Archivio del Tag ‘umanità’
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Potere massonico: Silvio e Giorgio, affinità e fratellanza?
«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».Se di Berlusconi si ricorda l’iscrizione alla Loggia P2 di Licio Gelli nel 1978, da cui poi proseguì «il suo percorso massonico alla corte del Gran maestro Armando Corona dal 1982 al 1990», con accanto Marcello Dell’Utri – sempre secondo Magaldi – per tessere la rete di relazioni alla base di Forza Italia, per Pinotti e Santachiara è «molto più complesso il discorso che riguarda Napolitano», come affermano nel loro libro, di cui “Affari Italiani” pubblica un’anticipazione. «È possibile che le sintonie con Berlusconi siano state facilitate da comuni vicinanze su questo terreno? Secondo Magaldi – che lo ha affermato in numerose interviste – non vi sono dubbi sul fatto che il presidente della Repubblica sia un “fratello”». Dichiarazioni certamente insufficienti, ammettono i due giornalisti, intenzionati ad “approfondire” il tema con «un’autorevole fonte», che però «ha chiesto di rimanere anonima». Si tratta di «un avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti». L’avvocato sarebbe «figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Secondo il legale, già il padre di Napolitano è stato «una delle figure più in vista della massoneria partenopea».Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (notoriamente legatissimo al padre, che ammirava profondamente) non solo l’amore per i codici ma anche quello per la “fratellanza”? «A rafforzare la connotazione “muratoria” dell’ambiente in cui è nato Giorgio Napoletano c’è un altro massone, amico fraterno del padre: Giovanni Amendola, padre di Giorgio, storico dirigente del Pci e figura fondamentale per la crescita intellettuale e politica dell’attuale presidente della Repubblica», scrivono Pinotti e Santachiara. «Va detto che l’appartenenza alla massoneria non è un reato, anzi, molto spesso figure a essa legate sono diventate protagoniste di rivoluzioni innovatrici e progressiste». Certo, il legame massonico «rappresenta una modalità di gestione del potere di cui poco si conosce». Modalità che «è spesso determinante per capire i fatti più recenti della politica italiana e internazionale». Per molti aspetti, sostiene la “fonte” dei due reporter, «Napolitano è assimilabile a Mitterrand, che era anche lui massone», ed è stato il politico più decisivo nell’imporre in Europa sia il regime dell’euro che l’asfissia del rigore come “virtù” neoliberista, oggi simboleggiata dal tetto del 3% deficit-Pil per la spesa pubblica. Un vincolo fatale, che sta mettendo in croce le democrazie europee e demolendo il nostro tessuto socio-economico.Sempre secondo l’anonimo avvocato napoletano citato da Pinotti e Santachiara, la visione di Napolitano è identica a quella della “république” incarnata da Mitterrand, «un monarchico travestito da socialista» secondo un ex consulente dell’Eliseo come l’economista Alain Parguez, nemico giurato dell’euro-regime di Bruxelles. «L’appartenenza massonica di Napolitano è molto diversa da quella di Ciampi, fa riferimento a mondi molto più ampi», continua “l’avvocato”. «Ciampi inoltre è un cattolico. Napolitano si muove in un contesto più vasto». La massoneria italiana, dal canto suo, ha sempre espresso grande simpatia verso l’attuale presidente della Repubblica, sostengono i due autori del libro. «Il Gran maestro del Grande Oriente d’Italia (Goi), avvocato Gustavo Raffi, si è rivolto più volte pubblicamente a Napolitano, esprimendo simpatia e deferenza». Il 10 maggio 2006, dopo la prima elezione alla presidenza della Repubblica, Raffi esultava indicando la scelta di Napolitano come «uno dei momenti più alti nella vita democratica del paese», ed esprimeva felicitazioni «a nome dei liberi muratori del Grande Oriente d’Italia».Stesso entusiasmo nel marzo del 2010, per la rielezione di Napolitano al Quirinale, di fronte all’agonia del Parlamento tramortito dall’exploit di Grillo dopo la micidiale “cura dimagrante” affidata a Monti e Fornero. E il 13 giugno 2010, lo stesso Raffi si è spinto «sino alla soglia di pesanti rivelazioni, rispondendo a una domanda non casuale di Lucia Annunziata», nella trasmissione Rai “In mezz’ora”. Domanda: «Napolitano potrebbe essere un massone sotto il profilo dei valori?». Netta la risposta di Raffi: «A mio avviso sì, per umanità, distacco, intelligenza, per avere levigato la pietra, per averla sgrezzata, lo dico in linguaggio muratorio, in questo senso sì». Anche nel 150° anniversario dell’Unità d’Italia, aggiungono Pinotti e Santachiara, si registrano convergenze tra la spinta celebrativa del Colle e i momenti pubblici organizzati dalla massoneria italiana, artefice forte del Risorgimento. Il 7 gennaio 2011 Raffi apre le danze dichiarando: «Come ci ricorda con il suo esempio altissimo il capo dello Stato Giorgio Napolitano, abbiamo il compito di ritrovare fiducia, unità e coesione nazionale, capacità di risolvere i problemi, insieme a progetti che indichino la strada al di là di ogni polemica di parte e del cortile degli interessi».«Berlusconi ha avuto molto, in passato, in termini di supporto e relazioni significative, dall’ambiente libero-muratorio. Per converso, sono stati proprio alcuni circuiti massonici sovranazionali a pretendere e a determinare la caduta politica del “fratello Silvio” nell’autunno del 2011, imponendo il collocamento del “fratello” Mario Monti a Palazzo Chigi». Un’affermazione forte, che il leader del “Grande Oriente Democratico” Gioele Magaldi ha rilasciato in un’intervista a Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, autori del saggio “I panni sporchi della sinistra” (Chiarelettere). Ma l’obiettivo dei due autori non è tanto il Cavaliere, la cui militanza massonica è arcinota, quanto l’uomo del Colle: «Il complesso rapporto creatosi nel corso degli anni tra Berlusconi e Napolitano – scrivono – suggerisce sintonie che spesso vanno oltre la simpatia personale e il reciproco rispetto che può esistere tra figure che dovrebbero essere radicalmente lontane, sia per storia intellettuale e professionale sia per schieramento politico».
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La via dei lupi, per resistere. Vale un film: facciamolo
Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.«Viviamo in città lontano dalla natura, mangiamo senza fame e beviamo senza sete, ci stanchiamo senza che il corpo fatichi, rincorriamo il nostro tempo senza raggiungerlo mai». Così scriveva, Carlo Grande, nel libro-confessione “Terre alte”. «Abbiamo bisogno di riprenderci le nostre vite, di trovare una strada che ci riporti al centro di noi stessi». Era solo il 2008, ma sembra un secolo fa. «Quando si ha, come noi, una tale sicurezza materiale da non temere più di tanto per il futuro, quando non ci si domanda cosa succederà la settimana prossima, quando si ha sempre di che vivere e non si sa più per cosa, si forma intorno a noi una prigione senza confini, da cui è difficile fuggire». Oggi, col precipitare della crisi, molte di queste sicurezze sono cadute: sono migliaia, milioni, i cittadini italiani ed europei che hanno ripreso a preoccuparsi per la loro sorte immediata, a causa di una sofferenza decretata dall’alto di un potere oscuro, percepito come ostile. Un potere accusato di aver tradito la sua promessa, venendo meno al suo dovere.E’ proprio il dolore per il tradimento – quello del principe che gli ha sedotto la figlia – a scatenare la furia del feudatario valsusino: il Delfino francese ha calpestato le regole, su cui si regge la civiltà medievale del “paratge”, l’onore tra uomini liberi che accettano volontariamente di mettersi al servizio l’uno dell’altro. E’ la “civiltà mediterranea”, nella quale Simone Veil individua l’ultima reincarnazione dell’Atene di Pericle (il culto della bellezza) prima che le forze più aggressive della storia spegnessero la luce, dalle legioni conquistatrici alla sanguinosa repressione delle eresie libertarie. Se oggi i critici più intransigenti puntano il dito contro il nazi-capitalismo finanziario che muove i burattini di Bruxelles imponendo la “desmisura” di condizioni-capestro assolutamente insostenibili per il 99% dei cittadini, i territori riscoprono il valore dimenticato della comunità solidale, come dimensione indispensabile non solo per l’autodifesa, ma anche per la coltivazione di quell’umanesimo in mancanza del quale non potremmo vivere. Anche così si può rileggere la vicenda di François: senza il coraggioso sostegno della sua gente non sarebbe mai riuscito a ribellarsi né a evadere dal carcere, né tantomeno a resistere così a lungo tra le nevi delle sue montagne.E’ esattamente questo tipo di bellezza che il film è ansioso di esprimere, nel silenzio incantato delle foreste. C’è anche una salutare nostalgia per il “mondo bambino” del medioevo più luminoso, la civiltà di uomini e donne che sapevano gioire, piangere, commuoversi, tra montagne che – per secoli – tennero in vita la Repubblica degli Escartons, straordinario esperimento di autogoverno cantonale, nel cuore dell’Europa. Si parlava occitano, la lingua di François, quella in cui Dante avrebbe voluto scrivere la Commedia, perché solo i trovatori provenzali – i primi, dall’avvento della cristianità – avevano riscoperto la tenerezza dell’amore, quella dei lirici greci, e avevano cominciato a cantarla, sfidando l’oscurantismo vaticano grazie alla protezione di autorità politiche tolleranti. «Il film – dice oggi Carlo Grande – sarebbe un fecondo generatore di bellezza, un balsamo alla solitudine morale: credo in questo film perché credo in questa storia, in questo libro, in tempi di carestia fisica (di aria, di acqua, di terra) e spirituale (etica ed estetica)». Il cinema italiano non è in grado di produrre il film, per questo si pensa a Hollywood. Un percorso da fare insieme, appropriandosi della causa. Basta anche solo un piccolo tributo d’onore, per co-finanziare l’adattamento in inglese. E far sentire che la comunità non se la sente di abbandonare il suo antico eroe: oggi come allora, il vecchio François – guerriero riluttante, partigiano della libertà – per tornare a lottare sulla “via dei lupi” ha davvero bisogno di noi.(Per aderire alla sottoscrizione è sufficiente prenotarsi, senza alcun anticipo di denaro, sulla piattaforma di social crowdfundig “Produzioni dal basso”, dichiarando la propria disponibilità a sostenere il progetto, anche solo con la quota minima di 20 euro. Più quote danno diritto alla presenza nei titoli coda, al dvd e all’invito a proiezioni nei cinema. L’obiettivo è vicino: ancora pochi click e si raggiungeranno i 4.000 euro necessari a finanziare la revisione della sceneggiatura, che consentirà di impostare la produzione del film).Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.
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Vandana Shiva: perché la crescita è nemica della vita
La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate. L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una penuria d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 chilometri, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprarne di più ad ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori è aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso e la gente diventa più povera. Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per “casa”. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.L’aumento del flusso di denaro attraverso il Pil si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete li conduce all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno riconosciuto che il Pil non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la “felicità nazionale lorda” al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il Pil, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.(Vandana Shiva, “Come la crescita economica è diventata nemica della vita”, intervento pubblicato dal “Guardian” e ripreso il 4 novembre 2013 da “Come Don Chisciotte”).La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.
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La verità su Ert, il super-clan che domina i nostri politici
Accanto all’oscuro Carlo Bozotti, re della micro-elettronica che controlla l’infrastruttura web, siedono Paolo Scaroni dell’Eni e rampolli delle più importanti dinastie dell’élite italiana, da John Elkann del gruppo Fiat a Rodolfo De Benedetti della Cir. Sono gli onnipotenti signori della Ert, European Round Table, la super-lobby più potente della Terra. Fondata trent’anni fa su iniziativa di Reagan per controllare l’Europa, con la partecipazione di italiani come Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, la Ert è oggi la vera struttura di comando dell’Unione Europea, quella che “detta” le direttive ai vari Barroso e Van Rompuy, le quali poi – a catena – le passano agli ultimi esecutori periferici, che in Italia si chiamano Berlusconi e D’Alema, Letta e Monti. La notizia? «Ormai, convinti di aver vinto, si sono aperti il loro bravo sito dove si presentano per ciò che sono, suddivisi per settori di competenze e segmenti di mercato». Prova a smascherarli un documentario dirompente, “The Brussels Business”, diretto da Friedrich Moser e Mathieu Lieuthert, che verrà proiettato nelle principali città europee.Sono la vera cupola che sovrintende al destino degli europei, scrive il blogger Sergio Di Cori Modigliani: «Decidono chi governa e chi non lo fa, stabiliscono se l’Italia avrà le larghe intese, se la Germania avrà la grosse koalition e se è il caso che il Belgio abbia o non abbia un governo. Decidono quali leggi far passare in Italia e nel resto d’Europa. Decidono quanti disoccupati ci devono essere o non essere, e se le imprese italiane devono o non devono essere pagate. Sono tutti membri del più potente club del pianeta Terra. In confronto, il Bilderberg è folklore per nuovi ricchi a caccia di status sociale da esibire». La foto di gruppo dei fondatori parla chiaro: sul ponte di comando figurano i signori Thyssen, Siemens, Shell, Philips, Nestlé, Volvo, Renault. Oggi sono ancora più potenti, da quando Bruxelles ha centralizzato ogni decisione sul nostro futuro. Bce, Fmi, Commissione Europea, Eurozona. Siamo nelle loro mani. Hanno migliaia di funzionari, miliardi di budget. «Controllano il 75% della produzione mediatica europea», e inoltre presidiano «le borse, i mercati, gli investimenti industriali». Stabiliscono tutto: «Le assunzioni nelle corporation e nelle aziende statali strategiche, le commesse militari, chi deve andare su e chi giù, chi andrà a dirigere i canali televisivi, i giornali, le banche». Leggi, capitali, leader. Decidono tutto loro: «Parlare di Berlusconi o di Letta è inutile, sono persone che non contano nulla».Il documentario di Moser e Lieuthert li mette a nudo: «Loro sono i monarchi, noi siamo i loro sudditi. Per queste persone noi non esistiamo come esseri umani, siamo – come ha ben sintetizzato il grande sociologo Zygmunt Bauman – un danno collaterale». Il loro obiettivo, in questa fase? «Distruggere ogni tentativo di costruire modelli di cittadinanza attiva e di opposizione ai partiti che loro controllano e finanziano in Europa». E’ intorno a questo club che si gioca la partita d’Europa, continua Modigliani: è fondamentale quindi conoscerne la genesi, le modalità di comportamento e la strategia di impiego. Solo così potremo «cominciare a parlare delle questioni vere, sapendo chi sono gli interlocutori veri, di cui in televisione e sul cartaceo non sentirete mai neppure una parola al riguardo». Chiaro: «Sapere chi sono e cosa fanno è fondamentale per aumentare le possibilità statistiche di poter vincere la battaglia europea per fermare questo massacro e avviare un processo di rifondazione dell’Europa dei diritti civili, della cultura, della civiltà: se non sappiamo neppure chi sono, come possiamo minimamente pensare di essere in grado di poterli contrastare?».Accanto all’oscuro Carlo Bozotti, re della micro-elettronica che controlla l’infrastruttura web, siedono Paolo Scaroni dell’Eni e rampolli delle più importanti dinastie dell’élite italiana, da John Elkann del gruppo Fiat a Rodolfo De Benedetti della Cir. Sono gli onnipotenti signori della Ert, European Round Table of Industrialists, la super-lobby più potente della Terra. Fondata trent’anni fa su iniziativa di Reagan per controllare l’Europa, con la partecipazione di italiani come Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, la Ert è oggi la vera struttura di comando dell’Unione Europea, quella che “detta” le direttive ai vari Barroso e Van Rompuy, i quali poi – a catena – le passano agli ultimi esecutori periferici, che in Italia si chiamano Berlusconi e D’Alema, Letta e Monti. La notizia? «Ormai, convinti di aver vinto, si sono aperti il loro bravo sito dove si presentano per ciò che sono, suddivisi per settori di competenze e segmenti di mercato». Ora prova a smascherarli un documentario dirompente, “The Brussels Business”, diretto da Friedrich Moser e Mathieu Lieuthert, che verrà proiettato nelle principali città europee.
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Chomsky: liberarsi dagli Usa, lo Stato-canaglia impunito
Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).Esiste ancora una organizzazione repubblicana, ma essa da lungo tempo ha abbandonato qualsiasi pretesa di essere un partito parlamentare normale. Il commentatore conservatore Norman Ornstein, dello Enterprise Institute, descrive i repubblicani di oggi come «una rivolta radicale – ideologicamente estrema, sdegnosa dei fatti e dei compromessi, che disprezza la legittimità della sua opposizione politica»: un grave pericolo per la società. Il partito è al servizio dei più ricchi e delle imprese. Siccome i voti non possono essere ottenuti a quel livello, il partito è stato costretto a mobilitare settori della società che per gli standard mondiali sono estremisti. Pazza è la nuova norma tra i membri del Tea Party e una miriade di altri gruppi, al di là della corrente tradizionale. La classe dirigente repubblicana e i suoi sponsor d’affari avevano previsto di usarli come ariete nell’assalto neoliberista contro la popolazione – privatizzare, deregolamentare e limitare il governo, pur mantenendo quelle parti che sono al servizio della ricchezza e del potere, come i militari.La classe dirigente repubblicana ha avuto un certo successo, ma ora si accorge che non riesce più a controllare la sua base, con sua grande costernazione. L’impatto sulla società americana diventa così ancora più grave. Un esempio: la reazione virulenta contro l’Affordable Care Act (Atto sulla Salute Conveniente, è il piano nazionale per la sanità, più noto in Italia come ObamaCare, ndt) e il quasi shutdown del governo federale. L’osservazione del commentatore cinese non è del tutto nuova. Nel 1999, l’analista politico Samuel Huntington avvertiva che, per gran parte del mondo, gli Usa stavano diventando «la superpotenza canaglia», visti come «la più grande minaccia esterna per le loro società». A pochi mesi dall’inizio del mandato di Bush, Robert Jervis, presidente della American Political Science Association, avvertiva che «agli occhi di gran parte del mondo, il primo Stato-canaglia oggi sono gli Stati Uniti». Sia Huntington che Jervis hanno avvertito che un tale corso è imprudente. Le conseguenze per gli Stati Uniti potrebbero essere deleterie.Nell’ultimo documento emanato da “Foreign Affairs”, uno dei principali giornali, David Kaye esamina un aspetto dell’allontanamento di Washington dal mondo: il rifiuto dei trattati multilaterali, «come se si trattasse di sport». Kaye spiega che alcuni trattati vengono respinti in modo definitivo, come quando il Senato degli Stati Uniti «ha votato contro la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità nel 2012 e il Comprehensive Nuclear – Test Ban Treaty (il trattato sulla messa al bando del nucleare – Ctbt), nel 1999». Per altri trattati si preferisce non agire, se riguardano «temi come il lavoro, i diritti economici e culturali, le specie in pericolo di estinzione, l’inquinamento, i conflitti armati, il mantenimento della pace, le armi nucleari, la legge del mare, la discriminazione contro le donne». Il rifiuto degli obblighi internazionali è cresciuto in modo così radicato, scrive Kaye, che «i governi stranieri non si aspettano più la ratifica di Washington o la sua piena partecipazione nelle istituzioni create dai trattati. Il mondo va avanti; le leggi vengono fatte altrove, con limitato (quando c’è) coinvolgimento americano».Anche se non è nuova, la pratica si è effettivamente consolidata in questi ultimi anni, insieme con la tranquilla accettazione, all’interno della nazione, della dottrina secondo cui gli Usa hanno tutto il diritto di agire come uno Stato-canaglia. Per fare un esempio, un paio di settimane fa le forze speciali Usa hanno preso un sospetto, Abu Anas al-Libi, dalle strade della capitale libica Tripoli, portandolo su una nave da guerra per l’interrogatorio, senza avvocato o diritti. Il segretario di Stato americano John Kerry ha informato la stampa che quelle azioni sono “legali” perché sono conformi con il diritto americano, senza suscitare alcun particolare commento. I principi sono validi solo se sono universali. Le reazioni sarebbero un po’ diverse, manco a dirlo, se le forze speciali cubane avessero rapito il prominente terrorista Luis Posada Carriles a Miami, portandolo a Cuba per l’interrogatorio e il processo in conformità alla legge cubana.Tali azioni sono limitate agli Stati-canaglia. Più precisamente, a quegli Stati-canaglia abbastanza potenti da agire impuniti, in questi ultimi anni, fino a svolgere aggressioni a volontà e terrorizzare le grandi regioni del mondo, con gli attacchi dei droni e molto altro. E a sfidare il mondo in altri modi, ad esempio persistendo nel suo embargo contro Cuba, nonostante l’opposizione di lunga durata di tutto il mondo, oltre a Israele, che ha votato con il suo protettore quando le Nazioni Unite hanno condannato ancora una volta l’embargo nel mese di ottobre. Qualunque cosa il mondo possa pensare, le azioni degli Usa sono legittime perché diciamo così. Il principio fu enunciato dall’eminente statista Dean Acheson nel 1962, quando diede istruzioni alla Società americana di diritto internazionale, in base alle quali nessun problema giuridico si pone quando gli Stati Uniti rispondono a una sfida per il loro «potere, posizione e prestigio». Cuba ha commesso quel delitto quando ha sconfitto un’invasione proveniente dagli Stati Uniti e poi ha avuto l’ardire di sopravvivere a un assalto progettato per portare «i terroristi della terra» a Cuba, nelle parole dello storico Arthur Schlesinger, consigliere di Kennedy.Quando gli Stati Uniti hanno ottenuto l’indipendenza, hanno cercato di unirsi alla comunità internazionale del tempo. E’ per questo che la Dichiarazione d’Indipendenza si apre esprimendo la preoccupazione per il “rispetto delle opinioni dell’umanità”. Un elemento cruciale fu l’evoluzione da una confederazione disordinata verso un’unica «nazione degna di stipulare trattati», secondo l’espressione storica del diplomatico Eliga H. Gould, che osservava le convenzioni dell’ordine europeo. Con il raggiungimento di questo status, la nuova nazione otteneva anche il diritto di agire a suo piacimento a livello nazionale. Poteva quindi procedere a liberarsi della popolazione indigena e ad espandere la schiavitù, una istituzione così “odiosa” che non poteva essere tollerata in Inghilterra, come l’illustre giurista William Murray, conte di Mansfield, stabilì nel 1772. L’evoluzione del diritto inglese era un fattore che spingeva la società schiavista a sfuggire alla sua portata. Il diventare una “nazione degna di stipulare trattati” conferì molteplici vantaggi: il riconoscimento da parte degli altri Stati e la libertà di agire senza interferenze a casa propria. Il potere egemonico fornisce l’opportunità di diventare uno Stato-canaglia, sfidando liberamente il diritto internazionale e le sue norme, mentre affronta una crescente resistenza all’estero e contribuisce al proprio declino attraverso ferite auto-inflitte.(Noam Chomsky, “De-americanizzare il mondo”, intervento pubblicato su “Truth Out” il 5 novembre 2013 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Durante l’ultima puntata della farsa di Washington che ha stupito e divertito il mondo, un commentatore cinese ha scritto che se gli Usa non possono essere un membro responsabile del sistema mondiale, forse il mondo dovrebbe “de-americanizzarsi” – separarsi dallo Stato-canaglia che regna tramite il suo potere militare, ma sta perdendo credibilità in altri settori. La fonte diretta dello sfacelo di Washington è stato il forte spostamento a destra della classe politica. In passato, gli Usa sono stati talvolta descritti ironicamente – ma non erroneamente – come uno Stato avente un unico partito: il partito degli affari, con due fazioni chiamate democratici e repubblicani. Questo non è più vero. Gli Usa sono ancora uno Stato a partito unico, il partito-azienda. Ma hanno una sola fazione: i repubblicani moderati, ora denominati New Democrats (come la coalizione al Congresso Usa designa se stessa).
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Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore
S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
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Il Club di Sofia: falsa Europa, in guerra contro di noi
Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.Ora la competizione, che è stata la macchina dello sviluppo degli ultimi tre secoli, sta diventando la macchina che produce la guerra. Ciò è l’effetto dei limiti dello sviluppo, nel frattempo emersi, e della fine dell’“era dell’abbondanza”. Ciò si sta verificando in condizioni di profonda e generale disuguaglianza: nel campo della potenza militare; nel campo delle tecnologie; nel campo del consumo e dei redditi; nel campo del denaro; nel campo delle risorse, nel campo delle istituzioni. Se questi vincoli noi li mettiamo assieme alla vecchia idea della competizione è ovvio che il mondo sarà fatalmente spinto verso l’uso della forza. È ciò cui stiamo assistendo: coloro che sono più forti saranno spinti dalla circostanze a usare la loro forza. Lo faranno. Lo hanno già fatto. Lo stanno facendo ora in Siria. Chi sarà il prossimo della lista?Il contesto globale è orientato verso la falsa idea della società di consumatori. Noi riteniamo che muoversi in questa direzione significhi promuovere una successione di conflitti, sia globali, sia regionali – che condurranno il mondo intero in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la catastrofe di una nuova guerra mondiale. Una tale guerra sarà simile a quella che il mondo conobbe 100 anni orsono, ma ingigantita dall’esistenza di armi nucleari e di altro genere, dotate di un potere tremendamente distruttivo. I pericoli di guerra stanno aumentando. Molti segnali sono già visibili, ma molti preferiscono non vederli. Il collasso di una civilizzazione moderna basata sul consumo è inevitabile. Non è questione di buona o cattiva volontà. Il fatto è che la crisi mondiale si va estendendo sia in termini di complessità, e di dimensione, sia in termini di profondità, e non vi è chi abbia una soluzione in vista: non gli Stati, non la scienza del XX secolo, non le differenti culture e religioni.Siamo in presenza di una tremenda carenza di comprensione proprio della complessità della crisi. Essa non si riduce a una semplice somma di fattori, come la crisi finanziaria, quella dei cambiamenti climatici, quella dell’energia, dell’acqua, della disoccupazione, della crescita demografica, degli ecosistemi violati, della diversità biologica compromessa. Inoltre noi non siamo di fronte a una crisi lineare. Al contrario noi vediamo i rischi di una catastrofe senza precedenti che richiede, prima di tutto, di essere compresa e, insieme, controllata. Stiamo già assistendo a un accelerato percorso verso una catena di collassi interconnessi tra di loro e che possono demolire i pilastri portanti della civilizzazione umana. Noi riteniamo che soltanto una Nuova Europa Unita possa essere uno dei pilastri di una coesistenza pacifica multipolare nel XXI secolo.È un’Europa multiculturale che si adopera per gettare un ponte tra il Nord e il Sud, specialmente nell’area mediterranea. Un’Europa che venisse concepita come una fortezza dovrebbe affrontare non solo una ma molte Lampedusa tutto attorno ai suoi confini e perfino all’interno di essi. Noi siamo contro ogni tentativo di costruire un nuovo “Muro di Berlino” nella forma di “arco Mar Baltico-Mar Nero-Mar Caspio”, utilizzando i partner orientali dell’Unione Europea. La Russia – nonostante le differenze tra regimi politici – è già sotto molti profili interconnessa con l’Europa ed è il grande vicino che l’Unione Europea deve considerare partner affidabile. La Russia, la Turchia, l’Unione Europea e i suoi partner dell’est – Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina – devono considerare se stessi come componenti decisive di una indivisibile sicurezza europea. Questo sarà il contributo dell’Europa alla pace e alla sicurezza del mondo intero. Gli Stati Uniti d’America, che durante la Guerra Fredda hanno svolto il ruolo di un alleato “privilegiato e protettore” dell’Unione Europea, devono ora diventare partner con eguali diritti.Una Nuova e Unita Europa, capace di svolgere un attivo ruolo di pace, deve essere forte e autonoma nelle sue decisioni. Una Nuova e Unita Europa costruita su questi principi non ha nemici. Ciò significa che essa deve avere un proprio esercito, che dovrà essere utilizzato solo ed esclusivamente sotto l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È giunto il tempo di abbandonare lo schema amici-nemici che fu caratteristico della Guerra Fredda. Esso è ormai il passato. La sicurezza è di ciascuno e di tutti. Ogni tentativo di costruire la sicurezza solo per noi stessi senza tenere contro di quella degli altri produrrà soltanto tensioni e conflitti. Il compito primario è dunque quello di costruire amicizie di lunga durata, cooperazioni strategiche in tutte le direzioni. Una nuova guerra globale sarebbe la fine dell’umanità e ogni piano che la preveda come possibile è un’idea folle. Noi, membri del Club di Sofia, ci impegniamo a costruire un tale approccio e a proporlo a tutti i soggetti di tutti i continenti, a trovare una via comune per la comprensione della nuova epoca che irrompe ad alta velocità nelle nostre vite e che tratteggia il destino delle future generazioni. Noi vogliamo agire non solo per il loro benessere, ma per la loro stessa sopravvivenza.(Sintesi della Dichiarazione costitutiva del “Club di Sofia”, think-tank paneuropeo costituitosi nella capitale bulgara il 26 ottobre, su iniziativa di Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”, con Antonio Ingroia di “Azione Civile”, il greco Panos Trigazis di “Syriza” e la lettone Tatjana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del “Partito per i diritti umani nella Lettonia Unita”. Tra i promotori anche altri parlamentari come l’ucraino Vadim Kolesnichenko, del “Partito delle Regioni”, e il deputato comunista moldavo Zurab Todua. Completano la lista dei fondatori del “Club di Sofia” il russo Sergey Kurginyan, presidente del partito “Essenza del Tempo”, il polacco Mateusz Piskorski, direttore esecutivo dell’“European Centre of Geopolitical Analysis”, il lituano Algirdas Paleckis, del partito “Fronte Socialista del Popolo” e il bulgaro Zakhari Zakhariev, presidente della “Sklavyani Foundation” e dirigente del Partito Socialista di Bulgaria).Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.
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Priebke, gli schiavi di Auschwitz e quelli di Bruxelles
«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, osserva “Comidad”, lo stesso Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio delle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero praticabili nelle società tribali, non certo nell’Europa dei lumi. «A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare e usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali era stato nel 1917 il ministro degli esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale», in riconoscimento di quanto gli ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la Prima Guerra Mondiale contro la Germania. «La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli ebrei».Ma nel “Mein Kampf”, aggiunge “Comidad”, l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia “perfida e ostile”, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque e in ogni situazione. «Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che sino ad allora si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa». Così, caduto il Muro di Berlino, anche l’Europa occidentale si è dovuta piegare alle stesse forche caudine – privatizzazioni e liquidazione del welfare – come se anch’essa fosse stata sconfitta al termine della Guerra Fredda. «Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di “redenzione”».La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il Fmi uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, e i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale. «Nel secondo dopoguerra», continua “Comidad”, «l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani – per quanto conosciuto e documentato è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca Ig Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La Ig Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank».La Ig Farben di Auschwitz «rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò – conclude “Comidad” – lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale». Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle rilocalizzazioni aziendali «costituisce una macabra ironia della storia». Una logica aziendale estremizzata ad Auschwitz, nella sua spaventosa chiarezza genocida: «Grazie alle deportazioni di massa, la “materia prima umana” veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere». Da qui, «per mere ragioni di budget», la sottoalimentazione dei lavoratori e l’eliminazione sistematica degli inabili al lavoro. Se nell’economia il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, «certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili: al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi».Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali. Il nazismo, «di solito fatto passare per un nazionalismo estremo», al contrario «anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato», rileva “Comidad”. «Tutto dev’essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale». Se il parallelismo può suscitare perplessità, data la distanza storica, «resta il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa».«La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.
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Verità di Stato: oggi contro i negazionisti, ma domani?
Il recente voto parlamentare sul “negazionismo”, in pieno revival di una potente campagna sui reati d’opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, scrive Pino Cabras, una legge presentata come “antifascista” è «il nido in cui farà l’uovo lo Stato etico», cioè «la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo». Beninteso: «Un fascismo di tipo nuovo, politically correct». Dopo tanti tentativi, finora sempre bloccati dalla forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti, anche in Italia la repressione penale delle opinioni s’è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive: l’emendamento presentato nella commissione giustizia del Senato (relatrice la Pd Rosaria Capacchione) e approvato da Pd e Pdl, “Scelta Civica” e Sel, nonché dai senatori “5 Stelle” Cappelletti e Gianrusso, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi “nega o minimizza crimini di genocidio”, come la Shoah.«L’idea di contrastare con la legge penale le opinioni – per quanto infondate e profondamente sbagliate – apre scenari pieni di pericoli», avverte Cabras su “Megachip”. «Legare l’interpretazione della Storia a una legge penale sarebbe come cristallizzare una conoscenza scientifica aperta al dibattito – ad esempio le scoperte di Newton – in una norma sigillata dal dogma dello Stato (e un domani di un governo o di un regime politico contingente)». Accadeva ai tempi dell’Inquisizione, con Galileo costretto abiura e Giordano Bruno al rogo. «Una volta aperto un varco così grande a questo modo di procedere, potrebbero presentarsi abusi drammatici su ogni interpretazione controversa degli eventi storici». L’Europa non è immune dal contagio, come dimostra la recente condanna (tre anni e mezzo di reclusione) dell’austriaca Sylvia Stoltz, avvocato difensore di un presunto “negazionista”.«Le norme qui in Italia non ci sono ancora, ma la tempesta sì: contro Piergiorgio Odifreddi, che si è dichiarato contrario all’approvazione della legge, è già in corso una campagna d’intensità maccartista». Risultato: «Molti di coloro che vorrebbero dire pubblicamente che Odifreddi deve potersi esprimere liberamente non lo faranno, perché il manganello mediatico fa già male. Figuriamoci il clima che avremo con un manganello penale». Tendenza segnalata già nel 2009 dall’insigne medievista Franco Cardini: «Cresce il numero di chi in pubblico afferma una cosa e in privato sostiene esattamente il contrario. E sapete perché? Per il fatto che se ne perseguitano i sostenitori e che li si condanna senza dar loro il diritto di parlare e senza controbattere. Ma in questo modo si crea nell’opinione pubblica la crescente sensazione che se ne abbia paura, e che essi stiano dicendo cose vere: e, questo sì, può costituire la premessa a una nuova ondata di pregiudizio antisemita, anche se è difficile immaginare sotto quali forme potrebbe presentarsi».Le motivazioni per opporsi a un simile provvedimento, ricorda Cabras, sono già state formulate molto bene nel 2007 da molti storici italiani, tra cui diversi studiosi con profonde radici familiari e intellettuali nell’ebraismo italico. Allora si opposero fermamente a Clemente Mastella, all’epoca ministro della giustizia, che – fotocopie alla mano – voleva introdurre nel nostro ordinamento una legge analoga alla francese Fabius-Gayssot. Intervennero storici come David Bidussa, Anna Rossi Doria, Paul Ginsborg e Carlo Ginzburg, Mario Isnenghi, Fabio e Giovanni Levi, Sergio Luzzatto e uno storico della Resistenza come Claudio Pavone. Il reato di negazionismo? Offre ai negazionisti «la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione», perché la legge – perseguendole penalmente – rifiuterebbe di contestare e smontare le loro tesi. In più, «si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico», cosa che «rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato». Attenzione: ogni verità imposta dall’autorità statale non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale. Esempi infiniti: il cosiddetto “antifascismo” nella dittatoriale Ddr, il “socialismo” nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza della strage di piazza Tiananmen in Cina.Per i nostri studiosi, la strada della verità storica di Stato non serve affatto a contrastare fenomeni pericolosi – incitazione alla violenza e all’odio razziale, apologia di reati ripugnanti e offensivi per l’umanità, per i quali esistono già le leggi necessarie a punire comportamenti criminali – mentre «è la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste». Meglio quindi che lo Stato «aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente». Sei anni dopo, ci risiamo. Chiosa Cabras: «Mentre Giorgio Napolitano, fra una larga intesa e l’altra, esorta sovranamente i parlamentari ad approvare le nuove norme penali, i lettori potrebbero esortarli più sovranamente ancora a non approvarle, consigliando loro di leggere l’appello degli storici. Magari recapitandolo nelle loro caselle e-mail».Il recente voto parlamentare sul “negazionismo”, in pieno revival di una potente campagna sui reati d’opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, scrive Pino Cabras, una legge presentata come “antifascista” è «il nido in cui farà l’uovo lo Stato etico», cioè «la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo». Beninteso: «Un fascismo di tipo nuovo, politically correct». Dopo tanti tentativi, finora sempre bloccati dalla forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti, anche in Italia la repressione penale delle opinioni s’è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive: l’emendamento presentato nella commissione giustizia del Senato (relatrice la Pd Rosaria Capacchione) e approvato da Pd e Pdl, “Scelta Civica” e Sel, nonché dai senatori “5 Stelle” Cappelletti e Gianrusso, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi “nega o minimizza crimini di genocidio”, come la Shoah.
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Cari africani, vi ingannano: l’Europa non è il paradiso
Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.Nella maggior parte del continente nero, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani e del progresso. «E i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla». Quando diventano adulti, la simpatia si trasforma in bramosia: «L’Europa è uno spot, dove tutto brilla». La distorsione della realtà è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio Continente e, per orgoglio, mente sulle proprie condizioni: «Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio».Secondo Foa, quando gli africani decidono di emigrare, «non conoscono neppure le nostre consuetudini sociali» e sono «talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche». Ciò che manca, insiste il giornalista, è una comunicazione adeguata. «Dobbiamo essere noi occidentali a smontare il mito dell’immigrazione, non ai nostri occhi ma a quelli degli africani. Nel loro interesse prima ancora del nostro. Perché l’illusione è fonte di tragedia, fonte di crudeltà. E fino a quando non verrà smascherata, il dramma continuerà a perpetuarsi, con la morte in mare o una vita d’inferno, immorale e inaccettabile, nella “scintillante” Europa».Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.
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Libertà, contro i diktat: scommettere su Marine Le Pen
«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».Secondo il Front National, per mantenere la Francia nell’Unione Europea occorrono l’uscita dall’euro, la reintroduzione dei controlli alla frontiera, la superiorità della legge francese rispetto alle norme europee e il “patriottismo economico”, cioè la possibilità per Parigi di perseguire un “protezionismo intelligente” e salvaguardare lo stato sociale. «Non riesco a immaginare una politica economica senza il pieno controllo di quella monetaria», dice la Le Pen a Pritchard, in un’intervista ripresa da un post su “Come Don Chisciotte”. A gonfiare le vele del Fn sono i sondaggi che lo presentano come primo partito francese e la fresca vittoria alle amministrative di Brignoles (maggioranza assoluta degli elettori), ma il partito anti-euro fa presa molto saldamente, e non da oggi, sui lavoratori francesi delusi dalla sinistra europeista e “finanziaria” di Hollande. Da qui il nuovo termine coniato dalla stampa francese: “Lepenismo di sinistra”. La figlia di Jean-Marie Le Pen «sta scavalcando a sinistra i socialisti attaccando le banche e il capitalismo internazionale». E rifiuta con sdegno la definizione di “estrema destra”: ha appena accolto tra le sue fila Anna Rosso-Roig, candidata per il partito comunista nelle elezioni del 2012.Il piano di uscita dall’euro della Le Pen, spiega Evans-Pritchard, è basato sugli studi degli economisti dell’École des Hautes Études di Parigi, diretta dal professore Jacques Sapir, secondo cui «la Francia, la Spagna e l’Italia beneficerebbero di un’uscita dall’euro, potendo riacquistare immediatamente competitività sul versante del costo del lavoro senza anni di decrescita». Gli squilibri nella bilancia dei pagamenti fra nord e sud Europa sono giunti ad un punto di non ritorno: il tentativo di ridurli attraverso ulteriore deflazione e tagli dei salari causerebbe disoccupazione di massa e la perdita di buona parte dell’apparato industriale. Per Sapir, la soluzione migliore sarebbe «uno smantellamento coordinato dell’euro, con controlli nei movimenti dei capitali e con le banche centrali impegnate a far convergere le nuove valute verso le quotazioni desiderate». Il modello stima che il marco tedesco e il fiorino olandese sarebbero rivalutati del 15% rispetto all’euro, mentre il franco sarebbe svalutato del 20%. Vantaggi competitivi che invece sarebbero compromessi da una disgregazione non concertata, con brusche fluttuazioni delle valute.Nella sua “conversione” radicalmente anti-europeista, aggiunge Evans-Pritchard, il Front National ha “rimosso” le sue vecchie istanze antisemite, mentre le sue chiusure sull’immigrazione «condurranno inevitabilmente a una resa dei conti con i 5 milioni di francesi musulmani». Attenzione anche alla propaganda: «La mia impressione è che Marine Le Pen abbia una visione più moderata sui diritti degli omosessuali e sull’aborto di quello che dica», osserva il giornalista inglese. «Per certi versi è più vicina alle posizioni populiste del politico olandese assassinato Pim Fortuyn che a quelle di suo padre Jean-Marie Le Pen, che si lamenta delle idee “piccolo-borghesi” maturate dalla figlia frequentando le scuole di Parigi». Comunque, la sua campagna contro la “demonizzazione” del Fn sembra stia funzionando: «Solo una minoranza di elettori ancora ritiene che il Front sia “una minaccia per la democrazia”». La Le Pen «sta conquistando il consenso di moltissime lavoratrici bianche». E, con una leadership femminile, il Front National «non è più un partito maschilista bianco». Se il padre chiamò l’Olocausto «un dettaglio della storia», lei lo definisce «l’apice della barbarie umana». Solo cinico calcolo elettoralistico? Pritchard resta prudente, ma ammette che «un nuovo scenario» si sta aprendo: la possibilità che i cittadini di un paese-chiave come la Francia possano tornare a dire la loro su quest’Europa così disastrosa.Di fatto, il Front National eredita la maggiore bandiera storica della sinistra, il welfare dei diritti: niente a che vedere con gli anti-euro inglesi, l’Ukip di Nigel Farage che detesta l’euro ma non il libero mercato. Al contrario, Marine Le Pen «è una fiera sostenitrice del modello francese di stato sociale», e la sua critica frontale al capitalismo «le dona una sfumatura di sinistra». La Le Pen «critica severamente Washington e la Nato, rivendicando per la Francia una politica di paese “non schierato” in un mondo multipolare, e rinfaccia al partito gollista Ump di aver venduto l’anima della Francia all’Europa e all’egemonia anglo-americana». L’ascesa del Front National «continua a ricordarci che la lenta crisi politica dell’Europa è lungi dall’aver raggiunto l’apice», sostiene Pritchard. «La disoccupazione di massa e le conseguenze negative delle politiche di deflazione stanno minando le fondamenta dell’establishment, così come avvenne nei primi anni ’30 sotto il Gold Standard», il regime di cambi fissi che coinvolse i principali paesi del mondo, «analoga situazione dell’attuale unione monetaria europea».La Francia «sta soffrendo la stessa lenta agonia di allora», perché il Fiscal Compact voluto da Angela Merkel «è esattamente una rivisitazione della politica deflazionista» che provocò il collasso economico del 1936. «Non c’è nessuna giustificazione macroeconomica per aver costretto la Francia all’inasprimento fiscale così pesante degli ultimi due anni, spingendo l’economia nuovamente in recessione», scrive Pritchard. «Le misure sono state fatte ingoiare alla Francia perché la dottrina dell’Unione Europea prevede solo “austerity”», cioè riduzione della spesa pubblica e aumento delle tasse con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico, senza controbilanciare il rigore con stimoli monetari come la creazione di moneta sovrana da parte della banca centrale per facilitare il credito a beneficio di consumatori e imprese. Fino a ieri, «la Francia ha permesso alla Germania di decidere per tutti»: è questo che ha provocato la valanga elettorale del Front National, che ha «frantumato l’assetto politico francese» e ora ha la strada spianata verso le elezioni europee del maggio 2014. Marine Le Pen non sarà sola: molti altri euro-scettici prenotano il Parlamento Europeo. Giusto così: «Le più grandi paure delle élite europee si stanno avverando», conclude Pritchard, «ed è solamente colpa loro».«Negozierò sulle questioni per noi irrinunciabili. Se non si giungesse ad una soluzione soddisfacente, chiederò l’uscita. L’Europa è solo un bluff. Da un lato vi è l’enorme potere di popoli sovrani, dall’altro un pugno di tecnocrati». Così Marine Le Pen ad Ambrose Evans-Pritchard, del “Telegraph”. Uscire dalla moneta unica? La leader del Front National ne parlava già un anno fa: «Sì, perché l’euro impedisce qualsiasi autonomia nelle scelte di politica economica», e la Francia «non è un paese che possa accettare di ricevere ordini da Bruxelles». Scenari da cataclisma finanziario, coi tecnici incaricati di pianificare un ritorno al franco e i custodi dell’Eurozona chiamati a una difficile decisione: collaborare con la Francia per concertarne l’uscita, coordinando la rottura dell’unione monetaria, o attendere fatalmente una disgregazione disordinata. La Le Pen ostenta tranquillità: «L’euro cesserebbe nel momento stesso della nostra uscita, questa è la nostra forza. Cosa farebbero? Invierebbero i carri armati?».
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Migranti, Grillo-choc: dopo il diktat, accusa il Fatto
Beppe Grillo tenta di rimediare in extremis, spiegandosi – sbagliato concentrarsi sulla disperazione dei migranti trascurando quella dell’Italia che affonda (lavoro, aziende, famiglie) – ma il post “stalinista” firmato con Casaleggio per scomunicare brutalmente i parlamentari 5 Stelle mobilitatisi per abrogare l’infame reato di clandestinità colpisce duro, con migliaia di proteste dalla Rete, di fronte allo spettacolo delle bare allineate a Lampedusa. Così non va, avverte un grande supporter grillino come Dario Fo. E persino Travaglio, che si è permesso di scrivere che Grillo e Casaleggio hanno «perso un’ottima occasione per tacere», finisce nella lista nera dei “falsi amici”. Peter Gomez, direttore della versione web del “Fatto Quotidiano”, affonda il coltello: a parte il fatto che a considerare “nemico” il suo giornale è solo una esigua minoranza di ultras, è semplicemente sconcertante che anche presso Grillo – esattamente come per Pd e Pdl – «resti molto popolare l’idea che l’esistenza di una stampa amica sia un fatto normale».