Archivio del Tag ‘violenza’
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Magaldi: cade il governo? Tanto meglio per Lega e 5 Stelle
Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.«Ecco perché applaudo Salvini: per una volta, il ministro dell’interno ha “tenuto il punto”, rinunciando a piegarsi ai diktat dell’oligarchia europea», dice Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, ai microfoni di “Colors Radio”. Troppo comodo – e ipocrita – il moralismo di chi accusa il leader della Lega di mancanza di umanità, specie se l’attacco proviene dal potere neoliberista che ha razziato l’Africa e imposto, ai lavoratori italiani, il “dumping” salariale dei neo-schiavi, costretti a fare concorrenza sleale alla nostra forza lavoro, accettando condizioni disumane di sfruttamento. Dov’era, il centrosinistra che oggi si scaglia con inaudita violenza contro Salvini, quando si trattava di gestire l’economia in modo equo, evitando di far sprofondare il paese nella crisi più nera? Bersani “impiccava” lo Stato al nodo scorsoio del pareggio di bilancio, insieme al cappio della legge Fornero sulle pensioni, prima ancora che Renzi facesse piazza pulita – con il Jobs Act – degli ultimi diritti sindacali. Ed ecco oggi la “guerra tra poveri”, che oppone lavoratori italiani e stranieri, vittime – tutti – della stessa catastrofe macroeconomica: lo Stato in bolletta, impossibilitato a investire denaro per produrre lavoro grazie a una gestione privatistica dell’euro, senza neppure il paracadute degli eurobond a garantire il necessario debito pubblico.Nel lucido ragionamento di Magaldi, la tragedia di Genova e la rissa mediatica sui naufraghi a bordo della nave Diciotti («con le accuse surreali rivolte a Salvini dalla magistratura») sono due facce, drammatiche, della stessa medaglia: da una parte la vecchia élite che ha prodotto solo macerie (infrastrutturali e sociali) e dall’altra il primo governo “sovranista”, da 25 anni a questa parte, che cerca di rimediare allo sfacelo. «Per fortuna – insiste Magaldi – Salvini ha inaugurato la linea necessaria, quella della fermezza: che non ha certo per bersaglio i migranti, ma l’ipocrisia con cui Bruxelles vorrebbe continuare a non-gestire un fenomeno vergognoso come l’esodo da paesi africani letteralmente depredati dell’élite europea». Azione necessaria, quella del governo Conte, ma non sufficiente: «Sarà meglio che, anche sui provvedimenti econonici, Salvini e Di Maio comincino a passare dalle parole ai fatti, cercando di attuare quello che hanno promesso agli italiani. Nel caso non ce la dovessero fare, però – aggiunge Magaldi – non sarebbe affatto un male». Già, perché dopo eventuali elezioni anticipate, aggiunge, la coalizione “gialloverde”, ormai strategicamente coesa, farebbe l’en plein e ripartirebbe con maggiore slancio, per abbattere il Muro di Bruxelles fondato sulla “teologia” dell’austerity.Keynesiano e progressista, Magaldi non ha dubbi: tutta l’Europa è in crisi, perché negli ultimi decenni il continente è caduto, letteralmente, nelle mani di una ristretta cerchia di oligarchi. Hanno contrabbandato per virtù l’ideologia del rigore di bilancio, con trattati-capestro che hanno amputato gli Stati del potere sovrano di investire nell’economia. Risultato: classe media in via di estinzione, popoli impoveriti, democrazie svuotate ed élite divenute improvvisamente miliardarie, padrone di tutto ciò che prima era pubblico – acqua, energia, trasporti, telefonia e Poste, persino le autostrade. Nel bestseller “Massoni”, Magaldi ha fornito nomi e cognomi della cabina di regia – supermassonica – che ha pilotato questa globalizzazione selvaggia e senza diritti, a beneficio esclusivo delle multinazionali finanziarie. Il complottismo degli ultimi anni punta il dito contro le malefatte della Trilaterale? «Ma quella è solo una emanazione, peraltro piuttosto trasparente, della Ur-Lodge “Three Eyes”», a lungo ispirata da personaggi come Kissinger, Rockefeller e Brzezisnki.I blogger più esasperati, come Daniel Estulin, se la prendono con il Bilderberg e i suoi invitati, da Lilli Gruber al segretario di Stato vaticano Pietro Parolin? «Aprite gli occhi: le notizie che lo stesso Bilderberg lascia filtrare servono solo a produrre il gossip necessario a distogliere l’attenzione dai veri manovratori, i “fratelli controiniziati” delle Ur-Lodges reazionarie: personaggi che, certo, non finiscono sui giornali». Che fare, dunque? Esattamente quello che sta facendo il governo Conte, ribadisce Magaldi, fautore di un risveglio democratico europeo, di cui l’Italia “gialloverde” sembra destinata a fare da apripista. Una “profezia” che il presidente del Movimento Roosevelt (“metapartito” nato proprio per rianimare lo scenario politico italiano in senso progressista) aveva formulato in tempi non sospetti: vedrete, aveva annunciato, che alla fine sarà proprio questa scassatissima Italia a invertire il corso della storia, mettendo in campo forze politiche in grado di smascherare la grande impostura neoliberista che ha impoverito l’Europa spolpando Stati e popoli.Quelle a cui stiamo assistendo oggi, in fondo, sono le prove generali di una rivoluzione culturale: verrà il giorno in cui la parola “spread” perderà ogni significato, perché la finanza pubblica sarà tornata a garantire pienamente tutto il deficit necessario a rimettere in piedi il paese, cominciando dalla ricostruzione delle troppe infrastrutture fatiscenti, lasciate agonizzare da governi costretti a elemosinare “a strozzo” gli euro della Bce. «A proposito: spero che i familiari delle vittime di Genova non si rivalgano solo sugli eventuali responsabili della società autostradale, ma chiedano di essere risarciti anche dai governi precedenti, che hanno creato le premesse del disastro». In ogni caso, Magaldi è ottimista: «Che il governo Conte regga o meno alla prova d’autunno, è irrilevante: indietro non si torna. La destrutturazione politica della Seconda Repubblica è ormai nei fatti». Gli italiani sembrano aver capito che centrodestra e centrosinistra fingevano soltanto di essere alternativi. Nella realtà non hanno fatto altro che obbedire ai diktat dei grandi privatizzatori neoliberisti: quelli che oggi sparano su Salvini, temendo che l’Italia si stia davvero risvegliando.Cade il governo Conte, in autunno? Non reggerà alla prova del fuoco rappresentata dal bilancio 2019 da sottoporre a Bruxelles? Tanto meglio: Lega e 5 Stelle farebbero il pieno di voti, nel caso di elezioni anticipate. Facile profezia: l’eventuale nuovo esecutivo avrebbe un programma meno timido e sarebbe pronto a rompere in modo ancora più netto con l’attuale governance europea, fondata sulla grande menzogna del rigore ammazza-Stati spacciato per amara medicina. Gioele Magaldi non ha dubbi: se l’esecutivo gialloverde dovesse davvero cadere, l’establishment politico-mediatico violentemente ostile a leghisti e pentastellati avrà ben poco di cui rallegrarsi, perché gli elettori premieranno Salvini e Di Maio con un autentico plebiscito, come ben si è visto dagli applausi dei genovesi scrosciati all’arrivo dei due vicepremier ai funerali delle vittime del viadotto Morandi. Tutto si tiene, nei drammi estivi che hanno scosso l’Italia: la responsabilità politica del disastro di Genova ricade sulla stessa élite che ha privatizzato la penisola, regalandola agli “amici degli amici”, salvo poi imporre a un paese impoverito di accogliere senza fiatare i migranti (quasi un milione, negli ultimi tre anni) che l’Europa vorrebbe che restassero interamente a carico nostro.
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Blondet: giustizia per Genova? Ho un brutto presentimento
«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».«Ho un orrendo presentimento – insiste Blondet – dovuto alla mia esperienza di vecchio giornalista». Un sospetto, «rafforzato dal fatto che i Benetton non solo hanno offerto una cifra ridicola alle vittime del disastro, ma dopo qualche ora hanno ripreso sicurezza e stanno cominciando ad accusare il governo di aver fatto cadere il titolo in Borsa». Sicché non sarebbe stato il crollo del viadotto Morandi a far precipitare la quotazione della società, ma «gli strilli di Salvini e Di Maio contro la concessionaria», a cui i governi precedenti hanno regalato un monopolio clamoroso e miliardario. «Insomma: sono loro, i Benetton, che pretendono i danni dallo Stato. Lo fanno con uno stuolo di avvocati potentissimi, fra cui la nota Paola Severino: quella che ha fatto la ministra della giustizia nel governo Monti», tanto per capire da che parte stia. «Nessun sospetto di conflitto d’interessi: tutto legale. Ovvio, questi si sono fatti le leggi a loro vantaggio, dunque tutto ciò che fanno loro è legale per definizione». Il “bruttissimo presentimento” di Blondet è questo: «Non avrete mai più il vostro ponte, o genovesi. Non lo rifaranno certo i Benetton – perché dovrebbero spenderci un centesimo, ormai? – né potrà farlo il governo, perché dovrà rifondere i miliardi necessari agli azionisti di Atlantia, oltre che ai Benetton che sono stati così danneggiai dalle esternazioni di Salvini».Lo stesso Blondet invita a tenere d’occhio la “classs action” americana avviata dallo studio legale Bronstein, Gewirtz & Grossman, il quale «sta esaminando potenziali rivendicazioni per conto di acquirenti» dopo che, sulla notizia della possibile revoca della concessione e di una sanzione, il prezzo delle azioni è crollato. Questo studio legale, aggiunge Blondet, vanta una speciale competenza nella «ricerca aggressiva di richieste di contenzioso». Chi conosce queste capacità “aggressive”, aggiunge il giornalista, sa già cosa accadrà: «Si prenderanno tutti i miliardi gli americani per conto dei loro azionisti, poi Atlantia opportunamente “fallirà”, ossia resterà senza un soldo», e così «ai genovesi e alle vittime non resteranno nemmeno le briciole». Secondo il trader finanziario Giovanni Zibordi, i Benetton «non hanno investito niente, comprarono Autostrade con i soldi di Autostrade». O meglio: hanno creato una società apposta che ha fatto un debito immane, poi – ottenuta la concessione da Prodi, D’Alema e soci – l’hanno fusa con Autostrade, a cui hanno accollato l’enorme debito: «Hanno fatto il debito e lo stanno ripagando coi profitti del pedaggio», sottolinea Zibordi, che parla apertamente di “rapina”, benché perfettamente legale grazie ai regaloni dei politici della Seconda Repubblica.Uno di questi, l’avvocato Giovanni Maria Flick, ministro della giustizia nel primo governo Prodi (in carica dal maggio ‘96 all’ottobre del ‘98), ebbe come direttore dell’Ufficio Rapporti con il Parlamento lo stesso Francesco Cozzi, cioè il pm genovese che ora sta indagando sul crollo del viadotto Morandi, dopo aver “dato la caccia” ai miliardi scomparsi dalle casse della Lega. «Insomma, il pm Cozzi ha avuto un incarico altamente politico e di parte nel governo Prodi», ricorda Blondet. Quanto a Flick, legale di Raul Gardini all’epoca del presunto suicidio (“con due colpi alla tempia, entrambi mortali”) del manager Enimont, su Genova e Autostrade l’ex ministro prodiano si schiera, da giurista, contro Salvini e Di Maio, applauditi dalla folla ai funerali delle vittime del disastro. «Mi preoccupa la tendenza all’inversione del principio di non colpevolezza», dichiara Flick. «Mi lascia perplesso l’assunzione di un ruolo molto autoritario e di dogmatica condanna preventiva, fra l’altro sostituendosi alla autorità giudiziaria». Dice ancora Flick: «A me non convince questo modo di procedere. Tutta una serie di sintomi, indicazioni e provocazioni mi lasciano perplesso e non mi paiono in linea con l’impostazione costituzionale della nostra Repubblica».«Se la vicenda dei migranti continua ad essere in mano a Salvini è giunto il momento di pensare alla lotta di popolo armato», scrive su Facebook Guglielmo Allodi, già dirigente del Pci-Pds. «Questo Allodi non è un qualunque militante senza potere e fuori di testa», scrive Maurizio Blondet nel suo blog. «E’ stato il capo della segreteria politica di Bassolino, già ministro nel primo governo D’Alema», quando l’ex sindaco di Napoli divenne presidente della Regione Campania, carica che mantenne fino al 2010. Stiamo quindi parlando di «un grand commis del potere, un esponente di livello della “sinistra”». E ora invoca la “lotta armata” per fermare Salvini? «Ho un orribile presentimento», confessa Blondet, giornalista di lungo corso, già inviato di “Oggi”, “Il Giornale” e “Avvenire”. Sono trascorsi otto giorni – un’enormità, secondo Blondet – prima che l’autorità giudiziaria sequestrasse materiali negli uffici di Autostrade per l’Italia, dopo il collasso del viadotto Morandi. «Cerchiamo il filmato del crollo», disse ai giornali il pm di Genova, ammettendo però che non ci fosse ancora alcun indagato. Dunque, conclude Blondet, il filmato del crollo che non c’è più: «Hanno sequestrato le macerie, ma il 20 agosto non avevano perquisito la sede della concessionaria». E l’iscrizione nel registro degli indagati, spesso considerata un atto dovuto? «Una settimana, e nemmeno un imputato. Neppure un capo d’imputazione: non sanno di cosa accusare chi». La procura di Genova? «E’ la stessa che ha indagato Salvini per la storia dei finanziamenti della Lega».
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Pezzi di merda: fenomenologia dell’odio nell’Italia di Salvini
Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.Negli ultimi tre anni, si apprende, l’Italia ha accolto la quasi totalità dei 700.000 migranti sbarcati sulle sue coste. Il resto d’Europa non li vuole. Deve tenerseli, per forza, l’Uomo Nero. Al quale però non si concede – in cambio – di abbassare le imposte, alzare le pensioni, distribuire un reddito di cittadinanza. “Pezzi di merda”, li qualifica senza giri di parole il filosofo televisivo Massimo Cacciari – ma attenzione: l’insulto non è affatto rivolto ai mostri dell’Unione Europea, i fanatici del rigore, gli affamatori della Grecia, i devastatori dell’Italia, i predoni delle autostrade che poi crollano. Su quelli, tuttalpiù, sono piovute fumose analisi, formulate in italiano forbito. L’espressione brutalmente gergale è invece indirizzata agli insensibili criminali che osano trattenere un centinaio di africani, giovani adulti, a bordo di un natante della Guardia Costiera ormeggiato in un porto siciliano. Tra i “pezzi di merda” più autorevoli, se non altro per il ruolo istituzionale che riveste, è il vicepremier Di Maio, il primo a esprimere – sotto forma di minaccia aperta, alla buon’ora – la possibilità di sospendere i finanziamenti miliardari che l’Italia è tenuta, dai trattati, a versare alla burocrazia Ue.Mentre i filosofi incendiano le strade, già lastricate di furore e di violenza, di odio squadristico e mediatico contro l’insolente governo che gli italiani – quei farabutti – hanno osato votare e ora sostanzialmente approvano, maledetti loro, uno dei due consoli che reggono l’esecutivo Conte arriva dunque ad avvertire i cosiddetti partner europei: attenzione, la corda potrebbe spezzarsi. Si comincia ventilando l’indicibile – la renitenza contributiva – e così ci si infila su un sentiero che potrebbe portare addirittura là dove fino a ieri sarebbe stato impensabile: lo spettro dell’uscita dell’Italia dall’Unione Europea, finalmente presentata per quello che è – una cricca di tecnocrati imbroglioni, al soldo della peggiore oligarchia speculativa. Questo è un paese in cui il presidente della Repubblica, parlando con l’allora premier incaricato, lo ha cortesemente (ma irritualmente) invitato a passare a salutare il governatore della Banca d’Italia, l’esimio Ignazio Visco, super-banchiere convinto – al pari del tedesco Günther Oettinger, o del connazionale Carlo Cottarelli – che saranno “i mercati”, in futuro, a “insegnare” agli italiani come votare, pena la scure dello spread, nel caso ripetessero l’errore imperdonabile di premiare gli sciamannati 5 Stelle o, peggio, l’Uomo Nero, cioè l’illuso che voleva il professor Paolo Savona al ministero dell’economia e un principe del giornalismo indipendente come Marcello Foa alla presidenza della Rai.Scherziamo? Siamo impazziti? L’ultima presidente della Rai, Monica Maggioni, è ora presidente della sezione italiana della Commissione Trilaterale, mentre la collega Gruber – quella che ospita frequentemente il noto filosofo, talora affetto da coprolalia – è saldamente ospite dei gagliardi passacarte messi assieme dal conte Étienne Davignon e dall’imperatore David Rockefeller, riuniti per la prima volta nel lontano 1954 all’hotel de Bilderberg a Oosterbeek, in Olanda. Lo stesso Visco, che governa Bankitalia (di proprietà di banche private) è il pupillo di Mario Draghi, che nel 1992 salì a bordo del panfilo Britannia e oggi governa la Bce (di proprietà di banche private). Draghi risulta essere un membro autorevolissimo dello stesso club che annovera tra i suoi eletti il presidente emerito Napolitano e il francese Jacques Attali, l’uomo-ombra di Macron: prontissimo, tramite l’obbediente Tajani, ad attivare il network sotterraneo dimostratosi capace di indurre Berlusconi a venir meno alla parola data a Salvini, sulla nomina di Foa. Tutto è partito dall’Eliseo, cioè dal vertice politico del paese che, oggi anno, depreda 14 Stati africani portandogli via l’equivalente di 500 miliardi di euro, costringendo i loro giovani a imbarcarsi verso le nostre coste.Qualcuno spieghi, ai migranti soccorsi dalla Diciotti, che non possono fidarsi dell’uomo bianco che si finge loro amico. “Timeo Danaos et dona ferentes”: i greci mi fanno paura anche quando portano doni, dice Laocoonte, nell’Eneide, di fronte al Cavallo di Troia appena giunto davanti alle mura della città assediata. Se solo i giornalisti avessero fatto il loro dovere, accusa il Premio Pulitzer americano Seymour Hersh, in questi anni avremmo avuto meno guerre, meno stragi, meno vittime, perché quasi tutte le guerre, così come l’opaco terrorismo stragista, sono state organizzate a tavolino, dalla stessa élite bugiarda, agitando false prove per demonizzare leader che riteneva scomodi. L’hanno potuto fare, sempre, grazie alla connivente reticenza dei giornali, delle televisioni. Lo stesso si può dire dell’intellighenzia nazionale “embedded”, quella che oggi – tra appelli rabbiosi (e schizzi di sterco) – si permette il lusso di criminalizzare l’Uomo Nero, ignorando deliberatamente i crimini mostruosi dell’oligarchia-fantasma che ha declassato il paese, condannandolo al declino dopo averlo svenduto, pezzo su pezzo, fino a farlo crollare come il ponte di Genova. Un’Italia alla frusta, amputata della sua sovranità e taglieggiata dai finti ragionieri di Bruxelles. Eppure, nel paese a cui la Francia impedisce di eleggere il presidente della televisione di Stato, ci si scaglia selvaggiamente contro il ministro che “sequestra” i migranti su una nave.Il crollo delle dittature è spesso preceduto da violenze inconsulte. In Romania, Nicolae Ceaucescu ordinò alla Securitate di sparare nel mucchio, al primo accenno di ribellione popolare. E il satrapo Siad Barre, a lungo padrone della Somalia grazie anche al provvido sostegno post-coloniale italiano, non esitò a ordinare alla polizia di mitragliare il pubblico dello stadio che aveva osato contestarlo. Si dirà che siamo in Italia, dove vige la legge semiseria della “bolla di componenda”, sintetizzata dal genio letterario di Camilleri: ogni conflitto si trasforma in una tempesta in un bicchier d’acqua, se alla fine tutti si portano a casa la loro fetta di torta. Si dirà che il cosiddetto governo gialloverde, quello dell’Uomo Nero, sta esasperando la crisi dei migranti solo per aprire un fronte alternativo da cui attaccare Bruxelles, cioè il super-potere che gli vieterà di mantenere le promesse fatte agli elettori il 4 marzo, pena il ricatto dell’incursione finanziaria sul costo del debito pubblico di un paese reso vulnerabilissimo, come gli altri dell’Eurozona, dall’assenza di una moneta sovrana con la quale difendersi dal racket della Borsa. Sia come sia, lo spettacolo cui si è costretti ad assistere rivela qualcosa di estremamente inedito: mentre giornali e intellettuali lanciano palle di letame, gli elettori osservano con attenzione le mosse del loro governo, il primo esecutivo – nella storia ingloriosa dell’Ue – completamente sgradito da Bruxelles.Succede questo: a proclamarsi paladini dell’uomo dalla pelle scura, oggi, sono i killer politici dell’uomo dalla pelle chiara – quelli che gli hanno tolto tutto, in Europa, dopo aver abbondantemente depredato anche l’Africa, trasformandola in una terra desolata da cui scappare. Così i naufraghi salvati in mare da una nave della Guardia Costiera italiana diventano prigionieri, letteralmente torturati dal vero Uomo Nero, il Ministro della Paura che usurpa la poltrona del Viminale. Ha un problema, l’Uomo Nero, anzi due: non può fare quello che vorrebbe, e che ha promesso agli elettori – tagliare le tasse – e in più deve rispondere di un risarcimento colossale imposto al suo partito dal potere giudiziario. Un risarcimento così anomalo, e così enorme, da ridurre praticamente a zero la possibilità di sostenere qualsiasi attività politica, e quindi di continuare a esistere, come partito. Chi ha paura dell’Uomo Nero? La cosiddetta Europa: quella che impedisce che le tasse vengano abbattute, che le pensioni italiane siano dignitosamente rimpinguate, che giunga un reddito provvisorio ai senza-lavoro. Di questo sono ostaggi, i naufraghi della nave Diciotti: di un’ingiustizia infame, compiuta da Bruxelles.
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Pedofili a Hollywood: il vero scandalo, che non esplode mai
Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato anche con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?«Sono stati offerti dettagli morbosi delle violenze di produttori e attori per distrarre l’opinione pubblica da uno scandalo ben peggiore», scrive Enrica Perucchietti in un post su Facebook, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Uno scandalo “silenziato” attraverso la tempesta scatenatasi sui presunti abusi del mondo del cinema, attori e produttori accusati di ricatto sessuale su giovani attrici esordienti. L’altro scandalo, quello rimasto tabù, avrebbe potuto «travolgere e distruggere definitivamente Hollywood: e lì non sarebbe bastato un colpo di spugna per cancellare la violenza». Perché in quel caso «le vittime erano una sorta di agnello sacrificiale dato in pasto al Moloch di turno in cambio di denaro e successo: bambini». Per Enrica Perucchietti, si tratta del «peggior crimine che si possa immaginare», ovvero «la violenza su un bambino». Numerosi fatti di cronaca − come l’accusa di stupro dell’ex attore-bambino Michael Egan al regista Bryan Singer − hanno spinto la regista Amy Berg, già premio Oscar nel 2006 al miglior documentario, “Deliver Us from Evil”, a realizzare un documentario (“An Open Secret”), che analizza alcuni casi di abusi sessuali su minori all’interno dell’industria cinematografica hollywoodiana.Dai pettegolezzi, continua Perucchietti, si è passati alle testimonianze, con i nomi degli accusati, «ricostruendo un vero e proprio “cerchio magico” composto da un’élite blindata e deviata». Ne parla anche il “Giornale”: “Ecco i pedofili al potere: Hollywood, il documentario sull’ombra della pedofilia”. Di fatto, “An Open Secret” mostra come potenti e intoccabili personalità di Hollywood convincano bambini e le loro famiglie a fidarsi di loro. «Si assiste cioè a un primo richiamo suadente delle sirene hollywoodiane (i provini, le feste, i primi film) che ti promettono una carriera sfavillante, poi le spire del serpente si stringono sempre di più attorno alla preda, strappando i bambini alla loro infanzia e consegnandoli nelle mani di ricchi pervertiti». Molti, aggiunge Perucchietti, hanno ovviamente gridato allo scandalo, «facendo quadrato attorno ai presunti pedofili e impedendo la distribuzione del film: è però lunga la lista di attrici e attori che hanno raccontato di aver subito (persino da bambini o adolescenti) molestie sul set o ancora prima, durante i provini».Elijah Wood, per esempio, ha denunciato che a Hollywood «la pedofilia è un problema diffuso». L’attore, che ha cominciato a recitare da bambino, ha spiegato che la madre lo ha protetto da quell’ambiente malsano, tenendolo lontano dalle feste del mondo dello spettacolo. Molti altri attori-bambini non sono stati però così fortunati, aggiunge Enrica Perucchietti: «Corey Feldman, star dei “Goonies” e di “Stand by Me”, ha affermato di essere stato molestato nel 1980 e ha portato la testimonianza di altri bambini-attori vittime di abusi. Da anni denuncia pubblicamente l’esistenza della pedofilia ad Hollywood». Nel marzo 2018, pochi giorni dopo aver annunciato di voler rivelare in un documentario tutto quello che sa, Feldman è stato aggredito e pugnalato. «Ecco, temo che questo sia il segreto sotto gli occhi di tutti», chiosa Perucchietti. Un segreto terribile, che però «non verrà mai alla luce». E’ più che un timore: non avrà lo spazio che merita «sui media di massa e nelle aule di tribunale». Troppo imbarazzante lo scandalo, troppo potenti i protagonisti.Il pubblico dovrà accontentarsi della caduta – mediatica – di Asia Argento, trasformata da vittima a carnefice: da grande accusatrice di Harvey Weinstein a peresunta “predatrice” del diciassettenne Jimmy Bennett, al quale – secondo il “New York Times” – la Argento avrebbe proprosto un risarcimento da 380.000 dollari. Per Enrica Perucchietti, il caso dimostrerebbe «la doppia morale di certi personaggi che si ergono a paladini dei diritti, che si fanno bandiera di campagne di linciaggio mediatiche, che fanno i finti buonisti, che hanno (però) ingombranti scheletri negli armadi». Si tratta di personaggi che «fungono da armi di distrazione di massa». Per coprire il vero scandalo, quello indicibile? Cioè gli abusi, inconfessabili, sui bambini? «Chiariamo: un abuso è un abuso – che avvenga su una donna, un uomo o su un ragazzino». Il problema, scrive ancora Enrica Perucchietti, è che a certi livelli «il marcio colpisce uomini e donne in modo indistinto». Anche perché «il potere ti offusca, ti corrompe: il male ti sfiora e ti contamina come un morbo, facendoti perdere qualunque bussola morale e probabilmente ti sconnette dalla realtà». Un altro problema – non certo trascurabile – è che proprio questi personaggi «hanno in mano le chiavi della “fabbrica dei sogni”», e quindi «manipolano l’immaginario di milioni di persone».Ho l’impressione, dice, che gli scandali Weinstein, Spacey e Hoffman siano serviti per silenziare una bomba ben peggiore, che stava per scoppiare: l’esistenza di una rete di pedofili seriali a Hollywood. Lei è Enrica Perucchietti, coraggiosa reporter e autrice di saggi su “fake news” (in collaborazione con Marcello Foa) e terrorismo “false flag”, cioè attuato – sotto falsa bandiera – dagli stessi governi, tramite settori dell’intelligence. Una radiografia del potere, quella fornita dalla Perucchietti, che include anche le pagine meno illuminate dei padroni del mondo: la loro vita privata, spesso inquinata da devianze inconfessabili. Ne ha parlato con Gianluca Marletta nel libro “Unisex”, che si interroga sull’ambigua manipolazione sociale che affiora, in controluce, dagli sponsor “politicamente corretti” dell’ideologia gender. Ora, dopo l’ennesimo scandalo – la grande accusatrice Asia Argento a sua volta accusata di abuso su un minorenne – Enrica Perucchietti esprime un terribile sospetto: e se lo tsunami inaugurato con il caso Weinstein fosse servito, essenzialmente, a depistare il pubblico e nascondere un orrore ancora più grande, cioè la pedofilia diffusa a Hollywood oltre che tra i palazzi del massimo potere?
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Silenzio stampa sulla droga: la strage non è più di moda
Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.Sono migliaia gli episodi di violenza, di minacce, di ricatti per procacciarsi la “signorina” che scorrono come un fiume quotidiano di sangue e di pazzia, e non ci facciamo più caso. Non c’è giorno che io non senta, magari col passaparola, episodi legati alla droga: infanticidi per alterazione mentale, uccisioni brutali di nonni, genitori, zii che non volevano più finanziare il vizio dei loro nipoti scellerati, aggressioni a donne, ex-conviventi, in stati di allucinazione dovuti alla droga, risse mortali davanti e dentro discoteche tra ragazzi in preda a deliri di droga, e potrei continuare… Certe zone, certi luoghi e certe ore sono off limits in tutte le città italiane perché è in corso la sagra dello spaccio, con relativa brutta umanità al seguito e sciame sismico di violenze e abusi. Si sente ogni tanto, a mezza bocca, notizia di partite di droga sequestrate; ma sono solo una piccola parte e solo il segnale di quale movimento, quale giro colossale vi sia dietro. Di tutto questo arriva poco o nulla alla Fabbrica delle Notizie e ai falsificatori di cui sopra, impegnati a denunciare un solo Male sotto mille vesti, il Razzismo.Perché passa sotto silenzio la droga, o si parla solo di qualche episodio ma senza la grancassa mediatica e intellettuale che ne indaga il fenomeno? Perché nella droga il razzismo o il nazionalismo non c’entra ma emerge piuttosto il suo rovescio, confluiscono due piaghe sconvenienti che si devono tacere: da una parte la manovalanza massiccia di migranti, soprattutto neri, nello spacciare e procurare la droga, dall’altro un modello di società libertaria, radical, trasgressiva, anti-proibizionista, che deriva dai piani alti della nostra società, dal nichilismo diffuso e dal cinismo degli imprenditori di morte. Diciamo che sulla droga s’incontra la libertà psichedelica del “tutto è permesso” di matrice sessantottina dove i diritti sconfinano nei desideri e l’accoglienza illimitata di migranti che, per fame ed estraneità al territorio, sono facilmente reclutabili nel racket. I due fattori, shakerati dall’ideologia radical, disegnano la nuova società verso cui andiamo incontro e che ha perso il senso del limite, personale e territoriale, morale e civile.Masse di espiantati, disperati, privi di tutto a disposizione dei racket e dall’altro masse di consumatori, disperati anch’essi, ma benestanti o comunque in grado di mungere soldi, privi di ogni riferimento. La tratta dei pomodori, lo schiavismo nelle campagne, assume – e giustamente – grande rilievo nei media; la tratta della droga, la vendita di morte, invece va in sordina. I caporali nelle campagne sono una brutta bestia ma impallidiscono in confronto ai caporali della droga e ai loro legami con la criminalità organizzata. Sentite mai parlare di campagne contro la droga, di emergenza droga, di educazione civica contro la droga? Macché, solo razzismo, nazismo, sessismo. L’omertà sulla droga e i mali derivati è una forma di complicità mediatica e politica assai grave. È anche un occultamento di cadavere: muore il senso del limite e della realtà e qui si festeggia il mondo global, senza frontiere tra i popoli, tra il bene e il male, tra il lecito e l’illecito. Un’informazione drogata.(Marcello Veneziani, “Silenzio stampa sulla droga”, dal “Tempo” del 14 agosto 2018; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Ci inchiodano per giorni e giorni a parlare di due tredicenni che chiamano sporco negro un immigrato e gli sparano a salve con la scacciacani, o di una capotreno che usa parole sconvenienti per far scendere dal treno zingari molesti senza biglietto e magari con portafogli altrui. O perfino di un barista che espone la foto di Mussolini. Tutto il circo è impegnato nell’impresa: dai clown del Pd ai trapezisti dell’ideologia, dai prestigiatori di notizie ai domatori di bufale, fino alle foche ammaestrate dalla sinistra da passeggio e da corteo. Ma nel frattempo passa inosservato un fenomeno quotidiano grave e preoccupante: lo spaccio e il consumo di droga crescente nel nostro paese, il numero di morti all’anno per overdose e in generale per droga, molti più dei femminicidi e di altre emergenze vere e presunte, il numero record di detenuti per reati connessi alla droga, gli incidenti anche mortali a causa di guidatori in stato di ebbrezza o di allucinazione, la scalata dell’Italia ai primi posti dei consumi e della tossicodipendenza. Quasi trecento all’anno: eran trecento, eran giovani e storti, e sono morti… Cresce l’eroina, per non dire delle droghe sintetiche, ottenute chimicamente, oltre quelle più note.
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Inferno negli Usa: migliaia di bambini abusati da 300 preti
C’è una notizia esplosiva che sta rimbalzando su tutti i media mondiali, ma che da noi rischia di essere messa in secondo piano dal giusto clamore del crollo del ponte di Genova: riguarda i ripetuti e sistematici casi di pedofilia nella Chiesa cattolica statunitense della Pennsylvania, a metà strada tra Washington e New York. Lo scorso 14 agosto, scrive Riccardo Pizziriani su “Luogo Comune”, la Corte Suprema della Pennsylvania ha pubblicato infatti un corposo report di 1.300 pagine che descrive in dettaglio gli abusi sessuali nel clero cattolico locale, accusando oltre 300 sacerdoti. Il gran giurì della Pennsylvania, riunitosi nel 2016, ha intervistato decine di testimoni e esaminato più di 500.000 pagine di documenti provenienti da ogni diocesi dello Stato eccetto Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate in precedenza. Risultato: orrore, raccapriccio. Una smisurata quantità di abusi, violenze, vessazioni. Questa storica inchiesta, scrive Pizziriani, ha rilevato che più di 1.000 bambini sono stati abusati dai membri di sei diocesi, in Pennsylvania, negli ultimi 70 anni. Dopo 18 mesi di indagini, gli investigatori denunciano «sistematici occultamenti, da parte della Chiesa».«Oltre mille bambini erano vittime identificabili, dagli archivi della Chiesa», afferma il gran giurì nel suo esplosivo rapporto: «Crediamo che il numero reale di bambini i cui “record” sono stati persi o che avevano paura di farsi avanti sia nell’ordine delle migliaia». Il documento afferma che il clero ha abusato bambini, bambine e anche degli adolescenti. «Tutti questi casi – si legge nel rapporto – sono stati messi da parte dai leader della Chiesa, che hanno preferito proteggere soprattutto i colpevoli e la loro istituzione». A causa dei presunti tentativi di copertura da parte degli alti funzionari ecclesiastici, aggiunge Pizziriani, la maggior parte dei casi sono troppo vecchi per essere portati a processo. Nonostante ciò, gli investigatori avvertono: potrebbero esserci ulteriori incriminazioni, mentre l’inchiesta continua. Il report parla di centinaia di preti: alcuni nomi rimangono oscurati, nel timore che la loro identificazione pubblica possa violare i loro diritti costituzionali. Ma il procuratore generale Josh Shapiro ha dichiarato che il suo ufficio sta lavorando per rimuovere questa autocensura che, di fatto, protegge gli autori dei reati.«I funzionari della Chiesa descrivevano abitualmente e deliberatamente questi abusi come “giocare a cavalluccio”, “fare wrestling”, o come “condotta inappropriata”. Non erano affatto quelle cose: erano abusi sessuali su minori, compreso lo stupro», sottolinea Shapiro. Molte vittime hanno affermato di esser state drogate o comunque manipolate. Alcuni hanno ricordato di essere stati picchiati da membri della famiglia che non credevano alle loro storie. Shapiro afferma infatti che «in Pennsylvania la fede è stata trasformata in arma per tenere le vittime in silenzio». Racconta la rete “Abc News”: «Ai bambini è stato insegnato che questo abuso non era solo normale, ma anche era sacro». Stiamo parlando di bambini violentati da sacerdoti, per decenni: gli abusi «vanno dalla masturbazione allo stupro anale, orale e vaginale». Un ragazzo fu persino costretto a farsi confessare allo stesso prete che lo abusava sessualmente. Un altro sacerdote «ha molestato cinque sorelle per un periodo superiore a 10 anni e, in un accordo con la loro famiglia, la diocesi ha richiesto un accordo di riservatezza». Ancora: un gruppo di preti di Pittsburgh, scrive sempre Pizziriani citando il “Telegraph”, è accusato di aver ordinato a un chierichetto di spogliarsi nudo e di posare crocifisso come Gesù sulla croce, mentre gli facevano foto. Gli scatti «sono poi circolati negli ambienti della Chiesa, dove la pornografia infantile veniva condivisa».Sempre nel report si legge che un prete «ha stuprato una bambina di sette anni, mentre la piccola era in ospedale per farsi rimuovere le tonsille». Un altro bambino è stato drogato con sostenze presenti in un succo d’arancia, prima di essere violentato. Un altro, di appena nove anni, «è stato costretto a praticare sesso orale, e poi il prete ha usato l’acqua santa per “purificare” la sua bocca». E’ praticamente infinita, la galleria degli orrori che emerge dall’indagine condotta in Pennsylvania: «Un gruppo di pedofili ha frustato i ragazzini, permettendo ad altri uomini di violentarli a pagamento. Un altro prete, che cercava di convicere gli studenti delle scuole medie a praticargli del sesso orale, insegnava loro di come Maria doveva leccare Gesù per pulirlo dopo che era nato». Poi ci sono o sacerdoti che hanno avuto figli: «Usavano croci d’oro per marcare chi di loro era stato maltrattato». Una ragazza «è stata violentata da un certo numero di sacerdoti, che in seguito le hanno detto che questo era il modo in cui Dio mostrava l’amore». Racconta il “Daily Mail” che un prete di Scranton «ha aggredito sessualmente una ragazza minorenne, l’ha messa incinta e poi le ha organizzato l’aborto».Diverse presunte vittime sono state attirate con alcol o pornografia, aggiunge Pizziriani: in seguito si sono rifugiate nell’abuso di sostanze. Qualcuno è crollato, preferendo suicidarsi. «Una di queste vittime include Joey, un bambino di 7 anni che è stato più volte violentato da padre Edward Graff ad Allentown». Graff, un uomo fisicamente imponente, «ha usato tanta forza per sottomettere il ragazzo che ha danneggiato gravemente la spina dorsale della vittima», secondo il procuratore Shapiro. «I medici hanno dovuto somministrargli pesanti antidolorifici, ma il ragazzo ne è divenato dipendente e alla fine è morto di overdose». Prima di soccombere, la vittima ha scritto alla diocesi di Allentown dicendo che Graff l’aveva più che violentato: «Ha ucciso il mio potenziale e, così facendo, ha ucciso l’uomo che avrei dovuto diventare», ha ammesso il giovane, secondo quanto riportato da “Nbc Philadelphia”. La permanenza di Graff alla diocesi di Allentown è durata 35 anni. E ora, conferma il “Daily Mail”, quel sacerdote è accusato di aver violentato decine di ragazzi.«Sorprendentemente, la leadership della Chiesa ha tenuto traccia degli abusi e della copertura: questi documenti, dagli “archivi segreti” propri delle diocesi, hanno costituito la spina dorsale di questa indagine», afferma Shapiro. Pagine che affondano in storie di abominio, come quella del reverendo David A. Soderlund, accusato di avere avuto rapporti sessuali con almeno tre giovani ragazzi all’inizio degli anni ‘80. «La diocesi di Allentown, di cui era sacerdote, conosceva le accuse, ma non le riferì alle autorità», scrive Pizziriani: il piccolo era un chierichetto di 7° grado (aveva 12 anni), e padre Soderlund aveva un caravan negli Appalachi Trail Sites, a Shartlesville. «Ce l’ha portato lì quasi ogni settimana, per un periodo di circa 5 anni, a fare sesso», ha riferito alle autorità ecclesiastiche nel 1997 una delle presunte vittime di Soderlund: «Ha detto che non partecipava di sua scelta, ma padre David aveva minacciato di ferirlo o ucciderlo. Ha anche scattato delle foto alla vittima impegnata in atti sessuali e ha minacciato di usarle per metterla in imbarazzo», si legge sempre sul “Daily Mail”.Il rapporto d’indagine critica apertamente anche l’arcivescovo di Washington Dc, cardinale Donald Wuerl, già a capo della diocesi di Pittsburgh, per il suo ruolo nel nascondere gli abusi. Prima della pubblicazione del rapporto, l’alto prelato si era difeso giurando di aver «agito con diligenza, con preoccupazione per i sopravvissuti e per prevenire futuri atti di abuso». La “Bbc” rivela che, il mese scorso, il cardinale Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington e leader cattolico di alto profilo, si è dimesso tra le accuse di aver abusato sessualmente di bambini e adulti per decenni. Secondo Shapiro, l’inchiesta ha confermato «un sistematico insabbiamento, da parte di alti funzionari ecclesiastici in Pennsylvania e in Vaticano». Il “New York Post” scrive che, secondo Shapiro, lo schema era «abuso, negazione e insabbiamento». Conferma l’agenzia “Ansa”, citando sempre Shapiro: «I preti hanno violentato ragazzini e ragazzine. E i loro superiori non solo non fecero niente, ma hanno nascosto tutto».I sacerdoti che avevano molestato i bambini? «Venivano abitualmente trasferiti di parrocchia in parrocchia» e rimanevano tranquillamente attivi per 40 anni. «Il gruppo di investigatori – aggiunge Pizziriani – ha concluso che una successione di vescovi cattolici e altri dirigenti diocesani ha cercato di proteggere la Chiesa da cattiva pubblicità e responsabilità finanziaria. Non hanno denunciato il clero accusato alla polizia, hanno usato accordi di riservatezza per mettere a tacere le vittime e inviato i sacerdoti colpevoli di abusi alle cosiddette “strutture di trattamento”, che “riciclavano” i preti». Così, conferma il “New York Times”, «hanno permesso a centinaia di molestatori riconosciuti di tornare ad operare liberamente». Un parroco è addirittura andato a lavorare a DisneyWorld «utilizzando una accorata lettera di raccomandazione da parte della Chiesa, dopo che costui era stato costretto a lasciare la tonaca dietro le accuse di aver abusato di bambini». Congiura del silenzio, anche oltre la Chiesa: polizia e pubblici ministeri – accusa il “New York Times” – a volte non indagavano sulle accuse, per deferenza verso i religiosi. Oppure ignoravano le denunce, considerandole di competenza di altri uffici. E la strage degli innocenti, nel frattempo, proseguiva.C’è una notizia esplosiva che sta rimbalzando su tutti i media mondiali, ma che da noi rischia di essere messa in secondo piano dal giusto clamore del crollo del ponte di Genova: riguarda i ripetuti e sistematici casi di pedofilia nella Chiesa cattolica statunitense della Pennsylvania, a metà strada tra Washington e New York. Lo scorso 14 agosto, scrive Riccardo Pizziriani su “Luogo Comune”, la Corte Suprema della Pennsylvania ha pubblicato infatti un corposo report di 1.300 pagine che descrive in dettaglio gli abusi sessuali nel clero cattolico locale, accusando oltre 300 sacerdoti. Il gran giurì della Pennsylvania, riunitosi nel 2016, ha intervistato decine di testimoni e esaminato più di 500.000 pagine di documenti provenienti da ogni diocesi dello Stato eccetto Philadelphia e Altoona-Johnstown, già indagate in precedenza. Risultato: orrore, raccapriccio. Una smisurata quantità di abusi, violenze, vessazioni. Questa storica inchiesta, scrive Pizziriani, ha rilevato che più di 1.000 bambini sono stati abusati dai membri di sei diocesi, in Pennsylvania, negli ultimi 70 anni. Dopo 18 mesi di indagini, gli investigatori denunciano «sistematici occultamenti, da parte della Chiesa».
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Fascismo? Ci vuole orecchio, per smontare chi odia Salvini
«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?Dal Quirinale a Confindustria, dalla magistratura a Bankitalia, da Macron a Juncker: ha solo nemici, quello che Montanari definisce il “ministro della paura”. Nemici così potenti da riuscire a impedire – in modo rocambolesco, grazie al solito Berlusconi alleatosi col Pd – l’elezione di un giornalista di razza come Marcello Foa alla presidenza della Rai, bloccata (secondo il massone Gianfranco Carpeoro) da una triangolazione telefonica tra il francese Jacques Attali (mentore di Macron), Giorgio Napolitano (membro della stessa superloggia, la “Three Eyes”, secondo Gioele Magaldi) e Antonio Tajani, massone anche lui. Dov’è il monopolio della forza di cui parla Montanari? Abbagli colossali, sia pure da un eminente intellettuale innamorato del patrimonio artistico italiano? «Ho indicato proprio in Saviano – scrive sempre Montanari su “Micromega” – uno dei non molti intellettuali liberi, e disposti a schierarsi». Salviano chi? L’autore di “Gomorra”, condannato a vita a recitare la parte della vittima sotto scorta, per la gioia del suo marketing editoriale? Allude, Montanari, allo stesso Saviano che in Italia spara a man salva sul leader della Lega ma, appena si volge verso il Medio Oriente, si schiera con Israele senza mai una parola sulle brutalità che lo Stato ebraico guidato da Netanyahu infligge ai “negri” della situazione, cioè ipalestinesi?Affacciandosi sul Paese delle Meraviglie, Tomaso Montanari è comunque capace di stupirsi: evidentemente, per lui, il “ministro della paura” non è l’unico imputato. «Come si fa a chiedere agli italiani sommersi e sfruttati – scrive – di stringersi intorno ai valori della Costituzione proprio mentre Sergio Mattarella, massimo garante della Carta e del suo primo articolo, si genuflette di fronte a un Sergio Marchionne?». Già. Ma dov’era, Montanari, quando Mattarella faceva il ministro nel governo D’Alema, l’esecutivo che “regalava” la rete autostradale italiana ai Benetton? Se ne riparla oggi, dopo l’immane tragedia del crollo a Genova del viadotto Morandi, con il governo Conte deciso a imporre ad Autostrade per l’Italia la revoca della concessione. Non vede come stanno realmente le cose, il professor Montanari? «Come possiamo pensare che gli italiani in difficoltà ascoltino i nostri appelli antifascisti se essi sono sostenuti dallo stesso establishment che esalta Marchionne, il quale non ha voluto restituire all’Italia, e a ciò che resta del suo stato sociale, nemmeno i soldi delle tasse sul proprio gigantesco patrimonio?». Le domande di Montanari, che appare sinceramente disorientato, sembrano rivolte all’interlocutore sbagliato. Cosa si aspetta, Montanari, da un potere-ombra così ipocrita e marcio da usare all’occorrenza le bandiere della sinstra per varare, in Italia, il neoliberismo più selvaggio?Equivoci, probabilmente figli della “santa alleanza” contro il falso bersaglio – Berlusconi – che ha permesso ai veri dominus di agire indisturbati per vent’anni, graniticamente supportati (senza chiasso, né olgettine) dal centrosinistra dei Prodi e dei D’Alema, degli Amato e dei Padoa Schioppa. L’impegno civile di Tomaso Montanari è cristallino: nel marzo 2017 è diventato presidente del cartello “Libertà e Giustizia”, succedendo a Nadia Urbinati. Nel giugno 2017, con Anna Falcone, è stato fra i promotori di “Alleanza Popolare per la Democrazia e l’Uguaglianza”, giornalisticamente ribattezzata come “percorso del Brancaccio”, dal nome dell’omonimo teatro romano dove si riunirono le prime 1.500 persone. Obiettivo: creare una lista civica nazionale della sinistra. Progetto poi naufragato a meno di sei mesi dalle elezioni, visto anche lo stato confusionale della sinistra stessa, reduce da due decenni di antiberlusconismo militante spacciato per progressismo. Si tratta della stessa sinistra che preferì sparare sul Cavaliere piuttosto che sul pareggio di bilancio inserito da Monti nella Costituzione con l’appoggio di Bersani, così come oggi – pur con i suoi dubbi – Montanari preferisce colpire Salvini, piuttosto che un establishment che aveva ridotto l’Italia a Cenerentola politica d’Europa, prona a qualsiasi diktat, incluso quello di tenersi i migranti salvati nel Mediterraneo dalla marina tricolore.Montanari è uno di quegli intellettuali italiani che non esitano a utilizzare la parola “fascismo” per connotare l’azione di Salvini, cioè del leader più rappresentativo del primo e unico governo – dopo tanti anni – formatosi a furor di popolo, sotto la spinta squisitamente democratica degli elettori, ansiosi di metter fine a una lunga sequela di “governi dell’orrore”, pronti a precipitare il paese (loro sì) nella paura: la paura di perdere tutto e di sprofondare in un’Italia senza futuro. «Tutto l’establishment che chiama al conflitto contro Salvini – riconosce Montanari – è quello che diceva e dice che non è possibile alcun conflitto sociale: che è invece lo strumento per creare giustizia sociale, ed è stato disinnescato proprio dal Partito Democratico e dai suoi sostenitori». Quando Salvini dice “prima gli italiani”, per il professore «nessuna risposta è credibile se non afferma la necessità di un conflitto invece “tra gli italiani”», ovvero tra i poveri e i ricchi, che notoriamente «non vogliono le stesse cose», per citare lo storico britannico Tony Judt. Quand’anche: perché Montanari spara su Salvini, che non ha alcuna responsabilità nella catastrofe della Seconda Repubblica, evitando di usare il termine “fascismo” per i decisivi collaborazionisti del “nazismo tecnocratico”, ai cui “successi” si deve, oggi, la vasta popolarità del leader della Lega?«Alla sinistra dei politici, professori, giornalisti paghi di appartenere alla ristretta cerchia dei salvati, disinteressati a cambiare il mondo e capaci solo di parlare di “austerità” e “responsabilità” – aggiunge Montanari – è subentrata una destra con una visione terribile e propagandistica, sanguinosa e fasulla». Sempre secondo il professore, «Salvini sa benissimo che non potrà cambiare in meglio la vita degli italiani: ed è per questo che accende la miccia della caccia al nero». C’è un che di vertiginoso, nel ricorrente abuso dei termini: il fascismo si impose in modo strisciante con le violenze delle camicie nere, incoraggiato dall’élite e ignobilmente tollerato dallo Stato liberale, monarchia in primis. Crede davvero, il professor Montanari, che l’ex anarchico ed ex socialista Mussolini abbia potuto marciare su Roma in solitudine, senza l’appoggio dei poteri forti attraverso il network discreto della massoneria? Crede che abbia potuto guidare svariati governi senza il sostegno decisivo del Vaticano, accanto a quello dei latifondisti e della grande industria?E perché mai spendere ancora, impunemente, nel 2018, la parola “fascismo”? Non vede, Montanari, da quale pulpito democratico vengono le lezioncine impartite all’Italia sui diritti umani? Non sa, Montanari, da quale scuola proviene l’illustre burattino francese Macron? Non vede quali onori gli sono stati tributati, in Vaticano, dall’uomo che la dottrina cattolica considera il vicario di Dio in terra? Conosce un altro fascismo, Montanari, che oggi sia più feroce di quello con cui la Germania e la Bce hanno ridotto la Grecia come un paese del terzo mondo? «Bisogna saper vedere, e saper dire, che Salvini è il sintomo terribile, e finale, della malattia che ha devastato questo paese anche “grazie” a ciò che chiamavamo “sinistra”», sostiene Montanari. Ma, anziché attaccare a testa bassa il tumore, lo storico dell’arte si accanisce su quello che considera il sintomo, come se i buoi non fossero già scappati dalla stalla. E questa incredibile miopia, probabilmente, mette fuori gioco molta parte dell’intellettualità italiana: se Salvini sarà sempre di più il nuovo leader del paese, con i suoi toni spesso così indigesti, lo si dovrà anche e soprattutto a chi vede l’autoritarismo dove non c’è, senza averlo visto – in tempo utile – là dove c’era, e dove sta tuttora, esercitando il suo immenso potere, ogni giorno, contro l’Italia e l’avvenire degli italiani.«Roberto Saviano ha invitato a rompere il silenzio sulla politica e la retorica sostanzialmente fasciste di Matteo Salvini». Lo scrive il giovane storico dell’arte Tomaso Montanari, 46 anni, autore (con Antonello Caporale) del libro “Matteo Salvini, il ministro della paura”, ovvero: “Come il leader della Lega ha conquistato gli italiani”. Per le edizioni del Gruppo Abele, Montanari ha inoltre scritto “Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità”. Parafrasando Enzo Jannacci, su “Micromega” il professore spiega che «ci vuole orecchio, per battere Salvini». Sempre Montanari – proprio a causa dell’alleanza gialloverde con la Lega – ha rifiutato la propoposta avanzatagli da Luigi Di Maio, che lo voleva ministro dei beni culturali. Vincitore nel 2016 del Premio Giorgio Bassani di Italia Nostra, tre anni prima Montanari era stato insignito, da Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di commendatore «per il suo impegno a difesa del nostro patrimonio». E sempre nel 2013 – sotto il disastroso governo Letta – era stato membro della commissione per la riforma del Mibac, istituita dal ministro Massimo Bray. Su “Micromega”, a proposito di Salvini, Montanari cita il filosofo Norberto Bobbio: «Non lasciare il monopolio della verità a chi ha già il monopolio della forza». Quale monopolio? Non vede, Montanari, che il governo Conte è assediato a reti unificate da tutti i media mainstream e da tutti i poteri che contano, italiani ed europei?
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Disastro privatizzato: così il neoliberismo ci crolla addosso
A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società Sias, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de “Il Fatto Quotidiano” di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo Iri, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de “Il Sole 24 Ore”).Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’Iri, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così. Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume “La grande trasformazione”, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ‘80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile. Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi?La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione, eccetera. Esistono però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia. Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’“ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza, e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole. Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza.Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi. Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone.Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione. Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: «La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi». Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo – di cui troviamo il ritratto nel libro di Gioele Magaldi, “Massoni: società a responsabilità illimitata”, editore Chiarelettere.(Patrizia Scanu, “Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 15 agosto 2018).A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ‘80 e ‘90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti. La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile.
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Francia cannibale, si mangia l’Africa: il bilancio dell’orrore
Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.Sylvanus Olympio, il primo presidente della Repubblica del Togo, un piccolo paese in Africa occidentale, trovò una soluzione a metà strada con i francesi. Non voleva che il suo paese continuasse ad essere un dominio francese, perciò rifiutò di siglare il patto di continuazione della colonizzazione proposto da de Gaulle, tuttavia si accordò per pagare un debito annuale alla Francia per i cosiddetti benefici ottenuti dal Togo grazie alla colonizzazione francese. Era l’unica condizione affinché i francesi non distruggessero tutto prima di lasciare il paese. Tuttavia, l’ammontare chiesto dalla Francia era talmente elevato che il rimborso del cosiddetto “debito coloniale” si aggirava al 40% del debito del paese nel 1963. La situazione finanziaria del neo-indipendente Togo era veramente instabile; così, per risolvere la situazione, Olympio decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa (il Franco Cfa delle colonie africane francesi), e coniò la moneta del suo paese. Il 13 gennaio 1963, tre giorni dopo aver iniziato a stampare la moneta del suo paese, uno squadrone di soldati analfabeti appoggiati dalla Francia uccise il primo presidente eletto della neo- indipendente Africa.Olympio fu ucciso da un ex sergente della Legione Straniera di nome Etienne Gnassingbe, che si suppone ricevette un compenso di 612 dollari dalla locale ambasciata francese per il lavoro di assassino. Il sogno di Olympio era quello di costruire un paese indipendente e autosufficiente. Tuttavia ai francesi non piaceva l’idea. Il 30 giugno 1962, Modiba Keita, il primo presidente della Repubblica del Mali, decise di uscire dalla moneta coloniale francese Fcfa imposta a 12 neo-indipendenti paesi africani. Per il presidente maliano, che era più incline ad un’economia socialista, era chiaro che il patto di continuazione della colonizzazione con la Francia era una trappola, un fardello per lo sviluppo del paese. Il 19 novembre 1968, proprio come Olympio, Keita fu vittima di un colpo di stato guidato da un altro ex soldato della Legione Straniera francese, il luogotenente Moussa Traoré. Infatti durante quel turbolento periodo in cui gli africani lottavano per liberarsi dalla colonizzazione europea, la Francia usò ripetutamente molti ex legionari stranieri per guidare colpi di stato contro i presidente eletti.Il 1° gennaio 1966, Jean-Bédel Bokassa, un ex soldato francese della Legione Straniera, guidò un colpo di stato contro David Dacko, il primo presidente della Repubblica Centrafricana. Il 3 gennaio 1966, Maurice Yaméogo, il primo presidente della Repubblica dell’Alto Volta, oggi Burkina Faso, fu vittima di un colpo di stato condotto da Aboubacar Sangoulé Lamizana, un ex legionario francese che combatté con i francesi in Indonesia e Algeria contro le indipendenze di quei paesi. Il 26 ottobre 1972, Mathieu Kérékou (che era una guardia del corpo del presidente Hubert Maga, il primo presidente della Repubblica del Benin) guidò un colpo di Stato contro il presidente, dopo aver frequentato le scuole militari francesi dal 1968 al 1970. Negli ultimi 50 anni, un totale di 67 colpi di Stato si sono susseguiti in 26 paesi africani; 16 di quest’ultimi sono ex colonie francesi, il che significa che il 61% dei colpi di Stato si sono verificati nell’Africa francofona.Cinque i golpe subiti dal Burkina Faso e dalle Comore, quattro i colpi di Stato attuati in Burundi, Repubblica Centrafricana, Niger e Mauritania. Sempre tra le ex colonie francesi, hanno vissuto almeno tre colpi di Stato il Congo e il Ciad – due, invece, l’Algeria e il Mali, la Guinea Konakry e la Repubblica Democratica del Congo. Almeno un violento “regime change” ha poi investito Togo, Tunisia, Costa d’Avorio, Magagascar e Rwanda. Altri paesi africani sottoposti a colpi di Stato sono Egitto, Libia e Guinea Equatoriale (un golpe ciascuno), Guinea Bissau e Liberia (due golpe), Nigeria ed Etiopia (tre colpi di Stato), Uganda (quattro) e Sudan (cinque). In totale 45 golpe nell’Africa ex francese, più 22 in altri paesi africani. Come dimostrano questi numeri, la Francia è abbastanza disperata ma attiva nel tenere sotto controllo le sue colonie, a qualsiasi prezzo, a qualsiasi condizione. Nel marzo del 2008, l’ex presidente francese Jacques Chirac disse: «Senza l’Africa, la Francia scivolerebbe a livello di una potenza del terzo mondo». Il predecessore di Chirac, François Mitterand, già nel 1957 profetizzava che «senza l’Africa, la Francia non avrà storia nel 21° secolo».Proprio in questo momento, 14 paesi africani sono costretti dalla Francia, attraverso un patto coloniale, a depositare l’85% delle loro riserve di valute estere nella Banca Centrale Francese controllata dal ministero delle finanze di Parigi. Finora, il Togo e altri 13 paesi africani dovranno pagare un debito coloniale alla Francia. I leader africani che rifiutano vengono uccisi o restano vittime di colpi di Stato. Coloro che obbediscono sono sostenuti e ricompensati dalla Francia con stili di vita faraonici, mentre le loro popolazioni vivono in estrema povertà e disperazione. E’ un sistema malvagio, denunciato dall’Unione Europea; ma la Francia non è pronta a spostarsi da quel sistema coloniale che muove 500 miliardi di dollari dall’Africa al suo ministero del Tesoro ogni anno. Spesso accusiamo i leader africani di corruzione e di servire gli interessi delle nazioni occidentali, ma c’è una chiara spiegazione per questo comportamento. Si comportano così perché hanno paura di essere uccisi o di restare vittime di un colpo di Stato. Vogliono una nazione potente che li difenda in caso di aggressione o di tumulti. Ma, contrariamente alla protezione di una nazione amica, la protezione dell’Occidente spesso viene offerta in cambio della rinuncia, da parte di quei leader, di servire il loro stesso popolo e i suoi interessi.I leader africani lavorerebbero nell’interesse dei loro popoli se non fossero continuamente inseguiti e provocati dai paesi colonialisti. Nel 1958, spaventato dalle conseguenze di scegliere l’indipendenza dalla Francia, Leopold Sédar Senghor dichiarò: «La scelta del popolo senegalese è l’indipendenza; vogliono che ciò accada in amicizia con la Francia, non in disaccordo». Da quel momento in poi la Francia accettò soltanto un’ “indipendenza sulla carta” per le sue colonie, siglando “Accordi di Cooperazione”, specificando la natura delle loro relazioni con la Francia, in particolare i legami con la moneta coloniale francese (il franco), il sistema educativo francese, le preferenze militari e commerciali. Qui sotto ci sono le 11 principali componenti del patto di continuazione della colonizzazione dagli anni ‘50.#1. Debito coloniale a vantaggio della colonizzazione francese. I neo “indipendenti” paesi dovrebbero pagare per l’infrastruttura costruita dalla Francia nel paese durante la colonizzazione. #2. Confisca automatica delle riserve nazionali. I paesi africani devono depositare le loro riserve monetarie nazionali nella banca centrale francese. La Francia detiene le riserve nazionali di 14 paesi africani dal 1961: Benin, Burkina Faso, Guinea-Bissau, Costa d’Avorio, Mali, Niger, Senegal, Togo, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo-Brazzaville, Guinea Equatoriale e Gabon. La politica monetaria che governa un gruppo di paesi così diversi non è complicato perché, di fatto, è decisa dal ministero del Tesoro francese senza rendere conto a nessuna autorità fiscale di qualsiasi paese che sia della Cedeao (la Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale) o del Cemac (Comunità degli Stati dell’Africa Centrale). In base alle clausole dell’accordo che ha fondato queste banche e il Cfa, la banca centrale di ogni paese africano è obbligata a detenere almeno il 65% delle proprie riserve valutarie estere in un “operations account” registrato presso il ministero del Tesoro francese, più un altro 20% per coprire le passività finanziarie.Le banche centrali del Cfa impongono anche un tappo sul credito esteso ad ogni paese membro equivalente al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Anche se la Beac e la Bceao hanno un fido bancario col Tesoro francese, i prelievi da quel fido sono soggetti al consenso dello stesso ministero del Tesoro. L’ultima parola spetta al Tesoro francese, che ha investito le riserve estere degli Stati africani alla Borsa di Parigi a proprio nome. In breve, più dell’ 80% delle riserve valutarie straniere di questi paesi africani sono depositate in “operations accounts” controllati dal Tesoro francese. Le due banche Cfa sono africane di nome, ma non hanno una politica monetaria propria. Gli stessi paesi non sanno, né viene detto loro, quanto del bacino delle riserve valutarie estere detenute presso il ministero del Tesoro a Parigi appartiene a loro come gruppo o individualmente. Gli introiti degli investimenti di questi fondi presso il Tesoro francese dovrebbero essere aggiunti al conteggio, ma non c’è nessuna notizia che venga fornita al riguardo né alle banche né ai paesi circa i dettagli di questi scambi. Al ristretto gruppo di alti ufficiali del ministero del Tesoro francese che conoscono le cifre detenute negli “operations accounts”, sanno dove vengono investiti questi fondi e se esiste un profitto a partire da quegli investimenti, viene impedito di parlare per comunicare queste informazioni alle banche Cfa o alle banche centrali degli stati africani, scrive il dottor Gary K. Busch (economista, docente universitario a Londra).Si stima che la Francia detenga all’incirca 500 miliardi di monete provenienti dagli Stati africani, e farebbe qualsiasi cosa per combattere chiunque voglia fare luce su questo lato oscuro del vecchio impero. Gli stati africani non hanno accesso a quel denaro. La Francia permette loro di accedere soltanto al 15% di quel denaro all’anno. Se avessero bisogno di più, dovrebbero chiedere in prestito una cifra extra dal loro stesso 65% da Tesoro francese a tariffe commerciali. Per rendere le cose ancora peggiori, la Francia impone un cappio sull’ammontare di denaro che i paesi possono chiedere in prestito da quella riserva. Il cappio è fissato al 20% delle entrate pubbliche dell’anno precedente. Se i paesi volessero prestare più del 20% dei loro stessi soldi, la Francia ha diritto di veto. L’ex presidente francese Jacques Chirac ha detto recentemente qualcosa circa i soldi delle nazioni africane detenuti nelle banche francesi. In un VIDEO parla dello schema di sfruttamento francese. Parla in francese, ma questo è un piccolo sunto: «Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano».#3. Diritto di primo rifiuto su qualsiasi materia prima o risorsa naturale scoperta nel paese. La Francia ha il primo diritto di comprare qualsiasi risorsa naturale trovate nella terra delle sue ex colonie. Solo dopo un “Non sono interessata” della Francia, i paesi africani hanno il permesso di cercare altri partners. #4. Priorità agli interessi francesi e alle società negli appalti pubblici. Nei contratti governativi, le società francesi devono essere prese in considerazione per prime e, solo dopo, questi paesi possono guardare altrove. Non importa se i paesi africani possono ottenere un miglior servizio ad un prezzo migliore altrove. Di conseguenza, in molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura. Infine, come ho scritto in un precedente articolo, “gli africani ora vivono in un continente di proprietà degli europei”.#5. Diritto esclusivo a fornire equipaggiamento militare e formazione ai quadri militari del paese. Attraverso un sofisticato schema di borse di studio e “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, gli africani devono inviare i loro quadri militari per la formazione in Francia o in strutture gestite dai francesi. La situazione nel continente adesso è che la Francia ha formato centinaia, anche migliaia di traditori e li foraggia. Restano dormienti quando non c’è bisogno di loro, e vengono riattivati quando è necessario un colpo di Stato o per qualsiasi altro scopo! #6. Diritto della Francia di inviare le proprie truppe e intervenire militarmente nel paese per difendere i propri interessi. In base a qualcosa chiamato “Accordi di Difesa” allegati al Patto Coloniale, la Francia ha il diritto di intervenire militarmente negli Stati africani e anche di stazionare truppe permanentemente nelle basi e nei presidi militari in quei paesi, gestiti interamente dai francesi.Poi ci sono le basi militari francesi in Africa. Quando il presidente Laurent Gbagbo della Costa d’Avorio cercò di porre fine allo sfruttamento francese del paese, la Francia organizzò un colpo di Stato. Durante il lungo processo per estromettere Gbagbo, i carri armati francesi, gli elicotteri d’attacco e le forze speciali intervennero direttamente nel conflitto sparando sui civili e uccidendone molti. Per aggiungere gli insulti alle ingiurie, la Francia stima che la “business community” francese abbia perso diversi milioni di dollari quando, nella fretta di abbandonare Abidjan nel 2006, l’esercito francese massacrò 65 civili disarmati, ferendone altri 1.200. Dopo il successo della Francia con il colpo di Stato, e il trasferimento di poteri ad Alassane Outtara, la Francia ha chiesto al governo Ouattara di pagare un compenso alla “business community” francese per le perdite durante la guerra civile. Il governo Ouattara, infatti, pagò il doppio delle perdite dichiarate mentre scappavano.#7. Obbligo di dichiarare il francese lingua ufficiale del paese e lingua del sistema educativo. “Oui, Monsieur. Vous devez parlez français, la langue de Molière!” (sì, signore. Dovete parlare francese, la lingua di Molière!). Un’organizzazione per la diffusione della lingua e della cultura francese chiamata “Francophonie” è stata creata con diverse organizzazioni satellite e affiliati supervisionati dal ministero degli esteri francese. Come dimostrato in quest’articolo, se il francese è l’unica lingua che parli, hai accesso al solo 4% dell’umanità, del sapere e delle idee. Molto limitante.#8. Obbligo di usare la moneta coloniale francese Fcfa. Questa è la vera mucca d’oro della Francia, tuttavia è un sistema talmente malefico che finanche l’Unione Europea lo ha denunciato. La Francia però non è pronta a lasciar perdere il sistema coloniale che inietta all’incirca 500 miliardi di dollari africani nelle sue casse. Durante l’introduzione dell’euro in Europa, altri paesi europei scoprirono il sistema di sfruttamento francese. Molti, soprattutto i paesi nordici, furono disgustati e suggerirono che la Francia abbandonasse quel sistema. Senza successo. #9. Obbligo di inviare in Francia il budget annuale e il report sulle riserve. Senza report, niente soldi. In ogni caso il ministero delle banche centrali delle ex colonie, e il ministero dell’incontro biennale dei ministri delle finanze delle ex colonie è controllato dalla banca centrale francese e dal ministero del Tesoro.#10. Rinuncia a siglare alleanze militari con qualsiasi paese se non autorizzati dalla Francia. I paesi africani in genere sono quelli che hanno il minor numero di alleanze militari regionali. La maggior parte dei paesi ha solo alleanze militari con gli ex colonizzatori (divertente, ma si può fare di meglio!). Nel caso delle ex colonie francesi, la Francia proibisce loro di cercare altre alleanze militari eccetto quelle che vengono offerte loro. #11. Obbligo di allearsi con la Francia in caso di guerre o crisi globali. Più di un milione di soldati africani hanno combattuto per sconfiggere il nazismo e il fascismo durante la Seconda Guerra Mondiale. Il loro contributo è spesso ignorato o minimizzato, ma se si pensa che alla Germania furono sufficienti solo 6 settimane per sconfiggere la Francia nel 1940, quest’ultima sa che gli africani potrebbero essere utili per combattere per la “Grandeur de la France” in futuro.C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa. Primo, la Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’élite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione. Infine, la Francia ha due istituzioni che sono completamente congelate nel passato, abitate da “haut fonctionnaires” paranoici e psicopatici che diffondono la paura dell’apocalisse se la Francia cambiasse, e il cui riferimento ideologico deriva dal romanticismo del 19° secolo: sono il ministero delle finanze e del bilancio e il ministero degli affari esteri. Queste due istituzioni non solo sono una minaccia per l’Africa ma anche per gli stessi francesi. Tocca a noi africani liberarci, senza chiedere permesso, perché ancora non riesco a capire, per esempio, come possano 450 soldati francesi in Costa d’Avorio controllare una popolazione di 20 milioni di persone. La prima reazione della gente, subito dopo aver saputo della tassa coloniale francese, consiste in una domanda: “Fino a quando?”. Per paragone storico, la Francia ha costretto Haiti a pagare l’equivalente odierno di 21 miliardi di dollari dal 1804 al 1947 (quasi un secolo e mezzo) per le perdite subite dai commercianti di schiavi francesi dall’abolizione della schiavitù e la liberazione degli schiavi haitiani. I paesi africani stanno pagando la tassa coloniale solo negli ultimi 50 anni, perciò penso che manchi ancora un secolo di pagamenti!(Mawuna Remarque Koutonin, “Quattordici paesi africani costretti a pagare la tassa coloniale francese”, da “Africa News” dell’8 febbraio 2014).Sapevate che molti paesi africani continuano a pagare una tassa coloniale alla Francia dalla loro indipendenza fino ad oggi? Quando Sékou Touré della Guinea decise nel 1958 di uscire dall’impero coloniale francese, e optò per l’indipendenza del paese, l’élite coloniale francese a Parigi andò su tutte le furie e, con uno storico gesto, l’amministrazione francese della Guinea distrusse qualsiasi cosa che nel paese rappresentasse quelli che definivano i vantaggi della colonizzazione francese. Tremila francesi lasciarono il paese, prendendo tutte le proprietà e distruggendo qualsiasi cosa che non si muovesse: scuole, ambulatori, immobili dell’amministrazione pubblica furono distrutti; macchine, libri, strumenti degli istituti di ricerca, trattori furono sabotati; i cavalli e le mucche nelle fattorie furono uccisi, e le derrate alimentari nei magazzini furono bruciate o avvelenate. L’obiettivo di questo gesto indegno era quello di mandare un messaggio chiaro a tutte le altre colonie: il costo di rigettare la Francia sarebbe stato molto alto. Lentamente la paura serpeggiò tra le élite africane e nessuno, dopo gli eventi della Guinea, trovò mai il coraggio di seguire l’esempio di Sékou Touré, il cui slogan fu “Preferiamo la libertà in povertà all’opulenza nella schiavitù”.
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Tecno-vaccini per annientarci, se la scienza “impazzisse”
Hai bisogno di un cuore o un polmone di ricambio? Nessun problema: la Monsanto te ne crea uno nuovo di zecca, utilizzando una specie di maiali trans-genici alimentati da mangimi Ogm e sottoposti con regolarità ad espianto di organi mentre sono ancora in vita, per mantenere “freschi” gli organi espiantati. Avvertenza: il tuo governo ha già approvato simili pratiche. Possibile? No, ovviamente. Sono soltanto fantasie decisamente horror, sulle quali si interroga il blog “La Crepa nel Muro”. Ai confini della realtà, si esplorano aberrazioni a 360 gradi: come i vaccini “comportamentali” per rendere docili i cittadini e reprimere il dissenso, il monitoraggio “da remoto” del nostro stato di salute, la totale segretezza sull’origine degli alimenti. Un mondo da incubo: pandemie globali scatenate da armi biologiche, controllo a distanza sul codice genetico della prole, ingegneria genetica per tranquillizzare le folle o, al contrario, “fabbricare” soldati spietati. E scie in cielo, naturalmente, per “attivare metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. Un film spaventoso, che comincia con l’espianto “brevettato” di organi di maiali geneticamente modificati. Ha senso, questa fantascienza abominevole? Impossibile escluderla a priori, secondo “La Crepa nel Muro”, visto che la scienza ormai assoggettata all’industria «ha in mente per noi un futuro molto diverso dai paradisi utopistici previsti dai media mainstream».Secondo l’ufficialità, come sappiamo, la scienza sarebbe sempre e comunque benigna per l’umanità: «Ogni conseguimento scientifico è sempre stato dipinto come “progresso”, anche se molti di essi alla lunga si sono rivelati disastrosi (le bombe atomiche, ad esempio, oppure gli Ogm)». E mentre la scienza pura «risulta essere una componente necessaria di qualsiasi civiltà che cerchi di espandere la propria comprensione dell’universo», il tipo di scienza che oggi domina il paesaggio «è industriale, quindi al servizio dei profitti aziendali più che della umana comprensione». E’ la scienza-business, quella che «sta per partorire una nuova nidiata di tecnologie proprio terrificanti, le quali potrebbero trasformare il mondo». Tecnologie in vitro, che di umano non hanno più niente? Il blog ne propone un intero campionario, francamente agghiacciante. Come i “vaccini comportamentali”, che potrebbero essere sviluppanti, orwellianamente, per “reprimere il dissenso”, da chi considerasse la disobbedienza una patologia, una vera e propria malattia. La “cura per la disobbedienza” (o “disturbo oppositivo”) potrebbe essere nuovo vaccino che «rimodellerà biologicamente il cervello per renderlo più socialmente mansueto e controllabile». Una sorta di lobotomia chimica: sarebbe «la pietra di fondazione dello stato di polizia globale, che non avrà tolleranza per il pensiero indipendente e il pensiero critico di qualsiasi tipo».E che dire del “monitoraggio da remoto di tutti i valori sanitari e impulsi vitali”? «Pensate che le cartelle cliniche siano davvero riservate? Pensateci bene: già attualmente il governo degli Stati Uniti detiene un database centralizzato dei campioni di sangue prelevati a tutti i neonati». E’ pensabile che nel prossimo futuro, ai cittadini, possa essere «impiantato un chip diagnostico»? In tempo reale, il dispositivo potrebbe trasmettere al governo «una serie di informazioni circa il polso, la respirazione, la presenza di droghe illegali o legali (le quali sono spesso le stesse sostanze chimiche contenute nelle droghe illegali, ripresentate sotto forma di farmaco)». Funzione: «Controllare che ogni ammalato assuma regolarmente i propri farmaci», ma anche «individuare e arrestare coloro che assumano sostanze stupefacenti senza prescrizione medica». Nella versione horror, il chip potrebbe «monitorare i livelli nutrizionali», magari elininando la vitamina D – dichiarata pericolosa, in un futuro da incubo – per fissare «soglie di tolleranza ben distanti da quella del risveglio cognitivo, facendo in modo che tutti restino prigionieri di uno stato di torpore mentale». Alla stessa strategia (perversa, demoniaca) potrebbe corrispondere anche la “totale segretezza circa qualsiasi ingrediente alimentare e luoghi di origine dei prodotti”, con un doppio risultato: spacciare alimenti-spazzatura molto redditizi e, fatalmente, pericolosi per la salute.Anche per questo, aggiunge “La Crepa nel Muro”, nel peggior futuro possibile potrebbe scattare anche la “assoluta criminalizzazione di alimenti e farmaci di produzione locale”, con “obbligo di affidarsi esclusivamente ai grandi gruppi industriali alimentari e farmaceutici”. A proposito di cibo, scrive il blog, “scienziati” corrotti potrebbero affermare che la coltivazione autonoma di un orto nel proprio giardino sia estremamente pericolosa, perché causa il diffondersi di batteri. Basterebbe a mettere al bando il giardinaggio domestico: vietato mettersi a coltivare pomodori sul balcone. «Il fine ultimo di tutto ciò è rendere la popolazione completamente dipendente dalle grandi industrie alimentari centralizzate». I soliti “scienziati” potrebbero sostenere che solo le grandi industrie alimentari producono cibo sicuro, «in quanto completamente pastorizzato, irradiato e sottoposto a fumigazione». Senza contare, poi, gli scenari di guerra. Esempio: “Scatenamento di una pandemia globale a colpi di armi biologiche aggregate ai vaccini”.«L’intero sistema dei vaccini – si legge nel fanta-post della “Crepa nel Muro” – fa ovviamente capo ad una politica di eugenetica su larga scala». Ovvero: «Qualcuno ha progettato di eliminare tutti i quozienti intellettivi più bassi del pianeta, persone così stupide da lasciarsi iniettare qualsiasi cosa sia spacciata per un vaccino», comprese le inutili vaccinazioni antinfluenzali. «E’ realmente un programma di eugenetica, con cui i globalisti sono convinti di poter estirpare la stupidità dal genere umano, non importa quale sia il costo in termini di sofferenza». Per questa via completamente folle, si potrebbe arrivare un giorno anche al “totale controllo del governo sulla riproduzione e sul codice genetico della prole”. «Copulare con una persona di vostra scelta e produrre la vostra discendenza a vostro piacimento non sarà più permesso, nello stato di polizia scientifica», si sbilancia “La Crepa nel Muro”. «La riproduzione sarà attentamente controllata tramite la concessione di licenze per assicurarsi che non vi siano risultati imprevisti». Orrore: «Prima di avere figli, i genitori dovranno chiedere al governo il permesso di riprodursi». A quel punto «saranno analizzati geneticamente e psicologicamente, dopodiché sarà loro concesso un permesso di riproduzione controllata il cui iter dovrà essere rigorosamente seguito per evitare il carcere».«Alle persone che mostrino tendenze ribelli e atteggiamenti anti-statali – va da sé – sarà negato il privilegio della riproduzione». E quindi, «solo agli schiavi più obbedienti e bianchi saranno concessi i privilegi di riproduzione, di cui gli schiavi andranno orgogliosi, data la responsabilità di mettere al mondo le successive generazioni di schiavi». Paranoia letteraria? Universi paralleli? Quanto può esservi, di verosimile, nella dilatazione – volutamente provocatoria e spettacolare – delle più recenti mostruosità (tragicamente autentiche) di alcune sperimentazioni tecno-scientifiche? Un abisso, nel quale “La Crepa nel Muro” arriva a ipotizzare “impianti cerebrali attivabili da remoto per la sedazione delle folle”. E’ un fatto: il futuro ormai coinvolge tutti i tipi di apparecchiature elettroniche impiantabili nel corpo umano. Una di quelle più convenienti potrebbe essere il “chip pacificazione”, addirittura «imposto ai cittadini in cambio di una somma di crediti virtuali». Un dispositivo subdolo, «attivato in modalità remota da parte del governo attraverso flussi cellulari, o attraverso impulsi locali emessi dalle forze di polizia, per placare immediatamente qualsiasi grande folla di manifestanti e rivoltosi». Gli studenti stanno protestando in favore della libertà di parola? «Basterà attivare il “chip pacificazione”, e tutti si sdraieranno sul prato e per qualche minuto faranno qualche sogno ad occhi aperti».Al bisogno, un simile chip potrebbe essere usato anche per “eccitare” il cervello in frangenti politicamente convenienti: «Per esempio, se un altro attacco terroristico dovesse compiersi sul territorio americano, il chip potrà essere d’aiuto per stimolare il sostegno della gente ad una ritorsione bellica». Ed ecco quindi il passo successivo, “ingegneria genetica e allevamento di super-soldati obbedienti”. «In un lontano futuro – ipotizza il blog – i soldati sul campo di battaglia saranno effettivamente degli umanoidi dotati di armi da fuoco e armature. Pensate al modello Terminator T-1000. Tutto ciò al momento resta abbastanza fuori portata, data la incredibile complessità di una simile tecnologia. Nel frattempo le nazioni più potenti investono denaro nella tecnologia dei super-soldati geneticamente modificati, i quali sono concepiti, allevati e addestrati per pensare ed agire come automi». Potrebbero essere “fabbricati” nuovissimi soldati-Ogm, dotati di elevati valori biologici (alta ossigenazione del sangue, cornice corporea di grandi dimensioni) in combinazione con piccoli cervelli, «in grado di elaborare solo le informazioni sufficienti per eseguire gli ordini ricevuti senza metterli in discussione». Invitabilmente, «saranno anche dotati di numerosi impianti elettronici che li renderanno più simili a cyborg che ad esseri umani». E quindi, «potenziamenti ottici applicati alle retine, chip Gps connessi al cervello, cablaggi nelle orecchie».Dulcis in fondo, ecco “l’attivazione di metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. «Oltre che per la diffusione di malattie infettive – scrive il blog, nella sua “profezia” da incubo – i vaccini potranno essere utilizzati per iniettare nano-cristalli sintonizzati per risuonare a determinate frequenze». Nano-cristalli? «Sono stati rinvenuti anche nelle scie chimiche». Potrebbero rimanere inerti in un organismo anche per decenni, per poi essere di colpo “attivati” con l’emissione di specifiche frequenze. «Le applicazioni pratiche sarebbero infinite; dalla follia collettiva ai focolai di violenza di massa (tumulti, ecc) o a poche decine di milioni di persone che di colpo muoiono contemporaneamente. Una qualsiasi di tali applicazioni potrebbe essere sfruttata dal governo per vendere la versione ufficiale di un “attacco terroristico”. E tutto ciò potrebbe essere fatto in nome della “scienza”». Per “La Crepa nel Muro”, si tratta di «possibili tecnologie future» con cui la “scienza abusiva” potrebbe «supportare futuri governi tirannici e industrie corrotte». Nulla di tutto ciò è ancora in agenda, per fortuna, ma alcune idee aberranti «sono sulla buona strada per diventare realtà già nei prossimi anni». Fantascienza a parte, il problema sull’impiego della scienza è ovviamente serissimo: guai, se viene utilizzata «per dominare e ridurre in schiavitù le persone». Troppo spesso si è rivelata il grande alibi per operazioni “sporche”, progettate sulla pelle di tutti.Hai bisogno di un cuore o un polmone di ricambio? Nessun problema: la Monsanto te ne crea uno nuovo di zecca, utilizzando una specie di maiali trans-genici alimentati da mangimi Ogm e sottoposti con regolarità ad espianto di organi mentre sono ancora in vita, per mantenere “freschi” gli organi espiantati. Avvertenza: il tuo governo ha già approvato simili pratiche. Possibile? No, ovviamente. Sono soltanto fantasie decisamente horror, sulle quali si interroga il blog “La Crepa nel Muro”. Ai confini della realtà, si esplorano aberrazioni a 360 gradi: come i vaccini “comportamentali” per rendere docili i cittadini e reprimere il dissenso, il monitoraggio “da remoto” del nostro stato di salute, la totale segretezza sull’origine degli alimenti. Un mondo da incubo: pandemie globali scatenate da armi biologiche, controllo a distanza sul codice genetico della prole, ingegneria genetica per tranquillizzare le folle o, al contrario, “fabbricare” soldati spietati. E scie in cielo, naturalmente, per “attivare metalli e nano-cristalli iniettati attraverso i vaccini”. Un film spaventoso, che comincia con l’espianto “brevettato” di organi di maiali geneticamente modificati. Ha senso, questa fantascienza abominevole? Impossibile escluderla a priori, secondo “La Crepa nel Muro”, visto che la scienza ormai assoggettata all’industria «ha in mente per noi un futuro molto diverso dai paradisi utopistici previsti dai media mainstream».
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Foa su Wikipedia: come distruggere un giornalista scomodo
È così che si distrugge la reputazione di un giornalista scomodo: il 28 luglio alle 16:37 (cioè soltanto sabato, “casualmente” nel pieno della discussione per la sua nomina alla presidenza Rai!) è stata modificata la pagina Wikipedia di Marcello Foa, aggiungendo la sezione “Controversie” (prima inesistente, basta controllare la cronologia che riporto qui sotto) in cui viene denigrato come un “complottista” per aver sostenuto l’esistenza di “false flag” e per aver parlato della teoria gender (che viene liquidata come una “teoria del complotto nata nell’ambito ecclesiastico negli anni ’90”). Ho la fortuna di conoscere personalmente Foa da qualche anno. Ci siamo incontrati a una riunione per il Wac (Web Activists Community) a Roma nello studio di Giulietto Chiesa quando scesi in rappresentanza della Uno Editori per discutere del progetto. Ovviamente lo conoscevo già di fama, lo avevo spesso citato nelle mie opere, a partire dal mio libro-inchiesta su Renzi. Lo avevo sentito telefonicamente ma non lo avevo mai incontrato di persona. Mi sono trovata davanti un uomo gentilissimo, tanto umile quando disponibile, dotato di carisma e di ironia (dote rara), mentalmente elastico e al contempo metodico. Da quel momento ho potuto soltanto rafforzare la stima che ho di lui.
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Boeri e la rivoluzione, la sinistra-chic che domina il popolo
Anni Settanta. Squilla il telefono nell’elegante casa di Renato e Cini Boeri. Il domestico solleva la cornetta, la pone con calma all’orecchio; sente gracchiare una voce: dall’altro capo del filo qualcuno reclama il giovane Tito. Il sottoposto di classe non si scompone; ne ha viste tante; solo dichiara: «Il signorino Tito non c’è, è fuori a fare la rivoluzione». Formidabili quegli anni!, sentenziò in un suo goffo libro Mario Capanna, già coordinatore di Democrazia Proletaria. Capanna fu uno dei volti belli della sinistra d’antan, assieme all’indimenticabile Lucio Magri, co-fondatore de “Il Manifesto”, atletico e abbronzato, amante di Marta Marzotto, conosciuta in casa di Eugenio Scalfari – la bella Marta, a sua volta amante di Renato Guttuso che la immortalò, gnuda, in numerosi, orridi, teloni a olio. Magri, intelligente e rigoroso, completamente disinteressato alla classe proletaria, di cui ignorava tutto, ma assai esigente in alcuni ambiti extraparlamentari: «Guai se per il gigot d’agneau non c’erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g … grossi grani grigi».Disinteressato agli ultimi? Ho sbagliato, lo riconosco; sono stato ingiusto. Mi correggo: egli, pensoso e infelicissimo, come dichiarò – a Magri morto – la Marzotto, era, invece, prepotentemente assorbito dalle superne cose de l’etternal gloria (della sinistra): tanto superne da situarlo stabilmente (e inevitabilmente) fuori delle pulsioni del proletariato. Un fenomeno che venne testimoniato plasticamente da una Tribuna Politica in cui il Nostro, quale esponente del Pdup (Partito di Unità Proletaria, appunto), rimase imparpagliato davanti alla domanda d’un giornalista che gli chiese conto del prezzo d’un litro di latte: i vani bofonchiamenti di risposta testimoniarono le sue esclusive, celesti, preoccupazioni. Così va il mondo; o meglio, così andava nel secolo ventesimo. Ma torniamo a Tito. Nipote di un deputato del Regno d’Italia (Giovanni Battista Boeri, Gran Maestro della Massoneria nella loggia Giuseppe Garibaldi, quindi fascista nel 1924, poi antifascista non si sa quando, e finalmente senatore, stavolta della Repubblica italiana), e figlio dell’architetta Cini Boeri (al secolo: Maria Cristina Damiani Dameno) e dell’illustre neurologo milanese Renato, già comandante di una banda partigiana assieme al fratello Enzo.I fratelli: Sandro (giornalista di “Panorama” e direttore di “Focus”, di largo successo) e Stefano (architetto e urbanista, di largo successo, e politico, di largo successo pure qui, e rivoluzionario, nel Movimento Studentesco del 1975, tanto rivoluzionario che fu rinviato a giudizio per la morte di Claudio Varalli, suo compagno di lotta, caduto durante l’aggressione «rapidissima, premeditata, violentissima» contro lo studente del Fuan Antonio Braggion; Braggion, vistosi perduto a fronte di trenta uomini, prima si rifugò nella propria auto, poi esplose tre colpi di pistola. Varalli rimase a terra; gli altri, fra cui Boeri, fuggirono. Fu istruito il processo. Ci si predispose alla sentenza esemplare fra notevoli strepiti di trombette. Il Caso, tuttavia, imperituro signore delle vicende umane, volle che intervenisse, in tal caso – un caso con la minuscola, però – il pietoso istituto giuridico della prescrizione; intervenne a lenire ferite morali e fisiche e umane e storiche come nardo di Betania: di tutti, di tutti! … non di Braggion, tuttavia, che si beccò dieci anni complessivi, poi ridotti a sei, per eccesso colposo di legittima difesa: un comportamento che, se non altro, gli salvò la pelle, a differenza di Sergio Ramelli, morto un mese prima, povero lui, col cranio spaccato dalle chiavi inglesi Hazet 36, dopo un’agonia terribile).Voi direte: ma dove vuole arrivare questo? A poche cose. La prima. Di questa gente, i vari Boeri Veltroni Fedeli Boldrini e gli altri pontieri della sinistra, occorre fidarsi come Don Vito Corleone si fidava di Hyman Roth: zero. Un consiglio che dispenso ai più saggi. Boeri e compagnia (e tutti coloro che vi cedono, compresi alcuni esponenti della destra) vanno sradicati dall’Italia. E non a parole. La seconda. Boeri è di sinistra e, quindi, quanto di più lontano dal socialismo possa esserci. La sinistra italiana promana delle rivoluzioni colorate del 1968 e dintorni, ordite proprio per depotenziare il socialismo assieme a correi circensi come Marco Pannella. Distinguere i due ambiti sociali, storici, psicologici, antropologici è essenziale. Esempio: il comunista vuole liberare l’uomo dall’ignoranza, la sinistra dal nozionismo. Risultato: mai visti tanti ignoranti. Il comunista vuole liberare l’uomo dalla povertà, la sinistra fa della povertà una bandiera fashion (e, infatti, mai visti tanti miserabili con l’iPhone come oggi). Il comunista crede nell’eguaglianza dei diritti materiali, la sinistra nell’espansione dei diritti civili (cioè a niente). Il comunista è fuori della Storia, ormai; la sinistra, invece, è la Storia.I festeggiamenti della Coppa del Mondo (e lo sport olimpico-ecumenico) sono di sinistra; il capitalismo angloamericano è di sinistra (ma questo è matto! per questo ci vuole la camicia di forza!); Giovanni Agnelli, chez Eugenio Scalfari, laico confessore con la ruga sulla fronte, fu di sinistra; Juncker è di sinistra, come la Merkel; Beyoncé è di sinistra, come i telefilm americani, Don Matteo e la Blackwater; Berlusconi è di sinistra; George W. Bush è di sinistra; il Vaticano è di sinistra; Equitalia è di sinistra; i Neo-Con americani sono di sinistra; la Fao, l’Unicef, l’euro, Draghi, la Banca Mondiale sono di sinistra; Luttwak e la Boldrini sono di sinistra; l’Oscar e il Premio Strega sono di sinistra, come gli sceicchi e Cristiano Ronaldo e la regina Elisabetta II; la tecnologia è di sinistra, come il botulino; il Live Aid è di sinistra così come i tagliagole di Palmira e il sessuomane Michel Houellebecq; anche la destra è di sinistra, come le parabole sinistre di Giorgia Meloni e Giuliano Ferrara ci testimoniano abitualmente.La sinistra è solo la nuova vaselina escogitata dal potere. Come possiamo far accettare a otto miliardi di belinoni una schiavitù dolce e una esistenza piatta, miserabile, stupida, idiota? Con lo stato di polizia, la guerra, la repressione? Macché, molto meglio “Imagine” (“Imagine there’s no countries / nothing to kill or die for / and no religion too / imagine all the people living life in peace…”). La sinistra è un modo di governo, un inganno al contrario, uno specchietto per allodole, un trucchetto per far scalciare le mandrie del cretinismo digitale (fascista! Comunista!). Il Potere è apolide, parassita, invasivo, piratesco. Prima o poi dovrete abbandonare le finte trincee ideologiche e grattarvi pure questa bella rogna, l’unica vera rogna da grattare oggi: un po’ più a destra, un po’ a sinistra, sotto l’ombelico e dietro la cucuzza, dove volete voi.(“Young Signorino”, da “Il Blog di Alceste” del 16 luglio 2018).Anni Settanta. Squilla il telefono nell’elegante casa di Renato e Cini Boeri. Il domestico solleva la cornetta, la pone con calma all’orecchio; sente gracchiare una voce: dall’altro capo del filo qualcuno reclama il giovane Tito. Il sottoposto di classe non si scompone; ne ha viste tante; solo dichiara: «Il signorino Tito non c’è, è fuori a fare la rivoluzione». Formidabili quegli anni!, sentenziò in un suo goffo libro Mario Capanna, già coordinatore di Democrazia Proletaria. Capanna fu uno dei volti belli della sinistra d’antan, assieme all’indimenticabile Lucio Magri, co-fondatore de “Il Manifesto”, atletico e abbronzato, amante di Marta Marzotto, conosciuta in casa di Eugenio Scalfari – la bella Marta, a sua volta amante di Renato Guttuso che la immortalò, gnuda, in numerosi, orridi, teloni a olio. Magri, intelligente e rigoroso, completamente disinteressato alla classe proletaria, di cui ignorava tutto, ma assai esigente in alcuni ambiti extraparlamentari: «Guai se per il gigot d’agneau non c’erano il purè di mele e la salsa di menta: non ci si poteva sedere a tavola. O se i chicchi di caviale non erano g-g-g … grossi grani grigi».