Archivio del Tag ‘vigilanza’
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Mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce ci mangia le banche
Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.Si poteva forse lasciarle stare? Macchè! Se si vuole – come si vuole – piegare l’Italia e ricattarla a 360 gradi (anzi, metterla a novanta gradi, per essere proprio esatti), anche le Bcc devono piegare le ginocchia e genuflettersi alla corte di Bruxelles. A maggio le Bcc cambiano infatti pelle, perchè perdono la loro natura cooperativa, che le obbliga ad aiutare i soci e investire, per statuto, solo sul territorio. La tradizione risale alla cultura cristiana dell’Ottocento che già allora reagiva alla dispersione capitalistica della prima rivoluzione industriale. Le Bcc sono metà del sistema bancario italiano, mica pizza e fichi, con propensione per i micro imprenditori, per ovvi motivi legati alla vocazione comunitaria. Con la Legge 49 del 2016 si impone alle Bcc che si fondano in una specie di holding, tanto per parlare come si mangia, con precisi obblighi di capitalizzazione. Cosa significa? Signifia che anche la Bcc va verso l’aggregazione bancaria con delle capogruppo ipetrofiche, che saranno delle holding controllate. In altri termini, l’inculata che si presero le banche popolari qualche anno fa, che fallirono (de facto…) perchè divennero preda dei fondi speculativi, sta per ripetersi anche per la banche di credito cooperativo.Più semplicemente, queste Bcc una volta fuse e controllate da una capogruppo, avranno libero acceso al grande mercato dei capitali e quindi le quote – con i soliti magheggi aggiratutto – finiranno in mano ai fondi esteri, prima o poi. Sulla carta, questi fondi, cioè questi investitori, potranno ciucciarsi il 49 per cento; dunque, non la maggioranza assoluta. Ma non si tratta proprio di bruscolini, ed è probabile che questi capitali cercheranno l’interesse della globalizzazione e non quello locale. Siamo, dunque, alle solite. Non solo: con questa riforma voluta dall’Europa, le banche anche come sportelli, si ridurranno. Ma, soprattutto, la Bce potrà controllarle perché diventeranno un gruppo bancario grande e come tale sottoposto a vigilanza Ue. I danni saranno enormi, perchè verrà meno lo spirito mutualistico tipico della dottrina sociale dei cattolici e anche perché le uniche banche “sensate” che operano sul territorio diventeranno un oligopolio uguale a quello che già conosciamo e che ha funzionato come tutti abbiamo purtroppo già visto. Ovviamente, questa ipermanovra viene portata avanti mentre tutti parlano eslcusivamente di Giggetto Di Maio e di “Ronfo” Salvini, il bue e l’asinello di un presepe privo di qualsaisi santità.(Massimo Bordin, “E mentre Lega e 5 Stelle flirtano, la Bce gode”, dal blog “Micidial” dell’11 maggio 2018).Complottisti si diventa, ma citando Totò io direi che “lo nacqui, modestamente” ed anche se la neolingua ha coniato questa stupida definizione dalle forti tinte negative – il complottismo – chi crede che i complotti non esistano o non ha mai studiato la storia oppure l’ha studiata senza mai capirla. Anche oggi, mentre tutti gli attivisti politici – tutti – riempiono le pagine dei quotidiani e i social pontificando sulla nascita del nuovo governo, solo qualche barbaro debunker seriale si è occupato del colpo gobbo perpetrato dall’Unione Europea contro le banche italiane. Ma come, verrebbe da dire, il Partito Democratico è caduto sotto l’accusa di aver “aiutato le banche”, e ora grillini pentastellati e leghisti manco si accorgono di quello che sta succedendo alla banche di credito cooperativo? La faccenda è tanto lunga, quanto grave e tristemente nuova. Val la pena proporre qui una breve sintesi. Per chi non lo sapesse, le Bcc sono banche di diritto diverso da quelle trdizionali e sono sotto il controllo locale; prestano denaro, cioè finanziano le piccole e medie imprese italiane e, pur essendo esse stesse singolarmente piccole, il loro intervento è stato in questi lustri vitale per l’economia nazionale, visto che le piccole e medie imprese, cioè l’artigiano, il commerciante, ecc, caratterizzano il 90 per cento del tessuto produttivo italiano.
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Sul web la censura Ue: ma oscurare la verità non è reato?
Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?Fino a quando potranno restare impuniti, i presunti “ladri di verità” che impediscono all’opinione pubblica di acquisire dati su quanto avviene ogni giorno nel mondo? E’ annosa la polemica sulla disinformazione che finisce per coprire crimini gravissimi, inclusi quelli che l’Onu definisce “contro l’umanità”. In occasione del recente bombardamento dimostrativo sulla Siria, motivato dal presunto impiego di armi chimiche da parte del governo di Damasco, Marcello Foa – in tarda serata, su RaiTre – ha accusato i colleghi di aver dato per scontata la versione ufficiale degli Usa, rifiutando di constatare l’assenza di prove: non risulta infatti che Assad abbia colpito civili con i gas (né è dimostrato che altri abbiano impiegato agenti chimici a Douma: non ci sono prove che la popolazione siriana sia stata effettivamente colpita, quel giorno). In collegamento da Washington, la corrispondente Giovanna Botteri si è difesa in modo singolare, affermando che è inevitabile il rischio di essere imprecisi nelle cronache sulla Siria, dal momento che ai reporter è vietato l’accesso al teatro bellico – diversamente da quanto accaduto, ad esempio, in Iraq. Peccato che, proprio in occasione della Guerra del Golfo, fece la sua comparsa il primo degli inglesismi poi tristemente noti, “embedded”: in Iraq, i giornalisti “impacchettati” furono costretti a vedere solo quanto stabilito dal comando del generale Norman Schwarzkopf.Fu la prima volta, nella storia del giornalismo bellico. Se ne lamentarono, i veterani premiati dal Pulitzer: la prima vittima della guerra è sempre la verità, dissero, ma in Iraq si passò il limite, giungendo alla censura preventiva apertamente dichiarata. Assistemmo così al festival delle fake news governative: dal set hollywoodiano con i poveri cormorani intrappolati nel petrolio fino alla (mai avvenuta) strage degli innocenti, la bufala dei neonati “massacrati nelle incubatrici dai soldati di Saddam” a Kuwait City. Notizie false, regolarmente “bevute” da centinaia di reporter e offerte, come amaro aperitivo, a milioni di lettori e telespettatori, mentre i missili “intelligenti” grandinavano sulla testa delle famiglie di Baghdad. E ora che il bavaglio di massa torna prepotentemente di moda, quale guerra preoccupa i censori dell’Unione Europea? Quella contro la possibile verità su un’istituzione che si professa europeista e invece lavora intensamente contro l’Europa unita, contro la concordia e la prosperità dei popoli europei? Temono le elezioni del 2019, i lobbisti privatizzatori di Bruxelles: a loro, il celebre paladino della trasparenza universale Mark Zuckerberg ha appena promesso la massima vigilanza, sulle pagine del maggior social network del mondo. Il Grande Fratello non permetterà che siano veicolate verità sgradite: saranno “bannate”, dai possessori dell’infrastruttura informatica.Il web, beninteso, non è la palestra assoluta della libertà: immenso motore economico, è strettamente controllato dai suoi dominus, dagli algoritmi di Google, da fantasiosi tecno-stregoni come quelli di Cambridge Analytica. Il web è anche una pattumiera di malcostume e violenza verbale: si è lasciato credere che chiunque, protetto dall’anonimato di un nickname, potesse arbitrariamente distribuire insolenze, insulti e minacce. Forse però varrebbe la pena di ricordare ai legislatori che non siamo nel far west: esistono leggi a tutela dei cittadini, che sanzionano reati come la diffamazione. Di colpo non bastano più? Servono normative speciali, d’emergenza? E soprattutto: sono legali, le disposizioni speciali? Così come è un reato la calunnia, perché mai non dovrebbe essere perseguita per legge anche la distorsione della verità, che rende cieco il pubblico di fronte agli eventi? Ancora più grave è il proposito di “spegnere” programmaticamente le voci libere del web, magari segnalate dagli invisibili censori (penalmente irresponsabili) dell’impunita Unione Europea. Non è reato, occultare la verità? Non sarebbe materia, questa, su cui consultare innanzitutto i più autorevoli giuristi? Come in ogni questione controversa, l’ultima parola non potrebbe spettare a un tribunale? La parte civile, in questo caso, rappresenterebbe mezzo miliardo di persone: i cittadini dell’Unione Europea.(Giorgio Cattaneo, “Sul web la censura Ue, ma oscurare la verità non è reato?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 30 aprile 2018).Solo in Italia ci sono 10 milioni di account Internet che corrispondono a persone ormai abituate a informarsi sul web, per avere lumi sui retroscena che i media mainstream non svelano. Basta questo, secondo Glauco Benigni (presidente di Wac, Web Activists Community) a spiegare la crescente voglia di bavaglio che pervade palazzi, ministeri e alte cariche pubbliche. Per mascherarla, l’establishment ricorre all’ennesimo inglesismo abusivo e infestante, “fake news”. Una propaganda martellante fatta di minacce, dietro al pretesto incarnato da un altro neologismo, quello che trasforma in “hater” (odiatore) anche chi esprime indignazione verso l’abuso politico di potere. Ora siamo alla vigilia di una censura grottesca e sistemica, presentata come definitiva dal Ministero della Verità di un’istituzione tra le meno democratiche al mondo, la Commissione Europea. L’inglese Julian King, commissario alla sicurezza, avverte: saremo inondati di “fact-checkers”, almeno ventimila, incaricati di organizzare una sorta di delazione di massa per criminalizzare qualsiasi fonte difforme da quelle istituzionali. Attenzione, però: l’oscuramento della libertà d’opinione non è solo un atto odioso e antidemocratico. Non è solo pericoloso per tutti, come la storia insegna. La lesione di un diritto fondamentale non è anche un reato?
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Winkler: l’Italia è scassata, senza difese contro il rigore Ue
L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua ecomomia mista, pibblico-privata.E’ scolpito nel marmo il risultato storico del riformismo: «Notevole sviluppo, sotto il profilo economico e sociale». Ma le parole possono cambiare verso, se vengono corrotte: ieri il riformismo era sinonino di progresso generale e benessere diffuso, mentre oggi – in mano all’Ue – suona come una campana a morto per società con sempre meno diritti. «Laddove una volta per riformismo si intendeva tutto ciò che gradualmente portava al miglioramento della condizione umana – scrive Winkler – oggi invece la parola, spesso usata in Europa, evoca subito cambiamenti sì, ma in peggio». E in particolare: «Tagli di bilancio, rigidità, sacrifici, col portato inevitabile di disoccupazione, impoverimento, bassi salari e precariato diffuso». Nella sostanza, un futuro senza sviluppo: «Diventa sempre più impervio coniugare welfare, sviluppo e benessere». Problema capitale: «Al centro del sistema politico non c’è più l’uomo ma il bilancio, il freddo dato contabile, che ha portato l’intero continente europeo ad “impiccarsi” alle politiche restrittive che non stanno dando i frutti sperati e che nel nostro paese hanno portato e porteranno nel tunnel di una grave crisi di cui non si vedrà l’uscita. E’ entrato in crisi l’intero sistema istituzionale ed economico».La crisi del sistema bancario ne è un fulgido esempio, osserva Winkler: «Falliscono banche e si stigmatizza l’attività della banca centrale, istituzione da sempre considerata garanzia di serietà e competenza per la tutela di tutti». Le sinistre, in Europa e ancor più in Italia, versano in grave crisi di identità. Se a questo si aggiunge l’effetto della globalizzazione sull’intero pianeta, «non vi è chi non veda che la situazione diviene esplosiva e può tendere al catastrofico». Allora, conclude Winkler, «diventa facile e fuorviante nascondersi dietro slogan ad effetto: il populismo, il sovranismo e altre pretestuosità del genere». Infatti «è lapalissiano dire che le persone non possono che sentirsi prima cittadini del proprio paese, poi cittadini europei e poi, forse, cittadini del mondo. E’ palese il disorientamento generale, specialmente tra i giovani». In virtù della crisi, non trovano più lavoro: quando c’è, è solo un impiego precario e sottopagato. Colpa dell’Europa, si dice, o magari «dello straniero che viene in cerca di fortuna e fugge da luoghi impossibili». Sempre incolpevoli, noi? Non si considera mai, dice Winkler, che vi è la netta carenza di una politica che tuteli il cittadino e attui misure adeguate. Netta carenza politica, appunto: è sparita la sinistra, quella che aveva attutito gli urti e cercato di tenere in equilibrio la società, evitando che gli ultimi fossero abbandonati a se stessi (fino a rifugiarsi, oggi, nell’esasperazione del “populismo”).Generalmente, nella storia recente, l’armonizzazione sociale non è stata svolta «dalle forze politiche di riferimento dell’oligarchia finanziaria o industriale», ma proprio «da quelle forze di sinistra riformista che volevano coniugare sviluppo ed equilibrio economico, meriti e bisogni, concorrenza e competenza, socialità e individualità, nella sostanza libertà e giustizia sociale». Prendiamone atto, insiste Winkler: «Il sistema politico-economico costruito dai nostri padri fondatori è in stato comatoso, allo stato attuale non regge più». Si è rotto qualcosa di importante: il motore sociale, che era coeso. «Il grande accordo tra industria, partiti, sindacati, sistema cooperativo e Chiesa ha garantito sviluppo economico e conseguente benessere», con politiche di spesa «a volte eccessive», che però «il sistema ha retto per molti anni». Mano pubblica nell’economia: lo Stato «assisteva la grande impresa con leggi ad hoc che producevano investimenti», e in più il governo «assisteva il sistema cooperativo con benefici fiscali tutt’ora esistenti». Piccole e medie imprese, dal canto loro, praticavano «massiccia evasione, per lo più tollerata». Inoltre, da Roma cadevano «contributi a pioggia per lo sviluppo del Mezzogiorno», con risvolti deteriori: «Si praticava un clientelismo sfrenato, con assunzioni nel pubblico oltre il consentito, sia nelle aziende a partecipazione pubblica che negli enti». Di fatto, comunque, «non vi era settore che non avesse qualche beneficio, il tutto in una sorta di consociativismo politico-economico diffuso e generale. Tutto si teneva».Poi nel ’92, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica, «espressione esclusivamente giornalistica», sotto i colpi di Mani Pulite si estinguevano vecchi i partiti (salvo uno, il Pci, che cambiava nome diventando Pds) ma «non veniva meno quel sistema, né sul piano morale né sul piano dei precedenti assetti economici». Ovvero: «Il sistema di assistenza diffusa rimaneva intatto», divenendo aperto malcostume, che poi «si implementava in maniera esponenziale: ai ladri di partito si sostituivano i ladri e basta, che crescevano a dismisura». Per Winkler, l’unico cambiamento vero e sostanziale di quegli anni «è stata la dismissione dell’Iri con la privatizzazione di imprese a partecipazione pubblica di ottimo livello». Secondo l’analista, «non è stato un cambiamento di sistema politico-economico, ma solo una gattopardesca trasformazione, tanto che se si guardano i dati il debito pubblico dal ’92 ad oggi, esso è superiore a quello formatosi dal ’46 al ’92». Altro che Seconda Repubblica: solo un’evolzuione della Prima. «Con la successiva introduzione della moneta unica e l’applicazione di rigide politiche di bilancio imposte dall’Europa – aggiunge Winkler – la visione di quel sistema, mai estintosi, diviene chiara, trasparente, senza possibilità di equivoci: il re è nudo».Siamo alle forche caudine dell’Unione Europea: «L’Europa del bilancio, alle quale si è sovrapposta la globalizzazione, mette in grave crisi più di tutti il sistema Italia, che non ha avuto mai una vera e propria economia di mercato». Il welfare italiano, poi, «si reggeva non tanto sullo sviluppo prodotto, ma soprattutto sull’espansione del debito, senza limiti di sorta». L’economia? «Era ed è per lo più assistita». E quel poco di economia che non fruisce di assistenze, specialmente nei settori della piccola e media impresa, «è talmente gravata da oneri burocratici, sociali e fiscali che le è sempre più difficile rimanere sul mercato». Le piccole imprese sono numerose e concorrono in modo rilevante al Pil, ma «non possono fuggire all’estero come le grandi», e quindi «subiscono la concorrenza spesso sleale di piccole attività straniere operanti senza controlli negli stessi settori, con manodopera impiegata spesso in nero e in condizioni di sfruttamento e con più vantaggiose regole amministrative e fiscali». A questo, prosegue Winkler, va poi aggiunto un fenomeno tutto italiano: «Gli investimenti di un enorme flusso di denaro proveniente dai proventi delle organizzazioni criminali». Decine di miliardi di euro, «che costituiscono parte significativa del Pil nazionale».Alcuni, per nascondere alla gente i veri problemi, la “buttano in caciara” agitando lo spettro del razzismo, che in realtà contagia esigue minoranze. Il problema non è la presunta xenofobia, ma il tenore di vita: «Coloro che si vedono andare in pensione alla soglia dei 70 anni, che vedono aumentare i costi sanitari e che sono costretti a sostenere i figli che rischiano di essere precari a vita (mal pagati, se non sfruttati), mal digeriscono coloro i quali, ancora più disperati, si affacciano dall’estero ad un mercato del lavoro privo di ogni regola». Non è razzismo, ma disperazione: tristemente, è solo guera tra poveri. Una situazione che non piove dal cielo, ma ha precise responsabilità: «Le politiche di rigidità causano il sottosviluppo e soprattutto sono causa della cosa più odiosa dell’umanità: la lotta tra gli emarginati». E lo scontro tra i meno abbienti «prescinde totalmente dal colore della pelle». Così, «la forbice sociale si allarga sempre più, e ancor più la forbice generazionale». A conti fatti: escluse le quasi tremila medie imprese che fatturano da 50 milioni di euro a due miliardi, e a parte «il fiume di denaro illecito e poco altro», il resto dell’economia nazionale è per lo più assistito, «a meno che non si voglia considerare la grande impresa indenne da sostegni statali».Secondo Winkler, si è cercato di spacciare politicamente il precariato per flessibilità, «ma questa esiste solo dove c’è una dinamica di mercato, che nel nostro paese non è mai esistita». In Italia, «tutto è controllato con un complesso di procedure amministrative degne dei migliori paesi illiberali». Tradotto: «L’onesto imprenditore viene dissuaso dall’intraprendere nuove attività. Viene invece favorito, attraverso il mancato controllo, lo sfruttamento dei lavoratori, che nei casi di immigrati è a volte vera e propria schiavitù», In più, «viene tollerata ogni forma di illegalità nell’ambito commerciale e nei servizi privati». Troppa burocrazia, da snellire usando la scure. E troppe mega-cooperative, «che nei fatti sono grandi imprese che operano nei settori finanziari, bancari, assicurativi e della grande distribuzione», con assurdi vantaggi fiscali rispetto alle imprese che operano come società di capitale negli stessi settori. «Riportiamo il cooperativismo all’iniziale vocazione, quando lo scopo era favorire il lavoro degli associati e la loro sicurezza», scrive Winkler. E poi, occorre «separare le banche di raccolta da quelle di affari, affinché il risparmiatore sappia che si fa del suo denaro, se ci si gioca “a dadi” con i derivati o se lo si impiega per crediti a famiglie e attività produttive».E ancora: regolare il commercio semplificando le procedure e ristabilendo una leale concorrenza. Vigilanza e controlli devono stroncare «il caporalato, lo sfruttamento e la schiavitù (vedi in agricoltura)». E poi: «Equiparare le pensioni sociali al costo per lo Stato del migrante». La lista è lunga: rendere umani i tempi della giustizia, proteggere i giovani lavoratori limitando i contratti a termine, costringere la pubblica amministrazione a risarcire i danni causati dalle sue lentezze burosauriche. E’ pacifico: «Chi investe deve poter programmare le proprie attività». Giovani imprenditori: hanno diritto a un «sereno avviamento», con sgravi fiscali per i primi cinque anni. Tocca a noi, dice Winkler: il paese deve saper «prendere la strada delle vere riforme che possano rendere veramente dinamica e flessibile la nostra economia». Se invece «saprà solo attuare politiche restrittive imposte dall’Europa», allora addio Italia: «Non ci sarà speranza per il futuro, se non per una opulenta oligarchia senz’anima», quella che domina la scena da almeno 25 anni – da noi come a Bruxelles – dopo aver trasformato la parola “riforme” in un incubo per tutti.L’Italia è scassata: qualcuno ha idea di come funzionasse, davvero, quando le cose andavano infinitamente meglio di oggi? Se lo domanda l’avvocato Pierluigi Winkler: «Le migliori menti si esercitano in analisi sulla crisi economica e sociale che sembra non aver fine», premette. «Ma tutti, in un impulso irrefrenabile di rimozione, imputano le responsabilità del declino a varie cause, tutte fuorivianti e perfette per non affrontare mai i veri nodi», scrive, sul blog del Movimento Roosevelt. Si evocano «populismi, sovranismi, qualunquismi, finanche rigurgiti razzisti». Buio pesto: «Chi per miopia, chi per mera convenienza, chi per paura della perdita di un mondo che fu e che vede sfuggirgli», nessuno riesce a far luce sulla decandenza del Belpaese. Winkler invoca il ritorno in vita di una parola nobile, dimenticata e abusata: riformismo. Letteralmente: «Corrente politica e di pensiero che la storia ci ha trasferito densa di speranze tese al miglioramento graduale della società con particolare riguardo della classe lavoratrice». Nel ‘900, il riformismo è stato incarnato da socialisti come Turati e Treves, Giacomo Matteotti, Geatano Salvemini, Carlo Rosselli. La cifra del riformismo: coniugare il welfare e l’economia di mercato, in armoniosa sintesi. Da noi si è andato estinguendo anche l’imperfetto welfare italico, gestito in modo clientelare da un paese che comunque macinava chilometri grazie alla sua economia mista, pubblico-privata.
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Uranio impoverito, sono malati oltre 1.100 marinai italiani
Oltre mille soldati italiani colpiti da malattie collegate all’amianto. La novità? Lo ammette il Parlamento: ci sono dei morti, e solo nella marina i militari colpiti patologie absesto-correlate sono 1.100. Sono le «sconvolgenti criticità» nella salute dei nostri militari, in Italia e nelle missioni all’estero, scoperte dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, presieduta da Gian Piero Scanu, deputato uscente del Pd (non ricandidato). «Risultati imbarazzanti, per i vertici militari e il governo», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una frase per tutte: la «diffusa inosservanza degli obblighi» risulta «perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento, dei rischi e delle responsabilità effettive». Scondo la relazione, queste criticità «hanno contribuito a seminare morti e malattie». Dai vertici la risposta è stato il «negazionismo», al quale si aggiungono gli «assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle autorità di governo», che hanno ingenerato il dilagare, «tra le vittime e i loro parenti», di uno «sconfortante senso di giustizia negata». Eppure, sottolinea la relazione, gli esperti ascoltati hanno riconosciuto il nesso tra esposizione all’uranio impoverito e tumori.Raccomandando al prossimo Parlamento di «vigilare con il massimo scrupolo sulle modalità di realizzazione della missione in Niger» anche «per quanto attiene alla valutazione dei rischi, all’idoneità sanitaria e ambientale dei luoghi di insediamento del contingente, alla congruità delle pratiche vaccinali adottate e alle pratiche di sorveglianza sanitaria», la commissione definisce «singolare» la «scarsa conoscenza» circa l’uso, durante le missioni all’estero, di «armamenti pericolosi, eventualmente impiegati dai paesi alleati». Per la commissione d’inchiesta, le procedure «convergono nel produrre il duplice effetto di offuscare i rischi incombenti e di arginare le responsabilità dei reali detentori del potere». La vigilanza su salute e sicurezza è «svolta esclusivamente dai servizi sanitari e tecnici della difesa», la cui azione «si è dimostrata insufficiente». Aggiungono i commissari: «La diffusa inosservanza degli obblighi risulta perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento dei rischi e delle responsabilità effettive».Basti pensare che i responsabili del servizio di prevenzione e protezione, nonché i medici competenti, «in alcuni siti sono risultati addirittura assenti». Critiche anche alla magistratura penale, riporta il “Fatto”: gli interventi dei giudici a tutela della salute dei militari «non appaiono sistematici», e dunque nell’amministrazione della difesa «continua a diffondersi un deleterio senso d’impunità», che porta a un «risultato devastante». Ovvero: «L’idea che le regole c’erano, ci sono e ci saranno, ma che potevano, si possono e si potranno violare senza incorrere in effettive responsabilità». I rischi non si limitano solo alle missioni, visto che «rischi minacciosi» riguardano anche «caserme, depositi, stabilimenti militari», sia per «deficienze strutturali» (particolarmente critiche «nelle zone a maggiore sismicità»), sia per carenze di manutenzione che per la permanenza di «materiali pericolosi». La presenza di amianto, spiegano i commissari, «ha purtroppo caratterizzato navi, aerei, elicotteri».In relazione a tre specifici casi emersi nel corso dell’inchiesta, la commissione ha trasmesso i suoi atti alle procure. Un militare, Antonio Attianese, ammalatosi in Afghanistan, ha denunciato «l’atteggiamento ostruzionistico e le minacce di alcuni superiori», mentre il tenente colonello medico Ennio Lettieri, impegnato in Kosovo (infermeria del comando Kfor) ha denunciato una fornitura idrica «altamente cancerogena», destinata al contingente italiano. Segnalato alla magistratura anche il caso del generale Carmelo Covato, dello stato maggiore: «I militari italiani impiegati nei Balcani – ha detto alla commissione – erano al corrente della presenza di uranio impoverito nei munizionamenti utilizzati ed erano conseguentemente attrezzati». Affermazioni che i commisari giudicano «in contrasto con le risultanze dei lavori e con gli elementi conoscitivi acquisiti nel corso dell’intera inchiesta».Oltre mille soldati italiani colpiti da malattie collegate all’amianto. La novità? Lo ammette il Parlamento: ci sono dei morti, e solo nella marina i militari colpiti patologie absesto-correlate sono 1.100. Sono le «sconvolgenti criticità» nella salute dei nostri militari, in Italia e nelle missioni all’estero, scoperte dalla commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito, presieduta da Gian Piero Scanu, deputato uscente del Pd (non ricandidato). «Risultati imbarazzanti, per i vertici militari e il governo», scrive il “Fatto Quotidiano”. Una frase per tutte: la «diffusa inosservanza degli obblighi» risulta «perfettamente funzionale a una strategia di sistematica sottostima, quando non di occultamento, dei rischi e delle responsabilità effettive». Scondo la relazione, queste criticità «hanno contribuito a seminare morti e malattie». Dai vertici la risposta è stato il «negazionismo», al quale si aggiungono gli «assordanti silenzi generalmente mantenuti dalle autorità di governo», che hanno ingenerato il dilagare, «tra le vittime e i loro parenti», di uno «sconfortante senso di giustizia negata». Eppure, sottolinea la relazione, gli esperti ascoltati hanno riconosciuto il nesso tra esposizione all’uranio impoverito e tumori.
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Usa: stop all’auto tedesca, Berlino falsifica i conti dell’export
Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.Attenzione: l’eccesso di export (non registrato onestamente a bilancio) è solo uno dei tanti trucchi con cui la Germania pretende di qualificarsi “virtuosa” di fronte ai competitori europei, con la quale è in guerra: avversari come l’Italia, che sta letteralmemte schiacciando grazie al tasso di cambio marco-euro che svaluta la divisa tedesca favorendo le esportazioni. Primo trucco, la banca pubblica Kwf (Kreditanstalt für Wiederaufbau), simile all’italiana Cassa Depositi e Prestiti. «Ogni anno raccoglie circa 500 miliardi e li reinveste concedendo prestiti a tassi irrisori alle piccole e medie imprese», ricorda “Linkiesta”. Piccola differenza: «I 300 miliardi di debito contratto dalla nostra Cdp, coperto da garanzia statale, entra nel conteggio del debito pubblico italiano. I 500 miliardi di euro della Kfw invece no». Il motivo? Un cavillo: la Germania esclude dal debito di Stato le società pubbliche che si finanziano con pubbliche garanzie ma che coprono la metà dei propri costi con ricavi di mercato e non con versamenti pubblici, tasse e contributi. «Regola alquanto discutibile: la proprietà di Kfw è pubblica, la sua vigilanza non è deputata alla Bundesbank (la banca centrale tedesca), ma al ministero delle finanze. I suoi tassi sono diretta conseguenza di quelli dei Bund e se avesse problemi sarebbe lo Stato a intervenire».Facendo i conti della serva: 500 miliardi di euro sono pari a circa un quarto dei 2080 miliardi complessivi del debito pubblico tedesco. «Se li sommassimo otterremmo un debito pubblico tedesco che dal 78,4% arriverebbe a lambire il 97% del Pil», scrive “L’inkiesta”, enumerando le altre false “virtù” della Germania. Per esempio: il pareggio di bilancio (imposto all’Italia in tempi strettissimi) Berlino lo realizzerà con modo, a rate, tenendo conto dell’autonomia finanziaria dei suoi 16 Lander, che avranno tempo fino al 2020. In più: gli enti locali sono sovra-indebitati, ma il loro bilancio (in rosso) non viene conteggiato nel debito pubblico nazionale. Terzo trucco: lo Stato nelle banche. A parte la Cdp, scrive “Linkiesta”, «in Italia tutte le banche sono in mano a investitori privati, mentre in Germania il 45% del sistema bancario è in mano al settore pubblico». Ancora: se il mercato non compra i bond tedeschi, li acquista direttamente la banca centrale, la Bundesbank (il che è giusto: peccato che Berlino vieti alle banche centrali dei paesi europei di fare altrettanto). Nell’Unione Europea, dove alcuni sono “più uguali” degli altri, i tedeschi sono, orwellianamente, “i più uguali” di tutti: impiccano la Grecia e azzoppano l’Italia imponendo l’austerity, ma poi chiudono un occhio (anzi, due) sui propri conti-vergogna, da nascondere sotto il tappeto.Tutti contenti, in Germania? Nemmeno per idea: «I lavoratori tedeschi si preparano allo sciopero per l’aumento dei salari», scrive “Bloomberg”. Gli operai e i giganti industriali, dalla Siemens a Daimler, stanno affrontando un crescente conflitto con una serie di giornate di sciopero in tutta la Germania, che secondo gli imprenditori starebbero danneggiando seriamente l’attività produttiva, affermano Carolynn Look e Christoph Rauwald, in un articolo tradotto da “Voci dall’Estero”. «I lavoratori sono davvero molto arrabbiati a causa delle tattiche negoziali degli imprenditori», afferma Joerg Koehlinger, leader regionale del sindacato Ig Metall: «Tutti possono vedere quanto sia buona la situazione economica, per cui vogliamo degli aumenti salariali significativi e degli orari di lavoro adeguati alla vita delle persone». La Germania è il paese dei “mini-job” da 450 euro mensili, introdotti da Gerhard Schroeder su ispirazione di Peter Haartz, l’ex ad della Volkswagen condannato per aver corrotto sindacalisti, inducendoli a introdurre contratti-capestro. Le paghe bassissime sono una delle chiavi del super-export su cui si fonda l’aggressiva economia industriale tedesca. Oggi, il tasso di disoccupazione è sceso a un record minimo: 5,4%. «Con livelli di produzione manufatturiera vicini ai massimi da due decenni a questa parte, e con gli ordini che vanno a gonfie vele, qualsiasi rallentamento della produzione potrebbe avere serie ripercussioni», avvertono Look e Rauwald su “Bloomberg”.Una situazione su cui, domani, potrebbe incombere l’ira di Trump, insolentito dalla Merkel davanti alla platea internazionale per il suo presunto protezionismo. Tutto vero? Macché. E’ solo l’ennesima “fake news” su cui si fonda l’egemonia tedesca. «La Germania non è affatto equa riguardo alle auto, perché la Ue adotta una tariffa doganale del 10%, mentre gli Usa hanno una tariffa del 2,5%», spiega il professor Flassbeck. «Il notevole “surplus commerciale bilaterale” preoccupa molto gli Usa, che potrebbero finire col punire l’intera Ue per i flussi commerciali sbilanciati di Berlino». Secondo l’ultimo rapporto del Tesoro Usa, «il surplus commerciale bilaterale della Germania con gli Usa è molto ingente e fonte di preoccupazione». La Germania, «in quanto quarta potenza economica globale», dovrebbe invece avvertire «la responsabilità di contribuire a una crescita della domanda più bilanciata e a flussi commerciali più bilanciati». Dai rapporti risulta che tra l’80 e il 90% del commercio di Berlino sfrutta la domanda estera. E Peter Navarro, consulente commerciale alla Casa Bianca, ricorda che la Merkel mantiene il “marco tedesco” «fortemente svalutato», sfruttando le regole dell’Ue e dell’Eurozona. «E’ una situazione molto iniqua: non riusciamo a esportare i nostri prodotti, mentre loro esportano da noi i propri, con tasse molto basse», dichiara Trump. «Se la Casa Bianca dovesse imporre sanzioni contro le auto e l’acciaio tedesco», avverte Carey su “Voci dall’Estero”, «l’intera Ue verrebbe trascinata nel conflitto».Embargo contro le auto tedesche? Non proprio, ma quasi: attaccato a Davos da Angela Merkel, che lo accusa di protezionismo, Donald Trump potrebbe imporre un super-dazio per frenare «l’acciaio europeo». Lo afferma Joseph Carey su “Voci dall’Estero”, ricordando i giudizi della Casa Bianca sulla Germania, «molto scorretta riguardo al commercio», specie in relazione ai «milioni di automobili» vendute negli Usa grazie a imposte doganali ultra-leggere. Gary Hufbauer, esperto di commercio dell’istituto Peterson a Washington, sostiene che l’attacco dei repubblicani potrebbe sfruttare i poteri della “sezione 232”, una forma Usa di auto-tutela contro le importazioni, e lanciare una serie di sanzioni per imporre «una qualche forma di quota-automobili». Il problema? La Germania gioca sporco: mentre impone il massimo rigore ai vicini, bara sui propri conti pubblici. Ultima pietra dello scandalo: il surplus commerciale. L’export tedesco supera l’8% del Pil, andando ben oltre il 6% imposto da Maastricht. L’imbroglio? «La Germania sta falsificando i conti, in modo che non si veda che il surplus sta aumentando», afferma il professor Heiner Flassbeck, ex segretario di Stato tedesco alle finanze. Ecco perché Trump starebbe preparando clamorose contromosse commeciali anti-europee, dopo la lezioncina globalista impartitagli dalla Merkel.
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Verso l’inciucio per blindare i segreti Mps, cioè il Pd e Draghi
Se, dopo i dati desolanti e fuori norma di Mps pubblicati questa settimana, la vigilanza della Banca Centrale Europea non attaccherà la banca senese, forse è perché attaccandola esporrebbe il suo presidente Mario Draghi, il quale, da governatore della Banca d’Italia, impose all’organo di vigilanza di questa, contro l’originario parere del medesimo, di autorizzare Mussari (allora Ad di Mps) alla rovinosa acquisizione (senza “due diligence”) di Antonveneta, atto che avrà reso disinteressatamente felice qualcuno, ma che è stato la causa fondamentale del disastro di quella banca, di molti risparmiatori e lavoratori. I dati pubblicati ieri dal Monte pongono seri dubbi sulla possibilità di un piano industriale ragionevole e credibile e dall’altro lato confermano l’ipotesi formulata nel mio precedente articolo “Il Monte degli Inganni”, ovvero che la recente emissione di una grossa obbligazione subordinata da parte del Monte sia una operazione di raccolta emergenziale di liquidi con cui costituire coperture per le perdite ultimamente affiorate sui crediti, onde far fronte al severo esame della vigilanza della Banca Centrale Europea previsto per febbraio.Draghi, ora, data la montante crisi da sofferenze di Mps e stanti le sue predette responsabilità nella acquisizione di Antonveneta, si trova esposto a ricatti del partito del Quarto Reich nella Banca Centrale Europea, quindi è debole, condizionabile. Al contempo, la maggioranza di governo a guida piddina ha un forte bisogno che non scoppi proprio adesso una nuova crisi del Monte dei Paschi di Siena, affinché non venga alla luce l’azione partitico-clientelare con-causa (assieme alla conclamata manchevolezza degli organi di vigilanza) della crisi della detta banca – azione che, se venisse resa nota all’opinione pubblica, porterebbe a un disastro elettorale per la maggioranza. E vanificherebbe lo sforzo per tenerla coperta fatto dalla commissione parlamentare di inchiesta sulla crisi delle 7 banche. Che cosa non si fa per tacitare le acque ed acquisire (forse) consensi toscani? Si manda Padoan a Siena e gli si fa proclamare l’ennesima bufala pre-elettorale, ovvero che lo Stato presto uscirà dal Monte: un ottimo affare per le tasche dei cittadini.Su scala nazionale – dicono i farneticanti della dietrologia più screditata – avviene invece che il modo più rapido per arricchirsi con le banche, consistente nel prendersi direttamente i soldi dei depositanti lasciando le casse vuote a carico dei risparmiatori e dei contribuenti, è stato sdoganato dalla politica dei partiti e delle istituzioni, e viene trasversalmente tutelato come diritto della casta sulla società civile. Lo confermerebbe – dicono quegli inattendibili malpensanti – il fatto che la reticente relazione della commissione d’inchiesta, che è stata redatta dalla maggioranza di governo e che sottace le gesta bancarie di qualche Boschi, gli atti trasmessi dai Pm e altre cose pericolose per il Pd, è stata approvata grazie alla provvidenziale assenza di 4 deputati berlusconiani. Una ulteriore indicazione, agli occhi dei paranoici complottisti, che Berlusconi si prepara a un governo di irresponsabilità nazionale e solidarietà partitocratica con Renzi (o Gentiloni/Prodi/Casini/Amato + Boschi) e Associati. Si noti che ieri, a “Radio Radicale”, Brunetta, su domanda se entrerebbe mai in un governo col Pd, ha risposto «con Renzi mai», ma non «col Pd mai».(Marco Della Luna, “Mons Nazarenus, preallarme inciucio sulla miniera bancaria”, dal blog di Della Luna del 2 febbraio 2018).Se, dopo i dati desolanti e fuori norma di Mps pubblicati questa settimana, la vigilanza della Banca Centrale Europea non attaccherà la banca senese, forse è perché attaccandola esporrebbe il suo presidente Mario Draghi, il quale, da governatore della Banca d’Italia, impose all’organo di vigilanza di questa, contro l’originario parere del medesimo, di autorizzare Mussari (allora Ad di Mps) alla rovinosa acquisizione (senza “due diligence”) di Antonveneta, atto che avrà reso disinteressatamente felice qualcuno, ma che è stato la causa fondamentale del disastro di quella banca, di molti risparmiatori e lavoratori. I dati pubblicati ieri dal Monte pongono seri dubbi sulla possibilità di un piano industriale ragionevole e credibile e dall’altro lato confermano l’ipotesi formulata nel mio precedente articolo “Il Monte degli Inganni”, ovvero che la recente emissione di una grossa obbligazione subordinata da parte del Monte sia una operazione di raccolta emergenziale di liquidi con cui costituire coperture per le perdite ultimamente affiorate sui crediti, onde far fronte al severo esame della vigilanza della Banca Centrale Europea previsto per febbraio.
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Il segreto di Renaissance, misteriosi matematici miliardari
Renaissance Technologies, uno dei più prestigiosi hedge fund del mondo, ha guadagnato (e continua a farlo) montagne di soldi in Borsa grazie ad un algoritmo. La Renaissance è considerata la più grande macchina da soldi nella storia della finanza. Il segreto del successo del suo fondo, Medallion, risiederebbe in un codice di programmazione, «accompagnato da tanta omertà e da un serrato isolamento dei suoi impiegati dal mondo esterno», scrive “Money.it”. A nord di New York, in una cittadina isolata che prende il nome di East Setauket, la sede di Renaissance Technologies è completamente blindata e le telecamere sono ovunque. Dirigenti e dipendenti dell’hedge fund abitano tutti nei dintorni, in ville lussuose circondate da parchi così grandi da impedirne completamente la visione dalla strada. «Si tratta di una sorta di club privato: vivono tutti vicini e custodiscono insieme un segreto che li rende sempre più ricchi, giorno dopo giorno». La Renaissance è stata fondata negli anni ‘80 da James Simons, matematico di fama mondiale, già analista strategico della Nsa, cuore dell’intelligence Usa. «Fin dall’inizio, invece di preferire collaboratori che provenissero dal mondo della finanza, Simons ha optato per colleghi appartenenti al settore scientifico, tra cui 6/7 informatici che stavano lavorando al progetto Watsons, il programma di intelligenza artificiale di Ibm».Grazie alle conoscenze di matematici e informatici di alto livello, Renaissance Technologies è diventato un colosso finanziario senza uguali al mondo: fa molto meglio di personaggi come Ray Dalio e George Soros, con un patrimonio (nel 2015) di oltre 60 miliardi di dollari. L’importanza della Renaissance è confermata dalla giornalista Katherine Burton, di “Bloomberg”, tra le pochissime voci a far luce sulla realtà di questo hedge fund. Il funzionamento dei loro sistemi dipenderebbe da un algoritmo che sarebbe «tra i segreti meglio celati al mondo». Una setta esoterica di matematici pitagorici, hanno definito i misteriosi “uomini d’oro” della Renaissance: «Nessuno lascia quel posto di lavoro: per tenersi stretti i dipendenti è stato creato un fondo ad hoc a loro riservato». Da quando è nato, il fondo Medallion ha guadagnato in media il 40% l’anno. «Chi all’inizio ha investito 1.000 dollari, ora si ritrova in tasca circa 14 milioni». Il famoso “algoritmo misterioso” sfrutterebbe il “machine learning”, «una branca dell’intelligenza artificiale che affida ai computer la capacità di imparare da soli, senza il bisogno che siano programmati esplicitamente».Robert Mercer, che ha sostituito Simons alla guida del fondo, è un noto esponente dell’estrema destra americana. «Ha investito 11 milioni di dollari nel giornale online “Breitbart” ed è il fautore dell’applicazione del machine learning all’interno delle campagne elettorali», scrive “Money.it”. «Il banco di prova sono state le elezioni Usa nel 2016: non riusciamo ad immaginare quanti soldi abbia guadagnato Renaissance Technologies con l’“inaspettata” vittoria di Donald Trump». Senz’altro c’è di mezzo la fisica quantistica, il cui lontano antenato è probabilmente la proto-scienza alchemica, arte di cui era un maestro lo stesso Isaac Newton. Lo stesso nome, “Tecnologie del Rinascimento”, sembra amiccare al periodo di massima fioritura dell’esoterismo rosacrociano, ipotizza una ricercatrice indipendente come Lara Pavanetto. «La cosa che più di ogni altra sbalordisce, della Renaissance, è che non ne parla mai nessuno: è ricchissima e potentissima, ma sostanzialmente invisibile, inaccesibile ai media, lontanissima dal mondo dell’informazione finanziaria che invece, ogni giorno, dà conto delle imprese di Dalio, Soros e colleghi».Il fondo Medallion, scrive Pavanetto nel suo blog, è uno dei grandi misteri della finanza: secondo la leggenda, sarebbe nato da un investimento iniziale di appena 1000 dollari. «Gli investitori sono i dipendenti stessi della società, che gestisce altri tre fondi aperti a investitori istituzionali per un totale di 25 miliardi di dollari». La Renaissance Technologies è stata fondata dal matematico Jim Simons nel 1982. Simons è stato a capo del dipartimento di matematica dell’università di Stony Brook e professore anche al Mit e ad Harvard. Un’inchiesta di “Bloomberg” ha cercato di far luce su questa misteriosa entità, scoprendo che la società «è un avanzatissimo laboratorio di matematica, con computer, complesse basi statistiche e un esercito di laureati votati alla sistematica ricerca di anomalie sui vari mercati». Molti uomini della società “invisibile” sono acquartierati a sessanta miglia da Wall Street, vicino a Long Island. Palazzi da milioni di dollari, in un villaggio chiamato Old Field. «Gli abitanti del posto hanno però dato un altro nome a questo territorio: la Riviera del Rinascimento. Questo perché i più ricchi residenti della zona sono scienziati, e lavorano per Renaissance Technologies, con sede nella vicina East Setauket».Questi scienziati, per lo più matematici, «sono i creatori e sorveglianti del fondo più grande del mondo: Medallion», che ha circa 300 dipendenti, il 90% dei quali laureati in matematica. «Renaissance è la versione commerciale del Progetto Manhattan», spiega Andrew Lo, professore di finanza alla Sloan School of Management del Mit e presidente di AlphaSimplex, una società di “ricerca quantitativa”. Andrew Lo lavora per Jim Simons, per riunire tanti scienziati a caccia di profitti economici: «Questi matematici sono l’apice dell’investimento “Quant”. Nessun altro vi è nemmeno lontanamente vicino». Tutti hanno sentito parlare della Renaissance, ma quasi nessuno sa ciò che accade all’interno: «Ricordano i pitagorici, cioè una setta filosofica di matematici». Quasi nulla si sa di questo piccolo gruppo di scienziati, «il cui vasto patrimonio influenza sempre di più la politica degli Stati Uniti», scrive Pavanetto. Proprietari e dirigenti evitano le interviste. Il loro sembra un sistema unico al mondo, «per il genio e l’eccentricità della sua dirigenza». Esempio: «Peter Brown, uno dei boss, di solito dorme su un letto nel suo ufficio. Il suo omologo, Robert Mercer, raramente parla. I due sono laureati in matematica e teorici della famosa “teoria delle stringhe”».Il mistero dei misteri? «E’ il modo in cui Medallion è riuscito a garantire rendimenti annuali di quasi l’80 per cento in un anno, al lordo delle commissioni». La spiegazione? I computer di Renaissance “pensano”, oltre a fare calcoli. Gli uomini Renaissance hanno più dati e meglio organizzati. Dispongono di più indizi su cui basare le loro previsioni e vantano modelli migliori per l’allocazione del capitale. Prestano molta attenzione al costo dei vari trade e di come il trading si muova sui mercati. «Molti di questi scienziati sono partiti dalla Ibm nel lontano 1980, dove hanno usato l’analisi statistica per affrontare le sfide più scoraggianti all’epoca pionieristica dei computer». Tuttavia, aggiunge Pavanetto, non è chiaro come sia possibile che nessuna informazione sia mai trapelata, in un mondo come quello dell’alta finanza, dove molti modelli sono simili e i dipendenti migrano da un hedge fund all’altro, dalla Goldman Sachs alla Jp Morgan. Invece da Renaissence non se ne è andato mai nessuno, o se qualcuno l’ha fatto è rimasto muto come una tomba. Non c’è fuga di segreti perché, davvero, a guadagnarci sono solo i dipendenti?Se così fosse, secondo Lara Pavanetto si paleserebbe un mistero ancora più grande: «Il modello avrebbe forti dosi di componenti deterministiche e le ottimizzazioni stocastiche interverrebbero solo nella parte residuale di un ipotetico “decision tree”, il che violerebbe il principio della aleatorietà dei mercati». Come dire che alla Reinassence sarebbero in possesso della legge deterministica dei mercati. «Un cosa che somiglierebbe molto alla “pietra filosofale”, tenendo conto che tale modello sarebbe stato concepito in un’epoca in cui le capacita computazionali erano un’infinitesimo di quanto lo sono oggi». Pochi sanno che James Simons, il fondatore di Reinassence, all’inizio della sua carriera fu un crittografo, sottolinea Pavanetto. Simons lavorò per la difesa degli Stati Uniti prima di essere licenziato, apparentemente, per il suo dissenso (a mezzo stampa) sulla Guerra del Vietnam. «Fece i suoi soldi inizialmente tramite un investimento in Colombia, e poi con il fondo Limroy, un precursore del fondo Medallion. Ha sempre reclutato personale che non ha mai lavorato a Wall Street. I suoi investitori inizialmente furono gente come Jimmy Meyer, uno dei più vecchi amici di Simons, e Edmundo Esquenazi, uomo d’affari di origine ebraica che fondò società emblematiche come Pavco, Mexichem Resinas Colombia (ex Petco) e Propilco».Ma il nome di Simons, continua Pavanetto, sarebbe anche legato all’affare Madoff, la truffa dello schema Ponzi (il cui nome viene da quello di un immigrato italiano che, agli inizi del Novecento, per primo lo mise in atto su grande scala). Il gioco: promettere agli investitori alti guadagni ma in modo fraudolendo, cioè pagando coi soldi dei nuovi investitori gli interessi maturati dai vecchi investitori. «La truffa consisteva nel fatto che Madoff versava l’ammontare degli interessi pagandoli con il capitale dei nuovi clienti. Il sistema saltò nel momento in cui i rimborsi richiesti superarono i nuovi investimenti». Nell’ultimo periodo le richieste di disinvestimento avevano raggiunto i 7 miliardi di dollari, al punto che Madoff non fu più in grado di onorare la remunerazione degli interessi promessi. Attenzione: «La dimensione della truffa messa in piedi da Madoff è almeno tre volte più grande dell’ammanco causato dal crac Parmalat». Dopo averli ascoltati, la Sec (autorità di vigilanza finanziaria) ha poi deciso di non procedere contro molti “senior partners” della Reinassence come Paul Broder, Henry Laufer, Nat Simons (figlio di Jim), Jimmy Meyer e vari “portfolio managers” del Meritage Fund, “gemello” di RenTech, uno dei fondi Reinassence.«Ciò che sorprende di più – scrive Pavanetto – è che la Renaissance Technologies non ha mai fatto cenno alla Sec», anche se Jimmy Meyer era «uno dei più vecchi amici di Jim Simons». Altra stranezza, infine: le strane morti attorno al mondo Reinassance. Due dei quattro figli dello stesso Jim Simons perdono la vita prematuramente Paul Simons muore nel 1996 investito da un’auto e suo fratello Nicholas annega nel 2003 nelle acque di Bali. Tre anni dopo, nel 2006, Alexander Astashkevich, impiegato (russo) di RenTech, uccide se stesso e sua moglie. Nel 2014 viene trovato impiccato William Broeksmit, un dipendente della Deutsche Bank che gestiva le opzioni di paniere di RenTech oggetto dell’investigazione americana Irs. «Le e-mail di Broeskmits che spiegavano l’uso del commercio da parte di RenTech sono state fornite agli investigatori statunitensi prima della sua morte», scrive Pavanetto, che cita anche l’ultima delle “strane morti”, quella di Scott Christianson, avvocato e giornalista, deceduto il 14 maggio 2017 “cadendo dalla scala di casa” doppo aver pubblicato, con il collega Greg Gordon, «un’indagine approfondita sui legami tra il presidente Donald Trump e il magnate dell’hedge fund Medallion Robert Mercer».Renaissance Technologies, uno dei più prestigiosi hedge fund del mondo, ha guadagnato (e continua a farlo) montagne di soldi in Borsa grazie ad un algoritmo. La Renaissance è considerata la più grande macchina da soldi nella storia della finanza. Il segreto del successo del suo fondo, Medallion, risiederebbe in un codice di programmazione, «accompagnato da tanta omertà e da un serrato isolamento dei suoi impiegati dal mondo esterno», scrive “Money.it”. A nord di New York, in una cittadina isolata che prende il nome di East Setauket, la sede di Renaissance Technologies è completamente blindata e le telecamere sono ovunque. Dirigenti e dipendenti dell’hedge fund abitano tutti nei dintorni, in ville lussuose circondate da parchi così grandi da impedirne completamente la visione dalla strada. «Si tratta di una sorta di club privato: vivono tutti vicini e custodiscono insieme un segreto che li rende sempre più ricchi, giorno dopo giorno». La Renaissance è stata fondata negli anni ‘80 da James Simons, matematico di fama mondiale, già analista strategico della Nsa, cuore dell’intelligence Usa. «Fin dall’inizio, invece di preferire collaboratori che provenissero dal mondo della finanza, Simons ha optato per colleghi appartenenti al settore scientifico, tra cui 6/7 informatici che stavano lavorando al progetto Watsons, il programma di intelligenza artificiale di Ibm».
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Ma la bufera sulle logge non sfiora la massoneria che conta
«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».«Ci vogliono mettere il triangolo rosso come ai tempi delle persecuzioni naziste», protesta il gran maestro del Goi, Stefano Bisi, a capo di 23.000 affiliati distribuiti in oltre 800 logge. Sull’“Espresso”, Turano sostiene che le nuove indagini «hanno stretto i liberi muratori in una morsa politico-giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 (marzo 1981) quando Licio Gelli, il “venerabile” per eccellenza, gestiva un potere occulto, alternativo allo Stato democratico, raccogliendo un’oligarchia di deputati, ministri, generali, imprenditori e criminali che si erano sottratti alle leggi della Repubblica». Il giornale cita lo storico Aldo Mola, secondo cui la P2 non era affatto una loggia coperta, ma una cellula speciale regolarmente affiliata al Goi, con tre caratteristiche. «Primo: l’iniziazione non avveniva in loggia. Secondo: non c’era diritto di visita, ossia altri fratelli non potevano visitare la loggia. Terzo: non c’era obbligo di riunioni. Infatti la P2 non si è mai riunita». La loggia di Gelli, afferma Mola, era una replica della loggia Propaganda, costituita nel 1877 «come vetrina e fiore all’occhiello del Goi, tanto che i fratelli erano dispensati dal pagare le quote». Peraltro, si trattava di “capitazioni” ridicole: «Il cantante Claudio Villa versava 2 mila lire all’anno e lo scrittore Roberto Gervaso 60 mila. Erano somme piccole anche negli anni Settanta».Finisce lì, l’analisi sulla P2 offerta dall’“Espresso”. Secondo Gioele Magadi, presidente del Movimento Roosevelt e autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere) la P2 non era altro che il braccio operativo della superloggia sovranazionale “Three Eyes”, fondata da Kissinger e Rockefeller, “mente” storica della supermassoneria globalista neo-reazionaria, che avrebbe affiliato – tra gli altri – Giorgio Napolitano. Un circuito potentissimo, quello delle Ur-Lodges di ispirazione neo-aristocratica, che terrebbe insieme politici e tecnocrati, da Monti a Draghi passando per D’Alema e per il governatore Visco di Bankitalia, inclusi tutti i recenti ministri dell’economia (da Siniscalco a Grilli, da Saccomanni a Padoan), ridotti a cinghie di trasmissione dei diktat neoliberisti del super-potere globalista, quello delle crisi finanziarie e della disoccupazione di massa. Lo stesso Carpeoro, che nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzione) svela i retroscena ben poco islamici degli attentati europei firmati Isis (chiamando in causa settori dell’intelligence Nato), sostiene che la P2 di Gelli serviva a “coprire” il vero ponte di comando del potere: «Si tratta della loggia P1, mai scoperta ufficialmente, responsabile della “sovragestione” che ha eterodiretto in Italia la strategia della tensione e poi la crisi degli ultimi anni».Fatevi qualche domanda, insiste Carpeoro: «Non è strano che nessun giornale, nemmeno per sbaglio, abbia mai evocato la P1?». La lettera P, come scrive lo stesso Mola, sta per “propaganda”: doveva essere una vetrina di iscritti prestigiosi, destinati a dare lustro al Grande Oriente. «E allora che senso ha, poi, fare la P2 e tenerla nascosta?». In proposito, Carpeoro ha le idee chiare: «Un tempo, ogni anno, la massoneria apriva le porte delle logge alla cittadinanza, ricordando i massoni illustri che avevano fatto qualcosa di meritevole per la loro città». Dal canto suo, Magaldi contesta il farisaismo della politica italiana: «Questo è uno Stato nato dalla massoneria risorgimentale», e non solo: era notoriamente massone Meuccio Ruini, capo della commissione per la Costituente, così come il giurista Pietro Calamandrei, uomo simbolo dell’antifascismo e della rinascita democratica del paese. Era massone – trentatreesimo grado del Rito Scozzese – lo stesso Giacomo Matteotti, martire antifascista, come ricorda Carpeoro nel saggio “Il compasso, il fascio e la mitra” (Uno Editori), che documenta lo strano “inciucio” tra massoneria e Vaticano all’origine del regime di Mussolini – col placet del sovrano Vittorio Emanuele III, che in cambio avrebbe intascato una maxi-tangente petrolifera dalla Sinclair Oil della famiglia Rockefeller.Grandi poteri, non beghe di cortile: il reportage dell’“Espresso” cita solo di striscio il drammatico caso Mps, che ha coinvolto il Goi nelle recenti inchieste. «Politica e giornali hanno attaccato il gran maestro Stefano Bisi – protesta Magaldi – guardandosi bene dal citare Anna Maria Tarantola e Mario Draghi, cioè i due tecnocrati allora ai vertici di Bankitalia che avrebbero dovuto vigilare sulle azioni del Montepaschi». Peggio: sul caso incombe la strana morte di David Rossi, alto funzionario della banca senese, precipitato da una finestra. Un suicidio da più parti ritenuto inverosimile, che secondo Carpeoro (intervistato da Fabio Frabetti di “Border Nights”) lascia pensare a una guerra inframassonica senza esclusione di colpi, tutta interna all’ala destra della supermassoneria internazionale oligarchica: «Da una parte il gruppo di Draghi, e dall’altra i suoi antagonisti, che probabilmente vogliono metterlo in difficoltà – con la tempesta su Mps – per poi arrivare a sostituirlo». Carpeoro e Magaldi, massoni entrambi (il primo uscito dal circuito delle logge, il secondo fondatore del Grande Oriente Democratico, che punta a creare una massoneria trasparente) sono tra i pochissimi a spiegare, in modo convincente, un mondo di cui sui giornali continua a non esservi traccia.Lo stesso libro “Massoni” (sottotitolo, “La scoperta delle Ur-Lodges”), dopo infinite ristampe che ne hanno fatto un bestseller italiano è stato recensito soltanto dal “Fatto Quotidiano”, nel silenzio assordante della grande stampa mainstream, quella che poi si scatena sulle inchieste che coinvolgono le periferie massoniche provinciali. «Come tutte le associazioni umane, anche la massoneria si degrada se smarrisce lo scopo iniziale e si riduce a essere una struttura, che poi diventa inevitabilmente appetibile per il potere», sintetizza Carpeoro: «L’architetto Christopher Wren, capo della massoneria inglese incaricato di ricostruire Londra dopo l’incendio che la distrusse nel 1666, riprogettò tutti i maggiori edifici tranne uno, il tempio massonico. Il 1717 è ufficialmente la data di nascita della massoneria moderna, ma in realtà segna l’inizio della sua morte». Magaldi non concorda appieno: «Dobbiamo a quella massoneria la Rivoluzione Francese, la Rivoluzione Americana e persino la Rivoluzione d’Ottobre che abbattè lo zarismo. Lo Stato laico, la democrazia elettiva: valori che oggi diamo per scontati, ma che nascono dalla libera muratoria del ‘700».Per questo, sostiene Magaldi, è assolutamente disonesto sparare sulla massoneria tout-court. E lo dice uno che l’ha messa in croce, per iscritto, la supermassoneria oligarchica “contro-iniziatica” che ha letteralmente inquinato l’Occidente, sabotandone il percorso democratico. Nel suo libro, Magaldi ascrive alle Ur-Lodges reazionarie il colpo di Stato del massone Pinochet in Cile (contro il massone Allende) e il doppio omicidio di Bob Kennedy e del massone Martin Luther King, nonché i tentativi di golpe nell’Italia del dopoguerra, orchestrati con la collaborazione della P2 di Gelli su mandato della “Three Eyes”. Capolavoro europeo dell’offensiva neo-oligarchica, l’omicidio del premier svedese Olof Palme, assassinato nel 1986 alla vigilia della sua probabile elezione all’Onu, come segretario generale. «Socialista democratico – sottolinea Carpeoro – Palme era un trentatreesimo grado del Rito Scozzese». Poco prima del delitto, Gelli inviò un telegramma negli Usa per avvertire che «la palma svedese» sarebbe stata abbattutta. «Il telegramma – scrive Carpeoro – era destinato a Philip Guarino, parlamentare allora vicino al politologo Michael Ledeen, massone e membro del B’nai B’rit sionista, negli anni ‘80 vicino a Craxi e poi a Di Pietro, quindi a Renzi ma al tempo stesso anche a Di Maio e Grillo».«Se Olof Palme fosse rimasto in campo, mai e poi mai avremmo visto nascere questo obbrobrio di Unione Europea», scommette Carpeoro, intenzionato – con Magaldi e il Movimento Roosevelt – a promuovere un convegno, a Milano, proprio sulla figura del leader svedese, «l’uomo che creò il miglior welfare europeo e scongiurò la disoccupazione impegnando direttamente lo Stato nelle imprese in crisi: la sua missione dichiarata era “tagliare le unghie al capitalismo”, contenerlo e limitarne l’egemonia». Non poteva non sapere, Olof Palme, che all’inzio degli anni ‘80 l’intera comunità delle potentissime Ur-Lodges, comprese quelle di ispirazione progressista, aveva firmato lo storico patto “United Freemasons for Globalization”, che diede il via alla mondializzazione definitiva dell’economia, archiviando decenni di diritti e conquiste democratiche. Era scomoda, la “palma svedese”: andava “abbattuta”. Per mano di fratelli massoni? «Nella ritualistica, l’iniziazione del maestro rievoca l’uccisione del mitico architetto Hiram Abif, assassinato proprio da due confratelli», sottolinea Carpeoro. «Lo stesso organizzatore del delitto Matteotti, il massone Filippo Naldi, fece in modo – con estrema perfidia – che fossero massoni i killer del leader socialista, massone anche lui».Analisi e retroscena, spiegazioni, ragionamenti in controluce che permettono di rileggere la storia da un’altra angolazione. Nulla che si possa rintracciare, tuttora, nella stampa mainstream. «Di certo Gelli, a poco più di un anno dalla sua morte, sembra avere seminato anche troppo bene», si limita a scrivere Turano sull’“Espresso”. «Come alla fine dell’Ottocento, è tornato di moda il motto del garibaldino e deputato Felice Cavallotti: “Non tutti i massoni sono delinquenti, ma tutti i delinquenti sono massoni”». Garibaldi, passato alla storia (spesso agiografica) come “l’eroe dei due mondi”, fu il primo gran maestro del Grande Oriente d’Italia. Un altro massone, Cavour, fu il “cervello” del Risorgimento: se non fosse morto prematuramente, sostiene Carpeoro, non avremmo vissuto in modo così drammatico l’Unità d’Italia, con il Sud martizizzato dal militarismo di La Marmora e Cialdini e l’esodo di milioni di migranti. Massoni “delinquenti”? «Erano massoni anche Gandhi, Papa Giovanni XXIII e Nelson Mandela», protesta Magaldi. Problema: la storia ufficiale non ne fa cenno. Risultato: per il potere, il miglior massone resta il massone occulto, segreto. E per la gran parte dell’opinione pubblica italiana, la massoneria resta un mondo opaco e borderline, tra le indagini antimafia e il fantasma di Gelli. Anche per questo, grazie al silenzio dei media, la massoneria mondiale – quella vera – continuerà a stabilire a tavolino cosa deciderà il prossimo G20, che politica farà la Bce, come agirà Macron in Francia e cosa dichiarerà il Fondo Monetario Internazionale sulle pensioni italiane, a prescindere dalle prossime elezioni.«Aboliamo la massoneria», titola “L’Espresso”, di fronte all’offensiva della commissione antimafia guidata da Rosy Bindi, dopo la denuncia di una trentina di massoni calabresi “dissidenti”, usciti allo scoperto in seguito a un’indagine su riciclaggio e narcotraffico. «Un’inchiesta politica e giudiziaria senza precedenti dai tempi della P2 mette sotto scacco il mondo degli incappucciati», scrive il settimanale di De Benedetti. « E la commissione antimafia vuole i nomi degli affiliati: era ora, ma non basta». Il reportage di Gianfrancesco Turano, che documenta l’attività investigativa allora in corso, risale a una anno fa e fotografa alla perfezione il clamore suscitato dalla Bindi, a mezzo stampa: «C’è da sperare che venga rieletta: in politica farebbe comunque meno danni che all’università, dove tornerebbe a insegnare», commenta sarcastico il massone Gianfranco Carpeoro, saggista, già a capo dell’autodisciolta Gran Loggia Serenissima di Piazza del Gesù. Carpeoro (al secolo Gianfranco Pecoraro, avvocato di lungo corso) è uno spietato giudice dei grembiulini nazionali: «Quella italiana è la peggior situazione massonica al mondo: quando va bene, entrare in una loggia oggi significa perdere il proprio tempo». Ancora più caustico un altro massone progressista, Gioele Magaldi, che contesta l’ipocrisia del sistema politico-mediatico: «Se la prendono sempre con le logge provinciali, fingendo di non sapere che i massimi vertici dello Stato militano nelle Ur-Lodges sovranazionali che hanno imposto all’Italia la tragedia dell’austerity».
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La fabbrica delle notizie gonfiate: come nella Corea del Nord
Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne.Non ci sono in queste vicende né morti né stragi, deportazioni di popoli, violenze di massa, minacce alla sicurezza; sono fatti di cronaca che avrebbero meritato un titolo sui giornali ma non il lutto nazionale e l’allarme generale. Ma servono tutti per tenere vivo e dominante il Grande Racconto Ideologico, per alimentare la religione del politically correct. Dove i fatti spariscono e restano le “narrazioni” che aspirano a dimostrare una sola cosa: mafia, fascismo, razzismo, fanatismo, violenza anche sportiva, sono la stessa cosa. A nulla vale obbiettare che “il testa” è un sinti e non un fascio italiano, che simpatizzava per Grillo e magari pure per il Pd, e comunque è irrilevante la sua opinione politica, ha reagito violentemente perché non voleva la troupe addosso e non per motivazione “politica”. E a nulla vale aggiungere che Ostia è come un migliaio di comuni italiani sotto attacco o infiltrazione della malavita, tra mafia, camorra, ‘ndrangheta, simili e derivati. Nel resto dei comuni non comandano i puffi, sono ben inseriti i ladri comuni, i corrotti comuni, i comitati d’affari di ogni giorno. Ma a Ostia si vota, CasaPound ha preso un sacco di voti, è in gara un candidato di destra; ergo la vigilanza democratica e antifascista deve raggiungere il massimo grado di attenzione. E a proposito di mafia & fascismo a nulla vale ricordare per la verità storica che l’unico momento in cui la mafia fu cacciata dall’Italia e poi tornò nel ’43 con gli americani fu – ma guarda un po’ – durante il fascismo.Ora mi chiedo: ma che messaggio diamo ai cittadini, ai lettori, agli ascoltatori se i fatti principali sono questi e servono tutti a una pedagogia ideologica di massa? Poi vi lamentate delle fake news, ma è già la fabbrica delle notizie gonfiate e manipolate a drogare i fatti per veicolare l’opinione pubblica e distorcere la realtà. In uno stupro il colpevole dovrebbe essere lo stupratore, quindi in seconda battuta è complice la leggerezza delle ragazze che si sballano e si accompagnano a gente così. Invece per i media il colpevole è il prete che ha usato un linguaggio troppo aspro per dire una cosa sensata e vera. Ma la verità non esiste nel panorama balengo della disinformazione di massa. Se la prendono coi titoli urlati di “Libero” ma la realtà, la verità, la priorità delle notizie è stuprata ogni giorno anche dall’informazione di Stato. I nostri notiziari sembrano la versione occidentale di quelli coreani. Solo che da noi la dittatura non è nelle mani di Kim ma del politically correct. E giù censure a chi non la pensa così. Poi vi lamentate se la gente trova un alibi per disertare l’informazione, per non comprare i giornali, per barricarsi con le cuffie e i telefonini nella propria egoistica privacy.Un fatto di cronaca, una deprecabile testata di un presunto criminale finora incensurato a un giornalista – una notizia che avrebbe meritato un titolo in cronaca – tiene banco da svariati giorni e da giorni diventa apertura dei telegiornali e dei quotidiani. Una stupida e crudele manipolazione di una foto di Anna Frank per cazzeggi sportivi diventò per giorni e giorni una tragedia nazionale con mobilitazione delle istituzioni, preghiere e letture negli stadi e nelle scuole per riparare alla profanazione e denunciare la rinascita del solito razzismo e nazismo. E più indietro, una scritta sui muri sul tema diventò argomento di apertura dei giornali e dei tg con relativa denuncia del pericolo fascista tornante. Lo stupro compiuto da un magrebino ai danni di una ragazza che si era ubriacata e si era accompagnata a lui, assume rilevanza nazionale ma solo per deprecare il prete che ha usato parole troppo dure per dire una cosa giusta: se vi sballate e vi accompagnate agli sconosciuti poi non lamentatevi. Ho citato solo i primi che mi sono venuti alla mente, ma la dilatazione di una parola, di un gesto, di un atto violento da bullo di periferia al rango di Evento Nazionale, di Dramma Epocale è ormai roba di ogni giorno. Analoghi o più gravi fatti ma di segno diverso passano inosservati o relegati nelle pagine interne.
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Magaldi: sveglia, Renzi. Ribellati all’Ue, o sarà la catastrofe
Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.«A differenza di altri, Renzi potrebbe in extremis dare corpo a quelle che, peraltro, sono sue enunciazioni», afferma Magadi, ai microfoni di “Colors Radio”. «Giustamente, oggi Renzi chiama in causa la vigilanza di Bankitalia su diverse vicende mal gestite – Bankitalia governata a suo tempo da Mario Draghi». Certo, si dirà che lo fa «per stornare gli attacchi ricevuti su Banca Etruria». Ed è paradossale che Berlusconi, «defenestrato a suo tempo soprattutto per volere di Draghi e delle consorterie massoniche di cui Draghi è parte», si schieri oggi in difesa del suo ex killer politico, Mario Draghi. «Ma questo fa parte del gioco di Berlusconi: da un lato chiede al Parlamento di vigilare sulle vicende dello spread del 2011, talvolta alimentando l’idea che ci sia stato un golpe a suo sfavore, ma poi va a lisciare il pelo di colui che è stato, insieme a Napolitano e altri, il burattinaio di quel golpe, che ha insediato Mario Monti a Palazzo Chigi». Se questo è il centrodestra, il centrosinistra sta ancora peggio: ma non solo per colpa di Renzi, sostiene Magaldi. «Oggi ad esempio assistiamo alle uscite di Veltroni, che dà consigli non richiesti». Veltroni, cioè «colui che ha portato il Pd alla prima sconfitta, facendo il modo che Prodi perdesse il governo».Sia chiaro, nessun rimpianto: «Prodi è tra coloro che dovrebbero chiedere scusa agli italiani, avendo (al pari di Berlusconi) governato malissimo l’ingresso dell’Italia in Europa, la sua permanenza e in generale gli ultimi 25 anni di storia», precisa Magaldi. Che però insiste: non è colpa di Renzi se il Pd, che doveva essere «la quintessenza del progressismo in Italia, raccogliendo forze nuove della società civile e politica», si è ridotto fin dall’inizio a essere soltanto «la fusione tra Margherita e Ds», nonché «l’ennesima propagazione del mondo post-comunista, Pci-Pds». Matteo Renzi? «Non è il responsabile del declino del Pd, perché Bersani – prima di lui – ha fatto molto peggio: ha appoggiato il governo Monti, la sciagurata introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione e la riforma delle pensioni della sciaguratissima ministra Fornero. Dovrebbe tacere, Bersarni: vergognarsi, e non mettere l’articolo 1 della Costituzione accanto al simbolo altrettanto grottesco del Mdp, “movimento democratico progressista”». Per Magaldi, Bersani, D’Alema e soci «sono molto peggio di Renzi, e non a caso i sondaggi li danno a percentuali risibili: non sono credibili né come alternativa a sinistra del Pd, né per rifare il centrosinistra su basi diverse da quelle renziane».Detto questo, continua Magaldi, anche Renzi ha le sue responsabilità. «Per questo, se ha un minimo senso di autoconservazione, è importante che – in modo fulmineo – cambi rotta: gli italiani non gli perdonano di esser stato un affabulatore, qualcuno che ha promesso, che ha dato delle speranze». Alle ultime europee, il Pd renziano aveva superato il 40%? Logico: «Molti hanno creduto in Renzi, nel suo piglio giovanile, nella sua capacità di comunicazione, nel suo ottimismo. Molti hanno pensato che fosse la carta giusta. Gli hanno creduto quando l’hanno sentito parlare di una nuova Europa, quando ha detto che le cose che aveva in mente avrebbero riportato occupazione e benessere». Le cose, come sappiamo, non sono andate esattamente così. Nel suo libro, “Avanti”, oggi Renzi si lamenta: sostiene di non essere stato compreso. Ammette di aver commesso degli errori (solo veniali, però) e non si rende conto che il Jobs Act ha accentuato la precarierà del lavoro. In teoria non sarebbe sbagliata l’idea delle “tutele crescenti”, dice Magaldi, ma è insostenibile in questo contesto politico-economico: «Se invece si desse per Costituzione il diritto al lavoro, questo consentirebbe anche di abbandonare le vecchie tutele – ma allora non ci sarebbe neppure più bisogno del Jobs Act».Il vero problema che la politica italiana – Renzi compreso – finge di ignorare, è il carattere artificioso della crisi, ormai disastrosa: viviamo da decenni «in un clima di economia asfittica e di impossibilità delle istituzioni di rilanciare lavoro, occupazione e benessere, rinnovando infrastrutture divenute fatiscenti». E quindi, «in un paese pesantemente trattenuto anche dal Patto di Stabilità che frena gli enti locali, è inutile che Renzi venga a dire che non è stato compreso e che ha i nemici in casa». Renzi, aggiunge Magaldi, deve decidersi «in tempi rapidissimi», perché dopo le elezioni sarà già tardi. Deve scegliere «se davvero vuole essere quello che dà un nuovo passo all’Italia». Per farlo, però, «deve abbracciare un paradigma politico-economico che è alternativo a quello dell’austerity». E’ inutile che continui a vantarsi di litigare quotidianamente con i partner europei: «Tutti hanno visto il suo abbaiare e poi il suo sostanziale andare a baciare più volte l’anello di Angela Merkel e degli altri potenti, di quella che qualcuno definirebbe Euro-Germania, ma che non è altro che un meccanismo asservito a interessi sovranazionali di carattere privato». In sostanza, dice Magaldi, se Renzi non esce dal letargo non lo farà nessun altro: nemmeno Salvini e la Meloni avrebbero la forza necessaria a scuotere il paese.«Salvini – amette Magaldi – è stato bravo a investire nella trasformazione della Lega come movimento non più settentrionale ma nazionale». Dal leader leghista arrivano «giuste critiche ad alcuni aspetti dell’Europa». Bene anche quando dice che i migranti vanno “aiutati a casa loro”: peccano non si ricordi una sola proposta concreta, della Lega, per aiutare davvero “a casa loro” i disperati che giungono sulle nostre coste. Soprattutto: «Salvini ha in mente un impianto economico che è tradizionale: le ricette che propone non sono troppo dissimili da quelle del liberismo classimo». Per primo, con lucidità, Salvini ha chiesto di abbattere le aliquote fiscali: «Ma non basta, serve di più. A Salvini, probabilmente, manca la la percezione della necessità di ricette keynesiane». Fa benissimo a chiedere le primarie nel centrodestra, che Magaldi gli augura di vincere: «Un giorno Salvini potrebbe evolvere, capendo meglio la necessità di un cambio di paradigma politico-economico: occorre comprendere la radice del problema, che riguarda la globalizzazione e il pensiero neliberista egemone nella cosiddetta austerity che ancora ispira tutti i governi europei».Per rompere questo pensiero unico, dice ancora Magaldi, occorre che Salvini e altri «cambino il loro modo di guardare alla società e all’economia, ma ancora questo passo non l’hanno fatto». Perché «non basta dire no a quest’Europa», serve una vera e propria rivoluzione copernicana nel modo di intendere la sovranità democratica, mettendo fine al dominio ideologico dell’élite che ha dogmatizzato il neoliberismo, fino a traformare l’Europa in un inferno di sofferenze sociali. «Io sono un europeista – chiarisce Magaldi – ma mi vergogno di come l’europeismo sia stato tradito da questi anti-europeisti che oggi portano il vessillo delle istituzioni europee». Sarebbe questa l’unica battaglia giusta, necessaria e urgentissima, per poter dare un senso alle prossime elezioni. Che invece, avanti di questo passo, nessuno vincerà davvero: né il Renzi dormiente, né lo stesso Salvini. «Nessuno dei leader di punta, quelli cioè troppo caratterizzanti, aerriverà a Palazzo Chigi: nessuno di loro potrà essere a capo di un governo di coalizione. E nessuno le vincerà, le prossime elezioni: non il centrodestra, né il Movimento 5 Stelle. E non il centrosinistra, che anzi si prepara alla catastrofe».Matteo, sveglia: devi cambiare rotta adesso, in extremis, dichiarando guerra all’austerity. Oppure, «dopo il bagno di sangue delle elezioni» sarà troppo tardi. Non ci saranno vincitori, ma un grande sconfitto, il Pd. E l’Italia dovrà rassegnarsi all’ennesimo non-governo, prono ai diktat di Bruxelles. Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, insiste su Renzi: ancora per qualche mese, l’ex rottamatore sarebbe l’unico potenziale vettore di consenso, su cui far convergere una piattaforma keynesiana in grado di ribaltare il tavolo europeo. Non lo è il Movimento 5 Stelle, nel cui programma l’Europa è assente. Non lo è Berlusconi, «che un giorno attacca la Merkel e il giorno dopo ne cerca l’amicizia, tramite Tajani». E non lo è neppure Salvini, «che dice “no a quest’Europa” ma poi non ha ricette alternative al liberismo classico». Beninteso: «A Palazzo Chigi non ci andrà, Salvini, perché le prossime elezioni – che non vincerà nessuno – regaleranno all’Italia l’ennesimo governo di basso profilo, con un premier né carne né pesce che vada bene agli uni e agli altri». E questa sarebbe anche la fine di Matteo Renzi, cioè di quella che milioni di italiani hanno percepito come come l’ultima spiaggia, l’ultima vera speranza di cambiamento. Ha bluffato, Renzi? Certamente. Dunque gli resta un’ultima possibilità: aprire, davvero, le ostilità con Berlino, Francoforte e Bruxelles. Viceversa, dopo il voto, sarebbe politicamente morto.
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Altro che Bankitalia: comandano i boss del Casinò-Europa
Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.«Possiamo vedere ogni giorno la pressione esercitata dall’industria bancaria e finanziaria per influenzare le leggi che li governano», è l’accusa. «Non c’è nulla di straordinario se queste imprese fanno conoscere il proprio punto di vista e hanno discussioni con i legislatori. Ma ci sembra che l’asimmetria tra il potere di questa attività di lobby e la mancanza di una esperienza opposta ponga un pericolo per la democrazia», dissero i parlamentari europei. Questo “pericolo per la democrazia”, osserva Baranes, diventa purtroppo evidente scorrendo il rapporto del Ceo. «In sede europea il mondo finanziario supera la spesa in attività di lobby di ogni altro gruppo di interesse per un fattore di 30 a 1». Per fare un esempio tra i molti possibili, una recente discussione al Parlamento Europeo su una direttiva comunitaria riguardante gli “hedge fund” e le “private equity”, 900 emendamenti sui 1.700 totali sono stati redatti non da parlamentari ma da lobbisti del mondo finanziario. Al Parlamento Europeo, continua Baranes, sono attivi gruppi come l’Epfsf (European Parliamentary Financial Services Forum), che comprende membri del Parlamento e lobbisti finanziari per “promuovere un dialogo tra il Parlamento Europeo e l’industria dei servizi finanziari”.«Questo “dialogo” – scrive Baranes – comprende ad esempio inviti ai parlamentari per “seminari educativi sul trading dei derivati”. Il forum è finanziato principalmente dai suoi 52 membri, tra i quali Jp Morgan, Goldman Sachs International, Deutsche Bank, Citigroup e altri». E’ possibile saperlo perché ad oggi è l’unico gruppo di rilievo in ambito finanziario a rivelare il nome dei propri membri. Il “Registro per la Trasparenza” delle attività di lobby, istituito in sede Ue nel 2008 per provare a fare chiarezza, è infatti unicamente volontario, lasciando a imprese e lobbisti la scelta di registrarsi o meno. «Sta di fatto che un singolo parlamentare europeo rivela di avere ricevuto qualcosa come 142 inviti in due anni dal mondo finanziario per “eventi”, “seminari” o simili». Secondo il rapporto, dopo lo scoppio della crisi la lobby finanziaria ha partecipato ad almeno 1.900 incontri e consultazioni con la Commissione e le altre istituzioni europee. Un numero da mettere in relazione con il centinaio di incontri che coinvolgevano reti e organizzazioni della società civile e con gli 84 con il mondo sindacale.«Analogamente – aggiunge Baranes – il dato (prudenziale) di 120 milioni di euro l’anno speso per le lobby finanziarie è da mettere a confronto con una disponibilità intorno ai 2 milioni per Ong, società civile e sindacati. Un rapporto di 60 a 1 che fa impallidire i pur evidenti squilibri presenti in altri settori. Ad esempio per quanto riguarda l’agro-alimentare, la stima è di 50 milioni di euro dell’industria a fronte di 12 milioni per associazioni di consumatori, Ong e sindacati». Uno squilibrio «ancora più impressionante» quando si va a vedere la composizione dei “gruppi di esperti”, ovvero gli organi consultivi ufficialmente costituiti da Commissione, Bce o agenzie di supervisione finanziaria per ricevere consigli e pareri su aspetti e normative specifiche: «In molti casi la rappresentanza supera abbondantemente il limite della decenza, se non quello del ridicolo». Nel “De Larosière Group on financial supervision in the European Union”, figurano ben 62 membri del mondo finanziario, e nessuno da società civile, sindacati o altri gruppi di interesse. «Sulla Mifid, direttiva fondamentale sul funzionamento dei mercati finanziari europei, 77 contro 5». La musica non cambia nel gruppo di esperti sui derivati: 86 provengono dal mondo finanziario, e nessuno da Ong, consumatori o sindacati.Secondo il rapporto, in totale oltre il 70% dei consulenti e degli esperti nei gruppi della Commissione Europea ha legami diretti con il mondo finanziario, a fronte di uno 0,8% delle Ong e del 0,5% dei sindacati. «Se possibile va ancora peggio alla Bce, che ha promosso degli “Stakeholder Groups”». La parola stakeholder, precisa Baranes, viene solitamente tradotta in italiano con “portatore di interesse” e dovrebbe indicare chiunque ha appunto un qualche interesse in una determinata impresa o istituzione. «Il gruppo presso la Bce prevedeva 95 membri provenienti dal settore finanziario, e 0 (zero!) tra organizzazioni della società civile, consumatori, sindacati. Veniamo così a scoprire che le politiche della Banca Centrale Europea non hanno evidentemente nessun interesse per cittadini e lavoratori europei». I risultati? Ovvi: «Qualsiasi proposta di regolamentazione va avanti nel migliore dei casi con il freno a mano tirato, e le legislazioni in materia finanziaria vengono diluite fino a renderle spesso totalmente inefficaci». Sicché, il mondo finanziario in massima parte responsabile dell’attuale crisi «continua a lavorare indisturbato», mentre – al culmine del paradosso – sono Stati e cittadini che la stessa crisi l’hanno subita «a ritrovarsi con il cerino in mano e a dover accettare sacrifici e austerità».Osserva sempre Baranes: «La burocrazia europea procede a ritmi impressionanti quando si tratta di imporre vincoli e controlli, se non una vera e propria ingerenza, sugli Stati sovrani, i loro conti economici e le loro politiche. Ma dall’altra parte la bozza di direttiva sulla tassa sulle transazioni finanziarie rimane impantanata tra infinite discussioni e veti incrociati». Altro capitolo cruciale: «La separazione tra banche commerciali e banche di investimento, che tutti gli studi riconoscono come un passo essenziale per evitare il ripetersi di disastri come quello degli ultimi anni, è ancora un vago progetto». A settembre 2013 il commissario europeo Michel Barnier annunciava tranquillamente in un comunicato stampa: «Dobbiamo ora affrontare i rischi posti dal sistema bancario ombra». Mentre gli Stati sono sottoposti a un controllo strettissimo, «per il gigantesco sistema bancario ombra che si muove al di là di qualsiasi regola o controllo», a dieci anni dal fallimento della Lehman Brothers e dallo scoppio della crisi, «la Commissione, bontà sua, dichiara che è tempo di mostrare un qualche interesse».Era il 2014, ma da allora non si è andati oltre le parole: nessuno osa rievocare il Glass-Steagall Act creato da Roosevelt per mettere l’economia al riparo dalla finanza speculativa: quella provvidenziale diga, che separava il credito ordinario dalle banche d’affari, fu abbattuta da Bill Clinton. E non un partito, in Europa, che oggi metta in agenda la questione: si preferisce restare al riparo di piccole polemiche, come quelle che investono la presunta omessa vigilanza di Bankitalia (Ignazio Visco), in realtà – come tutti sanno e fingono di non sapere – messo lì apposta, come i predecessori, per chiudere un occhio sul “grande gioco” deciso lontano da Roma. «Se le istituzioni europee avessero dimostrato verso il gigantesco casinò finanziario che ci ha trascinato nella crisi solo una frazione dell’impegno messo per imporre sacrifici e austerità a chi ne ha pagato le conseguenze, probabilmente oggi i cittadini europei starebbero leggermente meglio», conclude Andrea Baranes, che cita il compianto sociologio Luciano Gallino. «Il paradosso – disse – è che la crisi, fino all’inizio del 2010, è stata una crisi delle banche. Poi è iniziata una straordinaria operazione di marketing: si è fatta passare l’idea che il problema fossero i debiti pubblici degli Stati».Un esercito di 1.700 addetti, per un fatturato di oltre 120 milioni di euro l’anno. «Non parliamo di una multinazionale, ma dell’esercito di lobbisti che affolla le istituzioni europee a Bruxelles e della quantità di denaro fornita ogni anno da banche e altre imprese del settore per sostenerne le attività». Sono alcuni dei dati riassunti nel rapporto pubblicato dal Ceo, Corporate Europe Observatory, e intitolato “la potenza di fuoco della lobby finanziaria”. «Se è banale, se non ingenuo, pensare di sorprendersi di fronte alla notizia di un mondo finanziario che esercita una fortissima attività di lobby sulle istituzioni europee, ben diverso è vedere nero su bianco i dati e le cifre in gioco», scrive Andrea Baranes sul blog “Non con i miei soldi”. Ogni regola, direttiva Ue o ricerca che passi da Parlamento, Commissione, Bce o qualsivoglia altra istituzione europea è soggetta a questa “potenza di fuoco”. Con ogni probabilità, questa è «la lobby più potente del mondo», per dirla con il lituano Algirdas Semeta, fino al 2014 membro della Commissione Europa (fiscalità e unione doganale). Dunque non certo un complottista, proprio come quelle decine di europarlamentari di diversi partiti e schieramenti che già a giugno 2010 sottoscrissero un drammatico appello contro sulla super-lobby finanziaria.
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Bufera su Visco, ma silenzio sul retroscena (supermassonico)
Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro anche lo strano “suicidio” di David Rossi.«Anziché attaccare il Grande Oriente per le vicende provinciali di Banca Etruria – afferma Magaldi, oggi presidente del Movimento Roosevelt – giornali e televisioni farebbero meglio a interrogarsi sul ruolo di Mario Draghi e Anna Maria Tarantola, poi ministra di Monti: erano al vertice di Bankitalia quando la banca centrale avrebbe dovuto vigilare sull’operato del Montepaschi». Analoga polemica con Ferruccio De Bortoli, già direttore del “Corriere della Sera”: «Si parla genericamente di massoneria, in relazione a piccole vicende locali, mentre si continua a ignorare il ruolo supermassonico di primo piano rivestito in Italia, per conto di reti internazionali, da personalità come Monti, Draghi, la stessa Tarantola, l’ex presidente Napolitano e l’attuale ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan». Sotto il fuoco renziano è ora finito Ignazio Visco? Non una parola, dal mainstream, sul possibile retroterra comune dei contendenti, legati a influenti “salotti” non italiani. Silenzio anche sul ruolo della banca centrale, a cui un altro supermassone, l’eurocrate Carlo Azeglio Ciampi, “staccò la spina” nel 1980, facendo in modo che Bankitalia cessasse di fungere da “bancomat del governo”, a costo zero, costringendo lo Stato – per finanziare il debito pubblico – a rivolgersi all’esosa finanza internazionale, mettendo all’asta i propri bond. Risultato: una falla rovinosa nel debito italiano, perfetta per indebolire il paese di fronte all’eurocrazia.«La messa alla berlina del governatore Visco ad opera della maggioranza piddina rappresenta un patetico scaricabarile politico», scrive Alberto Bagnai sul blog “Goofynomics”, che parla di «modus paraculandi». Bankitalia non vigilava adeguatamente sulla crisi delle banche italiane? Consob neppure? Chi, onestamente, può dire il contrario? «Ma pensiamo davvero che Visco e Fazio fossero degli incompetenti, dei dilettanti? Se così fosse – aggiunge Bagnai – la loro nomina ad opera della classe dirigente che ancora oggi si ripropone come insostituibile oligarchia dovrebbe suscitare alcune domande anche nell’elettore più superficiale». Forse, continua Bagnai, la causa di tante “sviste” ad opera degli organismi di controllo esterni e interni alle banche italiane «era imputabile non all’umana pochezza ma ad un’altra causa: ad un vincolo esterno». Più precisamente «a un chiaro e inequivocabile ordine di scuderia», emanato in sede europea. «Un ordine al quale tutti, ma proprio tutti, dai vertici Bce fin al più passivo sindaco e revisore della più piccola banca territoriale», dovevano sottostare. Ovvero: «Non intralciare l’enorme arbitraggio finanziario reso possibile dal Trattato di Maastricht e dall’unione monetaria».Arbitraggio? «Così si chiama il prendere a prestito nel nucleo e prestare con spread ai mal-investitori della periferia senza subire rischi di cambio e senza alcun controllo sui movimenti dei capitali», spiega l’economista. «Una colossale macchina da soldi, la cui già enorme potenza era ulteriormente amplificata dal mercato dei derivati, grazie al quale si diluivano i rischi di credito nell’oceano degli ignari e polverizzati investitori globali». In pratica, una droga: «Come nel narcotraffico fisico, nel narcotraffico finanziario tutti si sono sporcati le mani: i coltivatori (ingegneri e top manager finanziari), i cartelli dei trafficanti (le grandi banche del nucleo, cresciute in “Germagna” sino a diventare uno Stato nello Stato), i cartelli degli spacciatori e la loro rete di “down the line dealers” (le grandi banche commerciali periferiche e le numerose banchette che le contornano)». E poi anche «i governi, i responsabili dei controlli a tutti i livelli: pubblici e privati, nazionali e internazionali, i partiti e le forze politiche, tutti pro-Maastricht e pro-euro (ricordo che la “Costituzione europea” da noi fu votata all’unanimità e il Fiscal Compact con dibattito praticamente zero»).E’ stato questo il “miracolo” dell’euro, sintetizza Bagnai con sarcasmo: «È stata questa la fonte di accumulo di capitale finanziario che ora permette la fase due: sfruttare la mobilità incontrollata del lavoro». Quindi, «cari moralisti falliti e vigliacchi – chiosa l’economista – chi di voi è senza Maastricht scagli la prima pietra». Se è difficile leggere analisi di questo tenore sulla grande stampa, o tantomeno ascoltarle in televisione, è addirittura impensabile imbattersi in spiegazioni dettagliate su quello che Bagnai chiama “vincolo esterno”. La piaga del neoliberismo finanziario in versione europea ha drasticamente impoverito centinaia di milioni di persone? Certamente, osserva Magaldi, ma bisogna pur sapere che ogni piano – compreso questo – cammina sulle gambe di individui precisi, accuratamente selezionati da un’élite occulta per occupare posti-chiave. Rarissimo che l’oligarchia si dichiari: è accaduto di recente in Francia, quando il supermassone reazionario Jacques Attali ha rivendicato la partenità del progetto che ha portato all’Eliseo la sua creatura, Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild. In Italia, invece, si sorvola regolarmente anche su un altro difensore di Ignazio Visco: Romano Prodi. «Ne parlerò nel sequel di “Massoni”, di prossima uscita», annuncia Magaldi.«Pessimo interprete di questa globalizzazione privatizzatrice», l’ex premier ulivista, ex presidente della Commissione Europea nonché advisor di Goldman Sachs: benché ufficialmente “progressista” sarebbe anch’esso «affiliato a quelle potenti reti supermassoniche internazionali che hanno progettato la grande crisi, in termini di svuotamento della democrazia e colossale trasferimento della ricchezza dal basso verso l’alto», sostiene Magaldi. La stampa ne coglie sempre e solo gli effetti terminali – la disoccupazione, la crisi dei risparmiatori colpiti dai crack bancari – evitando però sempre di inquadrare il disegno, i suoi architetti occulti e i relativi interpreti locali. Non stupisce che giornali e televisioni continuino a ignorare le rivelazioni di Magaldi, che forniscono un’inedita geografia del vero potere. Tra le 36 superlogge mondiali, da cui dipendono entità paramassoniche come il Bilderberg e la stessa Trilaterale, spicca il ruolo nefasto svolto negli ultimi decenni dalle Ur-Lodges neoaristocratiche e oligarchiche, come la “Edmund Burke”, la “Compass Star-Rose”, la “Leviathan”, la “White Eagle”, senza contare la potentissima “Three Eyes” (Kissinger, Rockefeller, Rothschild) e la “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush, secondo Magaldi con intenti addirittura terroristici (11 Settembre, Al-Qaeda, Isis).A valle, la mappa del back-office del potere si rifletterebbe in Italia – come in ogni altro paese, non solo occidentale – nel reticolo dei leader locali: Magaldi ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali). Della “Three Eyes” farebbero parte anche Padoan e Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da uomini affiliati a Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia). Ignazio Visco, l’attuale governatore di Bankitalia, sarebbe invece legato alla “Edmund Burke” (insieme all’ex ministro dell’economia Domenico Siniscalco). Ma non c’è caso che ne si faccia cenno, nelle cronache: tutto finirà, come sempre, attorno alle chiacchiere di Renzi, più quelle su Renzi e quelle contro Renzi, senza spiegare verso quali scogli sta andando la nave, e per ordine di chi.Si può anche chiamarla massoneria, ma la definizione è imprecisa: perché non tutti gli affiliati alle superlogge internazionali sono stati iniziati all’obbedienza massonica. Forse non ha mai indossato il grembiulino neppure l’uomo attualmente nella bufera, Ignazio Visco, in quota alla Ur-Lodge reazionaria “Edmund Burke”, difeso da Giorgio Napolitano (superloggia “Three Eyes”, come il ministro Padoan) e attaccato da Matteo Renzi, «che non è massone ma ha ripetutamente bussato – invano, finora – alle stesse reti: quelle della aristocrazia supermassonica neo-conservatrice, attraverso entità paramassoniche come il potentissimo Council on Foreign Relations, di Washington». L’autore di queste indicazioni sulla presunta identità supermassonica del vero potere è Gioele Magaldi, già gran maestro del Goi e poi affiliato alla Ur-Lodge progressista “Thomas Paine”. Nel 2014 Magaldi ha dato alle stampe “Massoni, società a responsabilità illimitata”, edito da Chiarelettere e trasformatosi in bestseller-fantasma: solo il “Fatto Quotidiano” l’ha adeguatamente recensito, nel silenzio assordante dei grandi media. Che peraltro continunano a ignorare Magaldi, anche quando parla di massoneria italiana e di casi scottanti come l’affare Mps, su cui pesa tra l’altro lo strano “suicidio” di David Rossi.