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Archivio del Tag ‘Affari’

  • Perché alla fine Berlusconi dovrà cedere a Salvini e Di Maio

    Scritto il 11/4/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.
    Primo: perché ci sono un sacco di parlamentari di Forza Italia che seguirebbero Salvini in quest’avventura, magari attraverso una scissione, come fece Angelino Alfano col Nuovo centrodestra in direzione Pd. Al contrario, non abbiamo notizia di parlamentari leghisti che farebbero il percorso inverso. Secondo: perché le giunte regionali e gli enti locali, a dispetto delle minacce, non sarebbero in pericolo. Non la Liguria, di sicuro, dove il buon Toti se ne starebbe tranquillamente al suo posto. Non il Veneto, dove la rielezione di Zaia, anche col centrodestra diviso, non sarebbe in discussione. E nemmeno la Lombardia, dove già nella scorsa consiliatura la maggioranza di centrodestra non si era divisa né quando il Pdl aveva sostenuto Enrico Letta, né quando c’era stato lo scisma tra Berlusconi e Alfano. Terzo: perché per il Berlusconi imprenditore, a questo giro, avere un governo amico è fondamentale. Lo è per l’happy ending della sua carriera politica, che non vuole si concluda con un Nino Di Matteo ministro della giustizia, ad esempio. Lo è soprattutto per le sue aziende, in primis Mediaset, spettatrice interessata del balletto tra Telecom, Vivendi, Elliot e Cassa Depositi e Prestiti.
    Un balletto in cui si registra la convergenza d’interessi e intenti tra Cinque Stelle, Lega e Forza Italia, tutte e tre favorevoli alla mossa della fondazioni bancarie e di Costamagna. Al netto di ogni valutazione di merito, qualcosa vorrà pur dire. Ecco perché alla fine Berlusconi cederà: perché è uno abituato a fare bene i conti e sa che gli conviene star dentro, seppur defilato, anziché fuori. Perché sa che è fondamentale tenere unita Forza Italia, più che il centrodestra – magari trovando un leader in pectore in Antonio Tajani – se vuole cercare perlomeno di rallentare il disegno egemonico di Salvini. Perché mai come oggi il peso degli amici di sempre, quelli che lo chiamano Silvio o Dottore, come Confalonieri, Letta, Galliani, lo spingerà al pragmatismo. Un lieto fine val bene un pranzo con Luigi Di Maio. A volte bisogna sapersi accontentare di non prenderle. Anche se ti chiami Berlusconi e hai giocato all’attacco per tutta la vita.
    (Francesco Cancellato, “Berlusconi cederà: e (presto o tardi) sarà governo Lega-Cinque Stelle”, da “Linkiesta” del 9 aprile 2018).

    Ok, è da pazzi lanciarsi in una profezia sul prossimo governo italiano, ma dopo il vertice di Arcore del centrodestra, dopo quel comunicato che mette nero su bianco unità d’intenti nel proporre Salvini premier e nel cercare i numeri per governare in Parlamento e dopo l’ennesimo (mezzo) strappo dello stesso Salvini, che ribadisce la volontà nel cercare un accordo con Luigi Di Maio, sono evidenti almeno due cose: che una maggioranza di governo c’è, in Parlamento, ed è quella tra Lega e Cinque Stelle. E che il problema, ora, è come far sì che questa maggioranza si concretizzi in un incarico di governo e in un voto di fiducia parlamentare. Lo diciamo senza retroscena in tasca, ma ragionando per deduzioni successive: prima o poi accadrà. Magari non al secondo giro di consultazioni, in cui il centrodestra si presenterà unito, ma accadrà: esattamente come ha fatto per l’elezione di Maria Elisabetta Alberti Casellati a presidente del Senato, il leader del Carroccio strapperà con la sua coalizione e porterà ad Arcore una bozza di patto per il governo coi Cinque Stelle, con un premier di centrodestra – non lui, magari un altro leghista come Giancarlo Giorgetti – o comunque d’area. A quel punto si vedrà chi bluffa, che solitamente corrisponde a chi ha più da perdere. E non abbiamo dubbi che il più debole del mazzo risponda al nome di Silvio Berlusconi.

  • Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo

    Scritto il 02/4/18 • nella Categoria: idee • (2)

    Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
    La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.
    C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.
    Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.
    Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.
    E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.
    E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.
    Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?
    (Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).

    Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.

  • Fasanella: sabotare l’Italia, tutti complici dei killer di Moro

    Scritto il 18/3/18 • nella Categoria: Recensioni • (21)

    Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.
    Tutta da riscrivere, la verità su Moro: ora lo sa anche la magistratura, che ha appena ricevuto la dirompente relazione della commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. Nel suo nuovo lavoro, “Il puzzle Moro”, edito da Chiarelettere, Fasanella riassume le sconvolgenti conclusioni della commissione: tutti i grandi poteri concorsero al rapimento, affidato alla manovalanza Br. Ma l’autore aggiunge un elemento inedito, altrettanto pesante, tratto dalle carte desecretate dell’archivio di Stato britannico: rivela l’iniziativa di Londra per “sovragestire” l’Italia, con il concorso dei maggiori servizi segreti, a cui Moro (vivo) faceva paura. Fasanella ne ha parlato in due recenti interviste, con Claudio Messoria su “ByoBlu” e poi con Stefania Nicoletti a “Border Nights”, offrendo una sintesi decisamente vertiginosa. Punto primo: nel 1976, due anni prima del sequestro, la Gran Bretagna propone di organizzare un classico golpe militare, in Italia, per bloccare l’azione politica di Moro, considerato una minaccia mortale per gli interessi post-coloniali inglesi, in Medio Oriente e in Africa, dove l’Italia – come già all’epoca di Mattei – sta ridiventando un interlocutore privilegiato per i paesi poveri, in via di sviluppo, impegnati nella grande impresa della decolonizzazione. Seconda notizia: la Francia appoggia con entusiasmo l’idea di schierare carri armati nelle strade italiane. Ma a inglesi e francesi – terza notizia – si oppongono tedeschi e americani.
    La Germania, ancora divisa in due e impaurita dall’Urss, teme che possa vacillare lo scudo Nato di fronte alla prevedibile reazione della sinistra italiana, allora fortissima, di fronte a un colpo di Stato militare in stile greco. Quanto agli Usa, la loro intelligence ha ancora le ossa rotte dopo la scandalo Watergate che ha appena travolto Nixon: meglio non impelagarsi in qualcosa di orrendo (e imbarazzante) in Italia. Al che, racconta Fasanella, Londra fa scattare il Piano-B: un progetto “eversivo” per sabotare l’Italia, dall’interno. Il progetto è ancora protetto dal segreto, ammette il giornalista, ma il titolo del dossier compare negli archivi: è la prova che la Gran Bretagna ha programmato precise azioni per destabilizzare il nostro paese. «Non a caso, da allora, esplose in modo inaudito la violenza politica tra gli opposti estremismi». Fino alla crescita rapida ed esponenziale delle Brigate Rosse, che culmina con il caso Moro: un delitto perfetto. Soddisfatti gli inglesi, che insieme ai francesi hanno coronato il loro disegno neo-coloniale (amputare la politica estera italiana, filo-araba e filo-africana), e soddisfatti anche gli americani e i sovietici: i primi temevano che l’apertura di Moro al Pci trasformasse l’Italia in una nuova Jugoslavia, mentre i secondi vedevano in Berlinguer un pericoloso “eretico”, capace di allontanare dall’ortodossia di Mosca gli altri partiti comunisti europei.
    Questo spiegherebbe la sostanziale collaborazione di tutte le strutture di intelligence, amiche e nemiche: le une e le altre, interessate a incassare la fine di Moro come risultato politico. Obiettivo principale, in Europa: mortificare le aspirazioni dell’Italia, congelandone la politica. Non andò esattamente così: con Craxi, il paese divenne un protagonista del G7, e l’Italia rialzò la testa anche in politica estera (inaudita la crisi di Sigonella). Quindi, dopo l’inevitabile liquidazione del leader socialista ribelle, arrivò la normalizzazione definitiva: il rigore Ue, la camincia di forza dell’Eurozona, il vecchio Prodi rimesso in campo per raccontare agli italiani le meraviglie dell’euro. Caduto l’ultimo alibi (Berluconi, l’Uomo Nero da odiare) ora affiorano verità scomode, incresciose, che risalgono agli anni ‘70. La trama è sempre la stessa: l’ha raccontata anche Gioele Magaldi, nel bestseller “Massoni”. Tema: impedire, ad ogni costo, che l’Italia diventi importante. Tutte le volte che ci ha provato – con Mattei e Moro, persino con Craxi – ha mandato nel panico i “sovragestori”, i veri signori dell’élite finanziaria (ieri industriale) che detesta la democrazia. Gli unici italiani tollerati, nei salotti che contano, sono quelli prontissimi a obbedire: Prodi e Ciampi, Draghi e Napolitano. Ora – dopo 40 anni – si scoperchia la vera tomba di Moro. Compaiono i veri killer, e si scopre che i mandanti sono ancora in circolazione. Stanno lassù, come sempre, godendosi lo spettacolo del nostro “populismo” inconcludente: una protesta elettorale che non fa paura a nessuno.
    (Il libro: Giovanni Fasanella, “Il puzzle Moro”, Chiarelettere, 368 pagine, euro 17,60).

    Poi qualcuno si domanda com’è che siamo caduti così in basso – cioè con un tizio come Romano Prodi, il rottamatore dell’Iri, trasformato in paladino del popolo (s’intende: il popolo oppresso dall’Uomo Nero, quello delle tevisioni, delle olgettine e della P2). Al Cavaliere di Arcore, dagli anni ‘90 il copione oppose Prodi, advisor europeo della banca d’affari più famigerata del pianeta, la Goldman Sachs, nonché presidente dell’istituzione più medievale, l’infame Commissione Europea. Lo stesso Prodi che, quando ancora si stava posizionando nella galassia Dc, se ne uscì con una storia pittoresca su Aldo Moro: il nome “Gradoli”, presentato come possibile indizio sulla località della prigionia dello statista sequestrato dalle Brigate Rosse, disse che gli era stato rivelato nientemeno che nel corso di una seduta spiritica. Ancora oggi ci si domanda per quale servizio segreto lavorasse, quel famoso spiritello chiacchierone, mentre c’è chi – come Giovanni Fasanella, autore del bestseller “Il golpe inglese”, scritto con Mario José Cereghino – nel quarantennale della tragica scomparsa di Moro ha le idee più chiare. Dal suo lavoro emerge uno scenario ben poco “spiritico” e molto geopolitico: a eliminare il presidente della Dc sarebbero stati gli stessi poteri che ce l’avevano a morte con l’Italia, al punto da far assassinare il patron dell’Eni, Enrico Mattei, esploso in volo nel 1962 insieme al suo aereo dopo aver terrorizzato le Sette Sorelle offrendo condizioni eque ai paesi petrolieri.

  • Hai un’opinione? Errore: ti è stata venduta, a tua insaputa

    Scritto il 21/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.
    Di origine ebraica, emigrato a New York verso la fine del 1800, Bernays fu amico di Franklin Delano Roosevelt e della First Lady, Eleanor Roosevelt, nonostante Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema – anch’egli di origine austro-ebraica – lo accusasse di essere «un avvelenatore professionista dei cervelli della gente», ricorda Federico Povoleri in una ricostruzione proposta dal blog “La Crepa nel Muro”. Consulente dell’ufficio propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, Bernays ha dominato a lungo la scena della comunicazione in America. Un maestro, nel manipolare l’opinione pubblica anche nei periodi di crisi come la Grande Depressione del ‘29. Definito «il patriarca della persuasione occulta», aveva compreso «l’importanza dell’uso massiccio e spregiudicato dei media, che utilizzava per lanciare un prodotto, un candidato politico o una causa sociale». Nel 1933, Joseph Goebbels rivelò a un giornalista americano che il libro “Crystallizing Public Opinion”, pubblicato da Bernays nel 1923, fu utilizzato dai nazisti per le loro campagne. Una Bibbia per ogni politico, da Hitler a George Bush, fino a Obama. Primo comandamento: “Controlla le masse senza che esse lo sappiano”.
    Inizialmente, continua Povoleri, Bernays studiò l’opera di Gustav Le Bon, “Psicologia delle folle”, pubblicata nel 1895. Opera di riferimento per molti uomini politici, fu meticolosamnete studiata anche da Lenin, Stalin, Hitler, e Mussolini. Quest’ultimo commentò: «Ho letto tutta l’opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua “Psicologia delle Folle”. E’ un’opera capitale, alla quale ancora oggi spesso ritorno». Migliaia di individui separati, spiega Le Bon, «in un dato momento, sotto l’influenza di violente emozioni – un grande avvenimento nazionale, per esempio – possono acquistare i caratteri di una folla psicologica». Un qualunque caso che li riunisca «basterà allora perché la loro condotta subito rivesta la forma particolare agli atti delle folle». Infatti, «in certe ore della storia, una mezza dozzina di uomini possono costituire una folla psicologica», cosa che invece non riuscirà a «centinaia di individui riuniti accidentalmente». Per le folle, secondo Le Bon, «l’illusione risulta essere più importante della realtà». E’ decisiva l’apparenza: «Le folle non si lasciano influenzare dai ragionamenti», scrive Le Bon. «Sono colpite soprattutto da ciò che vi è di meraviglioso nelle cose. Esse pensano per immagini, e queste immagini si succedono senza alcun legame».
    Per la folla, l’inverosimile non esiste: preferisce nutrirsi di suggestioni. E la prima suggestione formulata «s’impone, per contagio, a tutti i cervelli», stabilendo subito l’orientamento generale. Secondo Le Bon, non c’è differenza tra un celebre matematico e l’ultimo calzolaio: «Può esserci un abisso in termini intellettuali, ma quando essi facciano parte di una folla (una folla può essere composta anche da cinque persone, non è il numero che conta), agiranno nello stesso modo e reagiranno emotivamente e non più con la ragione». Si verifica cioè un appiattimento verso il basso, «perché la ragione e il raziocinio vengono totalmente eliminati». Bernays mise insieme le idee di Le Bon (e di altri studiosi come Wilfred Trotter) con le teorie sulla psicologia elaborate dal celebre zio Freud, «intuendo che la gente sarebbe stata sensibile a una manipolazione inconscia, basata sia sull’emotività, sia sull’uso massiccio di immagini simboliche».
    Bernays intuì con grande anticipo la potenza delle nuove tecnologie della comunicazione di massa, aggiunge Povoleri. E concluse che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse potesse svolgere un ruolo importante in una società democratica. Chi fosse stato in grado di padroneggiare questo dispositivo sociale – pensava Bernays – avrebbe costituito un potere invisibile capace di dirigere una nazione:  «Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla», scrive Bernays nel libro “Propaganda”, uscito nel ‘29. «Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare». E’ indispensabile, sostiene, per gestire un regime sociale democratico, una società politicamente “tranquilla”. «In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale – agiunge – siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone. Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese».
    Bernays applicò con implacabile successo le sue leggi. Inventore delle relazioni pubbliche, diede anche origine alla figura professionale dello spin-doctor: le regole da lui scritte vengono oggi applicate in ogni ambito sociale e di comunicazione mediatica, dalla politica alla pubblicità. Sua l’invenzione – sempre nel 1929 – delle “brigate della libertà”, fiaccolata di donne con sigaretta tra le labbra. Un atto di sfida e di indipendenza, in una società che non riconosceva alla donna la parità dei diritti? Forse, ma non solo: «Ben poche femministe sanno che quella del “diritto al fumo”, fino ad allora riservato ai soli uomini, non fu affatto una ribellione spontanea delle donne, ma il risultato di un’operazione mediatica su larga scala, concepita orchestrata da Edward Bernays, che aveva ricevuto l’incarico dalla “American Tobacco Company”», ricorda Povoleri. Va da sé che la “brigata della libertà” conquistò le prime pagine, facendo esplodere il fatturato del tabacco. «Migliaia di donne iniziarono a emulare le ragazze newyorchesi della sfilata; il messaggio era stato recepito chiaramente: chi era anticonformista e indipendente non poteva non fumare». In pochi mesi, annota Povoleri, la Chesterfield triplicò le vendite. «E molti anni dopo la Philip Morris, memore di quell’evento, sfruttò lo stesso concetto inventando il cowboy della Marlboro per pubblicizzare le sue sigarette».
    Anche nel nuovo millennio, nei paesi in via di sviluppo, la sigaretta continua ad essere l’emblema dell’emancipazione femminile. Ma Bernays non si fermò qui: collaborò con l’Ama (Associazione Medici Americani) per produrre ricerche scientifiche che dimostrassero che il fumo “fa bene alla salute”. «Da allora – scrive Povoleri – è diventata prassi, per le multinazionali, finanziare ricerche scientifiche al fine di confermare la bontà dei prodotti che progettano di vendere». E l’ineffabile Bernays «suggeriva che vi fosse sempre una terza parte, indipendente, che garantisse la credibilità del prodotto o dell’immagine da promuovere». Esempio: chi mai crederebbe alla General Motors se fosse lei a a dire che il riscaldamento globale è “una bufala inventata dagli ambientalisti”? Ben altro impatto avrebbe, invece, un istituto di ricerca indipendente, chiamato ad esempio “Alleanza per il clima globale”. «Ecco perché Bernays mise in piedi una quantità impressionante di istituti e fondazioni, finanziati in segreto dalle stesse industrie i cui prodotti dovevano venirne valutati, per garantirne la qualità. Fu così che questi istituti sfornarono una moltitudine di rapporti scientifici, che poi la stampa rendeva pubblici, aiutando a creare l’immagine positiva del prodotto da lanciare».
    Lasciando un segno permanente, continua Povoleri, Bernays stupì il mondo degli affari statunitense per la sua capacità di controllare l’opinione pubblica su larga scala quando, assieme a Walter Lippman e su commissione del presidente Woodrow Wilson, fece una campagna tesa a spingere l’opinione pubblica ad accettare l’entrata nella Prima Guerra Mondiale, a fianco della Gran Bretagna, in un momento in cui la stragrande maggioranza del popolo americano era pacifista e isolazionista. «In soli sei mesi Bernays sovvertì completamente l’idea avversa della gente verso l’entrata in guerra, provocando una mastodontica ondata di isteria anti-tedesca, che impressionò profondamente (tra gli altri) anche Adolf Hitler, che sarebbe diventato un profondo conoscitore della sua opera». Nel ‘28, tra le pagine del saggio “L’ingegneria del consenso”, aveva scritto: «Se capisci i meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa». Le idee di Bernays cambiarono il vecchio concetto che prevedeva che i bisogni venissero soddisfatti da politica, industria e finanza. Capovolse la gerarchia: prima di tutto, la creazione dei bisogni attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. Politica, industria e finanza non servono più a soddisfare bisogni, ma a controllare la società.
    Nascono così i luoghi comuni creati dalla persuasione occulta operata dalla rivoluzione di Bernays. Per lo scrittore americano Russ Kick, la lista è infinita. Esempio: i medicinali ridanno la salute, i vaccini rendono immuni. Gli americani scoppiano di salute, sono quellio che stanno meglio al mondo. Il virsu Hiv è la causa dell’Aids, il fluoro nell’acqua potabile protegge i nostri denti, la vaccinazione anti-influenzale previene l’influenza. Ancora: i dolori cronici sono una naturale conseguenza dell’età. La soia? E’ la più salutare fonte di proteine. «Per costruire queste illusioni sono stati spesi miliardi di dollari, grazie ai quali oggi milioni e milioni di persone la pensano allo stesso modo», sottolinea Povoleri. In “Trust Us, We’re Experts” i sociologi John Stauber e Sheldon Rampton hanno raccolto una serie di dati che descrivono la scienza della creazione dell’opinione pubblica in America. Sono assiomi, scaturiti dalla nuova scienza delle “pierre”. Tipo: la tecnologia è in se stessa una religione. Oppure: se la gente è incapace di formulare un pensiero razionale, la vera democrazia è pericolosa. Quindi: le decisioni importanti dovrebbero essere lasciate agli esperti. Consigli per il manipolatore: stai lontano dalla sostanza, limitati a creare delle immagini. E non affermare mai chiaramente un bugia dimostrabile.
    «Le parole stesse vengono selezionate in base al loro impatto emozionale: nelle nuove scienze delle pubbliche relazioni sono entrate prepotentemente le tecniche di controllo mentale, che sfruttano le basi della psicologia e le linee guida di Bernays con le tecniche dell’illusionismo». Immagine, simbologia, parole e perfino musica e suoni. «Cinema e televisione hanno un potere enorme (esteso ora a tutta l’industria dell’intrattenimento, compreso i moderni videogiochi) in quanto hanno la capacità di ricombinare tra loro tutti questi elementi», agiunge Povoleri. «Sono molti gli esempi di uso politico del potere della musica, utilizzata come strumento psicologico di persuasione di massa. Non è un caso che durante la Seconda Guerra Mondiale la “Bbc” proibisse la messa in onda della musica di Wagner, utilizzata invece in modo mirato e massiccio dal nazismo, o che la sigla di apertura della nota emittente fossero le note basse che richiamavano la celebre apertura della Quinta di Beethoven». Secondo il filosofo Theodor Adorno, la musica crea “riflessi condizionati” che riguardano l’inconscio. Lo ricorda il consulente psicologico Matteo Rampin nel saggio “Tecniche di controllo mentale”. Nel suo filone tedesco, la musica da camera (legata alla “Sonata”, «tipica creazione della società normativa aristocratica e poi borghese») ha una componente “agonistica” che «deriva dalla struttura concorrenziale della società borghese». E così, chi ascolta quella musica «assimila inconsciamente queste strutture fondanti».
    Per Rampin, «si codifica un modo di ascoltare musica classica disciplinato, senza battere i piedi, in silenzio assoluto, che è parte di una educazione alla “staticità”». Se la musica produce un’educazione alla postura dei corpi, c’è da chiedersi «quali effetti avrà nel tempo l’abitudine contemporanea di ascoltare la musica in maniera autistica, mentre si lavora, si cammina, si studia, attraverso cuffie individuali e dispositivi portatili». Sempre Rampin sottolinea come l’utilizzo del sistema “Sensorround” nel film “Terremoto” (di Mark Robson, 1974) abbia proposto frequenze inferiori a quelle percepibili dall’orecchio umano (16 Hertz), in modo da traumatizzare profondamente molti spettatori, senza che questi ne sapessero il motivo. «Una delle tecniche più utilizzate nella guerra psicologica e nel lavaggio del cervello era arrivata in aiuto al filone dei film catastrofici», spiega David Annan nel saggio “Catastrophe, The end of the cinema”, del ‘75. Fu Eisenstein a sostenere che gli elementi di una singola ripresa possono essere pensati in modo matematico, al fine di produrre uno shock emozionale: il cinema ha trasformato la cultura, la percezione e forse anche la struttura mentale di miliardi di individui. Poi è arrivata la televisione, il trionfo definitivo del non-pensiero di Bernays: «Non ci sintonizziamo per scoprire cosa succede (perché in generale succedono sempre le stesse cose) ma per passare del tempo in compagnia dei personaggi». Non si cerca un programma specifico: si accende il televisore. La tv distrugge il tempo, rimpiazza la famiglia. «Per molti di noi, vive al nostro posto».

    La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.

  • Davide Cervia, “sequestro di Stato”: condannato il ministero

    Scritto il 07/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Una donna senza più il marito, due figli senza più il padre. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret: guerra elettronica. E’ ancora vivo? Invocano notizie la moglie, la figlia. E’ passato un quarto di secolo, e i militari non parlano. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra. Solo per miracolo la ragazza, Erika, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il migliore, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato la ricerca della verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?
    «Nemmeno il “Fatto Quotidiano” ha voluto dare la notizia della sentenza: nemmeno Marco Travaglio, a cui ho scritto», dice la moglie di Davide, Marisa Gentile, a colloquio con Stefania Nicoletti e Paolo Franceschetti a “Forme d’Onda”, trasmissione web-radio. «Viviamo un assedio infinito: lettere minatorie, pedinamenti, telefonate mute, anonimi che dicono “sappiamo dov’è tuo marito”. Ogni volta che andiamo a parlare nelle scuole di Velletri, poi ci ritroviamo le gomme dell’auto tagliate. Un funzionario del ministero dell’interno arrivò a offrirmi un miliardo di lire purché lasciassimo perdere. Adesso, il 23 gennaio, il tribunale di Roma ha condannato il ministero della difesa. Il danno, secondo i nostri avvocati, ammontava a 5 milioni di euro. Ma abbiamo preteso solo un risarcimento simbolico: un euro. E comunque l’avvocatura dello Stato ci ha costretto a firmare la rinuncia ad altre cause civili, altrimenti avrebbero chiesto la prescrizione, che sarebbe stata la pietra tombale su questa storia». L’ultima sentenza è decisiva, come quelle su Ustica: sancisce la violazione, da parte dello Stato, del diritto alla verità. Lo sostengono gli avvocati, Alfredo Galasso e Licia D’Amico. L’ammiraglio a riposo Falco Accame, vicino alla famiglia, auspica che il coraggioso verdetto del tribunale di Roma possa rompere il silenzio che oscura le “morti bianche” di tanti militari uccisi dall’uranio impoverito nelle missioni all’estero. Secondo Franceschetti, domani potrebbero “svegliarsi” anche i familiari di altre vittime, quelle delle troppe stragi impunite.
    Di origine ligure, Davide Cervia si era trasferito a Velletri dopo aver lasciato la marina. E’ scomparso il 12 settembre 1990: assalito mentre rincasava e caricato a forza su un’auto verde. Lo Stato ha impiegato anni, per ammettere che fosse stato rapito: si fece credere che, semplicemente, avesse abbandonato volontariamente la famiglia. Poi la marina militare ha negato a lungo che fosse un tecnico altamente specializzato: il suo vero curriculum è saltato fuori soltanto dopo che i familiari hanno occupato fisicamente il ministero. Adesso, dopo quasi 28 anni, il tribunale romano condanna i militari: hanno ostacolato il diritto alla verità. Quale verità? Non è dato saperlo. Tanti inidizi portano alla Libia, che nel ‘90 era sotto embargo e immaginava di essere minacciata, alla vigilia della prima Guerra del Golfo. Due operai italiani sostengono di aver visto Davide Cervia quattro anni dopo, vivo e vegeto, in una base missilistica vicino a Sebha. Per anni, racconta il giornalista investigativo Gianni Lannes sul blog “Su la testa”, la marina militare negò che Davide Cervia avesse la qualifica di esperto “Ge”, guerra elettronica, fino al giorno in cui, appunto, «la moglie Marisa e il suocero Alberto occuparono, insieme al “Comitato per la verità su Davide Cervia”, gli uffici dall’allora ministro della difesa italiano Martino».
    Dopo otto ore di trattative serrate e tese, ricorda Lannes, «il vero foglio matricolare venne fuori: la specializzazione che la marina aveva sempre negato era lì, nero su bianco». Non si trattava di un attestato qualsiasi: comprovava «un addestramento di altissimo livello, che poche decine di tecnici avevano». Per la burocrazia della marina, Cervia era un tecnico Elt/Ete/Ge, specializzato nei dispositivi di disturbo dei radar nemici. Quella sigla rendeva l’ex sergente della marina scomparso «un pezzo prezioso che qualcuno aveva “venduto”, includendolo in uno dei sofisticati sistemi d’arma prodotti in Italia». E Davide non era uno qualsiasi, aggiunge Lannes, tanto che sul suo dossier gli ufficiali scrissero: «Ha contribuito in maniera fattiva alla esecuzione delle manutenzioni preventive e correttive sugli apparati “Ge”, facendosi apprezzare per l’elevata preparazione professionale, l’interesse e la dedizione al servizio». Per Gianni Lannes si è trattato di «un sequestro di Stato», sostanzialmente «favorito da agenti del Sismi, allora guidato dall’ammiraglio Fulvio Martini». Lo stesso Sismi che il giornalista considera implicato nella scomparsa dei giornalisti Italo Toni e Graziella De Palo (Libano, 1980), nonché nell’eliminazione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin (Somalia, 1994), e dei due sottufficiali piloti della Guardia di Finanza, Gianfranco Deriu e Fabrizio Sedda, caduti in Sardegna nel 1994 a bordo dell’elicottero “Volpe 132” (a loro volta, dopo indagini su armi-fantasma?).
    A quel tempo, ricorda Lannes, il capo di stato maggiore della marina era l’ammiraglio di squadra Filippo Ruggero. «Per la cronaca incombeva in quell’anno il governo Andreotti: alla difesa c’era Martinazzoli, mentre agli esteri figurava De Michelis, con l’apporto di Gava agli interni». Proprio la qualifica di specialista Ete/Ge, dice Lannes, «è la causa del rapimento di Davide Cervia, “venduto” a sua insaputa come tecnico esperto di guerra elettronica, in seguito al divieto delle Nazioni Unite di commerciare armi o addestrare militari nei paesi in guerra». In quel periodo, rammenta il suocero di Davide, Alberto Gentile, era vietato vendere armi alla Libia di Gheddafi. Ma, negli anni ‘80, i libici avevano riammodernato nei cantieri di Genova (su una fregata e due corvette) le stesse apparecchiature di cui era esperto Davide: Otomat, Aspide e Albatros. Nel dicembre del ‘96 la famiglia incontrò il sottosegretario Rino Serri, racconta Alberto Gentile in un’intensa ricostruzione realizzata da Marcello Michelini ed Enrico Chiarioni per “Crescere Informandosi”, trasmessa da “Pandora Tv”. «Davanti a testimoni – afferma il suocero di Davide – Serri raccontò che stavano facendo trattative con la Libia “per poter liberare Davide”, ma disse che non si poteva assolutamente parlare di “rapimento”».
    Nato a Sanremo nel ‘59, Davide Cervia si era arruolato volotario in marina il 5 settembre 1978, diciannovenne, con ferma di sei anni. A Taranto risultò il migliore del suo corso e venne qualificato specialista Ete/Ge, tecnico elettronico per la guerra hi-tech. All’epoca, tra tutti gli “Elt 78/B” fu l’unico a ottenere quella qualifica, ricorda Lannes. Avviato al Centro Addestramento Aeronavale per la specializzazione pre-imbarco, sempre a Taranto, venne poi inserito nell’equipaggio di quella che all’epoca era la più moderna nave italiana, la fregata Maestrale, «acquisendo una specializzazione preziosissima». Si congedò dalla marina il 1° gennaio 1984 e quattro anni dopo si trasferì a Velletri, dove iniziò a lavorare nella società Enertecnel Sud, con sede presso Ariccia. Davide Cervia, riassume Lannes, era dunque un tecnico della guerra elettronica, specializzato nei sistemi di arma Teseo-Otomat che l’industria militare italiana «aveva venduto fin dagli anni ‘70 ai tanti paesi-canaglia del mondo, Libia compresa». Gli elementi che collegano la sua scomparsa alla Libia sono molteplici: «L’assistenza militare del regime di Gheddafi è sempre stata una nostra specialità», scrive Lannes. Un tecnico come Cervia «era a dir poco preziosissimo», per gestire le attrezzature Teseo-Otomat installate su navi libiche a fine anni ‘80.
    Secondo il portale giuridico “Altalex”, il verdetto ora emesso dall’autorità giudiziaria romana rappresenta «una sentenza molto importante», perché, «oltre a dar ragione nella sostanza alla famiglia dello scomparso, sul fatto che si tratti di rapimento e non di allontanamento volontario, pone alcuni importanti principi di diritto, già affermati con la sentenza che riguarda il caso Ustica». E cioè: «Il diritto alla verità da parte dei parenti di un soggetto scomparso in circostanze misteriose è un diritto soggettivo, personalissimo e di rango costituzionale, contenuto nell’articolo 21». Diritto che viene leso da ogni attività che, senza un’adeguata giustificazione, «impedisca, limiti o condizioni» l’acquisizione di informazioni. «In questa sentenza c’è una novità assoluta, cioè il riconoscimento del fatto che il ministero della difesa ha violato questo diritto, e per questo viene condannato», dichiara l’avvocato Licia D’Amico a “Osservatore Italia”. «Non so quante altre volte sia accaduto che una istituzione dello Stato, un ministero, sia stato condannato a risarcire un danno ad una famiglia per aver nascosto la verità: insomma, non è poca cosa». Specie se si considera che gli “insabbiatori” hanno insistito fino all’ultimo sull’idea che Cervia – di cui hanno a lungo negato la decisiva specializzazione – avesse abbandonato la famiglia volontariamente. «Pura follia», racconta la figlia, Erika: «Papà era alle prese con grandi preparativi per l’anniversario di matrimonio».
    Molte cose su Davide, dice la moglie Marisa nel video realizzato da Michelini e Chiaroni, la famiglia le ha apprese solo dopo la sua scomparsa: aveva rivestito incarichi di particolare segretezza, anche svolgendo stage presso aziende belliche. «Tra i documenti di Davide abbiamo trovato persino il Nos, “nulla osta di segretezza Nato”, ammesso dalla marina dopo 6 anni di nostre pressanti richieste». Per la famiglia Cervia, un incubo senza fine: «Rapito Davide, eravamo a Velletri solo da due anni, e io ne avevo appena 28: fecero girare la voce che mio marito era scappato con un’altra». Eppure, i fatti gridavano la peggiore delle verità: la sera di quel maledetto 12 settembre l’anziano vicino di casa, Mario Cavagnero, vide tutto. «Testimoniò con le lacrime agli occhi di aver visto mio padre strattonato da alcune persone che lo aspettavano davanti al cancello di casa», racconta la figlia, Erika. «Immobilizzato, narcotizzato e spinto con la forza in un’auto color verde bottiglia. Mio padre gridò più volte il nome del vicino, nella speranza che lo potesse aiutare». Raccontò l’uomo: «“Mario!” mi chiamava, disperato: ma è stato tutto troppo rapido perché potessi intervenire». Era la prova regina del rapimento: solo che poi, racconta Erika, «dal verbale dei carabinieri emerse che mio padre stesse chiamando Mario per salutarlo, e che Mario (il testimone chiave) fosse un povero vecchio in stato confusionale».
    Poco dopo, un autista delle autolinee locali (oggi Cotral) sulla tratta Roma-Velletri «incrociò l’auto verde e la Golf bianca di mio padre guidata da un biondino». Un quasi-incidente, all’incrocio tra Colle dei Marmi e l’Appia. «Dovette fare una brusca frenata per evitare le due auto, che non si fermarono allo stop». L’autista del pullman notò sull’auto verde «due persone, sedute dietro, che con le spalle e le braccia coprivano qualcosa, come a voler nascondere qualcuno». E la Golf bianca di Davide Cervia? «I carabinieri “dimenticarono” di idicare nel verbale il numero di targa: per giorni, la polizia non potè cercarla», dice la moglie. Una vettura rimasta “fantasma” per addirittura sei mesi. «Poi, grazie a una lettera anonima indirizzata alla trasmissione “Chi l’ha visto?”, allora condotta da Donatella Raffai, l’auto venne ritrovata a Roma in via Marsala, vicino alla stazione Termini, dove (secondo la lettera) era parcheggiata da 6 mesi. Ma così non era: mio padre, ferroviere, coi suoi colleghi aveva setacciato la zona palmo a palmo», racconta Marisa Gentile. La Golf riapparsa? «Fatta ritrovare lì per far credere a un allontanamento volontario». Intervennero gli ispettori della Digos: «Frugarono dappertutto, ma senza guanti: addio impronte digitali». Prima ancora, l’auto fu aperta con una micro-carica esplosiva, osserva Marisa: «Quella Golf aveva un impianto a gas, e quindi far saltare la serratura con dell’esplosivo poteva essere pericoloso: a meno che non si sapesse che il serbatoio del gas era vuoto?».
    Nel frattempo, mentre le indagini “dormivano”, arrivò un indizio dalla Francia. Gianluca Cicinelli, autore di due libri sulla vicenda nonché presidente del “Comitato per la Verità su Davide Cervia”, nel ‘95 venne contattato da un ex funzionario dell’Air France, da poco in pensione. Raccontò: tra dicembre ‘90 e gennaio ‘91 era arrivata alla compagnia aerea transalpina una richiesta di verifica, per sapere se ci fosse un biglietto aereo a nome Davide Cervia. «Lo trovò: per il 6 o l’8 gennaio ‘91 (non ricordava bene la data) per la tratta Parigi-Cairo. Biglietto acquistato per un’agenzia che lavora per il ministero francese degli affari pubblici. Nessuno ne aveva mai parlato». Al che, Cicinelli fece denuncia alla Criminalpol, partì l’indagine e si scoprì che quel biglietto effettivamente esisteva. Ma l’Air France non aveva comunicato nulla agli inquirenti perché, secondo loro, apparteneneva a un omonimo di Davide: un militare francese (con nome italiano, in quanto originario della Corsica). Fino ad allora, la procura di Velletri non aveva potuto fare vere indagini «per carenze di organico». Nel ‘98-99, quando la procura di Roma avocò l’inchiesta riaprendo il caso del biglietto aereo, l’Air France cambiò versione: quel biglietto aereo non era più intestato al “Davide Cervia della Corsica”, bensì a una “signorina Cervia”; in più era cambiata la tratta, e “purtroppo” non si poteva più fare nulla perché tutti i documenti erano stati cestinati.
    Il 5 aprile del 2000, racconta Erika Cervia, il caso fu archiviato come sequestro di persona a opera di ignoti. «Per noi fu una grandissima vittoria, veder sparire la testi dell’allontamento volontario di mio padre. Ma anche una sconfitta: dopo dieci anni, con l’archiviazione, veniva messa una pietra tombale sulla vicenda. Scandaloso: per i primi 8 anni mio padre non fu assolutamente cercato dalla procura di Velletri, quindi si sono persi proprio gli anni fondamentali per la sua ricerca». Poi, nel 2012, la notizia su Ustica: i familiari delle vittime hanno avevano citato a giudizio i ministeri trasporti e difesa, per omissioni, depistaggi, negligenze e violazione del cosiddetto “diritto alla verità”. «Noi abbiamo denunciato il ministero della difesa e quello giustizia. Ma i testi sono stati finalmente ascoltati solo a partire dal 2016, dopo quattro anni di rinvii». Nel frattempo, la famiglia Cervia è stata incessantemente sottoposta al consueto trattamento: minacce e intimidazioni, fino all’esplosione della finestra di casa. «Spesso – rileva Paolo Franceschetti, avvocato – i parenti delle vittime, in casi analoghi, si piegano. I Cervia invece hanno resistito in modo commovente, per amore di Davide, spiazzando i loro persecutori». Oggi brindano: c’è l’immensa soddisfazione morale di una sentenza che condanna lo Stato per aver mentito. Ma all’appello manca ancora il premio più importante: Davide.
    «Il prossimo passo – annuncia Marisa Gentile – sarà un appello alla politica, appena il nuovo Parlamento sarà insediato, perché ci spieghi come mai alcune strutture dello Stato hanno depistato». Con la speranza, naturalmente, che «chi sa trovi il coraggio di parlare e di raccontarci quanto accaduto», dice la donna a Fabrizio Peronaci del “Corriere della Sera”, l’unico grande giornale che abbia dato la notizia della sentenza romana. «E’ sconcertente il silenzio dei media», dice Marisa, «per non parlare del silenzio del servizio pubblico Rai». Ancora ai giorni nostri il sequestro Cervia è un fatto indicibile, rileva Gianni Lannes, tant’è vero che ad alcuni atti parlamentari il governo Renzi non ha risposto, come nel caso di un’interrogazione del 10 aprile 2014. Perché tacere ancora su questa scottante vicenda, «coperta dall’affaristica ragion di Stato»? Il Sismi, aggiunge Lannes, «si è sempre occupato direttamente della vendita di armi all’estero, compresi i sistemi d’arma ed il personale altamente specializzato. In questa vicenda non bisogna farsi ingannare dai depistaggi istituzionali che hanno messo in atto più volte, per dirottare la famiglia ed eventuali ricercatori indipendenti su piste fantasma. Un classico: omissioni, reticenze e menzogne dell’apparato statale costellano la vicenda, nonché minacce e intimidazioni alla stessa famiglia Cervia, mai protetta dallo Stato».
    Per dipanare l’aggrovigliata matassa, insiste Lannes, «bisogna partire dal movente e dai mandanti: Cervia aveva forse rifiutato qualche offerta?». Ovvero: è stato rapito dopo essersi rifiutato di trasferirsi, magari in Libia? Nel blog “Su la Testa”, Gianni Lannes esibisce una vastra documentazione: a partire dal 1992, un anno dopo la scomparsa di Davide, su Camera e Senato è piovuta una grandine di richieste per far luce sulla vicenda. Risultato: silenzio di tomba. Domande scomode, che oggi Lannes riassume: «Qual è stato il ruolo svolto nella vicenda dai servizi segreti italiani? Come si spiegano le reticenze e la contraddittorietà degli interventi che emergono dalle risposte rese nel tempo ad alcuni atti di sindacato ispettivo inerenti la vicenda?». E poi: «Sono state condotte ricerche sulla sorte degli altri tecnici italiani che hanno conseguito la stessa specializzazione di Davide Cervia? Quanti sono, quanti di loro risultano in congedo e quanti sono ancora in servizio in Italia o all’estero?». Ancora: «Sono state effettuate ricerche e indagini giudiziarie presso i paesi ai quali gli armamenti in questione (Teseo-Otomat) sono stati venduti? E’ stata accertata l’effettiva destinazione finale delle suddette armi onde verificare che non sia in atto un traffico d’armi “triangolato” e che non vi siano state violazioni delle norme sulle esportazioni di armi verso paesi per i quali fossero in corso embarghi militari?». Se non altro, dopo quasi 28 anni di depistaggi e omissioni, ora c’è almeno un brandello di verità: lo Stato è colpevole. Ma dov’è finito il super-tecnico rapito? «Giustamente si chiede verità per Giulio Regeni», dice Marisa Gentile. «A quando la verità su Davide Cervia?».

    Una donna che non sa più dove sia il marito, E due figli senza più notizie del padre, specialista in guerra elettronica. Scomparso. Catturato da sconosciuti, una sera, davanti al cancello di casa, nella campagna di Velletri. Che fine ha fatto? E’ stato “venduto” a paesi come la Libia, a cui l’Italia non avrebbe potuto né dovuto fornire armamenti? E’ stato poi ucciso, per cancellare la prova vivente di un affare inconfessabile? Chi sa, non parla: da quasi 28 anni. Quell’uomo? Preziosissimo. Un super-militare, con competenze Nato top secret. E’ ancora vivo? Invocano sue notizie, inutilmente, i familiari. E’ passato un quarto di secolo, e i militari tacciono. Un regista, Francesco Del Grosso, dopo 24 anni di silenzio decide di fare un film su quella storia, “Fuoco amico”. Ma alla vigilia delle riprese salta in aria la casa, esplode una finestra: solo per miracolo la ragazza, Erika, figlia dello scomparso, non viene investita dall’esplosione. Lei e sua madre devono smetterla di chiedere dov’è finito quell’uomo, l’enfant prodige della marina militare italiana. Sapeva rendere invulnerabile una nave da guerra. Era il mago dei missili Teseo-Otomat, che colpiscono a 180 chilometri di distanza. Era stato il più bravo, al corso d’élite frequentato a Taranto. Il miglior tecnico, imbarcato sulla miglior nave da battaglia italiana, la fregata Maestrale. Una sera è stato catturato. Sparito, inghiottito nel nulla. Lo Stato? Ha ostacolato il diritto alla verità. Lo afferma, oggi, la sentenza di una giudice, Maria Rosaria Covelli. Ma la verità è ancora lontana: che fine ha fatto Davide Cervia?

  • “Repubblica” in declino? Però ha vinto: ha spento la sinistra

    Scritto il 03/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Volano stracci tra Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, che forse vorrebbe liberarsi del giornale-partito nato nel 1976 «per traghettare la sinistra dall’ideologia sovietico-marxista a quella atlantico-liberale». Non è strano che saltino i nervi, scrive Federico Dezzani nella sua “breve storia, non ortodossa”, del secondo quotidiano italiano: “Repubblica” è scesa a poco più di 200.000 copie, contro le oltre 400.000 di appena sette anni fa, quando Ezio Mauro la schierò frontalmente nella battaglia contro Berlusconi. «Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana», scrive Dezzani nel suo blog. Nato «per affiancare “L’Unità”», quotidiano del Pci, «e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”», il giornale «cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2, poi assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica», quindi «assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd», e infine «detta l’agenda al governo se la sinistra vince le elezioni», oppure «guida l’opposizione antiberlusconiana, se la sinistra le perde».

  • Bin Laden massone, Kevin Spacey silurato dal Bohemian

    Scritto il 01/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    Tutti a gonfiare il coro istituzionale contro le cosiddette “fake news” provenienti dal web, ma tutti zitti se la valanga del gossip al veleno travolge un monumento del cinema come Woody Allen. O magari un altro big di Hollywood del calibro di Kevin Spacey, messo fuori gioco – combinazione – dopo che la seguitissima serie di cui era protagonista, “House of Cards”, un successo platenario, aveva appena evocato l’ombra del super-potere massonico dietro alla Casa Bianca. “Fake news”? Maneggiare con cura, specie se a bandire l’attuale crociata è questo mainstream reticente e asservito, negazionista e tendenzioso: stampa e network televisivi sono sempre stranamente “distratti” di fronte alle verità più imbarazzanti. Una delle peggiori? Osama Bin Laden socio dei Bush: non solo per affari di petrolio, ma anche di terrorismo. Possibile? «Eccome. Così com’è assolutamente pacifico il fatto che Bin Laden fosse massone». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014. Il capo di Al-Qaeda in grembiulino? «Senz’altro. Fu iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes” da quel grande stratega americano che fu Zbigniew Brzezinski, “mente” geopolitica dell’amministrazione Carter, poi “king maker” per l’elezione di Wojtyla al soglio pontificio e infine ispiratore della candidatura Obama».
    E’ un fiume in piena, Magaldi, nella diretta radiofonica “Massoneria on Air” ai microfoni di “Colors Radio” il 29 gennaio. «Scusi, ma lei come fa a dire che Bin Laden era massone?», lo incalza un ascoltatore. «Lo seppi direttamente da chi lo iniziò», risponde Magaldi: «Fu Brzezinski a rivelarmelo», mostrandogli anche la documentazione comprovante l’affiliazione di Bin Laden alla “Three Eyes”, superloggia neo-conservatrice alla quale, secondo Magaldi, appartengono eminenti figure dell’attuale panorama istituzionale – fra gli italiani, Mario Draghi e Giorgio Napolitano, insieme a Marta Dassù (Finmeccanica) e Gianfelice Rocca (Techint e Assolombarda), fino all’ex ministra renziana Federica Guidi. Un peso massimo, la “Three Eyes” (leader storico, Henry Kissinger) nell’ispirazione delle politiche neo-feudali e neoliberiste, fedelmente “eseguite” da personaggi come la francese Christine Lagarde (Fmi), l’americana Condoleezza Rice, il portoghese Pedro Passos Coelho, l’ex premier greco Antonis Samaras, l’olandese Mark Rutte. Ma Bin Laden? «Fu “reclutato” da Brzezinski per essere impiegato in Afghanistan in chiave anti-sovietica», poi però lo stesso Bin Laden lasciò la “Three Eyes”, spiazzando Brzezinski, per approdare alla “Hathor Pentalpha” fondata dai Bush.
    La “Hathor” è la “loggia del sangue della vendetta” sospettata di aver orchestrato il maxi-attentato dell’11 Settembre. Secondo Magaldi vi fanno parte l’inglese Blair, il francese Sarkozy, il turco Erdogan e lo stesso Abu Bakr Al-Bahdadi, il fantomatico capo dell’Isis, cioè l’ultima incarnazione della “strategia della tensione internazionale” che ha suscitato sconcerto persino tra i falchi della destra economica super-massonica. «Posso provare ogni mia affermazione, esibendo 6.000 pagine di documenti», assicura Magaldi. Qualcuno gliene ha fatto richiesta? Nessuno, mai. Silenzio assoluto, anche sui giornali, di fronte a notizie teoricamente esplosive, perché consentono di mappare il vero potere e smascherare molta ipocrisia ufficiale. Ma il mainstream, semplicemente, tace. Preferisce frugare tra le lenzuola di Woody Allen, fingendo di ignorare l’ipotesi più ovvia, «e cioè che Mia Farrow, moglie abbandonata, gli abbia “messo contro” i figli adottivi per metterlo in cattiva luce». Addirittura sinistro il caso di Spacey, anche lui accusato di molestie, dopo che “House of Cards” ha lasciato intravedere il ruolo del Bohemian Club, «nota associazione paramassonica mondialista che è lo schermo di alcune potentissime Ur-Lodges neo-aristocratiche».
    Per Magaldi, questo «nuovo maccartismo, di strano segno» non ha giustificazioni: «Le “bufale” esistono, per carità, ma – se costituiscono diffamazione – sono perseguibili per legge. Altra cosa, invece, è questo clima infame, da caccia alle streghe, degno dei regimi polizieschi di sovietica memoria: un metodo “perfetto”, per far fuori chiunque sia scomodo, prendendo per buone le accuse di qualcuno che ce l’ha con te e, per distruggerti, riesuma episodi vecchi di trent’anni. Hai voglia a difenderti in tribunale: finisci alla berlina all’istante, emarginato». Sta accadendo a Woody Allen, ormai in difficoltà con la distribuzione del suo ultimo film, anche per colpa di «attori anche mediocri, o magari vincitori di un Oscar proprio grazie a lui, che oggi lo scaricano in una gara di zelo verminoso, come fosse un appestato da mettere al bando». Il guaio? «Questo meccanismo, fondato sulla delazione indiscriminata e senza controllo, rende tutti più vulnerabili». Un sospetto: «Penso che alcune “manine” americane abbiano soffiato sul fuoco, per creare un clima adatto a eliminare personaggi non graditi al potere». “Manine” americane, fino agli esecutori italiani: «Da noi, grazie all’ineffabile Minniti, sarà la polizia – non la magistratura – a stabilire se una notizia web è vera o no. Siamo al Ministero della Verità di Orwell, sembra di tornare ai tempi dell’Inquisizione». E nel frattempo, silenzio di tomba sulle notizie più indigeste. Bin Laden? Ma certo, il fanatico islamico: il capo dei cattivi.

    Tutti a gonfiare il coro istituzionale contro le cosiddette “fake news” provenienti dal web, ma tutti zitti se la valanga del gossip al veleno travolge un monumento del cinema come Woody Allen. O magari un altro big di Hollywood del calibro di Kevin Spacey, messo fuori gioco – combinazione – dopo che la seguitissima serie di cui era protagonista, “House of Cards”, un successo platenario, aveva appena evocato l’ombra del super-potere massonico dietro alla Casa Bianca. “Fake news”? Maneggiare con cura, specie se a bandire l’attuale crociata è questo mainstream reticente e asservito, negazionista e tendenzioso: stampa e network televisivi sono sempre stranamente “distratti” di fronte alle verità più imbarazzanti. Una delle peggiori? Osama Bin Laden socio dei Bush: non solo per affari di petrolio, ma anche di terrorismo. Possibile? «Eccome. Così com’è assolutamente pacifico il fatto che Bin Laden fosse massone». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del besteller “Massoni” pubblicato da Chiarelettere a fine 2014. Il capo di Al-Qaeda in grembiulino? «Senz’altro. Fu iniziato alla Ur-Lodge “Three Eyes” da quel grande stratega americano che fu Zbigniew Brzezinski, “mente” geopolitica dell’amministrazione Carter, poi “king maker” per l’elezione di Wojtyla al soglio pontificio e infine ispiratore della candidatura Obama».

  • Il segreto di Renaissance, misteriosi matematici miliardari

    Scritto il 31/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (26)

    Renaissance Technologies, uno dei più prestigiosi hedge fund del mondo, ha guadagnato (e continua a farlo) montagne di soldi in Borsa grazie ad un algoritmo. La Renaissance è considerata la più grande macchina da soldi nella storia della finanza. Il segreto del successo del suo fondo, Medallion, risiederebbe in un codice di programmazione, «accompagnato da tanta omertà e da un serrato isolamento dei suoi impiegati dal mondo esterno», scrive “Money.it”. A nord di New York, in una cittadina isolata che prende il nome di East Setauket, la sede di Renaissance Technologies è completamente blindata e le telecamere sono ovunque. Dirigenti e dipendenti dell’hedge fund abitano tutti nei dintorni, in ville lussuose circondate da parchi così grandi da impedirne completamente la visione dalla strada. «Si tratta di una sorta di club privato: vivono tutti vicini e custodiscono insieme un segreto che li rende sempre più ricchi, giorno dopo giorno». La Renaissance è stata fondata negli anni ‘80 da James Simons, matematico di fama mondiale, già analista strategico della Nsa, cuore dell’intelligence Usa. «Fin dall’inizio, invece di preferire collaboratori che provenissero dal mondo della finanza, Simons ha optato per colleghi appartenenti al settore scientifico, tra cui 6/7 informatici che stavano lavorando al progetto Watsons, il programma di intelligenza artificiale di Ibm».
    Grazie alle conoscenze di matematici e informatici di alto livello, Renaissance Technologies è diventato un colosso finanziario senza uguali al mondo: fa molto meglio di personaggi come Ray Dalio e George Soros, con un patrimonio (nel 2015) di oltre 60 miliardi di dollari. L’importanza della Renaissance è confermata dalla giornalista Katherine Burton, di “Bloomberg”, tra le pochissime voci a far luce sulla realtà di questo hedge fund. Il funzionamento dei loro sistemi dipenderebbe da un algoritmo che sarebbe «tra i segreti meglio celati al mondo». Una setta esoterica di matematici pitagorici, hanno definito i misteriosi “uomini d’oro” della Renaissance: «Nessuno lascia quel posto di lavoro: per tenersi stretti i dipendenti è stato creato un fondo ad hoc a loro riservato». Da quando è nato, il fondo Medallion ha guadagnato in media il 40% l’anno. «Chi all’inizio ha investito 1.000 dollari, ora si ritrova in tasca circa 14 milioni». Il famoso “algoritmo misterioso” sfrutterebbe il “machine learning”, «una branca dell’intelligenza artificiale che affida ai computer la capacità di imparare da soli, senza il bisogno che siano programmati esplicitamente».
    Robert Mercer, che ha sostituito Simons alla guida del fondo, è un noto esponente dell’estrema destra americana. «Ha investito 11 milioni di dollari nel giornale online “Breitbart” ed è il fautore dell’applicazione del machine learning all’interno delle campagne elettorali», scrive “Money.it”. «Il banco di prova sono state le elezioni Usa nel 2016: non riusciamo ad immaginare quanti soldi abbia guadagnato Renaissance Technologies con l’“inaspettata” vittoria di Donald Trump». Senz’altro c’è di mezzo la fisica quantistica, il cui lontano antenato è probabilmente la proto-scienza alchemica, arte di cui era un maestro lo stesso Isaac Newton. Lo stesso nome, “Tecnologie del Rinascimento”, sembra amiccare al periodo di massima fioritura dell’esoterismo rosacrociano, ipotizza una ricercatrice indipendente come Lara Pavanetto. «La cosa che più di ogni altra sbalordisce, della Renaissance, è che non ne parla mai nessuno: è ricchissima e potentissima, ma sostanzialmente invisibile, inaccesibile ai media, lontanissima dal mondo dell’informazione finanziaria che invece, ogni giorno, dà conto delle imprese di Dalio, Soros e colleghi».
    Il fondo Medallion, scrive Pavanetto nel suo blog, è uno dei grandi misteri della finanza: secondo la leggenda, sarebbe nato da un investimento iniziale di appena 1000 dollari. «Gli investitori sono i dipendenti stessi della società, che gestisce altri tre fondi aperti a investitori istituzionali per un totale di 25 miliardi di dollari». La Renaissance Technologies è stata fondata dal matematico Jim Simons nel 1982. Simons è stato a capo del dipartimento di matematica dell’università di Stony Brook e professore anche al Mit e ad Harvard. Un’inchiesta di “Bloomberg” ha cercato di far luce su questa misteriosa entità, scoprendo che la società «è un avanzatissimo laboratorio di matematica, con computer, complesse basi statistiche e un esercito di laureati votati alla sistematica ricerca di anomalie sui vari mercati». Molti uomini della società “invisibile” sono acquartierati a sessanta miglia da Wall Street, vicino a Long Island. Palazzi da milioni di dollari, in un villaggio chiamato Old Field. «Gli abitanti del posto hanno però dato un altro nome a questo territorio: la Riviera del Rinascimento. Questo perché i più ricchi residenti della zona sono scienziati, e lavorano per Renaissance Technologies, con sede nella vicina East Setauket».
    Questi scienziati, per lo più matematici, «sono i creatori e sorveglianti del fondo più grande del mondo: Medallion», che ha circa 300 dipendenti, il 90% dei quali laureati in matematica. «Renaissance è la versione commerciale del Progetto Manhattan», spiega Andrew Lo, professore di finanza alla Sloan School of Management del Mit e presidente di AlphaSimplex, una società di “ricerca quantitativa”. Andrew Lo lavora per Jim Simons, per riunire tanti scienziati a caccia di profitti economici: «Questi matematici sono l’apice dell’investimento “Quant”. Nessun altro vi è nemmeno lontanamente vicino». Tutti hanno sentito parlare della Renaissance, ma quasi nessuno sa ciò che accade all’interno: «Ricordano i pitagorici, cioè una setta filosofica di matematici». Quasi nulla si sa di questo piccolo gruppo di scienziati, «il cui vasto patrimonio influenza sempre di più la politica degli Stati Uniti», scrive Pavanetto. Proprietari e dirigenti evitano le interviste. Il loro sembra un sistema unico al mondo, «per il genio e l’eccentricità della sua dirigenza». Esempio: «Peter Brown, uno dei boss, di solito dorme su un letto nel suo ufficio. Il suo omologo, Robert Mercer, raramente parla. I due sono laureati in matematica e teorici della famosa “teoria delle stringhe”».
    Il mistero dei misteri? «E’ il modo in cui Medallion è riuscito a garantire rendimenti annuali di quasi l’80 per cento in un anno, al lordo delle commissioni». La spiegazione? I computer di Renaissance “pensano”, oltre a fare calcoli. Gli uomini Renaissance hanno più dati e meglio organizzati. Dispongono di più indizi su cui basare le loro previsioni e vantano modelli migliori per l’allocazione del capitale. Prestano molta attenzione al costo dei vari trade e di come il trading si muova sui mercati. «Molti di questi scienziati sono partiti dalla Ibm nel lontano 1980, dove hanno usato l’analisi statistica per affrontare le sfide più scoraggianti all’epoca pionieristica dei computer». Tuttavia, aggiunge Pavanetto, non è chiaro come sia possibile che nessuna informazione sia mai trapelata, in un mondo come quello dell’alta finanza, dove molti modelli sono simili e i dipendenti migrano da un hedge fund all’altro, dalla Goldman Sachs alla Jp Morgan. Invece da Renaissence non se ne è andato mai nessuno, o se qualcuno l’ha fatto è rimasto muto come una tomba. Non c’è fuga di segreti perché, davvero, a guadagnarci sono solo i dipendenti?
    Se così fosse, secondo Lara Pavanetto si paleserebbe un mistero ancora più grande: «Il modello avrebbe forti dosi di componenti deterministiche e le ottimizzazioni stocastiche interverrebbero solo nella parte residuale di un ipotetico “decision tree”, il che violerebbe il principio della aleatorietà dei mercati». Come dire che alla Reinassence sarebbero in possesso della legge deterministica dei mercati. «Un cosa che somiglierebbe molto alla “pietra filosofale”, tenendo conto che tale modello sarebbe stato concepito in un’epoca in cui le capacita computazionali erano un’infinitesimo di quanto lo sono oggi». Pochi sanno che James Simons, il fondatore di Reinassence, all’inizio della sua carriera fu un crittografo, sottolinea Pavanetto. Simons lavorò per la difesa degli Stati Uniti prima di essere licenziato, apparentemente, per il suo dissenso (a mezzo stampa) sulla Guerra del Vietnam. «Fece i suoi soldi inizialmente tramite un investimento in Colombia, e poi con il fondo Limroy, un precursore del fondo Medallion. Ha sempre reclutato personale che non ha mai lavorato a Wall Street. I suoi investitori inizialmente furono gente come Jimmy Meyer, uno dei più vecchi amici di Simons, e Edmundo Esquenazi, uomo d’affari di origine ebraica che fondò società emblematiche come Pavco, Mexichem Resinas Colombia (ex Petco) e Propilco».
    Ma il nome di Simons, continua Pavanetto, sarebbe anche legato all’affare Madoff, la truffa dello schema Ponzi (il cui nome viene da quello di un immigrato italiano che, agli inizi del Novecento, per primo lo mise in atto su grande scala). Il gioco: promettere agli investitori alti guadagni ma in modo fraudolendo, cioè pagando coi soldi dei nuovi investitori gli interessi maturati dai vecchi investitori. «La truffa consisteva nel fatto che Madoff versava l’ammontare degli interessi pagandoli con il capitale dei nuovi clienti. Il sistema saltò nel momento in cui i rimborsi richiesti superarono i nuovi investimenti». Nell’ultimo periodo le richieste di disinvestimento avevano raggiunto i 7 miliardi di dollari, al punto che Madoff non fu più in grado di onorare la remunerazione degli interessi promessi. Attenzione: «La dimensione della truffa messa in piedi da Madoff è almeno tre volte più grande dell’ammanco causato dal crac Parmalat». Dopo averli ascoltati, la Sec (autorità di vigilanza finanziaria) ha poi deciso di non procedere contro molti “senior partners” della Reinassence come Paul Broder, Henry Laufer, Nat Simons (figlio di Jim), Jimmy Meyer e vari “portfolio managers” del Meritage Fund, “gemello” di RenTech, uno dei fondi Reinassence.
    «Ciò che sorprende di più – scrive Pavanetto – è che la Renaissance Technologies non ha mai fatto cenno alla Sec», anche se Jimmy Meyer era «uno dei più vecchi amici di Jim Simons». Altra stranezza, infine: le strane morti attorno al mondo Reinassance. Due dei quattro figli dello stesso Jim Simons perdono la vita prematuramente Paul Simons muore nel 1996 investito da un’auto e suo fratello Nicholas annega nel 2003 nelle acque di Bali. Tre anni dopo, nel 2006, Alexander Astashkevich, impiegato (russo) di RenTech, uccide se stesso e sua moglie. Nel 2014 viene trovato impiccato William Broeksmit, un dipendente della Deutsche Bank che gestiva le opzioni di paniere di RenTech oggetto dell’investigazione americana Irs. «Le e-mail di Broeskmits che spiegavano l’uso del commercio da parte di RenTech sono state fornite agli investigatori statunitensi prima della sua morte», scrive Pavanetto, che cita anche l’ultima delle “strane morti”, quella di Scott Christianson, avvocato e giornalista, deceduto il 14 maggio 2017 “cadendo dalla scala di casa” doppo aver pubblicato, con il collega Greg Gordon, «un’indagine approfondita sui legami tra il presidente Donald Trump e il magnate dell’hedge fund Medallion Robert Mercer».

    Renaissance Technologies, uno dei più prestigiosi hedge fund del mondo, ha guadagnato (e continua a farlo) montagne di soldi in Borsa grazie ad un algoritmo. La Renaissance è considerata la più grande macchina da soldi nella storia della finanza. Il segreto del successo del suo fondo, Medallion, risiederebbe in un codice di programmazione, «accompagnato da tanta omertà e da un serrato isolamento dei suoi impiegati dal mondo esterno», scrive “Money.it”. A nord di New York, in una cittadina isolata che prende il nome di East Setauket, la sede di Renaissance Technologies è completamente blindata e le telecamere sono ovunque. Dirigenti e dipendenti dell’hedge fund abitano tutti nei dintorni, in ville lussuose circondate da parchi così grandi da impedirne completamente la visione dalla strada. «Si tratta di una sorta di club privato: vivono tutti vicini e custodiscono insieme un segreto che li rende sempre più ricchi, giorno dopo giorno». La Renaissance è stata fondata negli anni ‘80 da James Simons, matematico di fama mondiale, già analista strategico della Nsa, cuore dell’intelligence Usa. «Fin dall’inizio, invece di preferire collaboratori che provenissero dal mondo della finanza, Simons ha optato per colleghi appartenenti al settore scientifico, tra cui 6/7 informatici che stavano lavorando al progetto Watsons, il programma di intelligenza artificiale di Ibm».

  • Borsa nera, come in guerra, dopo l’abolizione del contante

    Scritto il 22/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    In un paper pubblicato lo scorso marzo, Alexei Kireyev del Fondo Monetario Internazionale consiglia di abolire il denaro contante senza informare i cittadini. Inizialmente bisognerebbe ritirare dalla circolazione le banconote di grosso taglio, quindi devono essere imposti i limiti sulle transazioni in contanti, poi il sistema finanziario mondiale deve essere informatizzato e messe sotto controllo le transazioni internazionali in contanti e, infine, le imprese private devono essere incoraggiate ad evitare operazioni in contanti. Kireyev si basa sulle idee dell’ex capo del Fmi Kenneth Rogoff. Nel suo libro del 2016 “The Curse of Money”, raccomanda l’abolizione del contante, perché, a suo parere, ciò contribuirebbe alla lotta contro la criminalità, l’evasione fiscale e la riduzione del settore sommerso. La Bce lo ha subito sostenuto e ha promesso di non stampare la banconota da 500 euro dopo il 2018. Il governo dell’India ha fatto la stessa cosa: nel novembre 2016 ha inaspettatamente messo fuori corso, da un giorno all’altro, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie – un bel colpo contro l’economia in nero e la corruzione! Il giorno seguente, sulle strade dell’India regnava il caos – folle di persone davanti a banche, sportelli bancomat vuoti – tutti volevano ritirare i propri soldi, scambiare le vecchie rupie con quelle nuove e valide, e ci sono state anche delle vittime.
    Gli altri governi hanno subito seguito con entusiasmo le idee dei grandi guru dell’economia, senza curarsi di ciò che stava accadendo nelle strade indiane: l’Australia vuole ritirare dalla circolazione le sue banconote da 100, e il Venezuela ha già abolito la banconota da 100 bolivar. Francia, Italia, Spagna e Grecia hanno già dei limiti massimi per i prelievi di contante e in Germania è attualmente in discussione un tetto di Eur 5000. In alcuni paesi, l’abolizione del contante sta diventando un mezzo di lotta politica. In Polonia, il primo ministro Mateusz Morawiecki ha introdotto i pagamenti cashless al servizio postale pubblico. Presto sarà anche possibile pagare le multe direttamente alla pattuglia della polizia. Probabilmente, non tutti i politici polacchi vanno pazzi per l’idea che i funzionari non entrino in contatto con denaro contante – ad esempio il capo della Banca nazionale polacca Adam Glapiński, che ha contemporaneamente introdotto la nuova banconota da 500 zloty. L’abolizione del contante è solo un passo sulla strada verso una follia ancora peggiore: Kenneth Rogoff ha altre insane idee da vendere. La più assurda: ha raccomandato ai politici europei gli interessi negativi, sulla base del fatto che si renderanno comunque necessari quando verrà la prossima crisi.
    Ricordiamo al lettore che il tasso di interesse negativo trova il suo limite nel contante. Se l’interesse diventa troppo negativo, i risparmiatori si rifugeranno nel contante. Quali conseguenze avrebbe la sua idea se fosse implementata? Cosa accadrebbe se fossero introdotti tassi di interesse negativi? I risparmi dai conti correnti confluirebbero verso beni tangibili, specialmente gioielli, lingotti d’oro e altri metalli preziosi. I loro prezzi salirebbero a livelli senza precedenti, così come l’inflazione guidata dalla speculazione. A ciò si aggiungerebbe l’aumento dei prezzi degli immobili, in quanto le persone preferiscono investire nelle case piuttosto che in inutili carte di credito. Il baratto e il mercato nero prospererebbero come in tempo di guerra: si otterrebbe l’opposto di ciò che si desidera. E i criminali e i politici corrotti troverebbero certamente un altro mezzo di scambio per condurre i loro affari – è noto che i commercianti di armi e i gruppi terroristici pagano con diamanti.
    L’abolizione del contante e l’introduzione del tasso di interesse negativo colpirebbero solo i cittadini ordinari, rendendoli in qualsiasi momento completamente trasparenti di fronte alle autorità – dopotutto, è più facile controllare e influenzare persone assolutamente trasparenti, la cui intera vita può essere tracciata da un estratto conto. I famosi economisti, banchieri e uomini di governo dimenticano che il contante non può essere abolito, solo la moneta stampata dalle banche centrali può essere abolita. Fanno i conti nelle loro torri d’avorio senza considerare l’oste, i cittadini ordinari. I cittadini si indigneranno e scenderanno in piazza, come hanno fatto dopo l’abolizione delle banconote in India. Alla fine troveranno delle valute alternative per condurre i loro affari, liberi dall’interferenza del governo. Ma ai guru economici non interessa – l’esperimento sulla popolazione è l’unica cosa che conta per loro, anche a costo di mietere vittime.
    (“Cittadini trasparenti, tassi di interesse negativi e altre folli idee degli ‘esperti’ in economia”, da Gifra.org del 15 dicembre 2017, post tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    In un paper pubblicato lo scorso marzo, Alexei Kireyev del Fondo Monetario Internazionale consiglia di abolire il denaro contante senza informare i cittadini. Inizialmente bisognerebbe ritirare dalla circolazione le banconote di grosso taglio, quindi devono essere imposti i limiti sulle transazioni in contanti, poi il sistema finanziario mondiale deve essere informatizzato e messe sotto controllo le transazioni internazionali in contanti e, infine, le imprese private devono essere incoraggiate ad evitare operazioni in contanti. Kireyev si basa sulle idee dell’ex capo del Fmi Kenneth Rogoff. Nel suo libro del 2016 “The Curse of Money”, raccomanda l’abolizione del contante, perché, a suo parere, ciò contribuirebbe alla lotta contro la criminalità, l’evasione fiscale e la riduzione del settore sommerso. La Bce lo ha subito sostenuto e ha promesso di non stampare la banconota da 500 euro dopo il 2018. Il governo dell’India ha fatto la stessa cosa: nel novembre 2016 ha inaspettatamente messo fuori corso, da un giorno all’altro, tutte le banconote da 500 e 1000 rupie – un bel colpo contro l’economia in nero e la corruzione! Il giorno seguente, sulle strade dell’India regnava il caos – folle di persone davanti a banche, sportelli bancomat vuoti – tutti volevano ritirare i propri soldi, scambiare le vecchie rupie con quelle nuove e valide, e ci sono state anche delle vittime.

  • Denaro, potere, guerra: seguite i soldi, quelli dei Rothschild

    Scritto il 20/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.
    Il ragazzo crebbe al numero 148 di quella Judengasse (la “via degli Ebrei”), in cui si trovava la bottega del padre, che lo lasciò orfano a dodici anni. Meyer Amschel cominciò così a prendersi cura dei suoi fratelli mettendo a frutto la sua abilità di conoscitore di monete antiche, abilità che lo portò a diventare presto consulente e fornitore di importanti collezionisti. In virtù di questo successo decise di abbandonare il pesante soprannome (“Bauer” significa contadino ed era quindi troppo svilente), mantenendo solo il cognome Rothschild, derivante dall’espressione “Rot Schild”, ossia Scudo Rosso, dalla forma dell’insegna che campeggiava sull’antica bottega di famiglia. A venticinque anni il suo principale cliente era già il Langravio di Assia-Kassel, Guglielmo IX. A presentargli il futuro principe elettore fu probabilmente il generale Emmerich Otto August Von Estorff (1722-1796), conosciuto negli anni precedenti, quando Meyer faceva il cassiere nella banca dei ricchissimi Oppenheimer, ad Hannover. Von Estorff  (che nel 1764 aveva fatto affari fondando una società agricola a Celle, in Bassa Sassonia), era un estimatore di quel giovane che aveva saputo curare con profitto i suoi interessi, mettendosi contemporaneamente in luce nella stessa banca in cui lavorava, al punto di riceverne in premio un certo numero di azioni.
    Guglielmo IX era molto ricco, anche grazie alla consuetudine – tipica dei principi tedeschi dell’epoca – di “noleggiare” come mercenari ai sovrani stranieri i suoi soldati migliori, ricavandone notevoli profitti economici. Gli affari migliori li aveva fatti con il Re d’Inghilterra, a cui aveva affittato le sue truppe per supportarlo contro le colonie americane ed il loro generale George Washington. Quella ricchezza andava investita ed accresciuta. E Meyer era l’uomo giusto. Il rapporto col principe fruttò molto. Guglielmo IX vide aumentare il proprio capitale grazie agli investimenti che il suo consulente finanziario effettuava per suo conto, soprattutto in ambito militare. In compenso Meyer Amschel, potendo contare sulle conoscenze giuste, riuscì ad aprire una sua banca a Francoforte. Da Gutele Schnapper – figlia di un mercante ebreo, che lo aveva sposato, a diciassette anni, nell’agosto del 1770 – ebbe dieci figli: cinque femmine e cinque maschi (anche gli Schnapper erano una famiglia antichissima, imparentata anch’essa con quella dei Worms). Nelle mani dei suoi cinque figli (nell’ordine: Amschel, Salomon, Nathan, Karl e Jakob Meyer), Meyer Amschel avrebbe consegnato la sua fortuna.
    Un importante biografo della famiglia, H. R. Lottman, sostiene che delle femmine non ci siano giunti nemmeno i nomi. In realtà sappiamo che le cinque fanciulle si chiamavano Schönche Jeanette, Isabella, Babette, Julie e Henriette, ma la consuetudine di non divulgare molto l’identità delle femmine della famiglia fu spesso osservata scrupolosamente, poiché proprio attraverso di loro i Rothschild si imparentarono con le altre importanti dinastie ebree d’Europa, facendole sposare a volte con i figli delle figlie di altri uomini di potere il cui cognome, in quel modo, non potesse venir direttamente collegato al loro. Oppure, come vedremo, maritandole con altri Rothschild, quando ciò si rendeva necessario per mantenere in famiglia titoli e capitali. Il matrimonio più rilevante, tra quelli delle figlie di Amschel, fu probabilmente quello che toccò ad Henriette, andata in sposa ad Abraham Montefiore, membro della potente famiglia ebrea londinese emigrata a Livorno e zio di quel ricchissimo Moses Montefiore, imprenditore di successo e futuro filantropo ed attivista per la causa sionista.
    A rafforzare l’unione tra le due importanti famiglie ebraiche, il matrimonio tra Nathan e la cognata di Moses, Hannah Cohen, futura cugina di terzo grado di Karl Marx (che sarebbe nato dodici anni dopo il matrimonio). Un’unione che diede il via ad un imponente sodalizio finanziario tra i Rothschild ed i Montefiore, a cominciare dalla compagnia di assicurazione Alliance (l’attuale Rsa – Royal & Sun Alliance, une delle più grandi multinazionali assicurative del mondo), che i due fondarono nel 1824. Appena furono indipendenti, i figli maschi vennero mandati ad aprire nuove filiali della banca del padre nelle più importanti città europee. Anche se la tradizione sostiene che l’ideatore di questa dispersione sia stato papà Meyer Amschel, stando alle date, a qualche studioso sembra più credibile che tale provvedimento sia stato preso da Nathan, il primo figlio ad accumulare forti ricchezze, stabilitosi a Londra già dal 1805. Ad ogni modo solo il primogenito, Amschel, fu trattenuto a Francoforte come principale collaboratore e poi successore del genitore. Salomon fu inviato a Vienna, Karl (il cui vero nome era Calmann Meyer), a Napoli e Jakob, resosi poi celebre con il nome “James”, a Parigi.
    Dal gennaio del 1800, grazie al rapporto privilegiato con il Casato di Assia, i nostri banchieri erano diventati agenti dell’imperatore d’Austria. Il loro prestigio, negli anni, crebbe a dismisura, soprattutto a causa della loro straordinaria abilità nel trasferire merci e fondi di principi e Re – usufruendo il più possibile di lettere di cambio – soprattutto tra l’Europa continentale e l’Inghilterra. E ciò, incredibilmente, anche in situazioni di emergenza, come nei casi in cui le nazioni interessate si trovavano nel bel mezzo di una guerra. Situazione, questa, che spesso vedeva schierate l’una contro l’altra le nazioni in cui si trovavano le cinque agenzie dei Rothschild. Gli affari dei cinque fratelli cominciarono a diventare determinanti, all’interno dello scenario politico internazionale. Un esempio fra tutti. Lo storico Jean Bouvier nel suo “Les Rothschild” (Edition Complexe, 1983), ha giustamente sostenuto che Napoleone sia stato sconfitto su un campo di battaglia prettamente finanziario. Ebbene, già dietro la sconfitta di Waterloo del grande imperatore francese c’è lo zampino dei Rothschild. Furono loro, infatti, a finanziare le operazioni militari del duca di Wellington che portarono alla vittoria dell’esercito inglese. Esattamente come, dopo l’uscita di scena di Napoleone, erogarono i prestiti per la restaurazione, in Francia, del potere di Luigi XVIII.
    Ma non basta. Il Langravio di Assia, negli ultimi anni del potere di Napoleone, aveva tergiversato chiedendosi se convenisse di più schierarsi con Bonaparte o con le molteplici coalizioni realizzatesi contro di lui. Napoleone non glielo aveva perdonato, ed era piombato sull’elettorato, occupandolo e spedendo il Langravio in esilio. In quella circostanza Amschel Meyer aveva esibito tutto il suo opportunismo, continuando in segreto ad aiutare finanziariamente l’esule Guglielmo (con l’aiuto di Nathan, che aveva custodito i risparmi del principe sottraendoli alla razzia napoleonica e, nel frattempo, utilizzandoli per comprare oro per un valore di 800 mila sterline) e, contemporaneamente, intraprendendo nuovi proficui affari con i francesi, ingraziandoseli al punto di ottenere che venisse sancita la parità di diritti tra gli abitanti del ghetto ed il resto della popolazione dell’Assia, e ciò in cambio del versamento di una somma pari a ben vent’anni di imposte! E ciò, si noti bene, nonostante l’imperatore fosse determinato ad arrestare in tutti i modi il processo di emancipazione degli ebrei innescato dalla Rivoluzione Francese. Dal marzo 1810, poi, Jakob si era trasferito a Parigi in modo definitivo, e gli affari con l’imperatore erano diventati una prassi quotidiana.
    D’altra parte, negli anni precedenti, aveva improvvisamente moltiplicato le sue ricchezze ed il suo potere grazie ad un affare di cui gli storici tradizionali non hanno mai parlato, ma che lo studioso “non allineato” Vittorio Giunciuglio (nel suo “Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo”, 1994), ha spiegato molto bene in seguito alle sue lunghe ricerche su Cristoforo Colombo. James, infatti, aveva ricevuto da Napoleone l’incarico di smerciare le migliaia di lingotti d’oro sottratti al rivale Banco di San Giorgio, istituto finanziario genovese importantissimo, nonché prima banca della storia europea. Il Banco conteneva, oltre ai depositi della corona francese, su cui la Repubblica voleva mettere le mani, niente meno che l’immensa ricchezza di Colombo, accumulata in tutti i suoi viaggi. Genova era stata occupata dai francesi proprio per metter fuori combattimento e depredare quello che costituiva il principale rivale della Banca Rothschild. Una fortuna smisurata, che aveva successivamente trasformato James in uno degli uomini più importanti del mondo.
    Ma al di là dei lingotti genovesi, Napoleone sapeva pochissimo del resto degli affari di James. Il quale, in quella nuova sede, aveva potenziato enormemente il traffico di oro ed effetti bancari tra Inghilterra, Francia e resto d’Europa, facendo trasportare il metallo prezioso in vagoni  con scomparti segreti e, quando risultava impossibile occultare tali traffici, riuscendo a convincere il ministro napoleonico delle finanze Mollien che il flusso d’oro verso Londra giocasse un ruolo favorevole alla Francia, comportando di fatto un forte indebolimento economico per l’Inghilterra. In pratica i Rothschild stavano facendo affari con dominati e dominatori, vincitori e sconfitti. E nessuno l’aveva davvero capito. Una prassi che, come vedremo, la famiglia saprà consolidare nel tempo. Si racconta che Amschel Meyer, deceduto il 12 settembre 1812, sul letto di morte abbia diviso il mondo tra i suoi cinque figli. Sta di fatto che questi sono gli anni dell’irrefrenabile ascesa di Jakob, ribattezzatosi James. Con la prima sconfitta di Napoleone a Waterloo egli riuscì a registrare la sua banca presso il tribunale di Parigi e ad accogliere, grazie a Nathan, la valuta inglese necessaria per finanziare la salita al trono di Luigi XVIII.
    Fu il suo primo contratto con un Re. All’età di ventun anni il nostro James vantava un giro d’affari superiore al milione di franchi, l’equivalente di circa cinque milioni di euro attuali. Nel frattempo Bonaparte il 26 febbraio 1815 fuggiva dall’isola d’Elba con cinquecento uomini. Nemmeno un mese dopo, la sera del 20 marzo, sedeva già al posto di comando, presso la residenza delle Tuileries, ma ancora una volta James non si perse d’animo. Non sappiamo che rapporto intercorse tra l’imperatore ed il banchiere in quei leggendari successivi Cento giorni, ma è un dato di fatto che l’esito della battaglia campale di Waterloo sia arrivata alle orecchie dei Rothschild prima che a quelle di chiunque altro. La leggenda vuole che James abbia seguito le operazioni militari da un’altura ed abbia subito informato il fratello Nathan a Londra – che per finanziare le truppe inglesi aveva trasferito nel continente lingotti d’oro per un valore di 15 milioni di sterline tra il 1813 ed il 1815, di cui 6 milioni soltanto tra il gennaio ed il giugno dell’ultimo anno – ottenendo in quel modo guadagni eccezionali in ambito finanziario. Secondo un’altra versione Nathan sarebbe stato informato dal suo agente di Ostenda, Rowerth.
    Il Lottman – in generale sempre molto “fiducioso” nelle qualità morali e civili della famiglia – così scrive: «In realtà il servizio di informazioni dei Rothschild, che con la consueta efficienza collegava i punti chiave del continente servendosi di battelli e diligenze, portò a Nathan la notizia prima che arrivasse a chiunque altro; ma egli, da buon suddito del Re qual era, ne informò immediatamente il governo inglese. I Rothschild diventarono ancora più ricchi, ma non furono gli unici beneficiari della vittoria». Nel 1816, grazie alle pressioni esercitate da Metternich, i Rothschild ottennero dall’Imperatore d’Austria il titolo di baroni; un riconoscimento estremamente inusuale, mai concesso a commercianti, per giunta ebrei. Il titolo andò a tutti i fratelli tranne Nathan, che in qualità di suddito britannico non poteva ottenere un’onorificenza austriaca. James, barone a soli ventiquattro anni, largheggiò permettendosi di invitare a cena lo stesso Metternich o il duca di Wellington. Divenne amico e consulente finanziario del duca d’Orleans, futuro Luigi Filippo, Re dei francesi, che una volta sul trono non si sarebbe certo dimenticato dei favori del barone. Il tutto visto non proprio di buon occhio dalle varie comunità ebraiche europee, cui non sfuggiva l’alleanza tra i ricchissimi banchieri semiti ed i loro potentissimi, aristocratici persecutori.
    (Pietro Ratto, “Rothschild, il nome impronunciabile”, dal newsmagazine “InControStoria”. Ratto è autore del saggio “I Rothschild e gli altri”, Arianna editrice, 160 pagine, euro 9,80).

    Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.

  • Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti

    Scritto il 17/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.

  • Razziare l’Africa: un Piano Marshall la indebiterà per sempre

    Scritto il 09/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Aiutiamoli a casa loro (a indebitarsi per l’eternità), con un maxi-prestito da 500 miliardi. «Senza un grande Piano Marshall per l’Africa – dice Berlusconi – l’Europa corre il rischio di essere invasa dai sei miliardi di persone che vivono nella miseria». Dove trovare i soldi? A finanziare sarebbe la Bei (Banca Europea degli Investimenti). Poi potrebbero intervenire il Trust Fund di La Valletta e il Consiglio Europeo con il Migration Framework, scrive “Rischio Calcolato”. «A Bruxelles si discute, ma il progetto è partito. Alla fine anche il vecchio Piano Marshall stesso sapeva che si sarebbero generate delle perdite, ma l’Italia e la Germania sono dell’idea di mettere in piedi un piano di sviluppo, una politica di investimenti che possa funzionare per contenere il flusso migratorio». Il piano, aggiunge il blog, prevede di coinvolgere investimenti privati e aiuto pubblico per lo sviluppo: un External Investment Plan che attrae i privati e fornisce a questi ultimi le garanzie sulle eventuali perdite. L’Africa non è solo una priorità strategica per economia e sicurezza: il piano è ottimo per “salvarci” da migranti economici, estremismo e terrorismo. «Per ironia della sorte è necessario allargare la platea, creare nuovi potenziali da sfruttare a cui sottrarremo il futuro».
    Se in una società non esiste più una classe da indebitare “a vita” per beni e necessità che consumiamo “adesso”, scrive “Rischio Calcolato”, si può intuire che il nuovo Piano Marshall, puro «colonialismo velato», è destinato a indebitare milioni di africani. «La politica – sostiene il blog – ha capito che non ci sono più abbastanza dominati a cui sottrarre il futuro, in Italia non ci sono rimasti giovani per produrre “domani” la ricchezza che noi abbiamo bisogno/voglia di consumare “oggi”». Dunque sarebbe un piano dove investire e imporre uno sviluppo, almeno per arginare la crisi. «Per trattare la questione dei flussi bisogna investire, spesso la cooperazione è inutile se le rimesse degli immigrati superano quest’ultima». Grazie all’economia dei paesi Ocse ad alto reddito, spiega la Banca Mondiale, le rimesse verso l’Africa subsahariana dovrebbero aumentare di un robusto 10% fino a 38 miliardi di dollari quest’anno. «I maggiori paesi riceventi le rimesse della regione, Nigeria, Senegal e Ghana, sono pronti per la crescita. La regione ospita anche una serie di paesi in cui le rimesse rappresentano una quota significativa del Pil, tra cui la Liberia (26%), le Comore (21%) e il Gambia (20%). Le rimesse cresceranno da un moderato 3,8% a 39 miliardi di dollari nel 2018».
    Il 29 e 30 novembre 2017 si è svolto in Costa d’Avorio il vertice Ue-Unione Africana per decidere il futuro dei rapporti tra i due continenti e porre le basi del nuovo partenariato tra Europa e Africa. I promotori del nuovo Piano Marshall hanno capito che bisogna investire perché «i problemi dell’Africa sono, anche, i problemi dell’Europa». Quindi, tramite le varie leve e sinergie con la Bei, si possono investire circa 500 miliardi. Dove guadagnarci? «Alle multinazionali – anche italiane – si offre l’occasione di fare affari con i sieropositivi, con le persone che muoiono di malaria, con le carenze di vitamina A e proteine che provocano circa 500mila casi di cecità ogni anno», scrive ancora “Rischio Calcolato”, che teme che «ci verrà concesso di scatenarci maggiormente con il land-grabbing, seguendo le nuove regole del neo-colonialismo», puntando a saccheggiare i suoi fertili. «Il bello di questo Piano Marshall proposto è che si può finanziare semplicemente stampando simpatici “foglietti di carta”». In compenso, l’Africa «ci ripagherà fornendoci materie prime come: neodimio, cobalto, nichel, manganese», che verranno rivendute alle industrie europee dei semiconduttori. «Con il vecchio sistema geniale di indebitarli massicciamente “direttamente a casa loro” ci si guadagna due volte», osserva “Rischio Calcolato”: «Le classi agiate che emergeranno – da questa operazione – manderanno i figli a studiare in Europa, nel frattempo il piano provvede all’interruzione di esportazione di migranti economici, e incrementa una massa elevata di nuovi debitori freschi freschi».

    Aiutiamoli a casa loro (a indebitarsi per l’eternità), con un maxi-prestito da 500 miliardi. «Senza un grande Piano Marshall per l’Africa – dice Berlusconi – l’Europa corre il rischio di essere invasa dai sei miliardi di persone che vivono nella miseria». Dove trovare i soldi? A finanziare sarebbe la Bei (Banca Europea degli Investimenti). Poi potrebbero intervenire il Trust Fund di La Valletta e il Consiglio Europeo con il Migration Framework, scrive “Rischio Calcolato”. «A Bruxelles si discute, ma il progetto è partito. Alla fine anche il vecchio Piano Marshall stesso sapeva che si sarebbero generate delle perdite, ma l’Italia e la Germania sono dell’idea di mettere in piedi un piano di sviluppo, una politica di investimenti che possa funzionare per contenere il flusso migratorio». Il piano, aggiunge il blog, prevede di coinvolgere investimenti privati e aiuto pubblico per lo sviluppo: un External Investment Plan che attrae i privati e fornisce a questi ultimi le garanzie sulle eventuali perdite. L’Africa non è solo una priorità strategica per economia e sicurezza: il piano è ottimo per “salvarci” da migranti economici, estremismo e terrorismo. «Per ironia della sorte è necessario allargare la platea, creare nuovi potenziali da sfruttare a cui sottrarremo il futuro».

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