Si disse dalla Raf, o dalla Stasi, o da altri ancora. Stessa sorte toccò al suo successore, altro economista che si era opposto alla svendita delle imprese ex comuniste elaborando piani industriali alternativi alla privatizzazione. Fu ucciso nel 1991 da un tiratore scelto.Dopo di lui, alla sede londinese di Deutsche Bank arriva uno squadrone di ex banchieri della Merrill Lynch, compreso il capo, che diventa presidente, riorganizzando tutto in senso “moderno”. Anche lui però muore, a soli 47 anni, «in uno strano incidente del suo aereo privato». Va meglio al suo giovane braccio destro, Anshu Jain, un indiano con passaporto britannico, cresciuto professionalmente a New York, tutt’oggi presidente della banca diventata prima al mondo per quantità di derivati, spodestando Jp Morgan: la Deutsche Bank infatti è considerata fuori dalle righe “la banca più fallita del mondo”, «esposta per 55.000 miliardi, cioè 20 volte il Pil tedesco», a fronte di depositi per appena 522 miliardi. «Quanto è pericoloso il potere di mercato delle maggiori banche di investimento?». Se lo chiedeva due anni fa lo “Spiegel”, riportando un durissimo scontro fra Deutsche Bank e il ministro tedesco dell’economia, il super-massone Wolfgang Schaeuble.Scriveva il settimanale: «Un pugno di società finanziarie domina il trading di valute, risorse naturali, prodotti a interesse. Migliaiaia di investitori comprano, vendono, scommettono. Ma le transazioni sono in mano a un club di istituti globali come Deutsche Bank, Jp Morgan, Goldman Sachs. Quattro banche maneggiano la metà delle transazioni di valuta: Deutsche Bank, Citigroup, Barclays e Ubs». Un’altra ragione che dovrebbe farci prestare attenzione alla “Roccia Nera”, aggiunge “Limes”, è che ha messo radici in molte realtà imprenditoriali nel nostro paese. Per “L’Espresso”, addirittura, «si sta comprando l’Italia». Se un altro colosso americano, State Street Corporations, ha acquistato la divisione “securities” di Deutsche Bank e nel 2010 ha comprato l’attività di “banca depositaria” di Intesa SanPaolo (custodia globale, controllo di regolarità delle operazioni, calcoli, amministrazione delle quote, servizi ausiliari, gestione dei cambi e prestito di titoli), è proprio BlackRock a far la parte del leone.A fine 2011, il super-fondo americano aveva il 5,7% di Mediaset, il 3,9% di Unicredit, il 3,5% di Enel e del Banco Popolare, il 2,7% di Fiat e Telecom Italia, il 2,5% di Eni e Generali, il 2,2% di Finmeccanica, il 2,1% di Atlantia (che controlla Autostrade) e Terna, il 2% della Banca Popolare di Milano, Fonsai, Intesa San Paolo, Mediobanca e Ubi. E oggi Molte di queste quote sono cresciute e BlackRock è ormai il primo azionista di Unicredit (col 5,2%) e il secondo azionista di Intesa SanPaolo (5%). Stessa quota in Atlantia, mentre avrebbe ill 9,4% di Telecom. «Presidi strategici, che permetteranno a BlackRock di posizionarsi al meglio in vista delle privatizzazioni prossime venture invocate da molti “per far scendere il debito”», scrive “Limes”. E’ la nuova ondata in arrivo, dopo quella del 1992-93 a prezzi di saldo. «La crisi dei Piigs a che altro serve, se no?».Chi è BlackRock? Il web rivela, più che altro, un labirinto. Secondo “Yahoo Finanza”, il maggiore azionista (21,7%) sarebbe Pnc, antica banca di Pittsburgh, quinta per dimensioni negli Usa ma poco nota. Azionisti numero uno e due sarebbero Norges Bank, cioè la banca centrale di Norvegia, e Wellington Management Co., altro fondo di investimenti, di Boston, con 2.100 investitori istituzionali in 50 paesi e asset per 869 miliardi di dollari. Poi ci sono State Street Corporation, Fmr-Fidelity e Vanguard Group, che a loro volta sono gli unici investitori istituzionali di Pnc. Sempre loro, i “magnifici quattro”, si ritrovano con varie quote fra gli azionisti delle principali megabanche: non solo Jp Morgan, Bank of America, Citigroup e Wells Fargo, ma anche le banche d’affari come Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of Ny Mellon. A ricorrere nell’azionariato di questi istituti ci sono anche altre società e banche, ma i “magnifici quattro” non mancano mai.Oltre ai soliti BlackRock, Vanguard, in Barclays – megabanca britannica che risale al 1690 – è presente anche Qatar Holding, sussidiaria del fondo sovrano del Golfo, specializzata in investimenti strategici. La stessa holding qatariota è anche maggior azionista di Credit Suisse, seguita dall’Olayan Group dell’Arabia Saudita, che ha partecipazioni in svariate società di ogni genere, mentre nell’altra megabanca elvetica, Ubs, si ritrovano BlackRock, una sussidiaria di Jp Morgan, una banca di Singapore e la solita Banca di Norvegia. Barclays Investment Group compariva tra i grandi azionisti di BlackRock, e viceversa, ma prima della crisi del 2008: dopo, non più – almeno in apparenza. Su “Global Research”, Matthias Chang mostra come nel 2006 “octopus” Barclays fosse davvero una piovra con tentacoli ovunque: Bank of America, Wells Fargo, Wachovia, Jp Morgan, Bank of New York Mellon, Goldman Sachs, Merrill Lynch, Morgan Stanley, Lehman Brothers e Bear Sterns, senza contare un lungo elenco di multinazionali di ogni genere, americane ed europee, comprese le miniere, senza dimenticare i grandi contractor della difesa.Dopo la crisi, che ha rimescolato le carte dell’élite finanziaria, il paesaggio cambia: Barclays Global Investors viene comprata nel 2009 da BlackRock. Il maxi-fondo, che nel 2006 aveva raggiunto il trilione di dollari in asset, dal 2010 al 2014 cresce ancora (fino ai 4.600 miliardi di dollari) insieme a Vanguard, presente in Deutsche Bank. Seguite i soldi, raccomanda il detective. Chi c’è dietro? «Attraverso il crescente indebitamento degli Stati – scrive la Bruzzone – megabanche e superfondi collegati, già azionisti di multinazionali, stanno entrando nel capitale di controllo di un numero crescente di banche, imprese strategiche, porti, aeroporti, centrali e reti energetiche. Solo per bilanciare l’espansione dei cinesi?». E’ un processo che va avanti da anni, «accelerato molto dalla “crisi” del 2007-8 e dalle politiche controproducenti come l’austerità, che sempre più si rivela una scelta politica». Tutto ciò è «evidentissimo nei paesi del Sud Europa, Grecia in testa, ma presente anche altrove e negli stessi Stati Uniti». Lo dicono blogger come Matt Taibbi ed economisti come Michael Hudson. Titolo del film: più che Germania contro Grecia, è la guerra delle banche verso il lavoro. Guerra che continua, dopo Thatcher e Reagan, nel mondo definitivamente globalizzato dai signori della finanza.Faccio scoppiare l’Italia con la crisi dello spread, la costringo a svendere i gioielli di famiglia e quindi arrivo io, col portafogli in mano, pronto a rilevare a prezzi stracciati interi settori vitali dell’economia italiana, messa in ginocchio dalla manovra finanziaria. Secondo “Limes”, l’architetto supremo del complotto non è la Germania, ma il colossale fondo d’investimenti statunitense BlackRock, azionista rilevante della Deutsche Bank che nel 2011, annunciando la vendita dei titoli di Stato italiani, fece esplodere il divario tra Btp e Bund causando la “resa” di Berlusconi e l’avvento di Monti, l’emissario del grande business straniero. La rivista di Lucio Caracciolo, riassume Maria Grazia Bruzzone su “La Stampa”, ha messo a fuoco un po’ meglio le dimensioni, gli interessi e il vero potere del primo fondo d’investimenti mondiale, fattosi sotto con l’ascesa di Renzi a Palazzo Chigi, dopo che ormai il Pil italiano era stato letteralmente raso al suolo dai tecnocrati nostrani, in accordo con quelli di Bruxelles. Il “Moloch della finanza globale” vanta la gestione di 30.000 portafogli, per un totale di 4.650 miliardi di dollari: non ha rivali al mondo ed è una delle 4-5 “istituzioni” che ricorrono tra i maggiori azionisti delle banche americane.
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Germania e Olanda fuori dall’euro, piani pronti dal 2011
Nel 2011, in piena tempesta-Eurozona, l’Olanda aveva pronto un piano per uscire dalla moneta unica e tornare alla valuta sovrana nazionale, il guilder, già all’inizio del 2012. Analogo piano-B era stato preparato anche dalla Germania, nel caso in cui la crisi mortale imposta alla Grecia avesse travolto anche Spagna e Italia. Georgios Papandreou e Silvio Berlusconi si erano appena dimessi. Chiari sintomi del pericolo, scrive “Goldcore”: la situazione poteva finire fuori controllo, con possibile effetto-domino sull’intero sistema. Lo rivela un recente reportage televisivo e lo conferma l’attuale ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, oggi presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista per “Eu Observer” e “Bloomberg”. «E’ vero che il ministro delle finanze e che il governo si prepararono per il peggiore degli scenari», afferma Dijsselbloem. «I capi di governo, incluso quello olandese, lo hanno sempre detto: vogliamo che i paesi dell’Eurozona restino uniti. Ma il governo olandese si è anche domandato: cosa succederebbe se non ce la facessero? E si è preparato a questa evenienza».Mentre Dijsselbloem ha detto che ora non c’è più nessun bisogno di mantenere il “segreto” su questi piani, scrive “Goldcore” in un post su “Zero Hedge” tradotto da “Come Don Chisciotte”, all’epoca queste ipotesi furono tenute in segreto per evitare di spargere panico sui mercati finanziari. Racconto confermato anche da Jan Kees de Jager, ministro delle finanze tra il 2010 e il 2012. Non tutti i partner dell’Eurozona, però, si prepararono all’uscita dall’euro: «Siamo stati uno dei pochi paesi, insieme alla Germania», ha detto de Jager nel reportage, «e avevamo anche una squadra congiunta, Germania-Olanda, per parlare di questi scenari». Il governo tedesco non smentisce: «Noi e i nostri partner della zona euro, tra cui i Paesi Bassi, eravamo e siamo determinati a fare tutto il possibile per prevenire qualsiasi rottura della zona euro», si limita a dichiarare il ministero delle finanze di Berlino. «Questa è una vera rivelazione», sostiene “Goldcore”, perché nel 2011 il super-ministro Wolfgang Schauble aveva detto che l’euro avrebbe potuto sopravvivere anche senza la Grecia. «Ma che avrebbe potuto sopravvivere senza l’Olanda è tutta un’altra cosa».Un euro senza l’Olanda – e soprattutto senza la Germania – è attualmente inconcepibile, continua “Zero Hedge”. «De Jager afferma anche che altri paesi trovarono che la prospettiva di una disgregazione dell’euro fosse una cosa spaventosa, tanto che misero la testa sotto la sabbia piuttosto che affrontare la situazione di petto». Sembra che non siano stati preparati analoghi piani di emergenza nei paesi “Piigs”, cioè Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. «Bisogna chiedersi se questi piani sarebbero stati resi pubblici, se questo documentario televisivo non avesse costretto il governo olandese a dare una conferma alle sue affermazioni». Da notare che in Germania e Olanda «la cittadinanza è stata in prima linea nella richiesta del movimento di rimpatrio dell’oro, che attualmente percorrere tutta Europa», Francia compresa. «In un clima in cui si è persa fiducia nelle valute “fiat”, qualsiasi ritorno ad un “fiat-fiorino” o ad un “fiat-marco” sarebbe rischioso, in mancanza della fiducia che può dare invece il supporto delle riserve auree».La prospettiva di un dissolvimento dell’euro sarebbe «spaventosa», secondo “Zero Hedge”, ma sembra che la maggior parte delle nazioni dell’Eurozona si siano preparate malamente a questo evento e anzi siano del tutto impreparate. «Per tutti gli investitori e i risparmiatori che utilizzano altre valute “fiat” di qualsiasi nazione, si pone una importante domanda: avete un piano di emergenza in caso di fallimento della valuta in cui avete investito?». Il disfacimento dell’euro, continua il blog, potrebbe anche avvenire qualora il popolo tedesco o i suoi politici decissero che non vale più la pena salvare il progetto monetario europeo. «In questo caso, tutte le nazioni indebitate in modo più significativo, i cosiddetti Piigs ma anche Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, sarebbero a rischio di svalutazioni monetarie». Secondo “Zero Hedge”, ci sarebbero «svalutazioni monetarie competitive e l’abbattimento del valore di alcune valute per ottenere dei vantaggi competitivi», al punto che «comincerebbe una guerra delle monete che produrrebbe seri rischi per la stabilità a lungo termine e per la prosperità di tutte le democrazie del mondo, nonché delle finanze e dei risparmi della gente comune». Ben noti, invece, i rischi (in realtà certezze) del perdurare dell’Eurozona: per i paesi come l’Italia, il declino è segnato e senza speranze.Nel 2011, in piena tempesta-Eurozona, l’Olanda aveva pronto un piano per uscire dalla moneta unica e tornare alla valuta sovrana nazionale, il guilder, già all’inizio del 2012. Analogo piano-B era stato preparato anche dalla Germania, nel caso in cui la crisi mortale imposta alla Grecia avesse travolto anche Spagna e Italia. Georgios Papandreou e Silvio Berlusconi si erano appena dimessi. Chiari sintomi del pericolo, scrive “Goldcore”: la situazione poteva finire fuori controllo, con possibile effetto-domino sull’intero sistema. Lo rivela un recente reportage televisivo e lo conferma l’attuale ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, oggi presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista per “Eu Observer” e “Bloomberg”. «E’ vero che il ministro delle finanze e che il governo si prepararono per il peggiore degli scenari», afferma Dijsselbloem. «I capi di governo, incluso quello olandese, lo hanno sempre detto: vogliamo che i paesi dell’Eurozona restino uniti. Ma il governo olandese si è anche domandato: cosa succederebbe se non ce la facessero? E si è preparato a questa evenienza».
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L’agenda del governo? Scritta dall’ambasciata Usa
Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».Col “rottamatore”, scrive Ali in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, gli Usa «hanno costruito lo strumento finale: il rottamatore ha definitivamente rottamato la sinistra italiana, oltre che impegnarsi strenuamente nel rottamare la democrazia». E’ una vicenda che parte da lontano. Per la precisione dal 2008, quando si arena il secondo governo Prodi e Veltroni fonda il Pd. A parlare sono due cablo di “Wikileaks”, che si riferiscono alle imminenti elezioni italiane. L’8 aprile, l’ambasciatore Ronald Spogli riferisce a Washington che «Berlusconi e Veltroni hanno fatto una campagna elettorale noiosa», dominata «dalle loro personalità» ma «non dalle proposte politiche». I programmi? Identici: «Entrambi promettendo tagli alle spese governative, aumento delle pensioni, abbassamento delle tasse e taglio alla burocrazia per le imprese». La stampa italiana? Nebbia: «Si è focalizzata sulle discussioni circa l’organizzazione elettorale e i commenti volgari del frequentemente volgare alleato di Berlusconi, Umberto Bossi». Il peggio, però, arriva col secondo “cablo”, l’11 aprile: dovendo proprio scegliere, gli Usa preferirebbero Vetroni, più pronto a eseguire gli ordini di Washington.«E’ un vero e proprio programma di governo», annota Ali, «con tanto di indicazione sui ministri». Le elezioni, scrive Spogli, «ci daranno l’opportunità di spingere il nostro programma con rinnovato vigore», dopo mesi di crisi e il fastidio rappresentato da Rifondazione Comunista, spina nel fianco dell’esecutivo Prodi. «Se le nostre relazioni con il governo Prodi erano buone, le nostre relazioni con il prossimo governo promettono ancora meglio. Forse molto meglio», scrive Ronald Spogli. «Si può anticipare che faremo progressi sul programma, se dovesse vincere a sorpresa Veltroni, ed eccellenti progressi se Berlusconi tornasse al potere». Molto esplicito, l’ambasciatore: «A prescindere da chi vince, ci incontreremo con i probabili membri del nuovo governo appena possibile dopo le elezioni, durante il periodo di formazione del governo in aprile e nei primi giorni di maggio per marcare le nostre priorità politiche chiave e la direzione che ci piacerebbe prendesse la politica italiana. Ci piacerebbe che esponenti del governo Usa venissero per far pressioni sul programma, incluso il periodo tra le elezioni e l’insediamento del nuovo governo».In particolare, Spogli vorrebbe «sollevare le questioni» relative al “tono delle relazioni”, all’Iran, all’Afganistan, alla sicurezza energetica e quindi la Russia, e poi l’Iraq, il “processo di pace” in Medio Oriente, gli sviluppi in Libano e Siria, le basi militari Usa in Italia. E infine «competitività economica, assistenza estera, cambiamenti climatici e leggi di rafforzamento della cooperazione» tra Roma e Washington. Ma l’ambasciatore Spogli non si ferma qui: per ciascuna voce redige un dettagliato piano di intervento. Riguardo al “miglioramento delle relazioni”, ad esempio, scrive: «Sebbene il governo Prodi abbia seguito le politiche che supportiamo, sentiva il bisogno di fare gratuite dichiarazioni anti-americane per puntellare la componente di estrema sinistra. Tali commenti distraevano da discussioni importanti come il Medio Oriente, i Balcani e l’Iran. Anche se entrambi i leader candidati alle elezioni sono pro-America, dovremmo comunque incoraggiare il nuovo governo a riconoscere che i toni hanno importanza, nelle relazioni bilaterali». Meglio quindi «esercitare la disciplina, per evitare retorica inutile». Politici italiani: attenti a come parlate,A Ronald Spogli, già nel 2008, premeva che l’Italia prendesse le distanze dalla Russia in materia di energia: «Incoraggeremo il nuovo governo italiano a impostare come prioritaria la formulazione di una politica energetica nazionale che affronti realisticamente il crescente fabbisogno energetico e la preoccupante dipendenza dalla Russia». Consigli per gli acquisti: «Energia nucleare e energie rinnovabili dovrebbero fare parte del piano. L’Italia dovrebbe esercitare leadership a livello europeo, spingendo per una politica energetica che si occupi dell’estremamente preoccupante dipendenza dalla Russia». È un caso, si domanda Ali, se dopo vent’anni Berlusconi rispolverò l’energia nucleare? Spogli insiste: «Suggeriremo di usare l’influenza che promana dalla comproprietà del governo italiano in Eni per fermare la compagnia dall’essere la punta di lancia di Gazprom. Questo probabilmente richiederà una nuova leadership in Eni». Spogli conta ovviamente sull’Italia anche per la gestione americana del conflitto israelo-palestinese. E, ancora sull’energia, aggiunge: «Quando ci occuperemo di negoziare accordi vincolanti e avremo bisogno che l’Ue scenda a compromessi per arrivare a un accordo che sia accettabile per il Congresso Usa, avremo bisogno di un interlocutore affidabile nel governo italiano che comprenda le ragioni dell’economia, oltre che quelle dell’ambiente».Scontati, dice Ali, i diktat americani sulla politica estera – il comportamento italiano rispetto a Iran e Iraq, Russia e Afghanistan, nonché il “disappunto” che avrebbe creato il ritiro delle forze italiane dalle “missioni di pace”. Rivelatore, il cuore del “cablo” dell’11 aprile 2008: Berlusconi o Veltroni, l’Italia avrebbe fatto le medesime scelte, dettate dagli Usa. Cosa accadde dopo? Lo sappiamo: Berlusconi venne «accusato di troppe cose», tra cui «pedofilia, corruzione, evasione fiscale, collusioni con la mafia», tutte accuse che in Usa avrebbero determinato la fine di qualsiasi uomo politico. «Troppo, perché gli Usa continuassero a considerare Berlusconi un alleato fidato, perfino se a capo di un paese rammollito e corrotto come l’Italia». Per cacciarlo non bastarono le pressioni degli ex alleati che lo mollarono, da Casini a Fini. A metterlo da parte ci volle «la tempesta sui titoli Mediaset del 2011». Dopodiché, come da copione, seguirono Monti e Letta: «Tutte persone di “provata fede” filo-americana». Nel frattempo, «cresceva in provetta l’esperimento finale: Renzi, con la sua rete di amicizie particolari in Usa e in Israele (Carrai, Serra, Gutgeld, Bernabè, Kerry e, sopra tutti, Michael Ledeen)».Riposi in pace, conclude Stefano Ali, «chi rimane convinto di essere di sinistra e non si accorge che la politica di riferimento è ben più di destra perfino rispetto a quella di Berlusconi». A parlare sono i fatti. E chi ancora si crede di sinistra «non riesce ad accettare di essere li a supportare – suo malgrado e contro la sua volontà cosciente – una politica liberista e imperialista». A nulla vale far presente che questa “sinistra” ha ammainato tutte le “bandiere” della sinistra per sostituirle con quelle un tempo sventolate dall’estrema destra: non più la Dc (che, nella sua mastodontica struttura correntizia, compensava al suo interno destra, sinistra e centro per far emergere una linea tutto sommato moderatamente popolare), ma il vecchio Partito Liberale Italiano e il vecchio Movimento Sociale Italiano». Berlusconi e il Pd non erano rivali nemmeno del 2008, come conferma l’ambasciatore Spogli. Amara conclusione: «Chi si ritiene di sinistra prenda atto che una agenda politica redatta fin nei dettagli dall’ambasciata Usa non è esattamente il programma di un governo di sinistra. Rassegnatevi, la vostra sinistra oggi è questa».Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».
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Ma Renzi rottamerà se stesso, ben prima del previsto
I recenti dati sull’economia del paese sono stati la prima doccia gelata sul governo Renzi dopo i trionfi di primavera. «La prima, ma non l’unica: altre ne verranno». All’indomani dell’imprevisto grande successo alle europee, si parlò della consacrazione definitiva di Renzi come leader. E qualcuno si spinse a parlare di inizio di un’“epoca renziana”, dopo quella berlusconiana. «Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza», dice Aldo Giannuli: «Renzi, ne sono convinto, è destinato a durare poco». Secondo lo storico dell’università di Milano, il Rottamatore finirà per “rottamare” se stesso, alla velocità della luce: tra un fallimento e l’altro, saranno in primo luogo i suoi attuali sostenitori a farlo fuori. «Il peggior nemico di Renzi è proprio Renzi», insiste Giannuli: «Ha fatto l’errore imperdonabile di creare troppe aspettative su di sé», fin dall’inizio, e poi «ad ogni scadenza non proprio riuscita ha regolarmente rilanciato», coi suoi slogan: farò una riforma al mese, risolleverò i consumi con gli 80 euro, entro fine 2014 «superiamo le previsioni e cresciamo dell’1%».E’ un po’ come per le finanziarie “a piramide”, che attirano clienti promettendo interessi appetitosi ma poi, fallite le speculazioni, si spalanca il bluco nelle casse, per cui i soldi non bastano a pagare gli interessi ed è il crack. «Ora che è arrivata la prima gelata (altro che +1%, siamo in recessione con -0,2%)», il premier «la spara ancora più grossa: alla fine dei “mille giorni” l’Italia sarà paese leader in Europa», anziché “il problema” dell’Ue. «Ma lui non ha neppure mille giorni davanti a sé: realisticamente ne ha molti meno», scrive Giannuli nel suo blog. «Ben presto quel 40,8% sarà il ricordo lontano di un risultato irripetibile». Già nelle amministrative di autunno, probabilmente, sentiremo qualche scricchiolio. E in primavera, le regionali – sia pure senza Piemonte, Lombardia, Emilia e Lazio – probabilmente segneranno diversi punti indietro rispetto al risultato del 28 maggio scorso.Buon per Renzi: dopo, non ci saranno altri turni elettorali di rilievo, sino al 2017. «Ma l’effetto delusione delle troppe aspettative create e deluse già sarà iniziato da tempo: come accadde a Berlusconi nel 2003, dopo la clamorosa vittoria del 2001, o a Monti, dopo il trionfale insediamento del novembre 2011: un anno dopo era già polvere». Ovviamente, continua Giannuli, non solo l’obbiettivo del “paese leader in Europa” non sarà minimamente raggiunto («sarà servito solo a far sganasciare di risate i partner europei»), ma già mese per mese «constateremo il peggioramento della situazione». Conti in rosso: «Non è affatto improbabile che ci si debba preparare a una nuova tempesta dello spread per ottobre-novembre: i primi guai per Renzi verranno in quei mesi in cui, comunque vada – tempesta dello spread o no – lui sarà costretto dai diktat europei a fare una finanziaria ben diversa da quella di cui sta parlando».Una “sberla” potrebbe arrivare già a fine agosto, quando si deciderà chi è “mister Pesc”: se non dovesse passare la Mogherini ma un altro italiano, per Renzi sarebbe una mezza sconfitta, ma se invece il posto andasse ad un qualsiasi altro partner europeo, per il “rottamatore” «sarebbe una sconfitta piena, tanto più che cadrebbe nel bel mezzo del suo semestre, nel quale peraltro vedremo cosa sarà stato capace di combinare». Poi c’è il fronte interno, la partita del Senato e quella della legge elettorale. Finora, «il Senato ha operato sotto la botta del successo di fine maggio, per cui ben pochi hanno avuto il coraggio di dissentire». Ma alla ripresa «ci sarà un unico groviglio, che mette insieme le due riforme istituzionali, l’elezione dei giudici costituzionali e quella dei membri laici del Csm per la quale il Parlamento è già inadempiente». Secondo Giannuli il pericolo verrà dai centristi, oltre un centinaio di parlamentari fra alfaniani, casiniani e montiani: stanno già iniziando ad agitarsi, per cui «potrebbe anche scapparci una crisi di governo».Vero, in soccorso a Renzi potrebbe accorrere «il Cavaliere pregiudicato», ma anche Berlusconi «avrà i suoi problemi, fra un partito in dissoluzione e altre grane giudiziarie in arrivo». Più che altro, osserva Giannuli, il successo di Renzi è stato propiziato da due elementi: l’esasperazione della base Pd per i ripetuti fallimenti della vecchia guardia (D’Alema, Veltroni, Fassino, Franceschini, Bersani e Letta) e l’assenza di veri sfidanti. «Soprattutto la seconda cosa è stata determinante: il centro montiano era già dissolto dall’estate del 2013, Forza Italia in caduta libera e senza che nessun alleato prendesse quota, Rifondazione e Sel in decadenza». L’unico competitore era il “Movimento 5 Stelle”, «che però si misurava con i limiti strutturali del suo bacino elettorale: per cui, di fatto, le europee sono state una partita senza squadra avversaria». Questo “stato di grazia”, che vede centro e destra in caduta libera e il M5S “recintato” «durerà ancora, ma non in eterno».Per Giannuli, è realistico pensare che entro qualche tempo inizierà un processo di riaggregazione fra centro e destra: o Berlusconi fa un passo indietro e permette alla destra di radunarsi attorno a altro personaggio (anche se non è facile immaginare chi), oppure porta il suo partito a una lenta emorragia, che favorisce la nascita di un soggetto di centro ben più consistente del passato. E se Renzi si sposta più decisamente a destra per impedire la nascita di un nuovo polo di centrodestra, «rischia una scissione sulla sinistra che potrebbe aggregare anche Sel, quel che resta di Rifondazione e Verdi e, forse, socialisti e fuorusciti del M5S», cioè «un’area che potrebbe anche superare il 10%». Il M5S sta attraversando una fase travagliata, ma è possibile che il declino del governo Renzi possa tornare a gonfiarne i consensi. «Insomma, la situazione da “partita senza avversari” difficilmente durerà a lungo». Ecco perché non è saggio scommettere ancora sulla durata del governo Renzi, che di fatto è «un insieme di comparse incolori e politicamente inesistenti».Tutto si regge sull’esuberante protagonismo del presidente del Consiglio, che però «proprio con il suo iperattivismo rischia di logorarsi molto rapidamente». Anche perché «il personaggio non è di qualità eccelsa», totalmente privo com’è di «capacità di ideazione strategica e di mediazione politica». Grande comunicatore? Nemmeno: «Un grande comunicatore, mi duole dirlo, è stato Berlusconi, che è durato vent’anni», perché «ha saputo giocare su mezzi toni, lasciar sperare senza impegnarsi più di tanto», e poi «alternare muso duro e gigioneria, giocare un alleato contro l’altro». Per un bel po’ ha anche dato l’impressione di muoversi a suo agio nei vertici internazionali, e ha sempre avuto grande tempismo. Renzi, invece, «ha un unico registro espressivo: l’arroganza». E poi «è troppo scoperto nel suo ruolo di imbonitore televisivo, non è capace di mediare su niente e con nessuno, tratta gli alleati come pezze da piedi, è troppo provinciale e “non esiste” sul piano internazionale. Renzi «è frenetico ma non tempista», e non ha neppure a disposizione l’enorme apparato televisivo del Cavaliere. «Il suo stile mezzo boy scout e mezzo tamarro può funzionare per un po’, ma si esaurisce presto. E sicuramente dura molto meno di 20 anni». Domandona: nel frattempo, prima di cadere, quanti danni riuscirà a infliggere all’Italia?I recenti dati sull’economia del paese sono stati la prima doccia gelata sul governo Renzi dopo i trionfi di primavera. «La prima, ma non l’unica: altre ne verranno». All’indomani dell’imprevisto grande successo alle europee, si parlò della consacrazione definitiva di Renzi come leader. E qualcuno si spinse a parlare di inizio di un’“epoca renziana”, dopo quella berlusconiana. «Ho sempre pensato che fosse una sciocchezza», dice Aldo Giannuli: «Renzi, ne sono convinto, è destinato a durare poco». Secondo lo storico dell’università di Milano, il Rottamatore finirà per “rottamare” se stesso, alla velocità della luce: tra un fallimento e l’altro, saranno in primo luogo i suoi attuali sostenitori a farlo fuori. «Il peggior nemico di Renzi è proprio Renzi», insiste Giannuli: «Ha fatto l’errore imperdonabile di creare troppe aspettative su di sé», fin dall’inizio, e poi «ad ogni scadenza non proprio riuscita ha regolarmente rilanciato», coi suoi slogan: farò una riforma al mese, risolleverò i consumi con gli 80 euro, entro fine 2014 «superiamo le previsioni e cresciamo dell’1%».
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Giannuli: rebus Germania, a metà strada tra Usa e Russia
«Se c’è un paese che gli Usa hanno interesse a spiare è proprio la Germania, il membro più irrequieto della Nato e anche quello più vicino ai russi». Alleati? Sì, ma di chi? Attenti alla Germania, avverte Aldo Giannuli: il paese leader della nuova Europa, ormai assurto al rango di potenza internazionale, potrebbe decidere di riposizionarsi sullo scacchiere mondiale alla luce del nuovo drammatico bipolarismo, da una parte Washington e dall’altra Mosca e Pechino. Tutti gli eventi degli ultimi mesi, incluse le voci sulle possibili dimissioni di Angela Merkel nel giro di un paio d’anni, sono «i sordi rimbombi che avvertono di un temporale in arrivo». A far da detonatore, la crisi in Ucraina che oppone gli Stati Uniti alla Russia, di cui la Germania è il primo partner commerciale. Berlino di fronte a un bivio drammatico? «E’ presto per dire se questa tendenza prenderà corpo e si materializzerà in un nuovo ordine mondiale, ma tutti iniziano a prendere le misure e a posizionarsi nel caso ciò dovesse accadere. E la domanda che gli americani e i russi si pongono è: “Ma la Germania da quale parte deciderà di stare?”».Nel giro di pochi mesi, scrive Giannuli nel suo blog, la Germania si è trovata al centro di una serie di notizie, tutte in qualche modo collegate tra loro. In primis, l’adesione al diktat statunitense per il blocco di alcuni conti russi, per lo più detenuti da magnati e oligarchi, protagonisti del «fittissimo import-export fra i due paesi». Come previsto, il boicottaggio dei conti russi ha causato un crollo della Borsa di Mosca, proprio mentre iniziava una manovra Usa per destabilizzare il rublo. «Poi, in marzo sono giunte notizie non proprio confortanti sulla situazione delle banche tedesche in vista degli stress-test previsti per il 2018. Del precario stato di salute della Commerzbank si sapeva, mentre era meno nota la situazione non più floridissima della Deutsche Bank», che alcuni analisti ritengono la peggiore banca europea, piena di titoli “marci”, cioè inesigibili. «Nel frattempo, i rapporti russo-tedeschi, pur sotto minaccia, sono proseguiti», e società tedesche e francesi hanno rilevato consistenti quote dell’Eni nella società impegnata a costruire Southstream, il grande gasdotto destinato ad aggirare l’Ucraina: il tracciato è stato modificato escludendo il nodo italiano di Tarvisio e creando una linea diretta Balcani-Austria, ma per ora «diverse società tedesche continuano a scommettere sulla Russia».Poi ci sono state le elezioni europee, dove la Merkel ha vinto e, alla fine, è riuscita a imporre il suo candidato, Juncker, a capo della Commissione. Pochi giorni dopo, «è nuovamente esplosa la grana dello spionaggio americano nei confronti della Germania, che sarebbe allegramente continuato dopo il caso Snowden». Al che, «scontata meraviglia sia della Merkel (“Non si spiano gli alleati!”) che di Obama (“Non ne sapevo nulla!”), scesi tutti e due dal pero». Domanda: com’è venuta fuori, la notizia? «Chi c’è dietro? Lo stesso che ha manovrato il caso Snowden?». In piena tempesta-spionaggio, per un solo giorno è lampeggiata sui media la notizia delle singolari dimissioni della Merkel: rinuncerebbe a ripresentarsi nel 2018, lasciando con largo anticipo per mettere in pista il successore. «La cosa è strana: la Merkel ha vinto le politiche solo 10 mesi fa, poi è andata tutto sommato bene alle europee e ha saldamente il governo in mano. Perché parla di dimissioni? E perché mai dovrebbe avviare la successione con un paio di anni di anticipo annunciandola un altro paio di anni prima? Lecito porsi una domanda: a chi sta parlando?».La riunificazione tedesca, continua Giannuli, è stata il principale avvenimento prodotto dalla fine del bipolarismo: la caduta del Muro è stata il simbolo visivo della fine di quell’ordine mondiale. «Poi le floride sorti della Germania sono andate di pari passo con la fase trionfale del nuovo ordine mondiale: la distensione nei rapporti con la Russia schiudeva ricche praterie alle imprese tedesche, la nascita dell’euro candidava Berlino a capitale naturale della nuova Europa, nuove frontiere all’espansionismo economico tedesco di aprivano via via verso est: Turchia, Kazakhstan, Cina, Corea». La Germania poteva ritenersi a buon diritto «uno dei protagonisti nel nuovo ordine mondiale sotto l’ombrello americano». E quando è arrivata la crisi del 2008, «è stata certamente uno dei paesi che ha retto meglio il colpo, anzi ha moltiplicato crediti ed influenza». Inoltre «è rimasta al centro di un sistema di alleanze a cerchi sovrapposti: membro della Nato, paese leader della Ue, ma insieme massimo partner commerciale della Russia. Ora però il vento è girato e le cose si mettono male». La crisi ucraina inizia a prospettare un nuovo bipolarismo est-ovest. La Germania da che parte starà?«Se c’è un paese che gli Usa hanno interesse a spiare è proprio la Germania, il membro più irrequieto della Nato e anche quello più vicino ai russi». Alleati? Sì, ma di chi? Attenti alla Germania, avverte Aldo Giannuli: il paese leader della nuova Europa, ormai assurto al rango di potenza internazionale, potrebbe decidere di riposizionarsi sullo scacchiere mondiale alla luce del nuovo drammatico bipolarismo, da una parte Washington e dall’altra Mosca e Pechino. Tutti gli eventi degli ultimi mesi, incluse le voci sulle possibili dimissioni di Angela Merkel nel giro di un paio d’anni, sono «i sordi rimbombi che avvertono di un temporale in arrivo». A far da detonatore, la crisi in Ucraina che oppone gli Stati Uniti alla Russia, di cui la Germania è il primo partner commerciale. Berlino di fronte a un bivio drammatico? «E’ presto per dire se questa tendenza prenderà corpo e si materializzerà in un nuovo ordine mondiale, ma tutti iniziano a prendere le misure e a posizionarsi nel caso ciò dovesse accadere. E la domanda che gli americani e i russi si pongono è: “Ma la Germania da quale parte deciderà di stare?”».
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Sos: il Tesoro accumula miliardi, teme il crac dell’euro?
Siamo venuti a sapere, da fonte interna e autorevole del ministero competente, che il Tesoro italiano sta accumulando una riserva di denaro liquido superiore al momento attuale ai 92 miliardi di euro – con l’obbiettivo di raggiungere i 150 entro fine anno – in vista del tracollo della valuta unica europea. Immagino non sia sfuggito ai più che Banca d’Italia abbia comunicato l’ammontare del debito pubblico, arrivato a 2.166,3 miliardi, e che il motivo dell’impennata sia anche da addebitare agli oltre 14 miliardi accantonati proprio dal Tesoro. Quasi quindici, per la precisione. Perchè? Perchè far crescere il debito per accantonare contanti? Che senso ha? Da notare che nel 2013 la scorta di liquidi di questa funzione centrale dello Stato era molto inferiore: 62,4 miliardi. Ebbene, in un anno è cresciuta del 50% dell’importo precedente. Non si tratta di aggiustamenti di cassa. Quelli, si contano con le virgole.Qua siamo di fronte a una strategia precisa: accantonare un vero “tesoro” nelle casse del Tesoro. E un tesoro in euro, proprio quando la macchina dello Stato ha un disperato bisogno di denaro, ha senso solo se lo si ritiene strategico, così importante da dover aumentare ancor di più il buco complessivo dello Stato. E’ evidente che l’Italia nel suo piccolo stia correndo ai ripari. Si sta cercando di accumulare contanti per provare a impedire l’insolvenza che s’innescherà non appena arriverà l’autunno. Le previsioni fatte dal governo Renzi sono completamente sbagliate. Non per niente, lo stesso Renzi ha concesso un’intervista al “Corriere della Sera” con la quale ha tenuto a “smentire” voci mai girate ufficialmente – e allora perchè smentirle? – di un possibile “commissariamento” dell’Italia da parte della Troika Ue. E le previsioni errate stanno creando una voragine nei conti pubblici, per ora tenuta nascosta.Alcuni quotidiani hanno scritto di 24 miliardi di buco nei conti. Altri giornali si sono spinti a parlare di “manovra autunnale”. La verità è un’altra. La recessione non sta dando tregua e i dati sono tutti convergenti: l’Europa dell’euro è avviata a un inasprimento della crisi, ora arrivata ad aggredire il cuore della macchina economica europea: la produzione industriale. E’ in forte calo ovunque sia in circolazione l’euro. E anche i fondamentali sono da brivido: quando i Btp italiani arrivano a rendere circa come i titoli di Stato degli Stati Uniti d’America, voi capite che sta accadendo qualcosa di folle. La follia consiste nel tenere artificialmente in equilibrio valori finanziari che sarebbero del tutto squilibrati, se affidati al mercato o, se si preferisce, se rispecchiassero davvero la realtà. Quindi, che accadrà questa estate? Rimarrà tutto com’è ora o s’inizierà a vedere all’orizzonte la tempesta? Francamente, ho la netta sensazione che questo agosto sarà molto, molto simile all’agosto del 2008. Poi, il 15 settembre arrivò il crac della Lehman Brothers. E il 15 settembre 2014 riapriranno le porte del Parlamento dopo la pausa estiva…(Max Parisi, “Il Tesoro italiano sta accumulando una montagna di soldi in previsione del crac dell’euro”, da “Il Nord” del 14 luglio 2014).Siamo venuti a sapere, da fonte interna e autorevole del ministero competente, che il Tesoro italiano sta accumulando una riserva di denaro liquido superiore al momento attuale ai 92 miliardi di euro – con l’obbiettivo di raggiungere i 150 entro fine anno – in vista del tracollo della valuta unica europea. Immagino non sia sfuggito ai più che Banca d’Italia abbia comunicato l’ammontare del debito pubblico, arrivato a 2.166,3 miliardi, e che il motivo dell’impennata sia anche da addebitare agli oltre 14 miliardi accantonati proprio dal Tesoro. Quasi quindici, per la precisione. Perchè? Perchè far crescere il debito per accantonare contanti? Che senso ha? Da notare che nel 2013 la scorta di liquidi di questa funzione centrale dello Stato era molto inferiore: 62,4 miliardi. Ebbene, in un anno è cresciuta del 50% dell’importo precedente. Non si tratta di aggiustamenti di cassa. Quelli, si contano con le virgole.
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Giannuli: il mondo non tollera più i diktat dell’Occidente
La globalizzazione neoliberista ha spiccato il volo nei primi anni Novanta fra gioiosi inni alle sue sorti magnifiche e progressive, come attestavano i non dimenticati libri di Francis Fukuyama sulla fine della storia e di Toni Negri sull’Impero. Si prometteva la fine della nazioni e dello Stato-nazione, rottame del passato, di conseguenza dell’ordine westfalico sostituito da una governance mondiale fortemente integrata che avrebbe abolito il “fuori” e trasformato ogni crisi locale in un caso di “insorgenza” da curare con “interventi di polizia internazionale”. Si prometteva uno sviluppo mondiale, che avrebbe riscattato i paesi arretrati, ed il benessere generalizzato attraverso la “democratizzazione della finanza” assistita da nuovi strumenti matematici che avrebbero posto fine alle grandi crisi. Sarebbe sorto un mondo “piatto” e simmetrico.Ogni promessa colpiva un suo particolare target: il benessere generalizzato e lo sviluppo attraeva i paesi arretrati, la “democratizzazione della finanza” i precari delle società metropolitane, la promessa di una governance mondiale in grado di mediare i conflitti seduceva i fautori dell’internazionalismo. Poi le cose sono andate molto diversamente: la governance mondiale si è ridotta ad un concerto molto instabile fra vecchi imperi e potenze emergenti, i conflitti non sono affatto diminuiti e le operazioni di polizia internazionale non hanno dato i risultati voluti, vecchie asimmetrie si sono attenuate o scomparse, ma solo per essere sostituite da nuove. Soprattutto, il sogni di una finanza sempre espansiva e al sicuro da grandi crisi è stato impietosamente spazzato via da una crisi che è già la peggiore dopo quella del 1929 e non accenna a passare.Quello attuale è un mondo segnato da asimmetrie diverse e più aspre di quelle passate, con ragioni di conflitto più insidiose, profondamente instabile, nel quale si avverte chiaramente il rischio di uno sbocco caotico e ingovernabile. E ora siamo ad una crisi di rigetto della globalizzazione che ha assunto forme assai diverse e per questo non viene riconosciuta (o lo è molto a fatica) come fenomeno unitario. La sensazione è quella di un “nuovo disordine mondiale” che assomma fenomeni assai diversi fra loro: rivolte urbane e guerriglie rurali, crisi finanziarie e crisi dell’economia reale, instabilità politica e reazioni culturali. E proprio sulle reazioni culturali vorremmo soffermarci.Con grande sicumera, l’Occidente ha intrapreso la via della globalizzazione come processo di assimilazione a sé del resto del mondo. La “grande Europa” (quella che, oltre che all’Europa propriamente detta, comprende anche le Americhe e l’Oceania, continenti cristiani e dove si parlano lingue europee) ha pensato di poter parlare al mondo senza ascoltare, di poter insegnare la via della modernità e del progresso e che gli altri dovessero limitarsi a copiare il perfetto modello della “Grande Europa”. Ci sono stati due grandi monumenti intellettuali a questa insipienza eurocentrica: “La fine della storia e l’ultimo uomo” di Francis Fukuyama e “L’Impero” di Toni Negri. Già Samuel Huntington fu più accorto e comprese subito che, per gli altri, “modernizzazione” non faceva rima con “occidentalizzazione” e abbozzò una strategia che, pur sempre funzionale al dominio americano, aveva però il pregio di un maggiore realismo.Oggi siamo di fronte a una rivolta contro la globalizzazione neoliberista che assume forme diversissime fra loro ma che, alla base, esprime lo stesso rigetto nei confronti di questo progetto di appiattimento universale: le proteste nelle metropoli capitalistiche, o nelle loro immediate periferie, (da Ows ad Atene, dagli Indignados alla rivolta elettorale “populista” che si avvicina, dal malessere dei ceti medi alle rivolte degli immigrati) contestano l’ipercapitalismo finanziario che è il motore di questo progetto. Le rivolte arabe e il parallelo fenomeno fondamentalista descrivono una dialettica diversa ma comunque di resistenza all’invasività del modello occidentale. I massacri di cristiani segnalano l’odio verso quella religione, che è vista come propria dell’Occidente e della sua volontà di annientare le altre culture. La violenta campagna anti-gay in Russia, in Africa in alcuni paesi asiatici, proprio nel momento in cui in Occidente si parla di matrimoni gay, sembra una aperta rivolta contro un modello culturale che va molto al di là della specifica questione gay. L’evoluzione aggressiva della politica estera cinese manifesta una crescente insofferenza verso il predominio occidentale negli organismi internazionali. Persino nella singola vicenda dei marò italiani in India è difficile non scorgere un certo livore antieuropeo. La “grande Europa” (o meglio, l’asse euro-americano) non è più in grado di dettare legge al mondo, ma non lo ha ancora capito. Intanto monta una rivolta dai mille volti che presto potrebbe diventare una tempesta senza precedenti.(Aldo Giannuli, “Reazioni alla globalizzazione”, dal blog di Giannuli dell’8 maggio 2014).La globalizzazione neoliberista ha spiccato il volo nei primi anni Novanta fra gioiosi inni alle sue sorti magnifiche e progressive, come attestavano i non dimenticati libri di Francis Fukuyama sulla fine della storia e di Toni Negri sull’Impero. Si prometteva la fine della nazioni e dello Stato-nazione, rottame del passato, di conseguenza dell’ordine westfalico sostituito da una governance mondiale fortemente integrata che avrebbe abolito il “fuori” e trasformato ogni crisi locale in un caso di “insorgenza” da curare con “interventi di polizia internazionale”. Si prometteva uno sviluppo mondiale, che avrebbe riscattato i paesi arretrati, ed il benessere generalizzato attraverso la “democratizzazione della finanza” assistita da nuovi strumenti matematici che avrebbero posto fine alle grandi crisi. Sarebbe sorto un mondo “piatto” e simmetrico.
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Usciremo dall’euro e da questa Ue, il problema è come
Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.Lo sostiene tra i tanti il professor Alain Parguez, insider all’Eliseo all’epoca in cui il “monarca” Mitterrand si circondava di personaggi come Jacques Delors, futuro primo presidente della Commissione Europea, e di super-consiglieri come Jacques Attali, ben consci che l’euro non fosse certo nato «per la felicità della plebaglia europea». Una moneta senza Stato, per Stati senza più moneta, non funzionerà mai, disse Giorgio La Malfa a Tommaso Padoa Schioppa, il quale rispose: «E credi che non lo sappiamo?». Nino Galloni, per anni alto dirigente del Tesoro, sintetizza: il futuro centrosinistra italiano – ben conscio che l’euro avrebbe rovinato l’Italia – decise ugualmente di lavorare per la cessione della sovranità nazionale senza vere contropartite, pur di liberarsi per sempre della classe dirigente della Prima Repubblica, quella dei tangentocrati indagati da Mani Pulite. Che l’euro non potesse “funzionare” non è mai stato un mistero per nessun potente: e l’apparente fallimento messo in luce dall’attuale spaventosa recessione, in realtà, corrisponde a un successo fino a ieri impensabile per l’oligarchia economico-finanziaria, che ha visto schizzare in cielo il proprio potere e la propria ricchezza a spese della maggioranza della popolazione, su cui si è scaricato interamente il costo della cosiddetta crisi.Dal canto suo, Giannuli si limita a constatare che l’unificazione politica europea «è una leggenda persa nelle brume di un futuro vaghissimo», visto che «da sette anni infuria una crisi senza precedenti dal 1929» e che «le economie nazionali europee divergono più che mai e diversi paesi sono sull’orlo del default». In queste condizioni politiche e finanziarie, conclude Giannuli, «il rischio di un crollo dell’euro è più che una semplice possibilità teorica». Se dovessero cedere una serie di paesi come Grecia, Portogallo e Irlanda, «la sopravvivenza della moneta unica diverrebbe assai problematica». Se poi il default dovesse riguardare Italia o Spagna, «non si vede come la costruzione possa restare in piedi». Ma attenzione: «Anche sviluppi imprevisti della crisi Ucraina potrebbero innescare dinamiche divaricanti nella Ue tali da mettere a rischio la moneta». Senza calcolare che, a un certo punto, «i costi di mantenimento dell’unione monetaria potrebbero rivelarsi tali da rendere inevitabile l’uscita di alcuni partner, con l’effetto di un “rompete le righe” generalizzato».Questa, per Giannuli, è esattamente la prospettiva più probabile: «E non è detto che a iniziare debbano essere i paesi deboli come Grecia o Portogallo, potrebbe iniziare uno scollamento anche di uno dei paesi forti e persino la Germania non è esente da queste tentazioni». E se la cosa non sarà stata preparata e dovesse avvenire con un improvviso crack – poco importa se finanziario o politico – allora finiremmo dentro una tempesta devastante. «E qui si capisce cosa non funziona nel ragionamento degli “euristi ad oltranza”: non prevedere il rischio di un crollo improvviso della moneta e non capire che dalla moneta unica si può uscire in modo scarsamente traumatico, a condizione che questo avvenga nei modi e nei tempi opportuni». Paradossalmente, continua Giannuli, «i fautori di “euro o muerte” ragionano allo stesso modo della Lega e dei populisti che tanto disprezzano». Due facce della stessa medaglia: «I populisti più estremi prospettano un’uscita dalla moneta unica, con ritorno alla moneta nazionale, con una decisione semplice ed immediata: hic et nuc! E gli “euromani” ragionano solo su questo scenario. Ma dall’euro non si può uscire come da una festa fra amici: “Scusate, dobbiamo andare: abbiamo lasciato i bambini soli a casa”».Secondo Giannuli, non è che – una volta liberi «dall’orrenda moneta» – tutto ricomincia a girare per il verso giusto, con l’economia che rifiorisce d’incanto: l’euro è una micidiale camicia di forza, certo, ed è il principale “mandante” della devastante politica di austerità, però – intorno a noi – c’è anche una gigantesca crisi planetaria del modello produttivo globalizzato, che richiede «un ripensamento complessivo dell’ordinamento neoliberista dell’economia mondiale». Meglio allora le soluzioni intermedie: lasciare l’euro come unità di conto (com’era l’Ecu) cui agganciare le monete nazionali, con bande di oscillazione prestabilite, «in modo da dare il tempo di far riprendere la bilancia dei pagamenti dei paesi del sud Europa». Oppure, adottare per un certo periodo «un regime di doppia circolazione, con retribuzioni date in parte con una moneta e in parte con l’altra». Complesso, certo. «Ma neppure il passaggio all’euro è avvenuto in due minuti: da Maastricht all’entrata in funzione della moneta unica sono passati ben 10 anni».Il problema sembra economico, ma è eminentemente politico – lo stesso euro, del resto, è uno strumento politico che verticalizza il potere e fa sparire la democrazia, con le sue imposizioni tassative. «Non è detto che la Ue debba restare questo mostro onnivoro che è oggi», si augura Giannuli. «Di fatto, questa fusione delle tre Europe (del nord, del sud e dell’est) non ha molto funzionato né politicamente (e si pensi al fianco est), né economicamente (e si pensi al fianco Sud). Forse l’ipotesi di una unificazione politica potrebbe essere più facilmente realizzata fra paesi più omogenei, con tre federazioni a sua volta alleate fra loro. Tre federazioni europee (del nord, del sud, dell’est) sembrano una soluzione più praticabile di un’improbabilissima unione politica di tutto il continente. E la questione della moneta potrebbe trovare uno scioglimento in questo ordinamento a tre». Conclude Giannuli: «La Storia non è finita, come pensava quell’imbecille di Francis Fukuyama, e l’esistente è solo il presente. Non l’eternità».Si è scatenata «una campagna terroristica sugli effetti di un’uscita dell’Italia dall’euro», che parla di inflazione alle stelle, mutui insostenibili che costringerebbero a vender casa, termosifoni spenti, cure mediche proibitive, aziende fallite. «Mi spiace notare che anche “Il Fatto” si sia associato a questa campagna», annota Aldo Giannuli nel suo blog, prendendo le distanze da chi pretende che ci si debba semplicemente rassegnare all’euro, visto che ormai c’è. «Ma chi via ha garantito che l’euro sia destinato a restare in piedi?». La moneta unica, ricorda Giannuli, nacque alla fine della guerra fredda, dalla Francia di Mitterrand, come contrappeso alla riunificazione tedesca. Due versioni: quella “buonista” dice che gli eurocrati speravano che la moneta unica «avrebbe aiutato i paesi meno forti favorendo una dinamica virtuosa convergente delle diverse economie nazionali che, a sua volta, avrebbe spinto verso una celere unificazione politica». L’altra versione, la peggiore, spiega forse meglio l’attuale catastrofe: l’euro nacque essenzialmente come piano criminale dell’élite contro la democrazia sociale europea, quella del welfare.