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Archivio del Tag ‘Tunisia’

  • Sperando che regga l’accordo segreto tra Obama e Putin

    Scritto il 28/11/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Obama liquiderebbe volentieri Erdogan, ma intanto gongola per l’abbattimento del jet russo: non è una contraddizione, scrive “Megachip”, perché «quel che gli fa piacere e quel che gli serve sono due cose diverse». Con il suo appoggio formale alla Turchia, il presidente Usa spera di prendere diversi piccioni con una fava: «Fa il muso duro con Putin davanti a tutto il mondo, tiene agganciata la polveriera Turchia sperando che non salti in aria, non scarica brutalmente un alleato chiave nella regione (cosa che darebbe un pessimo segnale) e infine tiene a bada, o spera di tenere a bada, i neocon guerrafondai», che probabilmente hanno ispirato «l’atto di guerra irresponsabile turco». Morale: come dice Papa Francesco, la Terza Guerra Mondiale (a rate) è già iniziata. Ci stiamo scivolando dentro. E sul ponte di comando ci sono troppe mezze figure. E’ peggio che nella “crisi dei missili” di Cuba del 1962: all’epoca, Kennedy aveva il pieno controllo del suo esercito, e non era previsto nessun “first strike”, cioè il lancio non provocato di un attacco nucleare, ma solo la ritorsione nucleare. E soprattutto, «la crisi sistemica non era nemmeno iniziata», mentre oggi «sta dirigendosi velocemente verso lo showdown».
    Ormai, scrive “Piotr” sul newsmagazine fondato da Giulietto Chiesa, è evidente a tutti che «la cosiddetta guerra civile siriana» è in realtà «un attacco sponsorizzato dagli ex partner dell’accordo Sykes-Picot contratto durante la I Guerra Mondiale, cioè Gran Bretagna e Francia, poi istigato ideologicamente, finanziato e armato dall’Arabia Saudita, dal Qatar, dalla Turchia, col concorso attivo di Israele, e condotto da mercenari e volontari jihadisti provenienti da 83 paesi differenti». Altro che “guerra civile”. «Questo attacco – ricorda “Megachip” – fu deciso nel 2007 dall’allora vicepresidente statunitense Dick Cheney, su insistenza dei suoi consiglieri neocon, ed è stato preparato da quella vasta operazione di regime change chiamata “primavera araba”, che ha illuso la sinistra fino a farla vaneggiare, come successe a Rossana Rossanda». Un’operazione che «doveva portare uniformemente i Fratelli Musulmani al governo in Tunisia, Libia, Egitto e Siria, come già era avvenuto per vie democratiche in Turchia (anche se poi il primo ministro Erdogan ha molto poco democraticamente epurato magistratura ed esercito, per obbligo e tradizione repubblicana custodi della laicità dello Stato)».
    Come testimoniato a più riprese dal generale Wesley Clark, già a capo della Nato in Europa, la Siria – come la Libia e altri paesi dell’area – era già nel mirino del Pentagono fin dal 2001. All’epoca alla Casa Bianca c’era George W. Bush, ma il vero capo era il suo vice, Cheney, esponente di quei neocon che «avevano occupato stabilmente varie importanti funzioni di potere, dopo che il democratico Bill Clinton aveva aperto loro le porte». Se qualcuno non lo avesse ancora capito, continua “Piotr”, il destino della Siria, come quello della Libia, e dei suoi innocenti abitanti,  era stato deciso sui ponti di comando degli Stati Uniti un decennio prima della “primavera araba”, che è stata una parte dell’implementazione del piano, preceduta dal famoso discorso di Obama all’Università del Cairo, «osannato anch’esso dalla sinistra in un crescente fervore di servilismo, consapevole o idiota, per l’impero». E chi avvertiva che si stava puntando al caos (tribalizzazione, al-qaidizzazione, flusso incontrollabile di rifugiati) verso uno stato conclamato di guerra mondiale, «veniva sbeffeggiato dagli intellettuali progressisti con un’arroganza che ora illumina impietosamente la loro cialtronaggine».
    Nel caos ormai è immerso tutto il Mediterraneo, a Nord come a Sud, e l’abbattimento del bombardiere russo da parte della Turchia ha portato concretamente il mondo sull’orlo della Terza Guerra Mondiale, o meglio della sua “fase conclamata”, «perché che questa guerra sia già in corso lo ha affermato anche Papa Francesco, giustamente e non a caso». Guerra che, per “Megachip”, ha una precisa data d’inizio: 11 settembre 2001. «Finora essa si è svolta come avevano “previsto” gli strateghi della Rand Corporation negli anni Novanta del secolo scorso, ovverosia mischiando supertecnologie militari con guerre di carattere tribale e premoderno». Oggi invece la Terza Guerra Mondiale è «sul punto di conclamarsi, così come si conclama una malattia infettiva dopo un periodo d’incubazione». Forse, «all’ultimo momento verranno trovati degli anticorpi», per scongiurare il peggio. Ma è impossibile evitare di vedere la realtà sotto i nostri occhi: «Mai il mondo è stato così vicino al baratro», dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
    “Megachip” si sofferma sull’improvvisa visibilità del protagonismo turco, fino a ieri rimasto sottotraccia, sostenendo che l’atto di forza di Ankara – la sfida rivolta a Putin con un’operazione di pirateria aerea – è in realtà un gesto di debolezza, che rivela paura e forse disperazione. «Perché la Turchia ha osato tanto? Sa benissimo che in caso di conflitto nucleare l’Anatolia sarebbe ridotta a un posacenere». Non potendo entrare «nella testa criminale di Erdogan», è possibile avanzare soltanto ipotesi. La prima: «L’Isis tiene in ostaggio gli ex sponsor». Uno di questi è la Francia, «che tentenna e si comporta in modo incoerente (aiuta da una parte e bombarda dall’altra)», e poi ovviamente c’è la Turchia, tramortita dall’intervento militare russo in Siria e preoccupata che l’alleato americano la abbandoni, lasciandole in eredità «l’inaccettabile Kurdistan alle frontiere». Deduzioni verosimili: «Non è impossibile che i capi dell’Isis abbiano fatto capire a Erdogan che, se non reagisce alla Russia, a Istanbul ci potrebbe essere un attacco terroristico come una Parigi al quadrato», considerato che da almeno un anno la città «pullula di jihadisti», con «chissà quante cellule pronte» tra le due rive del Bosforo.
    Seconda ipotesi: Erdogan è «disperato», perché «da una parte c’è il martello del suo mostro di Frankenstein (in condominio conflittuale coi campioni delle crocifissioni, delle decapitazioni, delle frustate e delle lapidazioni che sono a capo dell’Arabia Saudita, che di fatto, protetti da un accordo ormai cinquantennale con gli Usa, formano un Isis con seggio all’Onu)», e dall’altra c’è «l’incudine degli accordi tra Putin e Obama». Non è un caso, scrive “Megachip”, che Erdoğan abbia deciso di abbattere un aereo russo pochissimi giorni dopo il G20 di Antalya, «dove è evidente che c’è stato un ulteriore accordo tra Obama e la Russia» (non tra l’America e la Russia, «perché la Russia è compatta dietro a Putin, ma gli Usa non lo sono affatto dietro a Obama dato che altri perseguono propri piani, addirittura peggiori e più spaventosi»). È stata dunque questa “disperazione” a suggerire a Erdogan un atto di tale gravità? Formalmente, Obama ha preso le parti della Turchia. Ovvio: se l’avesse scaricata, «come avrebbe reagito il già disperato Fratello Musulmano, che sa benissimo che si è messo una polveriera sotto il culo da solo?».
    Così, Obama può ancora pensare di controllare la Turchia, almeno un po’, magari con l’aiuto dei militari non epurati da Ergogan, in attesa di capire come sbarazzarsi del leader di Ankara. Schierandosi (solo a parole) contro Putin, Obama spera di tener buoni i “falchi” neocon, evitando peraltro di sacrificare l’avamposto della Nato in Medio Oriente. Ma, se anche quello di Obama è solo teatro, la situazione resta pericolosissima. Molto peggio dello scenario da incubo della crisi di Cuba, quando Usa e Urss arrivarono a un millimetro dalla guerra nucleare. Diversamente da allora, ricorda “Megachip”, oggi c’è il rischio concreto del “first strike”, l’attacco missilistico preventivo, progettato dal Pentagono su mandato di George W. Bush. Obama ha frenato: dal 2010 è tornato «al solo uso del nucleare come deterrente ad attacchi nucleari». Ma cosa accadrà domani?
    In più, c’è da considerare che Obama – a differenza del Kennedy del 1962 – pare abbia un controllo non completo sulle sue forze armate, «vedi il generale John Allen che paracadutava le armi all’Isis invece di buttargli le bombe». Infine, negli anni ‘60 l’Occidente era in piena, travolgente espansione. Oggi è in crisi, ininterrottamente, dal 2007. E non si vede via d’uscita, da una globalizzazione forsennata e irresponsabile, che ha finanziarizzato l’economia globale e gravemente indebolito Usa ed Europa con la catastrofe occupazionale delle delocalizzazioni, prima ancora che subentrasse il colpo di grazia dell’austerity Ue indotta dal regime monetario dell’euro. C’è un rischio concreto di collasso, anche eventualmente pilotato, per sbarrare la strada all’ascesa storica della Cina. Che fare, nel nostro piccolo? «A parte sperare che i russi continuino a mantenere il sangue freddo che stanno dimostrando, non possiamo fare nulla se non rivendichiamo la neutralità dell’Italia», conclude “Piotr”. «Questo è quanto dobbiamo fare, per noi, per i nostri figli, per il mondo».

    Obama liquiderebbe volentieri Erdogan, ma intanto gongola per l’abbattimento del jet russo: non è una contraddizione, scrive “Megachip”, perché «quel che gli fa piacere e quel che gli serve sono due cose diverse». Con il suo appoggio formale alla Turchia, il presidente Usa spera di prendere diversi piccioni con una fava: «Fa il muso duro con Putin davanti a tutto il mondo, tiene agganciata la polveriera Turchia sperando che non salti in aria, non scarica brutalmente un alleato chiave nella regione (cosa che darebbe un pessimo segnale) e infine tiene a bada, o spera di tenere a bada, i neocon guerrafondai», che probabilmente hanno ispirato «l’atto di guerra irresponsabile turco». Morale: come dice Papa Francesco, la Terza Guerra Mondiale (a rate) è già iniziata. Ci stiamo scivolando dentro. E sul ponte di comando ci sono troppe mezze figure. E’ peggio che nella “crisi dei missili” di Cuba del 1962: all’epoca, Kennedy aveva il pieno controllo del suo esercito, e non era previsto nessun “first strike”, cioè il lancio non provocato di un attacco nucleare, ma solo la ritorsione nucleare. E soprattutto, «la crisi sistemica non era nemmeno iniziata», mentre oggi «sta dirigendosi velocemente verso lo showdown».

  • Chi ci porta in guerra, e perché i giornali non lo rivelano

    Scritto il 27/11/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Mille cisterne di petrolio dell’Isis, dirette in Turchia, distrutte in pochi giorni dai caccia russi. Poi l’abbattimento del Sukhoi-24, col mitragliamento di uno dei piloti mentre scendeva col paracadute. E il ministro degli esteri turco che dice al collega russo Lavrov che i militari di Ankara, quei pasticcioni, non avevano capito che l’aereo sul confine turco-siriano fosse russo. Una farsa pericolosa, su cui Obama si è limitato a dire che “la Turchia ha il diritto di difendersi”, come se il bombardiere Su-24 stesse minacciando la sicurezza turca. Conseguenze? Imprevedibili. Secondo Pepe Escobar, Mosca potrebbe chiudere i rubinetti del gas (da cui la Turchia dipende), armare segretamente i separatisti curdi dell’Anatolia e, intanto, spedire gli “Spetznaz” – i temibili reparti speciali – in missione punitiva tra le montagne dove si annidano i guerriglieri turcomanni, quelli che hanno mitragliato il paracadutista compiendo un crimine di guerra particolarmente odioso, sanzionato dalla Convenzione di Ginevra del 1977. Il “colpo alla schiena” sferrato a Putin ci spinge verso una guerra più vasta?

  • Al-Baghdadi alias Simon Elliot, sul web tra Jihad e Mossad

    Scritto il 23/11/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.
    Tuttavia, chi scrive non può dimenticare di aver girato buona parte del Medio-Oriente e, per quanto l’età d’oro di un mondo musulmano che voleva in tutto e per tutto emulare il modello di vita occidentale si sia appannato dopo l’ingiusta operazione contro Saddam Hussein (accusato di avere armi chimiche, secondo un castello di accuse costruito ad arte da Dick Cheney e Valerie Plame per giustificare l’intervento militare a sostegno dei petrolieri voluto da Bush), tuttavia è indiscutibile che la stragrande maggioranza, per non dire pressochè la totalità di coloro che vivono nei paesi del Medio Oriente, null’altro vogliono che vivere tranquilli e in pace. Cos’ha fatto dunque l’Occidente nel momento in cui la Tunisia, l’Egitto, persino lo Yemen, con i movimenti della cosiddetta Primavera Araba, hanno chiesto democrazia e libertà? Nulla, proprio nulla. Niente. Anzi, no. L’Occidente ha colto l’opportunità di operare lo sfruttamento delle risorse del Medio Oriente in modo ancora più cinico.
    E’ evidente che l’Occidente non vuole la democrazia e l’emancipazione dei popoli che intende piuttosto dominare e sfruttare. I disordini all’interno di questi paesi permettono di attuare la più classica delle politiche di sfruttamento: divide et impera. I militari presidiano i giacimenti petroliferi, l’estrazione del greggio avviene pressoché gratuitamente. Le popolazioni sono messe le une contro le altre, e si guadagna anche dalla vendita delle armi. Si saccheggiano le fortezze. Si trafugano opere d’arte. Gli eserciti regolari fanno la loro parte. Al resto ci pensano le truppe mercenarie. Eccoci al punto. Le truppe mercenarie.  Sotto il presidio di garanzia degli eserciti regolari, sono loro che fanno il lavoro sporco. Sono loro che scambiano armi per droga. Su questo genere di indagini, per esempio, sono morti Ilaria Alpi e Mauro Rostagno. Qualcuno ricorderà, spero. E non c’è bisogno di ricorrere a fonti “esotiche” o di estrema sinistra per sapere che, da quando le truppe occidentali sono stanziate in Afghanistan, la produzione di oppio è decuplicata: è “Time” a dichiararlo.
    L’establishment non fa più mistero delle sue nefandezze, le espone, con la certezza che la notizia, iperinflazionata, sarà notata solo da alcuni, senza giungere alla coscienza dell’opinione pubblica, della coscienza collettiva. Sapendo questo, risulta così sorprendente l’affermazione che Al-Qaida è stata una struttura sotto controllo Cia, i cui leader sono stati formati e addestrati proprio in questo contesto? E può sorprendere che la Cia sia sotto controllo da parte di forze occulte come la Pentalfa? E’ così impensabile che Bin Laden e Al-Baghdadi siano stati formati da questi ambienti? E, da ultimo, come attualmente circola la notizia sul web, che il sedicente califfo Al-Baghdadi non sia che un agente del Mossad, il cui vero nome è Simon Elliot? E’ tutto questo così incredibile?  Oppure, come sempre, la realtà supera la fantasia?
    Prima di chiudere questo articolo, due considerazioni vanno svolte. La prima, avvertendo che quanto qui scritto non si adagia su un facile “complottismo”. Soprattutto, nessuno pensi che qui sia espressa una posizione antisemita e anti-israeliana. Al contrario, la posizione è certamente filo-israeliana: ma a favore di quell’Israele sognato da quegli intellettuali ebrei che già all’alba del riconoscimento di Israele come Sato nazionale, opponevano a questo preteso “trionfo del sionismo” la scelta di un “sionismo spirituale”, che rifiutava di immaginare il nuovo Israele come Stato nazionale proprio a causa di quel tremendo olocausto che i nazionalismi aveva fatto subire al popolo ebraico che dunque, invece che Stato nazionale, avrebbe dovuto essere un protettorato internazionale, sede ospitante di quel che avrebbe dovuto essere “un popolo di sacerdoti”, “luce per le nazioni”.  Naturalmente, questa idea venne respinta dalla maggioranza.
    La seconda, che rattrista ancor più, è data dal fatto che il ventre molle del capitalismo imperialista si nutre sempre di più di giovani ignari delle conseguenze di quel che fanno, ragazzi come quelli che hanno commesso questi attentati non sono nemmeno consapevoli del fatto che stanno servendo interessi completamente lontani e distanti dai loro e da quelli del loro popolo che, anzi, proprio per quel che hanno fatto, subiranno nuove vessazioni. Il sistema dei siti web per adescare i cosiddetti “jihadisti” è controllato dalla propaganda militare dei servizi segreti occidentali, e si nutrono di loro, a loro insaputa. A noi restano leggi liberticide e l’ipocrisia della politica, che distilla l’odio tra le religioni e la divisione tra i popoli. Ad onta delle anime nobili che continuano a sognare il dialogo tra i popoli, l’educazione e l’istruzione universale come accesso alla vita spirituale di tutti e di ciascuno. Svegliamoci, è tempo.
    (Davide Crimi, “Occidente, petrolio, dominio, propaganda e altri inganni”, dal blog del “Movimento Roosevelt” del 21 novembre 2015).

    La tragedia di Parigi rappresenta un fatto di eccezionale gravità, perché ha coinvolto persone totalmente estranee ad ogni ideologizzazione e sorprese in un momento di vita quotidiana. Le vittime sacrificali di questo eccidio sommuovono la coscienza, la mettono in subbuglio, perché si tratta di qualcosa che la nostra ragione ci fa comprendere è accaduto in casa nostra. Non segue a questo pensiero una considerazione “buonista”, che aggravi la coscienza con il senso di colpa del non saper avvertire lo stesso dolore per quel che ogni giorno accade in Siria. Sarà eticamente importante, ma non è questo il punto che trasforma un sentimento in un pensiero politico. La soglia di trasformazione è data dal pensiero: cui prodest? a chi serve? chi ne trae vantaggio? E’ possibile trascurare il fatto che gli autori dell’attentato, di quest’ultimo del 13 novembre come di quello alla redazione di Charlie Hebdo del 7 gennaio sono stati realizzati da musulmani di seconda generazione, residenti in Francia e in Belgio. E’ del tutto inopportuno trarre facili conseguenze o proporre semplificazioni inadeguate.

  • Chi pilota l’Isis ha il terrore che smettiamo di avere paura

    Scritto il 21/11/15 • nella Categoria: idee • (10)

    «Non c’è un solo governo, al mondo, che non sia controllato da quei poteri»: per Fausto Carotenuto, già analista strategico-militare dei servizi segreti, è deprimente assistere alla farsa dei media mainstream, che si affannano a presentare “la mente”, “il basista” e “l’ottavo uomo” della strage di Parigi, come se si trattasse delle indagini per una normale rapina alle Poste. In compenso, su voci alternative come “Border Nights”, può capitare di avere – in appena un paio d’ore, grazie a semplici collegamenti Skype – informazioni e analisi di altissima qualità, capaci di superare centinaia di ore di infotainment e chilometri di carta stampata. E’ accaduto anche martedì 17 novembre, a quattro giorni dalla mattanza: ospiti della trasmissione, oltre a Carotenuto, un indagatore come Paolo Franceschetti (delitti rituali, Rosa Rossa, Mostro di Firenze), il regista Massimo Mazzucco (11 Settembre), Gioele Magaldi (“Massoni, società a responsabilità illimitata”) e un secondo massone, Gianfranco Carpeoro, esperto di codici simbolici: «Scordatevi qualsiasi altra pista, quello di Parigi è stato un attentato progettato da menti massoniche o para-massoniche e destinato innanzitutto ad altri massoni, i soli in grado di cogliere immediatamente il significato di quella data, 13 novembre».
    Non un giorno a caso, ma quello in cui – spiega Carpeoro – nel lontano 1307 un gruppo di Templari riuscì a lasciare Parigi sfuggendo alle persecuzioni ordinate da Filippo il Bello: quei Templari riapararono in Scozia, dove si unirono a logge massoniche, all’epoca ancora “operative”, professionali (dedite cioè alla costruzione di cattedrali) per poi dar vita, in seguito, alla massoneria moderna. Già avvocato, pubblicitario e scrittore, eminente studioso di linguaggio simbolico nonché ex “sovrano gran maestro” della massoneria italiana di rito scozzese, Carpeoro ha aderito al “Movimento Roosevelt” fondato da Magaldi per contribuire al “risveglio” della politica italiana in chiave anti-oligarchica. Su Parigi la pensa come Carotenuto e lo stesso Magaldi: è semplicemente impossibile, sul piano tecnico, che i commando di jihadisti in azione nella capitale francese abbiano potuto agire da soli, senza la copertura decisiva di settori “infedeli” delle forze di sicurezza. In più, Carpeoro ravvisa la possibile applicazione del modulo standard concepito dalla Cia per attuare la strategia della tensione, basato su tre direttrici simultanee: due attentati strategici (uno principale, l’altro di riserva) e un terzo obiettivo, tattico-diversivo, per sviare la polizia e centrare più facilmente il “bersaglio grosso”.
    Secondo questo copione, sistematicamente attuato, il presidente Hollande potrebbe esser stato addirittura all’oscuro del complotto, sostiene Carpeoro: probabilmente il “bersaglio grosso” doveva essere lui, insieme agli altri spettatori allo stadio. «Poteva essere una strage ben peggiore, con persone uccise dall’esplosivo e altre dal caos scatenato dal panico, sugli spalti. Ma qualcosa è andato storto, perché qualcuno ha intercettato i kamikaze fuori dallo stadio. Solo a qual punto, quindi, i terroristi potrebbero aver ricevuto l’ordine di sterminare il pubblico del teatro Bataclan. Le sparatorie nel centro di Parigi? Solo un diversivo per distogliere le forze di polizia, ignare dell’operazione in corso». Obiettivo comunque raggiunto grazie al Piano-B, la strage nel teatro: terrore diffuso, insicurezza, bisogno di protezione e quindi maggiore disponibilità ad accettare strette repressive e persino la prospettiva della guerra. Retroscena: «Bisogna capire con chi parlò Hollande nei giorni precedenti, tenendo conto che negli ultimi anni, si veda la Libia ma non solo, è stata sempre la Francia a dare il via ai grandi sconvolgimenti geopolitici». Qualcuno potrebbe aver proposto a Hollande di aprire le danze anche stavolta (un mese fa, il capo dell’Eliseo annunciò di voler bombardare l’Isis in Siria), in cambio di un allentamento della stretta di Bruxelles sulla finanza pubblica francese.
    Non a caso, il governo di Parigi ha risposto all’attentato con massicci blitz dell’aviazione in Siria accanto alla Russia, e ha annunciato che per questo motivo la Francia sforerà il tetto europeo per la spesa pubblica. Se Magaldi ricorda quanto già rivelato un anno fa nel suo libro esplosivo – il ruolo della superloggia segreta “Hathor Pentalpha” dietro alla strategia della tensione (internazionale) avviata con l’11 Settembre – un ex stratega dell’intelligence come Carotenuto, ora impegnato sul fronte opposto anche attraverso il network “Coscienze in rete”, non usa giri di parole: «Per distruggere l’Isis in tre settimane non serve neppure una bomba, basta chiudere i rubinetti: bloccare via terra, cielo e mare i rifornimenti che l’Isis riceve ogni giorno, come le centinaia di Tir che varcano regolarmente il confine turco». Finora si è lasciato fare? Inutile stupirsene: «Non esiste terrorismo, e nemmeno strapotere mafioso, senza una protezione diretta da parte dei vertici. Come dimostra la storia delle Br, a lungo “imprendibili” e poi liquidate, lo Stato è infinitamente più forte di qualsiasi avversario di quel genere: se gli attentati hanno successo, è solo perché qualcuno, dall’interno, ha collaborato coi terroristi».
    L’ultima cosa che manca, oggi, è la manovalanza: «Non si può pensare che milioni di persone si rassegnino ad avere fame per sempre», dice ancora Carpeoro: «Questo sistema economico, radicalmente ingiusto, alla lunga non può che produrre rivoluzioni». Proprio per questo, dice ancora l’ex “sovrano gran maestro” della massoneria non-allineata di Palazzo Vitelleschi, gli elementi più lucidi della super-massoneria interazionale anglosassone hanno iniziato a opporsi all’élite oligarchica. Magaldi conferma: proprio a loro, oltre che all’opinione pubblica europea, è rivolto il terrorismo di Parigi, concepito come monito nei confronti dell’élite democratica, «in fase di riorganizzazione dopo decenni di dominio da parte dell’ala neo-aristocratica e reazionaria del massimo potere». Proprio quei poteri, chiosa Carotenuto, hanno operato ininterrottamente nella medesima direzione, la guerra, a partire dall’11 Settembre: Iraq e Afghanistan, Somalia, Yemen, poi le «finte primavere arabe» che hanno destabilizzato paesi come Egitto e Tunisia, fino alla doppia carneficina della Libia e della Siria. «Identico l’obiettivo: creare il caos, e in quel caos fra crescere la manovalanza del terrore, ieri Al-Qaeda e oggi Isis». Movente: «Solo in condizioni di evidente emergenza l’opinione pubblica occidentale più accettare la guerra e, entro i propri confini, decisive restrizioni della libertà che consegnano ancora più potere ai soggetti dominanti».
    Per Carpeoro, dietro a tutto questo non c’è neppure una grande visione, sia pure distorta: «C’è solo brama di potere, di dominio: se il 50% dell’energia di cui ho bisogno proviene da uno di quei paesi, non posso tollerare che vi si instauri una democrazia», in grado di insediare un governo che cambi le carte in tavola e pretenda diritti. Forse, sotto questo aspetto, la strage di Parigi – che è un’esibizione minacciosa – può essere anche un segnale di debolezza: gli egemoni ricorrono alla legge della paura perché temono di perdere terreno? Per Carotenuto, non è neppure questione di geopolitica o banche: «Al-Qaeda e l’Isis sono soltanto strumenti. Il vero obiettivo è dominare la nostra mente, condizionandola in eterno per renderci inoffensivi e rassegnati». Guai a dare la caccia ai fantasmi, insiste Carpeoro: si rischia solo di credere alla fiaba dell’Uomo Nero, proprio come vorrebbero gli egemoni. «Il potere è uno schema», non una piramide: «Puoi abbattere il vertice, e il giorno dopo i peggiori leader sono sostituiti con altri, identici. Il problema siamo noi, che accettiamo un sistema senza valori, che prevede che qualcuno stia meglio se altri stanno peggio: dobbiamo svegliarci, rifiutare questo tipo di società». E’ possibile che il “risveglio” sia già partito, ai piani alti? Lo spaventoso massacro di Parigi ne sarebbe una conferma: l’élite stragista comincia ad avere paura, al punto da scatenare l’orrore in mondovisione?

    «Non c’è un solo governo, al mondo, che non sia controllato da quei poteri»: per Fausto Carotenuto, già analista strategico-militare dei servizi segreti, è deprimente assistere alla farsa dei media mainstream, che si affannano a presentare “la mente”, “il basista” e “l’ottavo uomo” della strage di Parigi, come se si trattasse delle indagini per una normale rapina alle Poste. In compenso, su voci alternative come “Border Nights”, può capitare di avere – in appena un paio d’ore, grazie a semplici collegamenti Skype – informazioni e analisi di altissima qualità, capaci di superare centinaia di ore di infotainment e chilometri di carta stampata. E’ accaduto anche martedì 17 novembre, a quattro giorni dalla mattanza: ospiti della trasmissione, oltre a Carotenuto, un indagatore come Paolo Franceschetti (delitti rituali, Rosa Rossa, Mostro di Firenze), il regista Massimo Mazzucco (11 Settembre), Gioele Magaldi (“Massoni, società a responsabilità illimitata”) e un secondo massone, Gianfranco Carpeoro, esperto di codici simbolici: «Scordatevi qualsiasi altra pista, quello di Parigi è stato un attentato progettato da menti massoniche o para-massoniche e destinato innanzitutto ad altri massoni, i soli in grado di cogliere immediatamente il significato di quella data, 13 novembre».

  • Barnard: il futuro è l’agri-business, e la mafia salverà l’Italia

    Scritto il 25/9/15 • nella Categoria: idee • (6)

    Il celeberrimo economista del ‘700 Adam Smith (che tutti hanno travisato oggi) si trovò di fronte a una scelta di realismo: doveva scegliere fra un male abominevole, e cioè il dominio assoluto di Re e nobili parassiti, autoritari, succhiasangue di tutti senza far nulla, e un male assai minore, cioè il Libero Mercato nascente all’epoca della nuova borghesia commerciale. Fu REALISTA realista. Non era certo una “bella anima”’ deficiente come quelle che qui oggi predicano peace&love fuori dal capitalismo senza capire un cazzo della realtà. Adam Smith sapeva che la scelta era quella, e realisticamente scelse il Libero Mercato solo perché gli altri erano troppo orribili da contemplare. Oggi siamo allo stesso punto. Piacerebbe avere il mondo della giustizia e delle violette, ma non ci è concesso. La scelta oggi è di nuovo fra il Neofeudalesimo orripilante della politica tecnocratica europea, fra le Mafie pressoché medievali che abbiamo, e la più moderabile realtà del Mercato. Qui per ora dobbiamo scegliere. Per ora. Chi mi conosce sa il curriculum che ho. Gli altri pazienza.
    A questo punto dell’apocalisse in Eurozona, quando siamo alla fase forse più terribile del progetto di Friedrich Von Hayek (1899-1992) di distruzione di 250 anni di costruzioni democratiche, progetto pienamente avviato dalle tecnocrazie europee (fra cui quelle italiane di Andreatta, Padoa Schioppa, D’Alema, Bersani, De Benedetti, Prodi, Renzi ecc.), ho in mente quella che è l’unica via d’uscita. Ho in mente qualcosa un secolo avanti. Siamo quindi rimasti fra noi, le persone. Io, con mia madre cieca e 91enne che ha un badante che le succhia (meritevolmente) più di mezza pensione, e sempre io che devo vivere con mia madre con l’altra mezza pensione. Tu che lavori per una miseria, tu che sei un ‘flessibile’, tu che dopo la laurea hai nulla, tu che hai avuto il tuo primo contratto indeterminato a 50 anni, tu che sei cassintegrato, tu che bestemmi come regola ogni giorno, tu pensionato esodato indebitato, voi gente vera. Stiamo con l’Italia della disoccupazione fuori controllo che passa scoreggiando davanti al Job Act di Renzi (meno di 130.000 posti di lavoro creati dal fiorentino, con 285.000 posti persi solo per il sì del fiorentino alle sanzioni alla Russia, poi il resto della débacle).
    Stiamo con le Piccole Medie Imprese i cui marchi se li stanno comprando per spiccioli i cinesi e russi e tedeschi, a causa del deprezzamento indotto dall’Eurozona sui paesi del Sud Europa, a un ritmo di 350 marchi di prestigio che perdiamo all’anno. Stiamo col fatto che oggi un laureato in giurisprudenza o medicina se non emigra va a lavorare nei pub, anche con famiglia che appoggia. Ok. Sono anni che listo i disastri italiani. Soluzione via d’uscita di Realismo N.1, prima di arrivare alle Mafie: A) Tornare alla Lira, cioè alla moneta sovrana, e applicare le politiche economiche chiamate Mosler Economics. Le potete leggere QUI APPIENO qui appieno. Cosa significano in soldoni? Significano una cosa importantissima fra le tante benefiche per l’Italia, e leggete: “Che l’Italia torna ad avere la sovranità di emettere la propria moneta senza limiti, come fanno Usa e Giappone e Inghilterra. Quindi i mercati sapranno che qualsiasi cosa investano sullo Stato italiano, questo Stato in possesso di moneta sovrana emessa senza limiti sarà sempre in grado di ripagarla in pieno e puntuale. La famosa “ability to pay”, cioè capacità di pagare sempre, che è l’unica cosa che interessa i mercati”.
    “Oggi non l’abbiamo perché usiamo l’euro, che è moneta non italiana e che dobbiamo prensdere in prestito dalla Bce per pagare i mercati, che per questo motivo diffidano di noi. Ripresa la moneta sovrana in Italia, i mercati tornerano a investire a man bassa sull’Italia ricca (perché lo siamo), sull’Italia sicura nei ripagamenti, e sull’Italia con la piccola media impresa migliore del mondo”. I Mercati sono amorali, sono liberi, vanno dove si sentono sicuri, e se saranno sicuri della ABILITY TO PAY ability to pay dell’Italia con moneta sovrana illimitata, noi li avremo in massa a investire su questo paese geniale che ha saputo passare dalle rovine a livello kosovaro della II Guerra Mondiale alla 5a potenza del mondo in soli 35 anni. I Mercati questo lo sanno, sanno di che fibra siamo fatti, sanno che un tintore di pelli di Reggio Emilia sa battere la concorrenza di tutto il pianeta e diventare un mostro multimiliardario per Ferré, Dolce & Gabbana, Gucci e Krizia. Lo sanno i Mercati di che pasta siamo fatti sul lavoro, e da noi verranno in massa. Sui nostri titoli di Stato investiranno tranquilli (facendoci crollare i tassi d’interesse che Roma paga su di essi), ma, ripeto, solo se avremo quella “ability to pay” che viene dall’essere sovrani nella moneta come Usa, Gb e Giappone.
    E qui siamo alle Mafie. Salveranno il Sud Italia. Ora, voi, fermi. Quanto guadagnano in stime approssimative le 3 maggiori Mafie italiane all’anno, assommate? Le stime ci dicono circa 100 miliardi di dollari lordi (il riciclaggio gliene mangia enormi fette, quindi il netto è molto meno). Ora attenzione: quanto guadagna una singola megabanca d’investimento, UNA SINGOLA una singola, all’anno lordi? Prendiamo Jp Morgan di Ny: sono 101 miliardi di dollari nel 2014. E questa è una singola banca d’investimento, UNA SOLA una sola, che guadagna poco più delle tre maggiori Mafie del mondo. Quante megabanche esistono nel mondo e quanto guadagnano, quindi? Mafie, fatevi una pippa. Quando le Mafie si sbarazzeranno, e ACCADRA’ e accadrà, dei pecorari cervelli di culo di cane che ancora le dominano, capiranno che il loro futuro di ricchezza sta nel mega-banking in Sud Italia. Le Mafie lasceranno perdere gli investimenti puzzoni in puttane, armi, droga, racket, pizzi, omicidi, ed edificheranno le Istituzioni Finanziarie più avanzate del Sud Mediterraneo. Perché?
    Perché siamo in attesa del BOOOOM boooom, e lo scrivo appositamente così, della più grande industria planetaria del futuro: l’AGRIBUSINESS agribusiness per il cibo, in sviluppo nell’Africa sub-sahariana. E chi si trova in Occidente ma vicino a quell’Africa? Questo dovete CAPIRLO, CAPIRLO capirlo, capirlo!! Cristo: il Sud Italia è posizionato come nessuna terra al mondo all’incrocio dei traffici più lucrosi dei prossimi 500 anni, quelli del…. CIBO cibo! No, non è il petrolio che manca. Non è il cobalto. Non sono cotone e computer. E’… IL CIBO il cibo. In Africa, la Cina, i Sauditi, la Korea e altri stanno comprando appezzamenti da dedicare all’Agribusiness con altissime tecnologie che sono grandi come mezza Francia o come l’intero Belgio. E mica sono scemi. E’ il cibo che scarseggia al mondo, e questa scarsità diverrà insostenibile quando 1 miliardo e 400 milioni di cinesi, quasi 1 miliardo d’indiani, poi i brasiliani e indonesiani ecc. arriveranno alla classe media. Sarà allora che l’Agribusiness per cibo spazzerà via qualsiasi concorrente in affari.
    E chi, ditemi chi, avrebbe la capacità di smistare gli affari richiesti da Cina, India, Brasile, Indonesia, come super-banche a pochi chilometri dal Sudan, dalla Tunisia, dall’Egitto? IL SUD ITALIA! Il Sud Italia! Le Mafie abbandoneranno la criminalità miserabile, apriranno super-banche e ci porteranno miliardi in parcelle, investimenti e intermediazioni sull’Agribusiness africano, e molto altro in finanza. Fine famiglie di puzzoni psicopatici di Napoli, Sorrento, Catania, Palermo, Reggio, trogloditi taglieggiatori & puttanieri, fine riciclaggio di rifiuti tossici o armi, fine di un’epoca. Ora, realismo. Adam Smith vienici in aiuto. Non è il mondo peace&love di John Lennon. Ma è di certo un mondo assai migliore di quello di oggi. Cosa avremo?
    Di fatto avremo due cose: LA SOVRANITA’ POLITICA ED ECONOMICA DEL LEGISLATORE ITALIANO. E LE EX-MAFIE DIVENUTE COLLETTI BIANCHI NEI GRATTACIELI DI POZZUOLI O MESSINA A FAR AFFARI SOTTO I REGOLATORI PARLAMENTARI, COME A WALL STREET. La sovranità politica ed economica del legislatore italiano. E le ex-Mafie divenute colletti bianchi nei grattacieli di Pozzuoli o Messina a far affari sotto i regolatori parlamentari, come a Wall Street. Non c’è paragone con lo sfacelo italiano di oggi. Non esiste paragone. Poi da lì i nostri figli ripartiranno con un’altra battaglia, quella che oggi si combatte in Usa: come portare i secondi pienamente sotto il controllo dei primi per l’Interesse Pubblico. Ma questa è un’altra storia. Realismo: inutile sognare. Già oggi ci leccheremmo i baffi se avessimo uno Stato pienamente sovrano e benestante, e non più le 3 maggiori Mafie di assassini pecorari ricatta-vedove spacciatori trafficanti in droga e armi e puttanieri internazionali. Ecco tutto. Ecco come potrebbe accadere. Realisticamente.
    (Paolo Barnard, “Ci salveranno i Mercati e le Mafie, per ora. Grazie, Adam Smith”, dal blog di Barnard del 13 settembre 2015).

    Il celeberrimo economista del ‘700 Adam Smith (che tutti hanno travisato oggi) si trovò di fronte a una scelta di realismo: doveva scegliere fra un male abominevole, e cioè il dominio assoluto di Re e nobili parassiti, autoritari, succhiasangue di tutti senza far nulla, e un male assai minore, cioè il Libero Mercato nascente all’epoca della nuova borghesia commerciale. Fu realista. Non era certo una “bella anima”’ deficiente come quelle che qui oggi predicano peace&love fuori dal capitalismo senza capire un cazzo della realtà. Adam Smith sapeva che la scelta era quella, e realisticamente scelse il Libero Mercato solo perché gli altri erano troppo orribili da contemplare. Oggi siamo allo stesso punto. Piacerebbe avere il mondo della giustizia e delle violette, ma non ci è concesso. La scelta oggi è di nuovo fra il Neofeudalesimo orripilante della politica tecnocratica europea, fra le Mafie pressoché medievali che abbiamo, e la più moderabile realtà del Mercato. Qui per ora dobbiamo scegliere. Per ora. Chi mi conosce sa il curriculum che ho. Gli altri pazienza.

  • Migranti, il Pentagono: 20 anni di crisi, per piegare l’Europa

    Scritto il 08/9/15 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».
    Son cazzi amari, come si direbbe senza troppi complimenti nei bar di periferia… Il richiamo a Sarajevo fa tremare i polsi, preoccupa un Pentagono che scalpita e la Nato che si mette “in marcia”. Contro chi? Non è che, per caso, si agirà militarmente contro Assad, in Siria, e il cielo non voglia, contro Putin in Europa? Fra l’altro, l’esternante generale d’alto rango Martin Dempsey, ha partecipato al “fiasco” statunitense in Iraq, durante la seconda guerra americana del Golfo che, guarda caso, ha “dato i natali” all’organizzazione criminale dello stato islamico, anche se allora non si chiamava così. In ogni caso, saranno venti lunghi anni di guerre, di ondate di profughi, di stermini di massa e di crisi economica indotta. Vent’anni con la disoccupazione galoppante in casa e lo Stato islamosunnita alle porte, se non scoppia prima un conflitto nucleare con la Russia, tanto desiderato dagli americani e dalle loro comparse masochiste nell’est europeo, come l’Ucraina euronazista e i baltici anti-russi.
    Vent’anni di annegamenti in massa nel mare e colonne di disperati che cercheranno di raggiungere, attraverso il sud dell’Europa e i Balcani, la spocchiosa Germania arricchitasi grazie all’euro, ai trattati e al saccheggio dell’Europa meridionale. Vent’anni di stragi di innocenti, di distruzione delle infrastrutture e del patrimonio storico in Medio Oriente e in Africa settentrionale, per opera degli assassini islamosunniti molto utili al Pentagono, molto efficienti nel seminare morte e distruzione, molto abili nel generare nuove ondate di profughi. Sono certo che fin dai prossimi mesi potremo osservare il “fronte del conflitto” che si avvicinerà pericolosamente a noi, a causa di un’avanzata islamista che non si arresta, dalla Siria alla Libia. Tunisia e Algeria saranno a rischio… e l’Italia meridionale e insulare? E’ proprio quello che vogliono i signori del denaro e della finanza, che controllano anche il Pentagono, ed è proprio per questo che la “coalizione internazionale” a guida americana non interviene con decisione contro i macellai della sunnah. Qualche bomba su edifici vuoti e qualche drone bastano e avanzano.
    L’Europa deve esser messa alle strette per cedere definitivamente sovranità e risorse a loro beneficio. I vertici dell’alleanza atlantica e il Pentagono, in situazioni di guerra, la faranno da padroni. A quel punto, tutto sarà chiaro, e persino i Renzi, gli Hollande e gli Tsipras non serviranno più, a Lor Signori, perché saranno le armi, e chi le controlla (cioè loro stessi), a dettar legge ai popoli. Se scoppierà un conflitto nucleare con la Federazione Russa, dopo tutte le provocazioni orchestrate per arrivare a questo limite, loro s’illuderanno di vincerlo per il controllo dell’intero continente europeo – o di ciò che ne rimarrà in piedi – fino al ventiduesimo secolo. Destabilizzeranno nei prossimi mesi anche un importante Stato-canaglia, la Turchia islamista di Erdogan, che non ha più governo stabile e se ne va verso le elezioni d’autunno, fra attentati e attacchi ai curdi?
    E’ possibile che lo sacrificheranno cinicamente, per calcolo strategico, generando altre, spaventose ondate di profughi che avranno come unica e sola meta l’Europa. Inoltre, se non hanno mostrato scrupoli a scatenare il satanismo sunnita contro le popolazioni di Siria, Iraq e Libia, causando centinaia di migliaia di morti e più di dieci milioni di profughi, avranno qualche remora a spalancare davanti a noi le porte dell’inferno, per poi “salvarci” e dominarci a piacimento? Chiedetevelo, anche se non potete far nulla e vi sentite impotenti davanti a una dura realtà, perché questa crisi durerà venti anni. Lo dice il Pentagono, che se ne intende…
    (Eugenio Orso, “Hanno deciso che la crisi durerà vent’anni”, dal blog “Pauper Class” del 4 settembre 2015).

    Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».

  • “Migranti parassiti, peccato ne crepino ancora troppo pochi”

    Scritto il 22/4/15 • nella Categoria: segnalazioni • (113)

    Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi e cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.
    «Non mi interessa se affondano, basta che non entrino», scrive Marco. «Sempre troppo pochi», sintetizza Giorgio. Crepino pure in fondo al mare, non sono che «700 terroristi in pastura», ovvero «pappa per gli squali», «mangime per i pesci», chiariscono Lorenzo, Giulio e Sergio. «Peccato… così pochi», scrive Silvia. «Peccato che ci sono dei superstiti», dice Moreno. In fondo, sono «700 parassiti in meno da mantenere», aggiunge Franco: «Affondasse anche il Parlamento con tutto il governo e avremmo fatto bingo». Più ne muoiono e meglio è, sostiene Luca. Che aggiunge: «Questi crepano e io bevo felicemente un costoso vino per festeggiare. Olè!». Maria si preoccupa della religione dei migranti annegati: «Speriamo siano tutti musulmani». E comunque, chiosa Claudio: «Pochi, sempre troppo pochi». Che dire, di fronte a questo? «In un mondo più giusto – scrive Martini, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – queste persone andrebbero messe su un apposito barcone e lasciate alla deriva. Nel mondo in cui realmente viviamo, queste persone votano. Ed è proprio questa la ragione principale dell’impossibilità di risolvere il problema dell’immigrazione». L’apartheid, il segregazionismo Usa e i vari fascismi conobbero un sostegno di massa: «Così è anche per la mattanza dei migranti africani».
    Per risolvere il problema, avverte Martini, ci sono due vie, alternative tra loro. La prima è quella del blocco navale, «naturalmente sponsorizzata dai Nazisti dell’Illinois, ma anche da Renzi, il quale, ricordiamolo, è responsabile del passaggio da “Mare Nostrum” a “Triton”, ovvero del taglio dei due terzi delle risorse destinate al soccorso in mare dei migranti». Questa proposta, ovviamente, «non può aver alcun riflesso pratico finché non si è disposti a sparare sulle imbarcazioni dei migranti, per la banale ragione che quelli non si fermano». Occorrerebbe pertanto un pattugliamento costante (e costoso) delle coste libiche e tunisine, composto da unità pronte ad annientare le imbarcazioni che tentano di forzare il blocco. «Al decimo affondamento è presumibile che i migranti si scoraggino, e che smettano di tentare la fortuna sui barconi». Naturalmente, aggiunge Martini, questa via è del tutto impercorribile: «Nessun politico, militare o funzionario si assumerebbe mai la responsabilità di simili crimini contro l’umanità. Tali crimini sono però l’elemento che darebbe effettività al blocco navale. In ultima analisi, non ci sarà alcun blocco navale: chi ve ne parla spacciandolo per soluzione è un cialtrone e/o un ipocrita».
    L’altra soluzione è quella di approntare una linea di traghetti tra le coste libiche e un qualche porto siciliano. Questa proposta, «assai meno paradossale di quel che appare», è stata avanzata da alcuni studiosi seri del fenomeno, e implicherebbe numerosi vantaggi: impedirebbe le stragi, stroncherebbe le organizzazioni criminali (i migranti pagherebbero alla linea di traghetti il biglietto che ora pagano agli scafisti), farebbe risparmiare fior di quattrini alla marina militare, e permetterebbe un controllo preventivo, anche sotto il profilo sanitario, delle persone che intendono migrare in Italia. «In una battuta: se la Tirrenia avesse cominciato a fare questo tipo di operazioni dieci anni fa, oggi non avrebbe i conti in rosso, e si sarebbero salvate molte migliaia di vite umane». Questa soluzione, tuttavia, implica altre iniziative, di notevolissima portata. L’afflusso di immigrati andrebbe regolato, gestito, organizzato. Al netto dei richiedenti asilo, andrebbe preparato un programma di avviamento al lavoro, vincolato al buon comportamento del soggetto e dotato di un termine: ad esempio, si potrebbe prevedere di concedere all’immigrato una permanenza, e un impiego, della durata di 5 o 10 anni. Si tratterebbe pertanto di un programma di lavoro garantito. Il programma, tuttavia, non potrebbe includere solo gli immigrati, ma anche i cittadini italiani, pena un’intollerabile disparità di trattamento.
    Anche così facendo, comunque, occorrerebbe cercare di limitare i numeri degli arrivi. «Per farlo, sarebbe necessario prendere sul serio il leit-motiv di tutti gli xenofobi, aiutare gli stranieri a casa loro». Ma cosa può significare questa espressione? «Se vogliamo darvi un senso – scrive Martini – gli Stati europei dovrebbero investire alcune decine di miliardi di euro l’anno nell’indutrializzazione (possibilmente compatibile con l’ecosistema) dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Gli impieghi sarebbero innumerevoli: dall’introduzione di metodi moderni e meccanizzati per l’irrigazione dei suoli, all’introduzione di reti di servizi efficienti negli agglomerati urbani, all’installazione di centrali di produzione di energia rinnovabile (si pensi al solare); il tutto realizzabile da una forza lavoro retribuibile in misura trascurabile (per gli standard occidentali, non per quelli sub-sahariani: si pensi a stipendi da 100 euro al mese in Mali)». Come è evidente, le soluzioni sarebbero molteplici, ma «il problema è che non sono praticabili». Chi mai potrebbe varare un piano così giusto e intelligente?
    «La Lega Nord, e tutti i partiti consimili, sarebbero favorevoli a che l’Europa investisse alcuni decimali del suo Pil nei paesi da cui provengono gli immigrati? La risposta è prevedibile: un rotondo no. “Aiutarli a casa loro” va bene come slogan per evitare di affrontare il problema, non come soluzione pratica». La verità, conclude Martini, è che possiamo inventarci tutte le soluzioni più variopinte, ma «verranno tutte invariabilmente affondate dal feroce egoismo dei commentatori di cui sopra, che sono massa elettorale per soddisfare la quale si prodigano Salvini e Renzi, Berlusconi e Grillo (e Sarkozy, Merkel, Farage, Le Pen, Cameron, Rutte)». Non è una questione che si possa «pensare di affrontare gratis, senza concedere qualcosa, senza fare alcun sacrificio (ampiamente ripagato nel lungo termine)». Impossibile risolvere nulla, senza «mettere tra le premesse del problema la necessità di rispettare la dignità dei migranti, anche a costo di togliervi il principio della conservazione del quattrino con ogni mezzo». E quindi tanti saluti e arrivederci, «al prossimo affondamento».

    Laura: «Sai a che punto mi hanno portato questo governo, l’invasione e lo schifo di gente che arriva? Che quando sento notizie come 700 morti penso: meno male, 700 delinquenti parassiti in meno. Esasperazione ai limiti». E Diego: «Stiamo a pensare a 700 migranti che affogano in mare quando ci sono 50 milioni di italiani che affogano nella merda. Coglioni!». Chiosa Salvatore: «Sempre troppo pochi, spiace dirlo, ma si stessero in Africa a coltivarsi la terra così evitano di crepare annegati, ed evitassero di sfornare a livello industriale tutti ’sti marmocchi a cui non sono in grado di dare un tozzo di pane! Questa gente invece non vuole cambiare le brutte abitudini di vita. Noi con Salvini». A esprimersi così sono italiani, per lo più giovani: quello che “Mazzetta” ha messo insieme, esplorando Twitter, è «un campionario dei commenti più disgustosi alla grande carneficina del Canale di Sicilia», scrive Claudio Martini. Una catastrofe morale e sociale che rivela il vero motivo per cui, semplicemente, lo spettacolo della carneficina non avrà fine: sui migranti si scarica la paura della crisi, senza pietà. E nessun politico oserà cercare vere soluzioni.

  • La vera storia della fine di Craxi e l’euro-rovina dell’Italia

    Scritto il 27/2/15 • nella Categoria: segnalazioni • (28)

    L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.
    Tutto questo costo dove viene trasferito? Nel finanziamento illecito. Che invece di essere un fenomeno sopportabile perché residuale al grosso del finanziamento della politica, diventa un dramma, perché tutto costa il triplo. E come reagisce il sistema italiano a tutto questo? Non reagendo. Cioè, invece di capire che deve correre ai ripari, si fa cogliere di sorpresa. Da che cosa? Da una casta, che era stata toccata nei suoi interessi, e reagiva: era la casta dei magistrati. Dopo il caso Tortora, e dopo aver cercato più volte di prendere il sopravvento sulla politica – ma non ci riusciva, perché allora c’erano delle garanzie come l’immuità parlamentare, dei limiti al suo potere – i magistrati sferrano l’attacco di Tangentopoli avendo diversi obiettivi. Il primo, la reazione di casta al referendum che Craxi gli aveva fatto, sulla responsabilità dei magistrati – referendum vinto ma non eseguito, perché in quel rederendum si aboliva il fatto che i magistrati non rispondessero nei loro errori. E i magistrati allora hanno preteso, tramite i due maggiori partiti e mettendo in minoranza Craxi, che invece, pur riconosciuti responsabili dei loro errori, non li pagassero – né sul piano della carriera, né sul piano economico.
    L’attacco sferrato con Tangentopoli aveva un primo obiettivo: far cadere l’immunità parlamentare, che aveva sempre frenato l’attacco della magistratura. Bisognava poterli arrestare, i politici. Bisognava poter adoperare la carcerazione preventiva, in quella maniera, per poi stabilire il predominio, l’abuso. La carcerazione preventiva (obbligatoria per reati come omicidio e rapina) è prevista se c’è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Viceversa, la carcerazione preventiva non si può applicare, perché “nulla pena sine condanna”, niente pena senza prima una condanna, non del pubblico ministero ma del giudice. Pensate che nel 1994 la Cassazione, per salvare tre mandati di cattura assolutamente illegittimi di Di Pietro, fece una sentenza di questo tipo, a sezioni unite: la custodia cautelare è sempre giustificata se l’imputato non confessa. E’ come il famoso comma 22 del codice militare tedesco nazista, che diceva: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dal servizio militare, ma chi chiede di essere esentato non è pazzo. E’ la legge perfetta, perché il cerchio si deve chiudere.
    La custodia cautelare sempre giustificata se l’imputato non confessa? Di fronte a una sentenza di questo tipo, uno si deve chiedere qual è l’utilità del processo. In Italia, la custodia cautelare viene adoperata per scopi istruttori o per anticipare la pena. Ormai, il reato del politico che ruba è diventato odioso, agli italiani. Tant’è vero che gli italiani, da decenni, accettano dei politici incapaci, purché non rubino. Pensate a quanto stareste meglio se aveste dei politici capaci, che rubano. Il problema di uno che fa un lavoro è che sia bravo, non che sia onesto. Onesto è una conseguenza dell’essere bravo. Scipione l’Africano fu condannato per corruzione. In ogni posto del mondo vedo politici che vanno sotto processo: è giusto che vengano condannati, è giusto che vadano in galera. Quello che non è giusto è che vengano utilizzati dalla comunicazione per far passare sotto silenzio delle altre cose. Il problema di uno Stato che non funziona non è la corruzione. Non è il politico disonesto: è l’incapacità. Perché una persona anche onesta, ma incapace, lo Stato lo fa andare a rotoli lo stesso. Oggi pretendono che non ci siano pregiudicati. Io la metterei in altri termini: non devono esserci persone condannate che non hanno scontato la pena.
    In uno Stato laico, una volta che hai scontato la pena, tu il debito con la società l’hai pagato. Devi scindere il piano etico, pure importante, dal piano pratico: la giustizia deve funzionare. E la giustizia non va avanti sulla verità, va avanti su un fatto convenzionale che si chiama verità processuale, che non è necessariamente la verità. Ma l’azione di Mani Pulite aveva un bersaglio principale, che era Craxi, perché Craxi aveva detto di voler fare parecchie cose. Per esempio, nazionalizzare la Banca d’Italia. E di chi è la Banca d’Italia? E’ delle banche. E le banche di chi sono? Finanza massonica e finanza cattolica. Ma c’è un altro problema: la Banca d’Italia, all’epoca, era il controllore delle porcate che facevano questi, che erano controllati e controllori: erano i proprietari della Banca d’Italia, che avrebbe dovuto controllarli. Quindi, Craxi si mette contro un bel po’ di nemici. Si mette contro il potere bancario, forse il potere tout-court. Si mette contro i preti, perché vuole riformare pure i Patti Lateranensi – sapete come sono i preti: finché uno gli bestemmia davanti, gli danno 25.000 pater noster, ma gli vuoi far pagare le tasse s’incazzano.
    Dopodiché si scopre, tramite il caso Gelli, che Craxi finanziava Arafat. Perché i famosi 2 miliardi che Craxi dice a Martelli di prendere da Gelli e di versare sul “Conto Protezione”, cosa che non vi dicono, un minuto dopo sono stati presi da Craxi per darli ad Arafat, cioè ai palestinesi. E’ sottile il confine tra terrorismo e insurrezione: Pietro Micca che fa saltare mezza Torino mettendo le bombe nei sotterranei per noi è un patriota, mentre un terrorista palestinese è un terrorista. Pietro Micca lottava per la sua terra, perché l’Italia fosse unita; i palestinesi perché esista una Palestina: uno ha messo le bombe ed è un eroe, quegli altri mettono le bombe e per noi sono dei mascalzoni. Ricordiamoci dell’Achille Lauro, e qui c’è un’altra cosa che non vi dicono: l’operazione Achille Lauro era mirata a colpire il Mossad decapitando il “B’nai Brit”, la massoneria ebraica, che ha le caratteristiche di tutte le massonerie: come la massoneria americana funziona in stretta alleanza con la Cia, il “B’nai Brit” è la parte segreta dei servizi israeliani, cioè del Mossad. Il capo dei “B’nai Brit” – e questo è quello che non vi dicono – era quel signore sulla sedia a rotelle che i palestinesi buttarono giù dalla nave. Si chiamava Leon Klinghoffer. I giornali scrissero che la vittima era un povero paralitico, ma non dissero chi era veramente.
    Tornando a Craxi: fin qui si è inimicato le banche, i cattolici, gli ebrei; poi dà parere negativo al riconoscimento dei comunisti nell’Internazionale Socialista; poi Reagan gliela giura, perché a Sigonella ha mandato i carabinieri a puntare le armi sui marines (per proteggere il commando palestinese dell’Achille Lauro), quindi ha contro anche gli americani, e parte della massoneria: perché Spadolini, che era uno dei capi della massoneria italiana, era dell’opinione che bisognasse aiutare Reagan, e quando chiese alla massoneria ufficiale di prendere posizione, e la massoneria non lo fece, Spadolini si mise “in sonno”, e trasformò Craxi in un problema anche per la massoneria. A quel punto, Craxi era uno che non poteva attraversare la strada neanche sulle strisce pedonali. Per cui, nel momento in cui la magistratura fa sapere che sta per fottere Craxi – e qui trovate traccia di quei famosi incontri dei servizi segreti con Di Pietro e gli americani – ognuno ci mette del suo per darle una mano. Così, Craxi finisce ad Hammamet.
    Ad Hammamet, Craxi ci finisce anche per un uleriore motivo: era antipatico. La sua principale sconfitta? Non essere riuscito a superare il 15%. Alla gente stava sulle palle. Qui non c’erano complotti: Craxi non sfondava sul piano del consenso popolare – poi bisognerebbe interrogarsi sulla qualità di un popolo che vota Berlusconi e non Craxi. In ogni caso, visto che più del 12-13% non otteneva, Craxi ha perso anche per colpa sua: se fosse stato più forte, questa facilità nel farlo fuori non ci sarebbe stata. Resta però un fatto: c’era stata una riunione su una bellissima barca inglese parcheggiata vicino a Roma, ad Anzio, in cui si erano incontrate dieci, quindici, venti persone, e avevano deciso che l’Italia stava diventando troppo forte, con Craxi. L’Italia era arrivata tra i primi 5 soggetti economici del mondo. Aveva fatto la richiesta ufficiale per fare il G5; esisteva il G7 e adesso c’è il G4, fatto apposta per escludere l’Italia che voleva il G5. Soprattutto, siccome era stata decisa dalla finanza internazionale l’operazione euro, in Italia serviva una persona che avesse un’ampia disponibilità a “mettersi a 90 gradi”, e questa persona non era Craxi.
    Un minuto dopo che hanno fatto l’euro, Craxi ha dichiarato alle telecamere che l’euro sarebbe stato una sciagura. Lo sapeva anche prima. Ma lo sapevano anche loro, che se andava Craxi – e non Prodi – a rappresentare l’Italia, non sarebbe mai passato quel tasso di cambio euro-lira. Non ce l’avrebbero mai fatta, a imporcelo. Mai. Dunque il problema era questo, e l’operazione è andata a buon fine. E, facendo l’operazione Craxi, sono stati regolati anche altri conti: i vecchi conti Sindona, Gelli, Calvi. Soprattutto, tutti quei paraculi della Dc che pensavano che facessero fuori solo Craxi e non anche loro, hanno dovuto pagare dazio. Chi non ha pagato? I comunisti, che hanno fatto passare la teoria che Greganti fosse un ladro, e loro non c’entrassero niente. Sapete chi l’ha fatta, quell’operazione? Un magistrato che è morto, Gerardo D’Ambrosio, che poi è diventato senatore dell’ex Pci. Siccome un altro giudice, Tiziana Parenti, voleva mettere in galera mezzo Partito Comunista, come vice-procuratore generale D’Ambrosio ha avocato a sé l’indagine e l’ha chiusa così, con Greganti unico colpevole. Poi è diventato senatore del Pd.
    Perché Craxi si è lasciato distruggere senza difendersi, cioè senza svelare all’opinione pubblica italiana tutti questi retroscena? All’inizio a dire il vero ha provato a difendersi, in Parlamento. Disse: «Chi di voi può dire di non aver fatto tutto quello che ho fatto io, si alzi in piedi». E non si è alzato nessuno, neanche i leghisti. Poi, però, a Craxi sono stati minacciati i figli. Craxi aveva già deciso di andare in televisione e di tirar fuori tutta una serie di carte. Tra queste c’era un famoso “Dossier Di Pietro”, che riteneva la carta vincente finale, perché dimostrava che Di Pietro era il prodotto di quel tipo di organizzazione. Per fare questa operazione chiamò Mentana, al Tg5, ma lo chiamò direttamente, senza passare per Berlusconi, perché Mentana tempo prima era stato collocato a Rai2 da Craxi. Poi chiamò Paolo Mieli per fare un’intervista di due pagine sul “Corriere della Sera”. Dopodiché chiamò la Rai per un’intervista che avrebbe dovuto fare prima con Giancarlo Santalmassi, poi con Minoli, e che poi invece non fece. Perché quella notte successero tre cose.
    A casa della figlia Stefania si introdussero delle persone che bruciarono tutti i suoi vestiti. A casa di suo figlio Bobo si recarono delle persone che razziarono tutto quello che c’era. E nella sua casella della posta trovò un messaggio con scritto che, se avesse fatto quelle interviste, avrebbero pagato i suoi figli. Una delle cose che nessuno vi dice, che non sono mai state pubblicate e che vi dico io, è che era lo stesso messaggio che avevano ricevuto altri personaggi di Tangentopoli, che avevano deciso di parlare e si sono suicidati. A quel punto, Craxi decise di telefonare a Cossiga, il quale aveva un grosso complesso di colpa nei suoi confronti, perché sapeva cosa stava accadendo, tant’è vero che si era precipitato a fare senatori a vita Giulio Andreotti e Gianni Agnelli, per evitare che in Tangentopoli ci finissero dentro anche loro, ma non si era premurato di avvisare Craxi. Cossiga a sua volta contattò il capo della polizia dell’epoca, che si chiamava Vincenzo Parisi, il quale fece un’abile opera di mediazione tra Di Pietro, il pool di Mani Pulite e Craxi, per concordare la latitanza: Craxi se ne sarebbe andato ad Hammamet normalmente, non avrebbe parlato, e solo tre mesi dopo ci sarebbe stato l’ordine di carcerazione.
    I magistrati sapevano benissimo che Craxi sarebbe andato ad Hammamet col suo passaporto, e il ministero degli esteri concordò con Ben Alì – che era il dittatore della Tunisia – che l’Italia non avrebbe mai avviato una richiestra di estradizione. Craxi si tenne la libertà di parlare una volta ad Hammamet, ma in Italia no: la minaccia verso i figli l’aveva ritenuta concreta. Molta gente si era ammazzata, attorno a Mani Pulite. O forse era stata ammazzata. Io ero coinvolto nel processo a Raul Gardini e, come avvocato, avevo accesso a documenti non pubblicati. Era la prima volta che vedevo qualcuno che si suicida sparandosi due proiettili mortali alla tempia. Due, capite? Non possono essere entrambi mortali. Se uno si spara un colpo in testa, come può spararsi anche un secondo colpo? Forse Gardini stava per rivelare il nome di chi portò il famoso miliardo a Botteghe Oscure? Chi lo sa.
    Il potere è astratto, è automatico. Ci sono meccanismi nei quali entri e magari ti ammazza il nemico che meno ti aspetti: tu non sai che calli stai pestando, di chi sono, perché, da dove vengono quei soldi, chi è in affari con chi. Magari pensi di fare uno sgarbo a Tizio, e s’incazza Caio, che non sapevi fosse in affari con quello. I meccanismi del potere sono di una complessità inaudita. Non è una vita facile, quella di chi sceglie di stare nel potere. Certo, sai sempre come pagare le bollette, però non sai mai da dove ti arrivano le coltellate. Quando Craxi ha accettato di deporre al processo Cusani, quando già l’accordo l’avevano fatto, Di Pietro è stato criticato perché l’interrogatorio era mite, era troppo rispettoso. In realtà era il segnale che aveva chiesto Craxi a Parisi per non fare le interviste. Disse: «Io le interviste non le faccio. Ma, a parte il fatto che lasciate in pace i miei figli, non voglio finire in galera. Perché se finisco in galera, e so come sono fatto, poi m’incazzo, parlo, e m’ammazzano i figli. O ammazzano me». Una tazzina di caffè: com’è morto Sindona? Com’è morto Papa Giovanni Paolo I? Ti portano una camomilla le monache: è perfetto.
    Con Craxi, è stato eliminato chi era capace. La disonestà? Bettino Craxi non era ricco. Il famoso tesoro di Craxi non l’hanno trovato perché non è mai esistito. I 13 miliardi che gli hanno trovato sul famoso conto svizzero erano i soldi del partito. Mentre i grandi partiti i conti del finanziamento illecito li intestavano ai segretari amministrativi, i piccoli partiti li intestavano ai segretari politici – il conto del Pri era intestato a Giorgio La Malfa, che ha avuto i suoi guai, come Renato Altissimo del Pli. Craxi, quando passò le consegne a Del Turco, cercò di passargli anche i conti; ma Del Turco, che era un po’ fifone, disse “no, non li voglio”, non scordandosi che un conto simile l’aveva quand’era segretario generale della Uil, perché anche i sindacati facevano i finanziamenti illeciti.
    Siamo un paese strano: ci colpevolizzano col debito pubblico, senza tenere conto del fatto che abbiamo il massimo risparmio privato europeo e il più alto numero di proprietari di case. Questo dovrebbe contare, per la solidità del sistema, e invece quando vanno a trattare in sede Ue si calano le brache, compreso l’ultimo, Renzi, che sembra un pretino, un seminarista di trent’anni fa. Un leader forte, l’Italia non se lo può permettere, perché una delle caste italiane se lo sbrana. Questi pretini spretati hanno paura di fare la fine dei Craxi. Meglio calarsi le brache e tirare a campare, poi si vedrà. C’è questo cortocircuito, in cui il nostro sistema non difende più l’istituzione. Quando hanno scoperto un sacco di magagne su Kohl, i tedeschi l’hanno mandato a casa, non in galera: perché era Kohl. E quando sono state scoperte un sacco di magagne su Mitterrand, i francesi – compresa l’opposizione – non l’hanno mandato in galera, l’hanno mandato a casa.
    Da noi, Craxi è stato mandato ad Hammamet, senza tener conto che aveva rappresentato un’istituzione. E lo stesso sta succedendo a Berlusconi – che a me non è simpatico, non l’ho mai votato, però non posso immaginare che uno, quando fa il presidente del Consiglio, abbia i carabinieri appostati alla porta per vedere con chi scopa, perché non c’è rispetto – non verso ciò che uno è, che sono fatti suoi – ma ciò che uno rappresenta, che sono anche fatti miei. E se uno mi rappresenta indegnamente io lo mando a casa, non in galera, perché mandandolo in galera sputtano anche me, indebolisco la mia economia, il mio sistema. Invece qui, pur di prenderne il posto e farsi la guerra (non vale solo per Berlusconi, l’ha fatto anche lui agli altri) vige questa mentalità, per cui oggi magari l’idea è quella di fottere Renzi per mettersi al posto suo, e per fottere Renzi o Berlusconi o D’Alema ci si allea con i nemici dell’Italia, con la stampa estera per sputtanarli, con i parlamentari europei per attaccarli. Ma che logica è? Che popolo siamo?
    (Gianfranco Carperoro, estratti delle dichiarazioni rese il 13 maggio 2014 alla conferenza pubblica dell’associazione “Salusbellatrix” a Vittorio Veneto, ripresa integralmente su YouTube. Studioso di simbologia, esoterista, già avvocato e magistrato tributario, giornalista e pubblicitario, Carpeoro è autore di svariati romanzi ed è stato “sovrano gran maestro” della comunione massonica di Piazza del Gesù).

    L’Italia si radicalizza, nel dopoguerra, intorno a due poli: un polo cristiano e un polo di sinistra, che si scinde in più realtà. E poi ha delle forze storiche – liberali, repubblicani – che provengono dalla storia risorgimentale. In questo quadro l’Italia resiste finché non crolla il Muro di Berlino. Fino ad allora, gli americani finanziano la Dc, i russi finanziano il Pci, gli altri si procurano da vivere un po’ come possono. E il sistema politico va avanti, in una specie di benessere garantito dai finanziamenti esteri su cui si modellano i due grossi partiti, mentre gli altri partiti hanno campo libero nel finanziamento illecito, cioè nel finanziamento che ipocritamente veniva considerato illecito, cioè sottobanco. Cosa succede nel 1989? Crolla il Muro. E nel momento in cui vengono meno i due blocchi e gli americani non hanno più paura dei russi, pernsate che diano ancora soldi alla Dc? I russi a loro volta non esistono più, ma le strutture dei partiti rimangono uguali: dipendenti da mantenere, sedi, palazzi, giornali, volantini da distribuire. Dove prenderli, i soldi? In più, finché c’era solo una emittente televisiva il costo della politica era di un certo importo; una volta nata la Tv commerciale, che gli spot se li fa pagare, e non c’è più solo la “Tribunale elettorale” di Jader Jacobelli, il costo aumenta ancora.

  • Terza Repubblica? Giannuli: la rivolta anti-Ue la seppellirà

    Scritto il 11/12/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».
    Determinante lo scenario geopolitico, il crollo dell’Urss che «scioglieva antichi patti (ma, singolarmente, non quello Atlantico)» e rendeva superflui vecchi strumenti di mediazione sociale. L’onda neoliberista, scrive Giannuli, si è abbattuta sulla socialdemocrazia europea, «espugnandola e facendone una variante liberale». Così è finito il soffitta «il patto lavorista del welfare», vanto del benessere europeo, dei diritti acquisiti e della sicurezza sociale. «Tutto questo avanzava sugli scudi di un nuovo tipo di populismo (in gran parte alimentato dalla televisione) profondamente antipolitico, miscelato con la nuova ideologia dominante». In Italia, questa ondata populista «assunse la forma di un esasperato giustizialismo». Ovvero: «La sacrosanta richiesta di legalità nella cosa pubblica e di lotta alla corruzione venne strumentalizzata in favore di una restrizione brutale dello spazio politico nella tenaglia fra mercati finanziari e “governo dei giudici”, conforme alla nuova “lex mercatoria”». Trionfo del liberismo, confidando in un durevole ordine mondiale. «E il progetto di una Unione Europea a trazione monetaria fu la traduzione continentale di questa ondata».
    All’epoca, ricorda Giannuli, l’europeismo facile spopolava: «Salvo i soliti inglesi, assai perplessi sull’Europa e più attratti dal mare, francesi, tedeschi, olandesi e spagnoli facevano a gara a chi era più europeista». Gli italiani, poi, «nel 1989 plebiscitarono i trattati europei con un 88,9% in un referendum consultivo». E alle porte della Ue «si accalcavano tutti i paesi dell’Est», nonché Cipro, Turchia e Tunisia. «Persino il Kazakhstan – rivendicando il tratto rivierasco sul Caspio, mare chiuso europeo – poneva una sua improbabile candidatura alla Ue». Vent’anni dopo, in Italia, «siamo di nuovo alla crisi dell’ordine costituzionale». E, ancora una volta, «a mutare è la Costituzione materiale: i partiti cambiano collocazione, identità, forme d’azione e di comunicazione, spinti da dinamiche sociopolitiche ben diverse da quelle che avevano accompagnato il passaggio alla Seconda Repubblica». Soprattutto, «siamo in presenza di una ondata di populismo di diversa qualità». Quello degli anni ‘80 e ‘90 era «funzionale al disegno del nuovo blocco sociale dominante – a trazione finanziaria – che postulava il totale ritiro dello Stato dall’economia», e quindi «l’abbattimento del primato della politica».
    Spesso, i movimenti populisti «si raccoglievano intorno a finanzieri, politici borderline o più banali “brasseurs d’affaires” come Timinski in Polonia, Ross Perot negli Usa, Collor de Mello in Brasile, Jordi Pujol in Spagna, Bernard Tapie in Francia o il nostro Silvio Berlusconi». Sicché, la critica alle ideologie «era funzionale allo stemperamento delle identità», sbriciolando i partiti tradizionali: socialdemocratici, democristiani, liberali, conservatori, gaullisti. «Oggi, in tempo di crisi, siamo in presenza di un populismo ribellista, antisistema, antifinanziario non meno che antipolitico», scrive Giannuli. «Soprattutto, l’ostilità si indirizza contro l’euro e, di conseguenza, l’Unione Europea individuate (non a torto) come articolazioni di quel potere finanziario contro cui si insorge». All’opposto di vent’anni fa, le dinamiche – da centripete che erano – si sono fatte centrifughe, e le “famiglie” classiche non esauriscono più lo spettro politico. Sia dove il sistema elettorale è proporzionale (Germania, Parlamento Europeo) sia dove vige il bicameralismo (Italia) l’elettorato non consegna più in modo chiaro la maggioranza assoluta dei seggi, così si ripiega sulle “larghe intese”, «le “grandi coalizioni” (che di grande ormai hanno il nome, più che i numeri)», e vengono approntate «in difesa dell’euro».
    Dove invece il sistema elettorale e il presidenzialismo consegnano la maggioranza assoluta al partito più forte, continua Giannuli, accadono altri fenomeni: quello che era il “secondo” partito del sistema tende a diventare il terzo (conservatori in Inghilterra, socialisti in Francia e Spagna) e, per effetto delle stesse leggi elettorali maggioritarie, a marginalizzarsi, dovendo affrontare una «insorgenza populista» che oggi non è così compatta: c’è «una destra radicale dichiarata» (Fn in Francia, Lega e FdI in Italia, Alba Dorata in Grecia), «una destra più moderata e “conciliabile” con il sistema» (Afd in Germania, Ukip in Inghilterra), nonché partiti più dichiaratamente di sinistra e alternativi (Podemos in Spagna, Kke in Grecia, Pcp in Portogallo) e partiti eurocritici ma più disposti a coalizzarsi con la sinistra tradizionale (Syriza in Grecia, Sel e Rifondazione in Italia, Izquierda Unida in Spagna, Sinistra Verde Nordica), mentre «casi particolari rappresentano, per diverse ragioni, la Linke in Germania e il M5S in Italia». A dettare i tempi è la crisi internazionale, ormai anche sociale: «C’è da chiedersi se la costruzione europea reggerebbe, qualora uno dei partiti antisistema dovesse vincere le elezioni in uno dei maggiori paesi dell’Unione, per esempio la Francia».
    Per altri versi, anche i casi di Portogallo, Grecia e Italia, con l’elevato rischio di default di ciascuno di essi, pongono seri interrogativi sulla capacità di resistere dell’attuale assetto istituzionale europeo, aggiunge Giannuli. Anche sul piano interno ai singoli Stati si manifestano tendenze implosive non trascurabili: «Le formazioni politiche populiste ed “eurocritiche”, nella maggior parte dei casi, non esprimono programmi politici organici: spessissimo la politica estera è semplicemente assente dal loro orizzonte, le ricette in materia di crisi economiche e finanziarie non di rado si mostrano assai semplicistiche, quasi mai esiste un discorso sulla ricerca e l’innovazione, e anche i discorsi sull’assetto costituzionale sono spesso generici e fumosi». Salvo i casi francese e greco, «non sembra che nessuno di questi movimenti sia in grado – almeno per un tempo politicamente prevedibile – di andare oltre una certa soglia di consensi». In altri casi, la presenza contemporanea di più forze anti-sistema, non coalizzate tra loro, ne frena l’impatto politico. «Almeno per ora, i movimenti populisti sembrano in grado di mettere in crisi l’egemonia dei partiti tradizionali, ma non di costruirne una propria». Ma guai a pensare che si tratti di temporali passeggeri: «Può darsi che l’ondata passi, ma solo dopo aver portato il sistema al limite di rottura. E l’Italia potrebbe essere il test decisivo».

    Populismi passeggeri? Scordiamocelo. La nuova ondata anti-europeista non avrà la forza di imporsi come egemone, ma costringerà il sistema a fare i conti con le verità più scomode. E potrebbe portare al collasso la costruzione artificiosa di un’Unione Europea non esattamente democratica e popolare. Lo sostiene il politologo Aldo Giannuli, a vent’anni dalla fondazione in Italia della cosiddetta Seconda Repubblica, sotto l’urto delle inchieste per corruzione. Certo, Tangentopoli non cambiò la Costituzione. Ma a produrre il terremoto bastò la mutazione della “Costituzione materiale”, con la riforma del sistema elettorale imposta da quello che Giannuli chiama «il referendum golpista di Segni, Occhetto e Pannella», che delegittimava la Carta fondativa «riducendola al rango di “Costituzione provvisoria”», trasformando la forma di governo: dal regime parlamentare siamo passati a un «para-presidenzialismo surrettizio», sulle macerie dei vecchi partiti, «sostituiti da partiti “leggeri”, carismatici e, spesso, a carattere personale». La Prima Repubblica si era esaurita, non avendo avuto il coraggio di rinnovarsi negli anni ‘70. Ma al suo crollo è seguito «un decennio di involuzione e ulteriore degenerazione partitocratica».

  • Trotsky e Cia, rivoluzione e golpe: da Kiev alla rivolta Usa

    Scritto il 29/11/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?
    Altro autunno caldo, quello russo del 1917. Si scontrano due visioni di come portare a compimento la rivoluzione: quella di Vladimir Lenin e quella di Leon Trotsky. Il primo si affida alle circostanze russe in quel preciso momento storico per rovesciare il governo Kerenskij e instaurare la dittatura del proletariato. Il secondo, vera mente grigia della rivoluzione d’ottobre, sostiene che sarebbe in grado di abbattere un governo indifferentemente a Londra, Berna o Amsterdam: le condizioni sociali del paese passano in subordine rispetto alla corretta tecnica di colpo di Stato. Serve una élite di rivoluzionari, vere truppe d’assalto, che colpiscano i gangli dello Stato: la miglior polizia del mondo non potrebbe nulla contro un colpo di mano che esuli dal mantenimento dell’ordine pubblico ed attacchi il sistema nervoso della cosa pubblica. Vince Trotsky, che, espugnato il Palazzo d’Inverno, è premiato con il comando della neonata Armata Rossa: il suo potere crescerà a tal punto da costringere la troika (quella originale, con l’omonimo direttorio neo-sovietico di Bruxelles) a esiliarlo.
    Morirà nel 1940, ucciso in Messico da un agente sovietico. I suoi insegnamenti continuano però ad essere studiati e siamo certi che alla Cia, dove sono stati coltivate in vitro le rivoluzioni di Libia, Siria, Egitto, Tunisia ed Ucraina, le tecniche del vecchio Trotsky siano ancora accuratamente sviscerate. Torniamo alla domanda di prima: le rivolte che infuocano il Missouri e la periferie della grandi città americane sono i prodromi di una potenziale rivoluzione americana, seguita a ruota da un regime change in stile ucraino? La risposta è sì. La differenze sostanziale è che nel caso di Euromaidan, qualcuno (Washington e Berlino) ha applicato correttamente i vecchi principi di Trotsky, investendo denaro, mezzi e uomini. Nel caso del Missouri, manca una potenza straniera o un partito politico autoctono che abbia la volontà e la capacità di giocare fino in fondo la partita, espugnando la Casa Bianca. Con il denaro e gli uomini giusti, tutto è però possibile, anche l’impensabile. Ci cimenteremo quindi in una partita di fantacalcio sui generis e proveremo a rovesciare il presidente Barack Obama e ad instaurare un governo rivoluzionario, amico delle minoranze colorate e rispettoso della nostra sfera di influenza sullo scacchiere internazionale. Emuleremo quanto fatto dalla Cia in Ucraina, ricordando però che il maestro in materia, diamo a Cesare quel che è di Cesare, rimane sempre Leon Trotsky.
    Euromaidan e le rivolta di Ferguson: l’antefatto. Ogni rivoluzionario, ieri come oggi, ha come obbiettivo il rovesciamento dell’ordine vigente e dei suoi rappresentanti che, giustamente, si difendendo con le unghie e con i denti prima di soccombere. Di norma i rivoluzionari, se escono vivi e vittoriosi dall’avventura, abbelliscono con un manto di costituzionalità il neonato sistema, ma la loro azione è sempre illegale, finché non assurgono loro stessi a legislatori. Ciascun rivoluzionario, invece, opera in un contesto storico, politico e geografico ben preciso. Vediamo i casi dell’Ucraina e del Missouri. In Ucraina il terreno di coltura per l’insurrezione è rappresentato dalle tensioni tra ucrainofoni dell’ovest e russofoni dell’est, mentre lo scopo della rivoluzione è il posizionamento di Kiev nell’orbita Ue-Nato, sottraendola all’influenza di Mosca e alla nascente Unione Euroasiatica. Il 28 novembre 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovich rifiuta di siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, firmando così la sua condanna: a Washinton si decide di rovesciarlo contando sulla complicità del governo tedesco guidato da Angela Merkel. Nella piazza centrale di Kiev, ribattezzata Euromaidan dall’emittente radiofonica americana “Radio Free Europe”, compaiono i primi assembramenti. La tensione, giorno per giorno, sale.
    In Missouri il fattore scatenante della rivolta è l’omicidio dell’afroamericano Michael Brown, ucciso a Ferguson il 9 agosto del 2014 da un agente di polizia bianco dopo un presunto furto di sigari. La morte di Brown riaccende tensioni da sempre latenti negli Usa: la segregazione razziale, il Southern Manifesto, l’assassinio di Martin Luther King, il disagio sociale, etc. Le proteste richiedono un primo intervento delle forze speciali per sedare la rivolta: l’ordine pubblico è “militarizzato”. Poi riesplodono dopo la controversa decisione del gran giurì della contea di St. Louis di non processare il poliziotto per l’omicidio di Michael Brown: i disordini si diffondono a macchia d’olio nelle periferie delle principali città americane ed agli afroamericani si uniscono gli indigenti bianchi. Lo scopo della nostra rivoluzione sarà rovesciare l’establishment americano e istaurare un governo che smantelli la rete di basi americane in giro per il mondo e dirotti sulla spesa sociale le risorse assorbite dal complesso militare-industriale. Sarà una rivoluzione al grido di “più burro e meno cannoni!”
    Euromaidan e Missouri-maidan: lo svolgimento. Se il congresso dei Soviet avesse fatto affidamento su Lenin e sull’ineluttabilità della dittatura del proletariato, oggi la coppia più glamour sarebbero senza dubbio il rampollo di casa Romanov e un’hostess di San Pietroburgo. Le rivoluzioni non cascano dall’albero come pere mature e, perché siano coronate da successo, insegna Leon Trotsky, servono veri esperti della sovversione. Vediamo come la Cia si è mossa in Ucraina e come agiremo noi negli Usa. Prima regola: niente soldi, niente rivoluzione. Creare un nucleo di professionisti della rivoluzione, pagare loro uno stipendio, studiare e diffondere la propaganda, spostare e istruire gli attivisti, distribuire telefoni, radio, armi ed esplosivo, costa. E tanto. Il Dipartimento di Stato americano, per ammissione di Victoria Nuland, e la “Open Society Foundation”, un’organizzazione Cia di cui probabilmente George Soros è solo un prestanome, hanno investito diversi miliardi di dollari nelle due rivoluzione ucraine: quella arancione del 2004, poi abortita, e quella contro Yakunovich del 2013.
    Se l’obiettivo della rivoluzione ucraina è disarcionare gli oligarchi filorussi per sostituirli con oligarchi filoamericani, ai media compiacenti e all’opinione pubblica si vende merce più appetibile: lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e la brutalità del regime oppressore, poco importa se legittimamente eletto. Quindi, impostata l’insurrezione sulla dialettica “libertà vs. oppressione”, bisogna esacerbare lo scontro di piazza, provocando le forze dell’ordine o addossando loro efferati crimini. Per quest’operazione la Cia si serve dei nazionalisti di “Settore Destro” e degli hooligans con un lungo curriculum di guerriglia alle spalle: i cecchini che aprono il fuoco sulla folla nel febbraio del 2014 e preparano il terreno per la precipitosa fuga di Yakunovich provengono dalle file dei movimenti di estrema destra. Ne parlano in una telefonata intercettata Catherine Ashton ed il ministro degli esteri estone Urmas Peat.
    Ora, prendiamo in mano la caotica rivolta dei sobborghi afro-americani e trasformiamola in una coesa ed efficiente macchina rivoluzionaria. Dobbiamo per prima cosa dare loro qualche spicciolo per fare la guerriglia. Come il mecenate della Leopolda renziana, David Serra, apriamo una società finanziaria alla Cayman, oppure a Singapore o Abu Dhabi, dove dirottiamo le risorse che il nostro governo destina ai paesi del terzo mondo e alla cooperazione economica. Quindi apriamo tre Ong in altrettanti Stati africani (Etiopia, Sudan, Angola) su cui convogliano i fondi. Le Ong sono scatole vuote e a rappresentarle ci sarà un solo impiegato, seduto in un modesto ufficio, che risponda al telefono e gestisca il sito Internet. Le organizzazioni, infatti, denominate “Amici africani del Missouri”, “Fratelli Etiopi per l’America” e “Marxisti-leninisti d’Africa”, sono solo il paravento dietro cui occulteremo il trasferimento di soldi alla protesta afro-americana negli Usa.
    I nostri attivisti iniziano quindi una capillare opera di sensibilizzazione e proselitismo tra le minoranze di colore americane: fondazioni, convegni, manifestazioni, giornate della memoria, spettacolari azioni di protesta, campagne virali su Internet, inserzioni pubblicitarie, etc. Due sono i punti su cui ci focalizziamo: la discriminazione delle minoranze e la rapacità del governo federale che, con le insostenibili spese militari, sottrae soldi al welfare. La fascia più ampia possibile della popolazione deve famigliarizzare con il nostro messaggio, in modo che non ci sia ostile quando entreremo in azione, mentre nel frattempo selezioneremo una minoranza che sia politicamente attiva. Quindi, ricordando la massima che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ci occorre l’equivalente del “Settore Destro” in Ucraina: la truppa d’assalto che faccia il lavoro sporco. Nel nostro caso, mentre la Cia ha pescato nell’estremismo di destra, noi faremo affidamento sugli eredi dei “Black Panthers”, un movimento di ispirazione socialista che abbracciò anche la lotta armata per difendere i diritti dei negri negli anni ’60 e ‘70. La punta di diamante sarà il redivivo “Black Liberation Army”, il superclan dentro i “Black Panthers”: i nostri istruttori militari ne addestreranno i membri nei campi allestiti in Venezuela e Bolivia. Tutte le pedine sono al loro posto: Viktor Yakunovich e Barack Obama, tremate!
    Euromaidan e Missouri-maidan: l’epilogo. I colpi di Stato bonapartisti (Napoleone che circondato dai granatieri scioglie il Direttorio, oppure Benito Mussolini che riceve dal Re la guida dell’esecutivo sull’onda della Marcia su Roma) si addicono ormai solo ai dei paesi in via di sviluppo, dove per il presidente di turno controllare l’aeroporto internazionale è ancora di gran lunga più importante che controllare l’account Twitter. In Occidente, oggi, i colpi di Stato si giocano sul concetto di legittimità: il governo in carica può disporre delle forze armate al loro completo, controllare centrali elettriche, acquedotti, snodi ferroviari e stradali, telecomunicazioni e dorsali Internet, ma non può approntare nessuna difesa se la rivoluzione lo ha delegittimato. Privato dell’autorevolezza, il governo è svuotato di ogni potere e, come un novello Cesare, cade senza reagire sotto le pugnalate dei congiurati. Come la Cia ha rovesciato Viktor Yakunovich creando una situazione dove la difesa di un governo democraticamente eletto è resa impossibile da un’opinione pubblica indignata dalle presunte brutalità della polizia, così noi rovesceremo Barack Obama. Serve a poco disporre della Swat, della Sesta Flotta o degli F-35, se l’opinione considera criminale qualsiasi azione compiuta dal governo: la delegittimazione è l’arma del nuovo rivoluzionario occidentale.
    Nel dicembre del 2013 Viktor Yakunovich, spaventato dai moti di piazza di Kiev, torna sui propri passi e si dice pronto a firmare l’accordo di associazione con la Ue: Washington giudica la mossa un semplice diversivo e procede con il rovesciamento del presidente. A gennaio volano le molotov, si contano i primi morti tra i manifestanti e l’opposizione “politicamente presentabile” chiede le immediate dimissioni di Yakunovich. Il presidente dispiega le teste di cuoio, i Berkut, in Piazza dell’Indipendenza, dove fronteggiano assalti sempre più aggressivi. Il crescendo rossiniano culmina con l’azione dei cecchini che aprono il fuoco sui manifestanti e sulle forze di polizia: è il 20 febbraio. Il 21 febbraio Yakunovich lascia Kiev e il 22 il Parlamento nomina un presidente ad interim, filoamericano, ça va sans rien dire. La tecnica dei cecchini che aprono il fuoco sulla folla è stata largamente impiegata anche in Tunisia, Libia, Egitto e Siria durante la “primavera araba” targata Cia.
    Vediamo ora come concludere il nostro regime change americano. Per tutto il mese di dicembre la tensione è mantenuta alta attraverso la protesta: i manifestanti reclamano la fine della discriminazione razziale, pari opportunità di lavoro, investimenti per le periferie e più controlli sulla condotta della polizia. Negli Stati dove la presenza di afro-americani è più forte la tensione sale: dal Missouri alla Florida, dal Texas a New York gli scontri con le forze dell’ordine avvengono a cadenza giornaliera. La nostra rete è due volte attiva: da una parte organizza le proteste e alza il tono dello scontro, dall’altro documenta con dovizia di particolari la reazione della polizia, esasperandone l’aspetto brutale e repressivo. Si diffonde il malcontento tra le forze dell’ordine e si ricorre con meno remore alla violenza. Verso la fine di dicembre c’è il salto di qualità: un nostro agente della “Black Liberation Army” piazza una bomba in una stazione di polizia di Atlanta. Si contano decine di morti e gli ambienti politici più oltranzisti evocano misure straordinarie per riportare l’ordine. Il presidente Obama, già politicamente debole, precipita nei sondaggi: pusillanime per i repubblicani e incapace di leggere la realtà per i “liberal”.
    Quindici gennaio 2015: una grande folla marcia per le vie di Atlanta commemorando la nascita di Martin Luther King. Il corteo è seguito passo a passo dalle forze dell’ordine. La tensione è palpabile. Scoppia un tafferuglio e si sentono spari: i cecchini della “Black Liberation Army” hanno abbattuto due agenti di polizia che si accasciano esanimi al suolo. Le forze dell’ordine, prese dal panico, rispondono al fuoco. È strage. La situazione negli Stati Uniti è fuori controllo. La Casa Bianca è circondata da una folla inferocita che esige giustizia e degne condizioni di vita: la rivolta da razziale è diventata sociale, e alle minoranze di colore si sono aggiunti i giovani disoccupati e il popolo dei padri di famiglia costretti a un lavoro part-time. A Barack Obama, rifugiatosi a Camp David, sottopongono l’ordine esecutivo per la proclamazione della legge marziale. Qualche giorno dopo, un solitario visitatore, camminando negli ambienti spogli e vandalizzati della ex-villa presidenziale, trova sul pavimento l’ordine esecutivo con la firma in calce del presidente. Missouri-maidan si è conclusa con successo. Euromaidan è realtà, Missourimaidan è finzione. Ma come la Cia ha pilotato la “primavera araba” e la cacciata di Yakunovich, non abbiamo nessuno dubbio che un efficiente servizio segreto saprebbe guidare una rivoluzione anche negli Usa. Leon Trotsky insegna che non sono le circostanze a rendere il terreno fertile alla rivoluzione, ma i bravi rivoluzionari che sanno coltivare anche il terreno meno fertile.
    (Federico Dezzani, “Missouri-Maidan”, da “Come Don Chisciotte” del 27 novembre 2014).

    Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?

  • Attkisson, star della Cbs: è il potere a dettarci i telegiornali

    Scritto il 18/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    C’era una volta la stampa americana. E in parte esiste ancora, ma soprattutto nei film di Hollywood che continuano ad esaltare il coraggio delle grandi testate o di singoli giornalisti con toni romantici e a volte epici. Che fanno cassetta, ma non rispecchiano la realtà. Dai tempi del Watergate i media americani hanno visto erodere buona parte della propria credibilità, sotto i colpi di una serie di inefficienze e talvolta di scandali. Dai giornalisti pluripremiati che inventavano storie di sana pianta, all’incapacità cronica e talvolta compiacente di contrastare le tecniche degli spin doctor per orientare i media, l’elenco è lungo e tutt’altro che lusinghiero. Ora la Attkisson, grande della star Cbs, lancia un j’accuse pesante nel suo ultimo libro “Stonewall”. In parte non sorprendente: che la maggior parte dei giornalisti americani siano liberal, ovvero di sinistra, e che riservino a Obama un atteggiamento privilegiato, fazioso quasi fino al servilismo, era già stato denunciato da alcuni studiosi. Dove invece la Attkisson squarcia davvero un velo è sulla parte invisibile della gestione dei grandi media americani, sulle connessioni invisibili con l’establishment.

  • Guerra infinita, Foa: non è più possibile credere a Obama

    Scritto il 29/9/14 • nella Categoria: idee • (7)

    Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.
    L’Isis, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, rappresenta l’ala più estremista dell’Islam integralista sunnita, «un’ala fanatica, pericolosa, impresentabile: gente da tenere alla larga». Dunque, «i bombardamenti avvengono in nome di una causa che pochi non condividono in Occidente, tanto più dopo le immagini delle decapitazioni». Tuttavia, «l’altra sconvolgente verità» è che l’Isis «è stato finanziato da paesi arabi come il Qatar e i sauditi e sostenuto militarmente negli Stati Uniti, fino ad alcuni mesi fa, in nome della lotta alla Siria, ben sapendo che la distinzione tra ribelli “moderati” e quelli dell’Isis anti-Assad è risibile, come emerso nelle analisi più competenti e oneste pubblicate anche dalla grande stampa anglosassone». Si trattasse di un singolo errore, concede Foa, l’indulgenza sarebbe ovvia. Analizzando invece le linee fondamentali della politica estera statunitense, «il bilancio non può che essere molto negativo, e con uno schema che tende a ripetersi».
    Riflessioni d’obbligo: «La guerra in Afghanistan non è stata risolutiva, quella in Iraq nemmeno: anzi, il paese sta molto peggio rispetto all’era Saddam». Il Maghreb? «Era molto più stabile quando c’erano i Mubarak, i Ben Ali e persino Gheddafi, considerato che la Libia vive in uno stato di guerra tribale permanente». Quanto alla Siria, il paese di Assad «prima era una garanzia di stabilità  per la regione nonché un alleato prezioso degli stessi Stati Uniti nella lotta al terrorismo, vedi la collaborazione al programma di “rendition”». Ora invece è improvvisamente diventato «un regime diabolico, da abbattere ad ogni costo». A partire dal grande detonatore geopolitico dell’11 Settembre, «le guerre condotte negli ultimi 13 anni non hanno portato pace e nemmeno libertà e prosperità, ma crescente instabilità, morte, povertà, caos». Paradigmatico l’esempio dell’Iraq: «Saddam odiava i fondamentalisti e rifiutava qualunque collaborazione con Bin Laden». Oggi, invece, l’Iraq «è la nuova terra promessa, anzi il nuovo Califfato del peggior integralismo islamico». Le guerre americane? Hanno solo peggiorato il problema. «A cosa sono servite, davvero? E quale sarà l’effetto finale di quella appena iniziata contro l’Isis? Vedremo – conclude Foa – ma alle promesse di Obama e della sua squadra non credo più da un pezzo».

    Nel libro “L’arte della guerra”, Sun Tzu «ha spiegato l’arte della dissimulazione e del sotterfugio, ma qui si sta esagerando». Giù la maschera, mister Obama: «Fu la Cia ad armare i mujaheddin e Bin Laden contro i sovietici, poi Bin Laden è diventato il nemico numero uno degli Stati Uniti. E fu Washington a sostenere Saddam contro l’Iran, poi Saddam è diventato il nuovo Hitler». Ricorda Marcello Foa: «Quando i Talebani imponevano un regime orribile in Afghanistan, l’America ignorò a lungo le loro nefandezze mostrando una benevola negligenza al punto di finanziare quel regime addirittura pochi mesi prima dell’11 Settembre, come dimostrato da una fonte insospettabile quale l’Istituto Cato. Ora tocca all’Isis e a nuovi gruppi spuntati dal nulla, vedi il Khorasan, che sembra il nome di un farmaco contro il colesterolo, ma che, come spiega il “Corriere della Sera”, è la nuova sigla del terrore, il nuovo erede di Al-Qaeda». E ora gli Usa fingono di non conoscere i loro ex amici dell’Isis, nati come costola dell’Esercito Siriano Libero per rovesciare Assad, poi divenuti Isil, quindi semplicemente Is, Islamic State, Califfato Islamico. Bersaglio perfetto, per mantenere il Medio Oriente nel mirino.

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