Archivio del Tag ‘umanità’
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Schiavi o disoccupati: è l’unica scelta che ci concedono
Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».Qual è la ragione più profonda della passività sociale che caratterizza le masse pauperizzate italiane, paese in cui una famiglia su tre è ormai da considerarsi povera? E’ una passività che continua – o addirittura aumenta – mentre procedono spediti deindustrializzazione, taglio delle paghe e dei redditi, disoccupazione indotta. «La direzione di marcia così scontata che gli allarmi non suscitano ormai alcuna sorpresa, né possono provocare alcuna reazione di massa, dentro o fuori gli schemi politici e sindacali», scrive Orso in un intervento su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Il ferale gennaio 2014 illumina una realtà deprimente con due eventi decisivi: la fine della vecchia Fiat e il brutale ricatto alla Electrolux, che in Veneto e Friuli vorrebbe operai “polacchi”, da pagare pochissimo. In entrambi i casi, la lezione è la medesima: il grande capitale impone i suoi diktat senza più argini, e gli italiani assistono rassegnati.La “snazionalizzazione” della Fiat si coniuga infatti con il super-ricatto svedese nei confronti degli operai della Electrolux: si va verso la “cinesizzazione” del fattore-lavoro in Italia e in Europa, «comprimendone i costi senza troppe cerimonie». Costi che d’ora in poi «potranno essere compressi all’estremo, fino alla soglia minima di sopravvivenza o anche al di sotto». Ormai è «anacronistico» parlare di “lavoratori”, «guardando alle persone e ai loro diritti». Aggiunge Orso: «Sorriderà compiaciuto, nella tomba, l’agente di cambio anglo-olandese David Ricardo – padre del liberismo economico e “bestia nera” di Marx, nonché classico dell’economia – la cui legge dei salari altro non prevedeva, per i lavoratori, che il minimo per la sopravvivenza di sé e del proprio nucleo familiare (il cosiddetto salario di sussistenza)». Il modello Electrolux, se applicato diffusamente in grandi numeri, «supererà le sue attese, perché in futuro, nei semi-Stati neocapitalistici come l’Italia, si potrà andare liberamente molto al di sotto del minimo».Dopo il modello “Fabbrica Italia” «adottato da una Fiat infedele al paese (quella “finanziaria e globale” del manager canadese Marchionne e degli eredi Agnelli, gli ebrei Elkann)», ecco spuntare il “modello Electrolux”, non limitato al settore degli elettrodomestici. «Un modello fondato su un ricatto brutale, da realizzare per le vie brevi: o il taglio delle paghe senza alcuna vera contrattazione, oppure la delocalizzazione delle produzioni altrove (nella fattispecie in Polonia) e la chiusura degli stabilimenti italiani». Oggi il sistema dell’economia mondiale lo permette, anzi lo incoraggia. «Si avanza così di un passo, oltre Marchionne e la Fiat “internazionalizzata” oggi fusa con Chrysler in Fca, verso il pieno dominio del mercato globale e la totale libertà di scelta del capitale finanziario». Si passa dall’attacco portato con successo alla contrattazione nazionale collettiva da una Fiat ancora formalmente italiana (con sede nella penisola ma già fuori da Confindustria) a un attacco più diretto per colpire al cuore le deboli resistenze residue al progetto neocapitalistico.Un progetto, continua Orso, che prevede la compressione estrema del fattore-lavoro e la totale libertà nella scelta delle aree d’investimento, non più ostacolata da alcuna barriera. Infatti, «dello Stato sovrano non c’è più alcuna traccia, in Italia». E, dal direttorio Monti-Napolitano in poi, «si è definitivamente affermato un semi-Stato europoide e neocapitalistico». Ovvero «un semi-Stato “da operetta”, estraneo agli interessi della popolazione italiana e tenuto formalmente in vita dai veri decisori, come supporto locale ai processi di globalizzazione economico-finanziaria in atto». In questo contesto generale, il “sub-mercato” europoide che imprigiona l’Italia si muove nella stessa direzione dei grandi mercati asiatici e del Pacifico. La rotta, per tutti, è stabilita dagli agenti strategici neocapitalistici, che attraverso le “istituzioni” sovranazionali controllano in modo ferreo «la penisola, le sue risorse (popolazione compresa) e il suo patetico semi-Stato».«Dopo aver abilmente disgiunto la persona dal fattore-lavoro, negando l’unità dell’esperienza esistenziale umana», secondo Orso oggi «si privatizza anche la conseguente disperazione sociale di massa, rendendola un mero dramma individuale e individualizzato, privo di rappresentanza politica nel semi-Stato e orfano delle vecchie tutele sindacali». Non è più possibile resistere: «Non esistono più rappresentanze effettive per i futuri schiavi, o i futuri espulsi dal ciclo produttivo». E il dramma è vissuto esclusivamente nel privato, in solitudine. «Ecco cosa impongono l’“apertura al mercato” e la cosiddetta competitività in uno scenario globale, per agganciare una chimerica ripresa produttiva e occupazionale nel semi-Stato. Che la riduzione di paga richiesta per mantenere la produzione in Italia sia di poco più del 10%, come millanta la proprietà, o addirittura del 50%, oppure, più probabilmente, vicina a una percentuale intermedia fra le due, poco importa. Comunque finisca la vicenda degli stabilimenti italiani di Electrolux, il dado è tratto, il ricatto è servito ed è il capitale finanziario a dettare imperiosamente la sua legge».Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».
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Un giorno il Giappone sgancerà l’atomica su New York
Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka, ha replicato: «La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?». E il governo nipponico ha tenuto il punto: «Questa forma di caccia è una tradizione culturale». E’ il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta «delusa» perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati «anche 14 leader politici e militari giapponesi», condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l’equivalente nipponico di quello di Norimberga; nel settembre 1986 il ministro dell’educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l’elementare domanda: «Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?»).In realtà dietro queste schermaglie c’è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall’università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su “americanismo e antiamericanismo, il ruolo dell’Europa”. In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è “la quarta sponda” degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell’animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c’era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene, per giorni e giorni lo “Yumiuri Shimbun” e l’“Asahi Shimbun”, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire “rubato”. La partita era solo un pretesto.I giapponesi non hanno mai digerito l’Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di “dedivinizzare” l’Imperatore. L’Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c’è stato un solo tentativo di attentato all’Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la “dedivinizzazione” dell’Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l’anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di atomiche su New York.(Massimo Fini, “Un giorno i giapponesi getteranno 30 atomiche su New York”, intervento pubblicato da “Il Gazzettino” il 24 gennaio 2014 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.
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Zanotelli: giornalisti, ascoltate il dolore dei poveri
Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari.Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.Come missionario sono profondamente indignato per il pochissimo spazio dato alle gravi crisi che attanagliano il sud del mondo, in particolare dell’Africa, il continente più vicino a noi (è solo grazie alle testate missionarie, che gira qualche notizia in più e non nel grande circuito dei media.) Non riesco a capire come, per esempio, si parli così poco delle tragedie in atto in quel continente. Penso all’attuale guerra civile in Sud Sudan, con migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati. Penso alla drammatica situazione della Repubblica Centrafricana, dove si è innescata un’altra spaventosa guerra fratricida. Penso ai bombardamenti in atto nel Sudan contro il popolo Nuba, da parte dell’esercito di Khartoum. Penso a tutta la zona saheliana che vive una stagione di grave instabilità.Siamo di fronte a immensi drammi umani, a massacri di popolazioni inermi, a milioni di rifugiati che ora premono alle porte dell’Europa. E tutto questo in un incredibile silenzio stampa. Ricevo ogni giorno appelli di missionari che chiedono di far conoscere i drammi dei loro popoli. Ma è quasi impossibile far passare tutto questo nei media nazionali. Siamo di fronte alla ‘globalizzazione dell’indifferenza’, come ha detto Papa Francesco a Lampedusa. Caro giornalista, mi appello a te, alla tua umanità, perché tu possa darci una mano a far conoscere il grido di dolore di tanti uomini, donne e bambini. Te lo chiedo perché porto, da una vita, nel mia carne, la loro sofferenza. Ma anche perché, come giornalista, ho pagato caro l’aver detto la verità al potere. Caro giornalista, vorrei che anche tu potessi aiutarci, invitando i tuoi colleghi a fare altrettanto. Se tanti giornalisti della carta stampata, del web, della radio e della televisione dessero solo un piccolo contributo, avremmo un miracolo informatico. Caro collega, non ti chiedo l’eroismo, ma solo un po’ più di coraggio e di passione.Caro/a giornalista, pace e bene! So quanto sia difficile fare oggi il giornalista in Italia, dentro un sistema in cui i media sono nelle mani dei potentati economico-finanziari. Per questo non ti scrivo per chiederti l’eroismo, anche se in Italia abbiamo avuto tanti giornalisti, che hanno pagato con il sangue, il coraggio di dire la verità al potere, sia esso politico, economico-finanziario o mafioso. Ti scrivo solo per chiederti di mettere qualche ‘sassolino’ nell’ingranaggio dell’informazione, facendo passare qualche notizia in più sui drammi dei più poveri, soprattutto del sud del mondo. Ti confesso che mi fa tanto male vedere come l’informazione in questo paese sia così provinciale, così centrata sui nostri problemi, così persa nei meandri dei pettegolezzi della nostra vita politica e sociale.
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Contro il popolo italiano: golpisti, da Roma a Bruxelles
«Colpo di Stato». Giulietto Chiesa è esplicito: «Se qualcuno ha un termine più adatto per descrivere questa situazione, lo dica». Legge elettorale, la “porcata” di Renzi e Berlusconi, ancora con liste bloccate e controllate dai partiti, senza possibilità di indicare preferenze. «Questa legge che si sta costruendo è un vero e proprio tentativo di privare gli italiani di una rappresentanza reale», anche se la Consulta, la Corte Costituzionale, ha appena espresso un giudizio chiarissimo, in favore del sistema proporzionale. Eppure, Pd e Forza Italia vogliono il maggioritario verticistico, con parlamentari “nominati” e candidati imposti dalle segreterie. Tutto questo, grazie anche a Napolitano: «Abbiamo un presidente della Repubblica che consente – approva, sollecita – delle cose illegali». Ovvero: «Si sta utilizzando un Parlamento illegale, costruito contro il popolo italiano, per fare un’altra legge che sarà contro il popolo italiano». Attenzione: “lo vuole l’Europa”, si potrebbe dire. In effetti è così: l’attuale assetto europeo teme la democrazia.«Quando è nata l’Europa – ricorda Giulietto Chiesa ai microfoni di “Siracusa Oggi” – c’era l’idea di fare un nuovo Stato – un vero e proprio nuovo Stato, una conferedazione – in pace, che non aveva precenti nella storia degli uomini: mai era accaduto che un paese si formasse con il consenso. Bene, questa Europa non c’è più, è stata cancellata». Parlano i fatti, a cominciare dalle carte: «Ci sono due documenti-chiave, il Trattato di Maastricht e il Trattato di Lisbona, che negano questa Europa. E invece pensano a un’Europa in un cui i più forti diventano ancora più forti, e i più deboli vengono abbandonati a se stessi. E i più deboli siamo noi: Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda». Domanda: a chi serve quest’Europa indebolita e azzoppata dalla crisi? Sappiamo che gli Usa si stanno concentrando sul Pacifico, per fronteggiare l’avanzata economica e geopolitica della Cina. Sempre gli Stati Uniti puntano a lacerare l’Ucraina, per poi spingere l’avamposto Nato fino ai confini con la Russia. Tutto questo ci conviene? «La mia risposta è no», dice Giulietto Chiesa. «Stati Uniti ed Europa non hanno interessi coincidenti».Prima ancora di un’Italia sovrana, sostiene il fondatore del laboratorio politico “Alternativa”, dobbiamo avere un’Europa sovrana. «Significa che dobbiamo passare da questa società, che è insostenibile, a una società sostenibile – che è possibile». Per farlo, però, «occorre una strategia politica di transizione». Che punti, prima di tutto, ad assicurare all’Europa le risorse primarie di cui ha bisogno. «Alle nostre frontiere abbiamo la Russia: 9 fusi orari, il più grande paese del mondo, che ha tutte le risorse energetiche e minerarie, domani anche alimentari. Ma perché non facciamo un patto di cooperazione strategica con la Russia?». Alternativa che l’establishment filo-atlantico di Bruxelles non prende neppure in considerazione, per ora. Ecco perché sono potenzialmente decisive le elezioni europee di maggio: con l’operazione Tsipras, liste civiche a sostegno del leader greco di Syriza come candidato comune alla presidenza della Commissione Europea, la musica potrebbe cambiare. «A giugno potremmo avere in Europa un gruppo di 60-70 deputati in grado di costituire un baluardo per aprire questo tema. Io credo che sia possibile. Se l’Italia si presenta in Europa e chiede di contare, noi saremo molto più forti di quanto siamo oggi».«Colpo di Stato». Giulietto Chiesa è esplicito: «Se qualcuno ha un termine più adatto per descrivere questa situazione, lo dica». Legge elettorale, la “porcata” di Renzi e Berlusconi, ancora con liste bloccate e controllate dai partiti, senza possibilità di indicare preferenze. «Questa legge che si sta costruendo è un vero e proprio tentativo di privare gli italiani di una rappresentanza reale», anche se la Consulta, la Corte Costituzionale, ha appena espresso un giudizio chiarissimo, in favore del sistema proporzionale. Eppure, Pd e Forza Italia vogliono il maggioritario verticistico, con parlamentari “nominati” e candidati imposti dalle segreterie. Tutto questo, grazie anche a Napolitano: «Abbiamo un presidente della Repubblica che consente – approva, sollecita – delle cose illegali». Ovvero: «Si sta utilizzando un Parlamento illegale, costruito contro il popolo italiano, per fare un’altra legge che sarà contro il popolo italiano». Attenzione: “lo vuole l’Europa”, si potrebbe dire. In effetti è così: l’attuale assetto europeo teme la democrazia.
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La fine dei libri: se Internet travolge la lettura lenta
Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.Una è che leggiamo meno libri, per due grandi fattori legati entrambi a Internet. Il primo è che la Rete ha accelerato la nostra disabitudine alla lettura lunga, alla concentrazione su una lettura e un’occupazione sola, al regalare un tempo quieto a occupazioni come queste. È una considerazione ormai condivisa e assodata: la specie umana sta diventando inadatta alla lettura lunga. Il secondo fattore è che gli spazi e i tempi un tempo dedicati alla lettura di libri stanno venendo occupati in gran parte da altro, e subiscono la competizione di videogiochi, social network, video online, e mille altre opportunità a portata di mano sempre e ovunque. Quelli che leggevano libri sui tram o nelle sale d’aspetto o sui treni oggi stanno sui loro smartphone, e non a leggere ebooks. Ormai stanno sui loro smartphone anche prima di addormentarsi, molti. Tutto quel tempo, non è più a disposizione delle lentezze dei libri: è preso.La seconda questione centrale nella crisi dell’oggetto libro è che è diventato marginale come mezzo di costruzione e diffusione della cultura contemporanea, che invece sempre più trova luoghi di dibattito, espressione, sintesi, su Internet e in formati più brevi. Che non sono necessariamente più superficiali, anzi spesso sono molto più densi e ricchi di certi saggi di 300 pagine allungati intorno a una sola idea (vediamo anche di dire che il libro ha spesso costretto, “per scrivere un libro”, a stirare in lunghezze ridondanti buone riflessioni da cinquanta pagine, se non dieci): ma qui starei alla larga dai litigi inutili su cosa sia meglio e cosa sia peggio e se il mondo peggiori o migliori con il declino dei libri. Limitiamoci a registrarlo e capire cosa succede.Il “pubblicare un libro” come sintesi e sanzione di uno studio, una riflessione, un’idea, un tema da condividere o una storia da raccontare, è una pratica che non ha più il rilievo di un tempo. Da una parte perché quelli che leggono quella sanzione, e poi ne discutono e la fanno diventare un pezzo del dibattito e della cultura, diminuiscono ogni giorno. Dall’altra perché il mezzo è superato anche su questo. Mi capita qualche volta che qualcuno – editori o amici – mi suggerisca di scrivere un libro, per “dare un senso” e “concretizzare” le molte cose che scrivo online, e mostrarle a “un numero maggiore di lettori”, “perché restino”. Una volta rispondevo che sono pigro e non sono tanto capace di applicarmi su un lavoro di impegno e tempo così esteso e assiduo. Adesso spiego loro che le loro ragioni non valgono più e sono invertite: se c’è un posto dove quello che scrivo “resta” e “raggiunge più lettori”, è Internet.I libri spariscono dalla vendita e dall’attenzione – e dall’esistenza – dopo pochi mesi, o pochi anni al massimo (salvo rare eccezioni): ne escono a centinaia ogni mese, e se non vi passano sotto il radar subito, non esisteranno mai più. Vi ricordate il successo – molto pompato – che ebbe quel libretto “Indignatevi”? Cos’era, due anni fa? Oggi è quasi impossibile che un giovane che non ne abbia ricevuto notizie allora ci si imbatta di nuovo. Mentre grazie ai social network e ai link e a Google, cose pubblicate online anche dieci anni fa continuano a trovare nuove attenzioni e tornare a essere lette. Questo post, con buona approssimazione, sarà letto da circa diecimila persone: è un numero che sarebbe considerato un buon successo per un saggio di qualunque autore di non grandissima fama come me (il mio libro “Un grande paese” ha venduto poco di più), e che rende economicamente sempre meno. E questo post, sarà ancora ricircolato tra un anno, tra due, tre (se non altro per rinfacciarmi di quanto poco ci avessi preso di fronte al grande boom dei libri del 2017).Poi, ripeto, restano gli appassionati “romantici” dei libri: lo siamo un po’ tutti, e c’è il piacere e c’è la bellezza, eccetera (e Internet offre loro nuovi spazi di sopravvivenza, anche se sempre più riserve indiane). E ci sono libri bellissimi, se uno li legge. Come per il teatro, la cui importanza e meraviglia nessuno mette in discussione, ed è bello che esista ancora. Ma non “esiste” più, il teatro: è una nicchia laterale della cultura contemporanea che non interagisce più con la sua crescita e le sue evoluzioni. I libri non sono ancora arrivati a quel punto lì, e magari non ci arriveranno. Ma entrerei nell’ordine di idee che sia plausibile (Ps: ho ritrovato questo, in America se n’erano già accorti tre anni fa).(Luca Sofri, “La fine dei libri”, da “Wittengstein” dell’8 gennaio 2013).Il problema è che ne parliamo da decenni, di un declino dei libri e della loro centralità, e quindi pochi prendono sul serio quello che invece sta succedendo in questi ultimi anni e mesi, e che succederà ancora di più. Malgrado le resistenze psicologiche di nostalgici e affezionati – che sono ancora molti e protestano, ma io credo che vedano solo un pezzetto della scena – il libro non è più l’elemento centrale della costruzione della cultura contemporanea. Non parlo, insomma, dell’annosa e noiosa questione del “si leggono pochi libri” eccetera: parlo di quelli che prima li leggevano, i libri; e parlo di quello che comunque ritenevamo “fossero”, i libri, letti o no. Le vendite dei libri sono in grande crisi, in Occidente e in Italia. Tutti i maggiori editori italiani hanno perdite più o meno cospicue e grafici in discesa: una cappa di desolazione rassegnata incombe su ogni loro riunione o incontro occasionale. Il dato insomma c’è: ma la questione è culturale, non commerciale. E sono due questioni, dicevo.
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Hollande, un vero scandalo (ma le donne non c’entrano)
Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.L’Europa sembra appena emergere da una recessione con ricaduta (double-dip recession) e comincia a crescere un po’. Ma questo timido accenno di ripresa fa seguito ad anni di risultati disastrosi. Quanto disastrosi? Prendiamo un esempio: nel 1936, sette anni dopo la grande depressione, la maggior parte dell’Europa cresceva rapidamente, con il Pil procapite stabilmente assestato su alti valori. In confronto, il Pil procapite reale di oggi è ancora largamente al di sotto del picco del 2007, e tutt’al più risale lentamente. Per fare peggio di quanto è avvenuto nella grande depressione, si potrebbe dire, ce n’è voluto. Come ne uscirono all’epoca gli europei? Semplice: negli anni ’30 la maggior parte dei paesi europei finirono per abbandonare, chi prima, chi poi, l’ortodossia economica. Abbandonarono la parità aurea; desistettero dal pareggio di bilancio; ed alcuni di essi lanciarono vasti programmi di spese militari, che ebbero come effetto collaterale una potente azione di stimolo all’economia. Il risultato fu una forte ripresa dal 1933 in poi.L’Europa contemporanea è molto migliore di allora: da un punto di vista morale, politico e anche umano. Un impegno condiviso in nome della democrazia ha portato pace per molti anni; le reti di protezione sociale hanno limitato i danni di una disoccupazione troppo elevata; un’azione coordinata ha contenuto il rischio di un tracollo finanziario. Purtroppo, se il continente è riuscito a evitare il disastro, ciò ha avuto come effetto collaterale lo schiacciamento dei governi su politiche economiche ortodosse. Nessuno è uscito dall’euro, anche se è una camicia di forza monetaria. Senza la spinta delle spese militari, nessuno ha allentato l’austerità fiscale. Tutti stanno facendo le scelte ritenute sicure e responsabili. E la crisi persiste. In questo paesaggio depresso e deprimente, la Francia non si comporta peggio di altri. Certo è rimasta indietro rispetto alla Germania, sostenuta dalle suo eccellente export. Ma i risultati della Francia sono stati molto migliori di quelli di tanti altri paesi europei. E non parlo solo dei paesi colpiti dalla crisi da debito. La crescita della Francia ha superato quella di due pilastri dell’ortodossia, come la Finlandia e l’Olanda.È vero che i dati più recenti indicano una Francia che male si allinea all’accenno di ripresa europeo. Molti osservatori, compreso il Fondo Monetario Internazionale, indicano proprio nelle politiche d’austerità la causa principale di questa debolezza recente. Ma adesso che Hollande ha illustrato i suoi piani per invertire la rotta… è difficile non farsi prendere dallo sconforto. Perché Hollande ha annunciato l’intenzione di ridurre il carico fiscale sulle imprese tagliando – per compensarne i costi – la spesa pubblica (senza dire quale), ed ha dichiarato: «È sull’offerta che dobbiamo agire», e ha poi aggiunto: «E’ l’offerta che crea la domanda». Benedetto ragazzo! Questa dichiarazione richiama quasi letteralmente la fandonia, più volte smascherata, nota come “legge di Say”, che pretende che cadute generali della domanda non possono verificarsi, perché chi guadagna deve comunque in qualche modo spendere. Quest’idea è semplicemente sbagliata; ancora più sbagliata alla luce dei fatti di questo inizio 2014.Tutti gli indicatori mostrano che la Francia è inondata di risorse produttive, sia il lavoro che il capitale, che restano sottoutilizzate perché la domanda è insufficiente. Per rendersene conto basta considerare l’inflazione, che diminuisce sempre più. In effetti la Francia e l’Europa si stanno pericolosamente avvicinando ad una deflazione in stile giapponese. Come spiegarsi allora che, proprio in questo momento, Hollande abbia adottato una dottrina economica così screditata? Come ho già detto, questo è un segno delle tristi sorti del centrosinistra europeo. Per quattro anni, l’Europa è stata preda della febbre da austerità, con risultati prevalentemente disastrosi; si cerca ora di presentare l’attuale debole ripresa come un trionfo di quelle politiche.Alla luce dei danni generati da quelle scelte, ci si sarebbe potuto aspettare che i politici della ‘sinistra del centro’ si battessero strenuamente per un cambio di passo. Eppure, ovunque in Europa, il centro-sinistra ha, nella migliore delle ipotesi (per esempio, in Gran Bretagna) esposto critiche deboli e svogliate; spesso ha semplicemente arretrato in totale sottomissione. Quando Hollande è diventato il leader della seconda economia europea, alcuni di noi avevano sperato che riuscisse a esprimere una posizione critica. Invece ha cominciato, come al solito, ad arretrare. Un arretramento che diventa oggi un vero e proprio crollo intellettuale. Mentre la seconda depressione europea continua.(Paul Krugman, “Scandalo in Francia”, intervento apparso sul “New York Times” il 23 gennaio 2014 e ripreso da “Micromega”).Non ho seguito più di tanto François Hollande, il presidente francese, da quando si è capito chiaramente che non avrebbe rotto con l’ortodossia della politica economica europea, una politica distruttiva e ancorata all’idea dell’ “austerità”. Ma adesso ha fatto una cosa veramente scandalosa. Non sto parlando, ovviamente, della sua presunta relazione con un’attrice, che, anche se fosse appurata, non è né sorprendente (dopotutto siamo in Francia) né preoccupante. No, ciò che è sconvolgente è la sua adesione alle più screditate dottrine economiche della destra. Si può convenire sul fatto che gli attuali problemi economici dell’Europa non siano dovuti solo alle cattive idee della destra. È vero che sono stati conservatori sordi e ostinati a indirizzare le politiche economiche, ma ciò è avvenuto con l’avallo e il consenso degli smidollati ed inetti politici della sinistra moderata.
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La super-lobby ci vuole indifesi, ma teme le europee
Onorati colleghi, ci ritroviamo anche quest’anno per definire le principali linee di azione e di pressione nei confronti delle più influenti lobby dei paesi industriali e delle nuove economie emergenti. Prima di passare la parola al primo dei nostri guest speaker, il quale ci relazionerà sui main events di natura politica ed economica di maggior rilievo che si verificheranno durante quest’anno, analizzando i possibili scenari ed impatti che questi ultimi potrebbero avere sulle attività economiche e finanziarie dei nostri clienti, noi del Board vogliamo focalizzare la nostra attenzione sull’importanza delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo che si terranno alla fine del mese di maggio. A riguardo, sono costantemente visti in crescendo – sia in termini di consenso che di visibilità – numerosi partiti euroscettici.Questo fenomeno sembra essere trasversale in tutti gli Stati europei: si va dalla Francia alla Finlandia; persino la Germania ha una forza politica a noi avversa che si è attestata, per nostra fortuna, appena sotto la soglia del 5% alle passate elezioni. Vogliamo spronarvi ad utilizzare tutta la vostra influenza ed ingerenza nei confronti dei vari canali mediatici in Europa per sminuire e ridimensionare sul nascere questa preoccupante forma di protesta e contrasto politico. Di contiguo a noi anche alcune autorità sovranazionali ci hanno evidenziato i rischi sempre più oggettivi che si delineano all’orizzonte, nonostante i proclami istituzionali di tenore opposto. Vi ricordiamo, onorati colleghi, che i nostri clienti e sponsor non si possono permettere un esito elettorale controproducente, rischiando a quel punto di mandare in fumo il lavoro di quasi due decenni di pressing politico.Ritorneremo su questo comunque durante lo speech di Sir [… omississ ...] che ci aiuterà a definire le varie criticità sistemiche del momento con un maggior grado di approfondimento. Tornando a noi, ricordiamo come si stanno dimostrando molto efficaci le strategie che abbiamo intrapreso ormai da anni per disinnescare la bomba demografica che grava su questo pianeta, tema molto caro ai nostri principali finanziatori. L’opera di destabilizzazione e controllo della società moderna attraverso il ricorso a modelli di vita incentrati sulla conflittualità ed ambiguità sessuale deve per questo essere amplificata ulteriormente. Soprattutto, continuiamo a stimolare i mass media e le varie forze sociali affinchè focalizzino la loro attenzione sull’importanza dicotomica del sessualmente diverso, unitamente ad una maggior propulsione alla emancipazione economica della donna. Solo percorrendo questa strada possiamo diminuire i tassi di natalità nella popolazione umana.In tal senso i nostri finanziatori stanno assistendo con soddisfazione ad un calo della natalità proprio nei paesi asiatici, segno questo che il plagio della globalizzazione nelle giovani generazioni si sta rendendo più efficace del previsto. Di questo passo in Asia si invecchierà molto più in fretta che in Europa o negli States. Per questa ragione dovete incoraggiare anche i governi dei paesi di frontiera ad abbracciare la stessa dinamica favorendo i fenomeni di delocalizzazione industriale e di nuova penetrazione colonialista, in modo tale da poter ottenere entro un decennio lo stesso tipo di risultato. Sempre per lo stesso motivo dobbiamo incentivare il più possibile i flussi di immigrazione verso le principali vie di ingresso nei confronti dei paesi industrializzati, i quali possono essere più facilmente indeboliti dal contatto osmotico con culture non autoctone.Sul fronte sociale si dovranno utilizzare tutte le risorse disponibili soprattutto grazie alle vostre entrature mediatiche affinchè si acceleri la diffusione delle modalità e degli strumenti di fruizione delle nuove tecnologie digitali che consentono a livello virtuale la condivisione delle proprie esperienze tra gli individui stessi congiuntamente al tracking delle interazioni e transazioni economiche di ogni persona. Dobbiamo cercare di rendere operativi sul mercato a livello “retail” i principali players entro due anni, in modo da avere il picco di massima diffusione entro il 2020. Questo ci consentirebbe di indebolire ancor di più quella nomenclatura collegata agli ideali cristiani, permettendoci di contrastare le istituzioni religiose che recentemente hanno tentato un recupero della loro credibilità e visibilità modificando internamente la propria leadership.Ricordiamoci, onorati colleghi, l’obiettivo finale che si prefiggono i nostri sponsor: la creazione di una grande società globale con individui destabilizzati, privi di valori morali e di riferimenti culturali, ancorati esclusivamente a futili bisogni materiali grazie al plagio dei mass media che impongono di volta in volta mode, costumi e stili di vita pianificati e concepiti a tavolino per il controllo sistematico delle masse.(Estratto dai “meeting minutes” di Campbell Minsk & Associates, think-tank statunitense, pubblicato sul blog di Eugenio Benetazzo l’11 gennaio 2014).Onorati colleghi, ci ritroviamo anche quest’anno per definire le principali linee di azione e di pressione nei confronti delle più influenti lobby dei paesi industriali e delle nuove economie emergenti. Prima di passare la parola al primo dei nostri guest speaker, il quale ci relazionerà sui main events di natura politica ed economica di maggior rilievo che si verificheranno durante quest’anno, analizzando i possibili scenari ed impatti che questi ultimi potrebbero avere sulle attività economiche e finanziarie dei nostri clienti, noi del Board vogliamo focalizzare la nostra attenzione sull’importanza delle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo che si terranno alla fine del mese di maggio. A riguardo, sono costantemente visti in crescendo – sia in termini di consenso che di visibilità – numerosi partiti euroscettici.
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La Marina Usa: estate 2016, Artico senza più ghiacci
Il pack polare in dissoluzione libera enormi quantitativi di metano ed entro l’estate del 2016 scomparirà il ghiaccio dell’Artico: con l’attuale tasso di riduzione della banchisa, lo scioglimento avverrà con 84 anni di anticipo su tutte le previsioni precedenti. Lo sostiene il professor Wieslaw Maslowski, ricercatore della Marina Usa coinvolto in un progetto del ministero americano per l’energia. Sostenuto dal dipartimento di oceanografia della scuola post-universitaria della Us Navy, il progetto utilizza modelli all’avanguardia, che offrono proiezioni allarmanti. «L’Artico si sta riscaldando più velocemente del resto del pianeta», rivela lo stesso Maslowki, e quindi «i processi e le ricadute di un tale aumento sono una priorità non secondaria». Per la precisione, «si calcola che nei prossimi decenni i ghiacciai dell’Artico e del Greenland Ice Sheet cambieranno significativamente e contribuiranno all’innalzamento globale delle acque». Questo avrà «ricadute significative sull’innalzamento del livello marino globale, sulle grandi correnti oceaniche e sul livello di riscaldamento, sulle comunità autoctone, sull’esplorazione delle risorse naturali e sui trasporti commerciali».Si tratta di anticipazioni che Maslowski ha pubblicato sulla rivista scientifica “Annual Review of Earth and Planetary Sciences”, come riferisce Nageez Ahmed in un servizio del “Guardian” ripreso da “Come Don Chisciotte”. L’articolo critica fortemente i modelli climatici globali, che ignorerebbero la reale evoluzione dello scioglimento della calotta artica. Non stupisce il ruolo del Dipartimento americano per l’energia nel sostenere la ricerca, alla luce della strategia nazionale per l’Artico, lanciata a maggio dal presidente Obama e focalizzata sulla protezione degli interessi commerciali e delle corporation. Obiettivo, il controllo dei grandi giacimenti ancora non sfruttati di petrolio, gas e minerali pregiati. L’allarmante aggiornamento fornito da Maslowksi, continua il “Guardian”, si riallaccia alle previsioni di numerosi studiosi come Peter Wadhams, capo del dipartimento di fisica polare oceanica presso la Cambridge University. Secondo Wadhams, potremmo dover fronteggiare il costo economico di un cambiamento climatico basato su uno scenario apocalittico: 50 giga-tonnellate di metano rilasciate in questo secolo nello scioglimento del permagelo del Bassopiano della Siberia Orientale.Questo scenario fu ipotizzato per la prima volta da Natalia Shakhova e Igor Semiletov, del Centro Internazionale di Ricerca Artica (Iarc) dell’Università dell’Alaska a Fairbanks. Nel 2010 il gruppo della Shakhova rese noti i risultati, che rivelavano come annualmente, in quella regione, traboccavano 7 tera-grammi di metano dalla superficie. Dati confermati da recenti misurazioni, effettuate con l’impiego di sottomarini. La scoperta: la temperatura dell’acqua più in profondità è aumentata negli ultimi 14 anni, correlata ad una perdita di 17 tera-grammi (17 milioni di tonnellate) di metano all’anno, accentuati dalle tempeste. «Questa stima prudenziale è oltre il doppio della precedente valutazione», sottolinea il “Guardian”. «Dunque, la sorgente di queste emissioni di metano rimane sconosciuta». La comunità scientifica è divisa: si tratta della perdita improvvisa di un grande deposito sommerso o una lenta fuoriuscita che dura da centinaia di anni? Secondo il Centro nazionale americano per la neve e il ghiaccio (Nsidc), le osservazioni eseguite dalle navi rivelano che le concentrazioni anomale di metano nell’area artica sono quasi il doppio della media mondiale: il metano emerso con lo scioglimento dei ghiacci «ha un potenziale nel surriscaldamento globale pari a 86 volte quello del biossido di carbonio».Molti scienziati, aggiunge Ahmed, concordano nel ritenere che ci sia bisogno di ulteriori ricerche per localizzare con precisione la sorgente di queste pericolose emissioni di metano, sapendo comunque che un Artico senza ghiacci in estate «porterebbe a serie conseguenze per il clima globale». Inoltre, alcune ricerche associano il riscaldamento dell’Artico ai cambiamenti delle correnti, che hanno già portato negli ultimi anni a mutamenti ambientali senza precedenti: fenomeni “estremi”, che «hanno colpito in maniera forte il paniere produttivo delle nazioni». Lo confermano recenti ricerche pubblicate da “Nature Climate Change”: lo scioglimento del ghiaccio marino negli ultimi 30 anni ad un ritmo dell’8% ogni dieci anni è direttamente correlato con estati estremamente calde, che non solo negli Usa si sono presentate sotto forma di siccità e ondate di calore. Identiche conclusioni dal capo-ricercatore (scienze geografiche e risorse naturali) di Pechino, Quihang Tang: «Come le alte latitudini si riscaldano più velocemente delle medie latitudini, per via dell’effetto amplificato dello scioglimento dei ghiacci, così il vento delle correnti a getto che partono da Ovest verso Est si è attenuato. Di conseguenza, il cambio di circolazione atmosferica tende a favorire sistemi climatici persistenti e stagioni estive estreme».Gli approfondimenti al nuovo studio pubblicato sul “Geophysical Research Letters” hanno dimostrato un collegamento tra la diminuzione dei ghiacci nel mare Artico e le stagioni estreme, in particolare l’estate e l’inverno, che includono prolungati periodi di “siccità, inondazioni, ondate di freddo e di caldo”. Secondo il professor Carlos Duarte, direttore dell’Ocean Institute all’Università della Western Australia, ci stiamo avvicinando ad un «punto critico» che potrebbe portare ad un «effetto domino», una volta che sarà finito il ghiaccio estivo. Per Duarte, «se il movimento prende avvio, può generare profondi cambiamenti climatici, che mettono l’Artico al centro e non alla periferia del sistema-Terra. E’ evidente che queste forze stanno per mettersi in moto. Ciò ha maggiori conseguenze sul futuro del genere umano, man mano che avanzano i cambiamenti climatici».Il pack polare in dissoluzione libera enormi quantitativi di metano ed entro l’estate del 2016 scomparirà il ghiaccio dell’Artico: con l’attuale tasso di riduzione della banchisa, lo scioglimento avverrà con 84 anni di anticipo su tutte le previsioni precedenti. Lo sostiene il professor Wieslaw Maslowski, ricercatore della Marina Usa coinvolto in un progetto del ministero americano per l’energia. Sostenuto dal dipartimento di oceanografia della scuola post-universitaria della Us Navy, il progetto utilizza modelli all’avanguardia, che offrono proiezioni allarmanti. «L’Artico si sta riscaldando più velocemente del resto del pianeta», rivela lo stesso Maslowki, e quindi «i processi e le ricadute di un tale aumento sono una priorità non secondaria». Per la precisione, «si calcola che nei prossimi decenni i ghiacciai dell’Artico e del Greenland Ice Sheet cambieranno significativamente e contribuiranno all’innalzamento globale delle acque». Questo avrà «ricadute significative sull’innalzamento del livello marino globale, sulle grandi correnti oceaniche e sul livello di riscaldamento, sulle comunità autoctone, sull’esplorazione delle risorse naturali e sui trasporti commerciali».
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Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.
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Graziani, il maestro che previde la catastrofe dell’euro
Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».Attualissimi, in questo senso, i suoi studi sulle contraddizioni tra sviluppo economico italiano e ristrutturazione del capitalismo continentale, che oggi dominano la scena politica e sollevano dubbi crescenti sulla sopravvivenza dell’Unione monetaria europea. Nel 2002, a Napoli, nell’aula Vanvitelliana della facoltà di scienze politiche, Graziani tenne una lezione sull’euro appena entrato in circolazione. I colleghi ad ascoltarlo vennero numerosi, ricorda Brancaccio. «La sensazione era che i più lo onorassero senza esser minimamente persuasi dal suo scetticismo sulla sostenibilità futura dell’Eurozona», vittime già allora della «grancassa dell’ideologia» che in quei giorni «operava a pieno ritmo, seducendo persino le menti più brillanti e avvezze alla critica». Quanto a Graziani, «i suoi dubbi sulla moneta unica, ben saldati sul terreno dei fatti, non si limitavano a trarre spunto dalla nota lezione keynesiana sulla insostenibilità di quelle unioni valutarie che pretendono di scaricare l’intero peso dei riequilibri commerciali sui soli paesi debitori. Vi era pure, nella sua analisi, una lettura implicita del concetto marxiano di centralizzazione dei capitali, e dei tremendi conflitti politici che possono derivare da essa».Il pessimismo di Graziani, continua Brancaccio in un post ripreso da “Megachip”, era dunque fondato su una consapevolezza profonda dell’equilibrio precario su cui verteva il processo di unificazione europea, e del rischio che prima o poi la situazione potesse precipitare sotto il giogo di meccanismi favorevoli all’economia più forte del continente. Veniva così a crearsi uno scenario propizio per la riscoperta del sinistro monito di Thomas Mann sull’essenza dello spirito prevalente in Germania: «Dove l’orgoglio dell’intelletto si accoppia all’arcaismo dell’anima e alla costrizione, interviene il demonio». Nel clima di entusiasmo suscitato dalla nascita dell’euro, tuttavia, le preoccupazioni di Graziani non attecchirono. Nel nostro paese, piuttosto, trovò largo seguito l’improbabile ideologia del “vincolo esterno”. I suoi propugnatori sostenevano che i vincoli imposti dall’Europa sul governo della moneta, del tasso di cambio, dei bilanci pubblici, non costituivano la dimostrazione che l’Unione andava costituendosi a immagine e somiglianza degli interessi del più forte, ossia del capitalismo tedesco. Piuttosto, si diceva, quei vincoli avrebbero miracolosamente trasformato i piccoli ranocchi dello stagnante e frammentato capitalismo italiano in algidi principi della modernità globale, in vere e proprie avanguardie della produzione planetaria.Insomma, modernizzare il capitalismo italiano, renderlo più centralizzato e quindi più forte: alcuni padri della patria, continua Brancaccio, «hanno incredibilmente sostenuto che il vincolo esterno imposto dall’Europa potesse spontaneamente fare tutto questo, sia pure in un deserto di progettualità e di investimenti». In tanti furono abbagliati da simili illusioni. Di contro, in un articolo pubblicato sempre nel 2002 sulla “International Review of Applied Economics”, Graziani fu tra i pochi a segnalare che il vincolo esterno avrebbe potuto determinare un effetto esattamente opposto a quello annunciato. Previde cioè che i capitalisti italiani «avrebbero tentato di rimediare alla perdita delle ultime leve della politica economica tramite una ulteriore frammentazione dei processi produttivi, finalizzata a reiterare il lassismo in campo fiscale e contributivo e ad accelerare la precarizzazione del lavoro. Fino a scoprire, nella crisi, che questi rozzi tentativi di contrazione dei costi non potevano reggere a lungo».Oggi, conclude Brancaccio, sappiamo che le cose sono andate come Graziani aveva previsto. E sappiamo pure che, proseguendo di questo passo, «l’inasprirsi dei conflitti tra capitalismi europei potrà condurre a un tracollo dell’Unione che porrà i decisori politici di fronte a una scelta cruciale tra modalità alternative di uscita dall’euro, ognuna delle quali avrà diverse implicazioni sui diversi gruppi sociali coinvolti». I contributi di Graziani, fondati su una visione moderna delle contrapposizioni “tra e dentro” le classi sociali, potranno aiutarci anche ad afferrare i termini di quello snodo decisivo che pian piano affiora all’orizzonte. «Purtroppo, specialmente tra gli eredi più o meno diretti del movimento dei lavoratori, vi è oggi ancora chi preferisce distogliere lo sguardo da questa realistica prospettiva, e continua ad affidarsi alle sempre più flebili speranze di rilancio dei nobili ideali europeisti». Eppure, in tempi più illuminati del nostro, «è stato detto acutamente che l’invito a sperare è in fondo un invito a ignorare: chi conosce non spera ma prevede, e se le condizioni oggettive e la metodica organizzazione delle forze lo permettono, si dispone ad agire per il cambiamento», proprio come fece Augusto Graziani.Con Augusto Graziani è scomparso «il maestro di una intera generazione di economisti italiani, raffinato innovatore delle idee di Marx e Keynes e acutissimo critico dei luoghi comuni su cui regge il consenso verso la politica economica dominante». Graziani, lo ricorda l’economista Emiliano Brancaccio, ha incarnato una miscela unica di rigore intellettuale, potenza dialettica e delicatezza espressiva. «Una figura minuta, quasi a simboleggiare la fragilità della condizione umana, che manifestava una sincera empatia verso chiunque fosse soggiogato dalla durezza della vita materiale, ma che al contempo racchiudeva lo spirito di un temuto combattente, capace con pochi affondi di rivelare l’insipienza dei protervi strilloni della vulgata economica che avevano la sventura di incrociare le sue affilate armi critiche». Un uomo d’altri tempi, «nell’epoca della mediocrità alla ribalta», con le antenne accese sul futuro: «In più occasioni, infatti, Graziani ha saputo anticipare il corso degli eventi storici».
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Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.
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Maggiani: rimpiango i piccoli negozi, uccisi dall’avidità
Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere, e gli operai dei cantieri lungo la strada si godevano confortanti pause del mezzodì, e i girovaghi e i viandanti, tra questi il sottoscritto, se n’erano fatto un prezioso punto di ristoro e soccorso alle crisi ipoglicemiche.Con quel suo minuscolo esercizio la signora che lo gestiva non ci si è davvero arricchita, ma ci sono persone che vivono con piacere anche la semplice condizione di dignitoso sostentamento, appagandosi del necessario e ignorando l’accumulazione. Ora, dicevo, questa piccola, utile e buona cosa non c’è più. Colpa della crisi, ma di un particolare, e singolare, risvolto della crisi. Alla signora del commestibile il titolare della licenza ha chiesto un possente aumento del suo affitto, un aumento che non le permette di sopravvivere. Per inciso, stupidamente e ingenuamente, mi ero fatto l’idea che in questo Paese il commercio fosse attività liberalizzata da anni, così mi pareva per certe leggi di cui ero venuto a conoscenza, salvo constatare che non è così, non per alcuni settori strategici per la conservazione delle vecchie, care rendite di posizione, a ferma tutela del parassitismo nazionale; non solo taxi e farmacie, ma anche, per esempio, commestibili e ristorazione. Comunque, ecco, che il commestibile chiude, e non per questo se ne riapre uno nuovo, perché nessun pazzo è disponibile a farsi strozzare dall’avidità del titolare della licenza che gli dovrebbe consentire di vivere.Non più distante di un paio di chilometri da lì, sta chiudendo, sempre a causa delle pretese del “padrone” della licenza, e in questo caso anche dei muri, una piccola trattoria di collina, presa in gestione, dopo anni di decadenza e abbandono, da un giovane cuoco capace e volenteroso. Che si è rimesso a fare quei tre o quattro piatti della vecchia cucina di cui sentiamo ancora nostalgia, e li fa buoni e sani e alla portata dei più, e solo per questo dovrebbe essere nominato cavaliere del lavoro. Se ne andrà, fine, e al suo posto non ci sarà più niente di buono, perché a quei costi niente di buono può dar da vivere. Ben che vada al goloso proprietario, arriverà un qualche disperato furbastro o un ingenuo incompetente che firmerà un pacco di pagherò che non pagherà, e svanirà nel nulla in una manciata di mesi. Come è già capitato, come continua a succedere in ogni ramo del commercio.Perché se ne contano decine, centinaia di desolanti casi del genere in ogni città, centro storico, periferia e collina, e non si contano più le serrande abbassate e mai più rialzate, le vetrine vuote e le scritte “affittasi” ormai stinte. Come non si contano più i cambi continui di gestione. E c’è qualcosa di raccapricciante in questo. C’è il fatto che in tempo di crisi chi ha la “roba” da ricavarci una rendita di posizione, è preso da una fame di profitto ancor maggiore della sua solita, tipica fame. Una smania di fare ancora più soldi di quanti non ne abbia già fatto, da accecarlo. Sfugge a una qualsivoglia regola dell’accumulo capitalistico il pretendere più di quanto la “roba” valga sul mercato. Sfugge a qualsivoglia ragionevole calcolo preferire nessun reddito a un modesto ma certo reddito. A meno che il calcolo non segua le regole dell’irragionevole, ultra umana avidità che presagisce vacche grasse da mungere e macellare che nessun altro sa immaginare. E a me pare più che un problema sociologico da sottoporre agli economisti, una questione da affrontare nell’ambito della psicoanalisi, là dove getto lo sguardo nello sprofondo delle pulsioni di morte. E vedo in quegli avidi il Mazzarò della novella del Verga che ancora, mi pare, si studia a scuola. Il racconto della “Roba” e di quel tale, Mazzarò, che, dopo una vita dedicata all’accumulo in totale dispregio degli uomini e di Iddio, in punto di morte si mette a distruggere la sua roba urlando a squarciagola: Roba mia vieni con me.(Maurizio Maggiani, “Quei piccoli negozi uccisi dall’avidità”, da “Il Secolo XIX” del 24 giugno 2012).Finiscono un sacco di cose nel tempo della crisi; si estinguono, si dissanguano, si consumano un sacco di cose che avrebbero meritato di esserci, di perdurare, di resistere. Perché la crisi spazza via parecchio dell’inutile e dell’obsoleto, ma anche molto di buono, di utile, di bello. In una minuscola, antica frazione sulla collina del golfo di La Spezia, uno dei non pochi borghi rimasti vivi nonostante i vecchi abbandoni e le recenti speculazioni, un borgo ancora abitato dai vecchi che hanno voluto rimanere e dai giovani che hanno voluto tornare, c’era un piccolo commestibile. Era un presidio importante e amato; gli anziani potevano comprare le cose essenziali senza dover faticosamente scendere in città, i giovani tornavano dal lavoro e lo trovavano aperto alle ore insolite dei loro frettolosi rientri. E siccome la signora che lo gestiva sapeva fare in cucina delle cose molto buone che metteva sul banco, le giovani coppie non sentivano troppo la lontananza dalle vecchie madri cuciniere