Archivio del Tag ‘Brics’
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Escobar: a crollare non è la Cina, ma il delirio neoliberista
Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».La secca correzione a Shanghai/Shenzhen è parte della fine di un ciclo, chiarisce Escobar: diciamo pure addio alla Cina che faceva affidamento su tassi di investimento pari al 45% del Pil, e diciamo addio anche alla insaziabile richiesta cinese di beni. Il problema dell’aggiustamento del modello economico cinese, osserva il giornalista, è direttamente connesso all’ininterrotto stato comatoso del disordine neoliberale, che si protrae fin dal 2007/2008. «Non serve essere Paul Krugman per sapere che la nuova normalità è un mercato globale anemico: una crisi profonda in tutti i mercati emergenti, la stagnazione con recessione dell’Europa e la “fabbrica del mondo” cinese che non riesce a vendere quanto faceva prima. Nel frattempo, l’ipervalutato dollaro Usa sta uccidendo le esportazioni statunitensi, scese del 3% nel solo primo semestre. Anche le importazioni sono calate del 2.2%, il che dimostra la riduzione del potere d’acquisto della classe media, dovuta alla corrosione strutturale dell’economia statunitense».Ovunque ci si volti, continua Escobar, tutto lo scenario strutturale grida alla crisi del disordine neoliberale: «Quando il motore turbo-capitalista cinese incontra problemi, si dimostra palesemente come il casinò della finanza mondiale non abbia alcun tipo di supporto da nessun altra parte». Infatti, più di 5 trilioni di dollari di denaro virtuale sono stati bruciati da quando Pechino ha (moderatamente) svalutato lo yuan l’11 di agosto – innescando la vendita di massa. «Ora la Fed potrebbe posticipare alla fine del 2015 l’innalzamento dei tassi d’interesse, per la prima volta in quasi 10 anni. Nessuno si azzarda a predire uno scenario di rosea crescita, considerando la forza del dollaro, lo yuan moderatamente svalutato e una continua discesa dei prezzi del greggio». Eppure, «contrariamente a quanto sostengono le previsioni/speranze dell’Occidente, la Cina non sta implodendo». Lo dimistrano le ultime analisi diffuse da Credit Suisse: «La Cina continua ad avere un surplus molto ‘in salute’, le sue riserve di capitali sono ancora parzialmente bloccate e le sue maggiori istituzioni finanziarie sono in larga parte di proprietà dello Stato».Questi fattori, aggiunge la banca svizzera, darebbero alle autorità monetarie di Pechino lo spazio di azione per creare liquidità nel sistema, in caso ce ne fosse bisogno. Ciò che accade è che «la crescita strutturale della Cina continuerà a rallentare nei prossimi anni». Non ci sarà un «innesco del crollo del credito», e quindi «il sistema finanziario e il regime di cambio potrebbero essere mantenuti relativamente stabili». Tuttavia, sperare che gli introiti e i guadagni delle imprese cinesi ritornino ai livelli di alcuni anni fa «non è realistico». Ma, essenzialmente, «la paura di un ripetersi del crollo dei mercati asiatici del 1997 o della crisi mondiale del 2008 non è giustificata». In conclusione, Credit Suisse invita a mantenere la calma: «Gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle azioni dei mercati cinesi e di Hong Kong che hanno forti micro-fondamentali e sono meno dipendenti dalla crescita economica cinese, ma che sono state affossate dalla recente debolezza dei mercati».Quindi, dal punto di vista di Pechino, tutto è abbastanza sotto controllo. «Ancora una volta: in termini globali, quest’ultima bolla del casinò della finanza non è nemmeno lontanamente paragonabile alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998. Piuttosto, continuano a persistere i segnali di una ininterrotta e ricorrente debolezza dei mercati considerata la nuova normalità, da affiancare al rifiuto categorico da parte di Wall Street di dare una forte regolamentazione alla finanza», scrive Escobar. La palla ora è nel campo della Fed: cosa fare riguardo lo tsunami delle valute straniere che fanno salire il dollaro, rendendo non competitiva l’industria statunitense? L’era delle banche centrali che stampano valuta virtuale a basso costo, per conferire “volatilità del mercato”, potrebbe non essere finita. «Le banche centrali adorano mandare al rialzo i prezzi dei mercati azionari per il beneficio dello 0.0001%, per cui aspettiamoci altre delusioni in futuro, con la certezza che tutto ciò che è solido evaporerà, insieme al sogno neoliberale».Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».
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Giulietto Chiesa: è arrivata la bufera, a lungo annunciata
Alcuni mesi orsono, il giornalista e uomo politico Giulietto Chiesa ha pubblicato per i tipi di Piemme Edizioni il volume “E’ arrivata la bufera”. Quest’opera contiene la riproposizione del saggio intitolato “Invece della Catastrofe”, oltre ad un lungo articolo dedicato ai fatti parigini di inizio gennaio 2015, ovvero la strage presso la sede della redazione del periodico satirico Charlie Hebdo. A distanza di un anno e mezzo dalla prima pubblicazione, “Invece della catastrofe” torna dunque a proporsi quale indispensabile strumento cognitivo della modernità. Va colta prima di tutto una peculiarità di questo scritto: esso è inchiesta giornalistica, analisi, e proposta politica, che si pone l’obiettivo di abbracciare e racchiudere nel proprio sguardo partecipe la realtà nella sua globalità. A differenza di altri pur brillanti scritti di questi anni, il libro di Chiesa coglie nel loro stretto legame fenomeni quali il profilarsi di una crisi irreversibile dell’eco-sistema, l’agonia degli stati-nazione sotto la scure del debito di proprietà delle banche, il mutamento antropologico dell’uomo occidentale avulso, disancorato dalla realtà e schiavo dei moderni mezzi di comunicazione, lo spirare di nuovi venti di guerra da ovest, da quegli Stati Uniti d’America che non sanno accettare la perdita del ruolo di superpotenza in un nuovo mondo multi-polare.
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Grazzini: euro e Ue sono nostri nemici, ditelo alla sinistra
Il destino della Grecia, dell’Europa e dell’euro si sta svelando in questi giorni. L’Unione Europea usuraia ha imposto la sua brutale autorità umiliando il governo di Alexis Tsipras contro la volontà del popolo greco. Occorre denunciare l’aggressione della Ue e di Berlino alla democrazia in Europa e difendere anche in Italia la sovranità nazionale contro la dittatura economica di un governo europeo che nessuno ha mai eletto. Diventa sempre più indispensabile sganciarsi dai vincoli dell’euro recuperando forme di autonomia monetaria – come suggerisce la proposta di “moneta fiscale” – per superare i limiti della moneta unica che deprimono la nostra economia. Il governo di sinistra di Alexis Tsipras, nonostante il No al referendum, é stato costretto ad accettare un compromesso sul debito secondo molti economisti assai peggiore di quello rifiutato coraggiosamente dal popolo greco con il referendum. Il governo di Berlino, guidato da Angela Merkel e dal duro ministro ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, ha confermato la linea dura dell’austerità folle e suicida, a tutti i costi.Difficilmente la Grecia si risolleverà dalla crisi. Il debito non è stato rimesso alla Grecia, nonostante le illusioni e le sciocche speranze della sinistra nostrana. La Ue ha imposto la sua dittatura usuraia in Europa, e la prossima vittima sacrificale a questa politica di crisi potremmo essere noi. La sinistra ha quindi nuove ed enormi responsabilità nel contrastare la politica Ue e dell’euro. Ma finora è rimasta praticamente impotente e silenziosa di fronte all’attacco europeo alle economie e alle democrazie nazionali. Solo il Movimento 5 Stelle ha denunciato ad alta voce la Unione Europea anti-democratica e la feroce gabbia dell’euro. La sinistra ha finora permesso e tollerato la meschina politica usuraia europea e l’attacco economico alla nostra sovranità nazionale in nome della prospettiva degli Stati Uniti d’Europa, e dei nobili ma sciocchi e illusori ideali sulla Pace Universale. Mentre la destra ha raccolto con crescente successo l’insofferenza, la protesta e la rabbia popolare verso questa Ue che immiserisce i popoli.La sinistra, in nome dell’Europa unita, non ha difeso la sovranità nazionale, ovvero l’unico ambito in cui è ancora possibile la democrazia (in greco: il potere del popolo). La sinistra ha accettato e difeso acriticamente la moneta unica europea, che è di gran lunga la principale espressione della dittatura monetarista e liberista sull’Europa. La sinistra proclama che gli Stati nazionali hanno esaurito il loro compito storico; e che occorre andare a tutti i costi verso l’Europa unita. Invece la democrazia alberga solo negli stati nazionali e certamente non in questa Europa. Solo grazie alla riscossa e all’autonomia nazionale, anche sul piano monetario, potremo uscire dalla crisi economica e rivitalizzare la democrazia. Perché l’Europa rischia di cadere in mano alla destra peggiore e di frantumarsi in mille nazionalismi xenofobi? Perché la destra cresce in Italia con Matteo Salvini, e in Francia con Marine Le Pen, e, in nome della difesa degli interessi nazionali, guadagna il consenso di ampi strati popolari e di lavoratori? Perché invece in Italia la sinistra sul piano politico quasi non esiste più, nonostante le antiche radici e il glorioso passato?La risposta più appropriata è: perché, in nome dell’Europa unita, la sinistra ha di fatto tollerato che si sacrificassero fondamentali interessi popolari. La dura lezione greca dovrebbe aprire finalmente gli occhi alla sinistra italiana ed europea. Per cambiare l’Europa occorre soprattutto rivendicare la sovranità nazionale, cioè il rispetto della democrazia. Le rivendicazioni democratiche e i conflitti sociali nascono innanzitutto dentro i confini nazionali per modificare le leggi e le istituzioni. Le nazioni contano ancora, e sono, e devono continuare ad essere, il luogo dei conflitti sociali, che sono il sale della democrazia. Senza il rispetto delle volontà nazionali e degli Stati nazionali non si costruirà mai l’Europa dei popoli. Nessuno ha voluto sottolineare che Tsipras ha indetto un referendum in Grecia e non un referendum europeo. Tsipras ha tentato legittimamente una via innanzitutto nazionale di uscita dalla crisi europea. Il referendum greco, e speriamo anche quello italiano, se si farà, non sono altro che tentativi di recuperare sovranità nazionale. Invece la nostra sinistra è Europeista, con la E maiuscola. Alimenta l’illusione della democrazia in tutta Europa quando le democrazie nazionali sono calpestate.Chi denuncia solo ed unicamente il pericolo di un ritorno al nazionalismo – come i grandi guru della sinistra europea, come Jurgen Habermas, Christian Marazzi e Etienne Balibar – e suggerisce di proseguire nell’integrazione europea, sperando in un inesistente e impossibile processo di democratizzazione delle istituzioni europee, e affidandosi a inesistenti grandi lotte sociali e politiche di livello continentale (?), si vota all’impotenza e si arrende di fatto all’internazionalismo senza regole del capitale. Infatti non c’è alcuna speranza di modificare istituzioni non elette e non democratiche, intergovernative, come quelle della Ue, dominate dai paesi più forti (Germania in primis) senza passare innanzitutto per le battaglie in favore dell’autonomia nazionale. Senza denunciare apertamente i vincoli della moneta unica si sacrificano la sovranità popolare e la democrazia. La Grecia dimostra che dentro questa Ue e questo euro le sovranità nazionali, la democrazia e la volontà popolare vengono sistematicamente schiacciate. Il nazionalismo tedesco prevale sulla inesistente democrazia europea.La socialdemocrazia è diventata sciovinista. Oggi i maggiori esponenti della potentissima (una volta) socialdemocrazia tedesca, Sigmar Gabriel, vicepremier del governo tedesco, e Martin Schulz, capo del Parlamento Europeo, sparano veleno contro il governo socialista greco assediato dallo strozzinaggio europeo. Il ricco socialismo tedesco attacca con maramaldesca protervia i poveri cugini socialisti greci, e si mostra apertamente sciovinista. Altro che Europa unita! Il socialismo europeo al governo è rappresentato da François Hollande e da Matteo Renzi. Il secondo lo conosciamo, ha seguito tutti i diktat europei sulle riforme strutturali; ma dovrà cercare di svincolarsi dalla mortale stretta tedesca. Renzi è troppo astuto per non sapere che, proseguendo la crisi europea e dell’euro, perderà le elezioni anche lui come tutti gli altri socialisti in Europa. Hollande invece sembra con qualche flebile distinguo il ventriloquo della Merkel.Ma anche la sinistra critica, quella (che fu) radicale e alternativa, quella che si proclama addirittura anti-capitalista, si è condannata all’impotenza perché non ha voluto denunciare e contrastare apertamente questa Unione Europea e la moneta unica. Per vetuste e astratte illusioni europeiste – e forse in parte anche per (insinuano volgarmente i maliziosi) inseguire qualche secondario posticino istituzionale – la sinistra ex radicale persegue con aristocratica nobiltà un’altra Europa, ma si dimentica di denunciare e contrastare questa Europa, l’Europa reale. Ha lasciato alla destra di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi il compito di attaccare l’Unione Europea in difesa degli interessi nazionali. Non a caso Salvini si spaccia come il vero difensore di Tsipras e della Grecia. Ma è un errore mortale cedere la denuncia di questa Ue e di questo euro al populismo sciovinista e xenofobo!Perché in Italia in pochi anni il Movimento 5 Stelle si è legittimamente guadagnato il 25% dell’elettorato, è diventato il secondo partito italiano, mentre la sinistra italiana teme di non superare neppure le soglie di sbarramento? La risposta è: perché questa sinistra corre verso una chimera: gli Stati Uniti d’Europa. Gran parte della nostra morbida intellighenzia di sinistra si limita a chiedere in maniera petulante un’Europa più democratica e cooperativa per riformare l’euro. Senza ottenere ovviamente alcun risultato. La nostra sinistra europeista e aristocratica propone politiche industriali comuni (?), gli eurobond (?), fondi di solidarietà (?), maggiore integrazione verso gli Stati Uniti d’Europa (?). Propone di riformare l’euro e di completare la moneta incompiuta con politiche fiscali comuni. Mentre migliaia di profughi, donne, bambini, uomini innocenti, vengono lasciati affogare nel Mediterraneo e mentre l’Europa a guida tedesca sceglie la politica del confronto/scontro con la Russia dettata dai falchi bellicisti d’oltreoceano, la sinistra chiede di “riformare” la Ue e la Bce.Perfino la Fiom-Cgil di Maurizio Landini, che viene considerata “estremista”, per quanto riguarda l’Europa si limita a chiedere la … riforma della Bce. E’ come chiedere a Berlusconi di approvare una legge severa sulla corruzione e l’evasione fiscale! Lo statuto della Bce è stato fissato a Maastricht. Per statuto la Bce deve preoccuparsi solo dell’inflazione, e non della disoccupazione e dello sviluppo economico; il suo principale azionista è la Germania della Merkel. E noi chiediamo di riformarla? Ma con quale forza? Con quale credibilità? Bisognerebbe rivoluzionare tutti i trattati, Maastricht per primo! Il governo tedesco dominato di Angela Merkel e Sigmar Gabriel non accetterà mai. Perché? Perché non gli conviene!!! Alla Germania, che persegue una politica chiaramente nazionalistica, è utile l’Europa in crisi. Luigi Zingales ha chiarito perfettamente che se scoppia la crisi dell’euro, la Germania pagherà costi assai meno elevati degli altri paesi e nell’immediato ci guadagnerà, perché tutti i capitali correranno verso la nazione più sicura e affidabile, cioè la Germania.Purtroppo la maggior parte della sinistra italiana – a parte le belle e sacrosante parole di solidarietà con il popolo greco, con Siryza e Alexis Tsipras – non ha capito quasi nulla dell’Unione Europea e dell’euro. Non ha compreso che l’Unione Europea intergovernativa, il suo braccio, la Banca Centrale Europea, e la moneta unica, sono diventate il principale strumento di lotta delle nazioni forti contro quelle più deboli, e di lotta di classe della grande finanza speculativa contro i lavoratori e lo stato sociale, grazie all’arma micidiale del debito. Altro che unione dei popoli europei! L’economia tedesca è forte ma la Grecia è stata gettata in miseria. In soli cinque anni l’Italia ha perso il 12% del Pil, il 30% degli investimenti, i redditi sono precipitati ai primi anni ‘90, c’è il 13% di disoccupazione e metà dei giovani non trova lavoro. Un disastro totale. Con la lira è certo che l’economia nazionale non sarebbe mai precipitata così in basso. I lavoratori soffrono e i ricchi diventano sempre più ricchi. Ma la destra avanza e la sinistra arretra. E forse non se ne accorge neppure.La sinistra vive su un altro pianeta. Fa come Totò che, picchiato a sangue da uno sconosciuto, ride contento perché questi si è sbagliato, non voleva colpire lui ma un’altra persona. La sinistra è contenta perché la Ue vuole la democrazia, anche se nei fatti la calpesta. Così difende le istituzioni (mai elette) della Ue invece di combatterle. La moneta unica é il problema dell’Europa malata. La sinistra (anche e soprattutto quella marxista) non ha capito una questione fondamentale. La moneta non è neutra, è centrale sia nel campo finanziario che in quello politico. La sinistra italiana non ha capito quanto per Keynes la moneta fosse l’elemento centrale dell’economia, soprattutto in tempi di crisi. Per la sinistra italiana invece il problema dell’euro è secondario. La sinistra più boriosa indica con sussiego che i problemi dell’Italia sono “ben più profondi”, sono strutturali, la moneta è un epifenomeno, in fondo l’euro può essere lasciato così, la lotta di classe riguarda l’economia reale, il resto è sovrastruttura.Invece la moneta unica è il problema centrale dell’Europa. La moneta unica non solo non permette svalutazioni – ovvero i normali riallineamenti competitivi – ed esalta gli squilibri commerciali, e quindi alimenta i debiti delle nazioni meno competitive. Soprattutto l’euro non consente di attuare manovre espansive, cioè di “riparare le crisi” come proponeva Keynes. L’euro è il bazooka usato dal governo tedesco Merkel-Gabriel e dalla Ue per abbattere le resistenze delle nazioni che, come la Grecia, cercano di opporsi all’austerità senza fine. Avere ceduto la propria moneta nazionale a istituzioni tecnocratiche non elette e non democratiche è stato un errore madornale. Senza autonomia monetaria non esiste possibilità di fare politiche autonome di bilancio e quindi i parlamenti eletti dal popolo contano poco o nulla. La democrazia è in pericolo.La moneta unica provoca l’immiserimento forzato dei paesi periferici strangolati dai debiti. Purtroppo l’euro è una trappola nella quale è facile entrare ma dalla quale è difficile uscire. Nonostante quello che predicano Salvini, Grillo e Borghi, uscire dall’euro è quasi impossibile per molti motivi tecnici, economici, politici e geopolitici, e perché metà della popolazione non vuole l’uscita. L’euro è la seconda valuta mondiale di riserva e l’uscita unilaterale scatenerebbe tutti contro di noi, Usa, Russia, Cina e paesi emergenti. Uscire dall’euro non è facile e immediato come è stato uscire dal Sistema Monetario Europeo e ritornare alla lira. Occorre trovare altre forme di “moneta democratica” per sfuggire alla depressione dell’euro.La tecnocrazia Ue può funzionare solo in quanto strumento (con poca autonomia) degli Stati egemoni e delle élite politiche e finanziarie dominanti. L’euro è una moneta concepita a Maastricht secondo i criteri del marco tedesco ed è diventato il principale strumento dell’egemonia tedesca sull’Europa e della sua politica nazionalistica. Gli stati nazionali sono ancora l’unico luogo in cui si può ancora esprimere la democrazia. Gli stati nazionali non sono ferrivecchi da buttare in nome dell’internazionalismo (del capitale!). Anzi: è necessario difendere e sviluppare l’autonomia e la democrazia nazionale. Le istituzioni europee non sono elette e non sono sottoposte a nessun controllo dei cittadini. Quelle nazionali, bene o male, sì. Occorre promuovere un nazionalismo democratico di sinistra, ovvero la difesa degli interessi nazionali sia a livello economico, industriale, che monetario e politicoDi fronte al precipitare della crisi occorre una svolta di politica economica, decisa e concreta. Occorre sganciarsi per quanto possibile dalla dittatura dell’euro, senza tuttavia uscire dall’euro. Questo è il senso della proposta di Moneta Fiscale proposta da Luciano Gallino e da altri economisti. Vogliamo che lo Stato italiano decida di emettere e distribuire gratuitamente ai lavoratori e alle aziende un titolo fiscale utilizzabile come credito sulle tasse dopo due anni dall’emissione, ma subito convertibile in euro, come qualsiasi altro titolo di Stato. Grazie alla diffusione gratuita di titoli/moneta per decine di miliardi aumenterebbe il potere d’acquisto delle famiglie, crescerebbero i consumi e gli investimenti delle aziende. Usciremmo dalla trappola della liquidità che blocca l’economia. Si tratta della possibilità di rilanciare l’economia italiana con una manovra monetaria e fiscale espansiva e democratica, decisa autonomamente dal Parlamento e dal governo italiano, senza tuttavia contravvenire e contrastare direttamente i trattati e i regolamenti vigenti nell’Eurozona. Senza uscire dall’euro, perché un’uscita unilaterale sarebbe, almeno attualmente, disastrosa e dividerebbe il popolo italiano.(Enrico Grazzini, estratti da “Le illusioni europeiste della sinistra e la dittatura della Ue”, da “Micromega” del 13 luglio 2015).Il destino della Grecia, dell’Europa e dell’euro si sta svelando in questi giorni. L’Unione Europea usuraia ha imposto la sua brutale autorità umiliando il governo di Alexis Tsipras contro la volontà del popolo greco. Occorre denunciare l’aggressione della Ue e di Berlino alla democrazia in Europa e difendere anche in Italia la sovranità nazionale contro la dittatura economica di un governo europeo che nessuno ha mai eletto. Diventa sempre più indispensabile sganciarsi dai vincoli dell’euro recuperando forme di autonomia monetaria – come suggerisce la proposta di “moneta fiscale” – per superare i limiti della moneta unica che deprimono la nostra economia. Il governo di sinistra di Alexis Tsipras, nonostante il No al referendum, é stato costretto ad accettare un compromesso sul debito secondo molti economisti assai peggiore di quello rifiutato coraggiosamente dal popolo greco con il referendum. Il governo di Berlino, guidato da Angela Merkel e dal duro ministro ministro delle finanze Wolfgang Schäuble, ha confermato la linea dura dell’austerità folle e suicida, a tutti i costi.
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Cretini, vogliono isolare la Russia e invece isolano gli Usa
Le menzogne relative alla Russia e al suo presidente si sono fatte tanto grossolane da minacciare un possibile devastante conflitto nel mondo, cosa che ha spinto un gruppo di distinti cittadini nordamericani a formare il Comitato Americano per l’Accordo Oriente-Occidente. I membri del Comitato sono l’ex senatore Bill Bradley, Jack Matlock che fu ambasciatore Usa nell’Urss durante l’Amministrazione di Ronald Reagan e di George H.W. Bush; William J. Vanden Heuvel, che fu ambasciatore all’Onu durante l’amministrazione Carter; John Pepper, ex presidente e dirigente esecutivo dell’impresa Procter & Gamble; Gilbert Doctorow, uomo d’affari da un quarto di secolo con esperienza commerciale con la Russia e i professori Ellen Mickiewicz dell’ Università di Duke e Stephen Cohen dell’ Università di Princeton e di quella di New York. Risulta un fatto straordinario che la cooperazione tra Russia e gli Stati Uniti, svilupatasi attraverso decenni per mezzo di successivi governi, iniziando da quello di John F. Kennedy e culminando con la fine della guerra fredda con gli accordi di Reagan-Gorbaciov, sia stata distrutta da un pugno i nordamericani neo-conservatori trafficanti di armamenti nel corso dell’ultimo anno e mezzo.
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Mosca non teme la Nato, e il vero sconfitto sarà l’Europa
Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti – prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».Il Pentagono, scrive Escobar in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, sa benissimo che la Russia «ridurrebbe le forze della Nato in frantumi in poche ore». Poi «arriverebbe la scelta decisiva di Washington: accettare la bruciante sconfitta o passare alle armi tattiche nucleari». Il Pentagono sa che la Russia «ha le capacità difensive, aeree e missilistiche, per controbattere qualsiasi arma», incluse quelle del programma “Prompt Global Strike” statunitense (Pgs). Secondo il generale Kirill Makarov, numero due delle forze di difesa aerospaziali russe, l’attuale infrastruttura militare della Nato è la maggiore minaccia alla sicurezza di Mosca, che però avrebbe «un paio di generazioni di vantaggio» nei propri armamenti difensivi. Spiegazione: «Mentre il Pentagono era impegolato nei suoi problemi in Afghanistan e Iraq, si è completamente perso il salto in avanti tecnologico compiuto dalla Russia», scrive Escobar. «Lo stesso vale per la capacità cinese di colpire i satelliti statunitensi e quindi polverizzare il sistema di guida satellitare degli Icbm statunitensi», cioè i missili balistici intercontinentali.«Lo scenario corrente – continua Escobar – è che la Russia guadagna tempo fino a che non avrà completamente protetto il proprio spazio aereo dagli Icbm statunitensi, aerei stealth e missili cruise, con il sistema S-500». Ciò non è sfuggito all’attenzione del “British Joint Intelligence Committee” (Jic), che aveva simulato tempo fa l’eventualità di un primo attacco di Washington ai danni della Russia. Secondo il Jic, Washington potrebbe avere seri problemi in tre casi: se un governo “estremista” dovesse prendere il potere negli Usa, se ci fosse una crescente caduta di fiducia negli Usa e nei loro alleati occidentali a causa di sviluppi politici nelle nazioni stesse, e se ci fosse qualche repentino avanzamento nella sfera degli armamenti statunitensi, tanto che l’impazienza possa prendere il sopravvento. Smontata l’ipotesi che gli Usa possano sferrare il “primo colpo” per abbattere la capacità difensiva di Mosca, resta una pesante incognita: cosa accadrebbe se domani gli Stati Uniti disponessero di una tranquillità strategica come quella di cui oggi gode la Russia?Tutto il gioco, continua Escobar, ruotava attorno a chi controllava il mare – il regalo geopolitico che gli Usa hanno ereditato dal Regno Unito. «Controllare i mari significa ereditare cinque imperi: Giappone, Germania, Gran Bretagna, Francia e Paesi Bassi. Tutti quei natanti statunitensi che pattugliano i mari per garantire “libero mercato” – come sostiene la macchina della propaganda – potrebbero essere usati di colpo contro la Cina. È un meccanismo simile all’operazione finanziaria “governare da dietro” attentamente architettata per contemporaneamente distruggere il rublo e lanciare una guerra del petrolio per ridurre alla sottomissione la Russia». Il piano principale di Washington, aggiunge Escobar, resta semplicissimo: «“Neutralizzare” la Cina dal Giappone e la Russia dalla Germania, con gli Stati Uniti a fare da spalla ai due puntelli. La Russia è de facto l’unico paese dei Brics ad opporsi». Questa era la situazione fino a che Pechino non ha lanciato le nuove “vie della seta”, ovvero il progetto di unire tutta l’Eurasia sul piano economico e commerciale su binari ad alta velocità, trasferendo tonnellate di merci dal trasporto marittimo a quello terrestre. Mentre Washington continua a demonizzare la Russia per colpire la partnership sino-russa, in un futuro non remoto Germania, Russia e Cina avranno «ciò che serve per diventare i pilastri di un’Eurasia totalmente integrata».Per il futuro prossimo ci attende un’opzione brutale e folle, che si chiama guerra, visto che è «miseramente fallito» l’attacco su due fronti – prezzo del petrolio e valore del rublo – che puntava a distruggere l’economia russa e a metterla in una posizione di fornitore energetico vassallo dell’Occidente. Il nuovo “grande gioco” in Eurasia? E’ sempre ruotato attorno al controllo delle risorse naturali. In Ucraina, il Cremlino è stato esplicito nel tracciare due precise linee rosse: l’Ucraina non farà parte della Nato e la Repubblica Popolare di Donetsk e Lugansk non sarà fatta a pezzi. Per Pepe Escobar, ci avviciniamo a una possibile deadline esplosiva, quando le sanzioni Ue scadranno, in luglio. Con una Ue «in subbuglio ma ancora schiava della Nato», e la militarizzione dell’Est, dai paesi baltici alla Polonia, il conflitto potrebbe esplodere. Ma attenzione: «Solo i pazzi credono che Washington rischierà vite statunitensi per l’Ucraina o per la Polonia». E quindi, «se si arrivasse all’impensabile – una guerra tra Nato e Russia in Ucraina – le linee di difesa russe sono sicuramente superiori sia in mare sia in terra, sia dal punto di vista convenzionale sia da quello nucleare».
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Paura della storia: cancellano l’Urss che distrusse Hitler
Il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista. Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.Il secondo fronte fu aperto con lo sbarco anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai l’Armata Rossa e i partigiani sovietici avevano sconfitto le truppe tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista. Il prezzo pagato dall’Unione Sovietica fu altissimo: circa 27 milioni di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della popolazione (in rapporto allo 0,3% degli Usa in tutta la Seconda Guerra Mondiale); circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre 1.700 città e grossi abitati, 70.000 piccoli villaggi, 30.000 fabbriche distrutte. Questa pagina fondamentale della storia europea e mondiale si tenta oggi di cancellare, mistificando anche gli eventi successivi. La guerra fredda, che divise di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, non fu provocata da un atteggiamento aggressivo dell’Urss, ma dal piano di Washington di imporre il dominio statunitense su un’Europa in gran parte distrutta.Anche qui parlano i fatti storici. Appena un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel settembre 1945, al Pentagono già calcolavano che occorrevano oltre 200 bombe nucleari per attaccare l’Urss. Nel 1946, quando il discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” apriva ufficialmente la guerra fredda, gli Usa avevano 11 bombe nucleari, che nel 1949 salivano a 235, mentre l’Urss ancora non ne possedeva. Ma in quell’anno l’Urss effettuò la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il proprio arsenale nucleare. In quello stesso anno venne fondata a Washington la Nato, in funzione antisovietica, sei anni prima del Patto di Varsavia costituito nel 1955.Terminata la guerra fredda, in seguito al dissolvimento nel 1991 del Patto di Varsavia e della stessa Unione Sovietica, su spinta di Washington la Nato si è estesa fin dentro il territorio dell’ex Urss. E quando la Russia, ripresasi dalla crisi, ha riacquistato un ruolo internazionale stringendo crescenti rapporti economici con la Ue, il putsch in Ucraina, sotto regia Usa/Nato, ha riportato l’Europa a un clima da guerra fredda. Boicottando sulla scia degli Usa il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, l’Europa occidentale (quella dei governi) cancella la storia della sua stessa Resistenza, che tradisce sostenendo i nazisti andati al governo a Kiev. Sottovaluta la capacità della Russia di reagire, quando viene messa alle corde. Si illude di poter continuare a dettare legge, quando la presenza a Mosca dei massimi rappresentanti dei Brics, a partire dalla Cina, e di tanti altri paesi conferma che il dominio imperiale dell’Occidente è sulla via del tramonto.(Manlio Dinucci, “La cancellazione della storia”, da “Il Manifesto” del 14 maggio 2015).Il 70° anniversario della vittoria sul nazismo, il 9 maggio a Mosca, è stato boicottato su pressione di Washington da tutti i governanti della Ue, salvo il presidente greco, e messo in ombra dai media occidentali, in un grottesco tentativo di cancellare la Storia. Non privo di risultati: in Germania, Francia e Gran Bretagna risulta che l’87% dei giovani ignora il ruolo dell’Urss nella liberazione dell’Europa dal nazismo. Ruolo che fu determinante per la vittoria della coalizione antinazista. Attaccata l’Urss il 22 giugno 1941 con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei, la Germania nazista concentrò in territorio sovietico 201 divisioni, cioè il 75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungevano 37 divisioni dei satelliti (tra cui l’Italia). L’Urss chiese ripetutamente agli alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran Bretagna lo ritardarono, mirando a scaricare la potenza nazista sull’Urss per indebolirla e avere così una posizione dominante al termine della guerra.
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Prenoto ora il grano del futuro e ne farò esplodere il prezzo
Lo scandalo SwissLeaks, in cui la Hsbc è accusata di avere aiutato decine di migliaia di clienti a nascondere i propri soldi su conti cifrati, è tornato alla ribalta in queste settimane. L’ennesimo caso che mostra come troppo spesso i maggiori gruppi bancari giochino un ruolo di primo piano in operazioni di al limite, e spesso ben oltre il limite, della legalità. Parliamo di una banca sola. E’ quasi impossibile anche solo elencare gli scandali, gli abusi e i crimini recentemente emersi a carico del sistema finanziario: dalle manipolazioni del mercato delle valute a quello dei tassi di riferimento (Libor e Euribor), dagli episodi di corruzione all’evasione fiscale, a moltissimi altri ancora. La stessa Hsbc nel 2012 ha ricevuto una multa di 1,9 miliardi di dollari dalle autorità statunitensi per una vicenda legata al riciclaggio del denaro di cartelli della droga messicani. Se le conseguenze delle operazioni illecite o apertamente illegali sono devastanti, paradossalmente sono ancora peggiori, se possibile, gli impatti del “normale” funzionamento di questo sistema finanziario.Uno degli esempi più vergognosi, non certo l’unico, è l’utilizzo dei derivati per scommettere sul prezzo del cibo e delle materie prime. I derivati sono contratti finanziari il cui valore deriva appunto da quello di un bene (titoli, indici, materie prime o altro) chiamato sottostante. I derivati sono nati essenzialmente come strumenti di copertura dai rischi: permettono di comprare, vendere o scambiare qualcosa in una data futura, a un prezzo prestabilito. Ho un pastificio e voglio pianificare la produzione. Tramite un derivato posso comprare il grano tra alcuni mesi a un prezzo fissato già oggi. In cambio di una commissione, la banca che me lo vende si assume quindi i rischi delle oscillazioni dei prezzi. E’ la loro stessa natura a renderli strumenti particolarmente adatti alla speculazione. In pratica posso scommettere su un prezzo futuro. Oggi, per molte materie prime e altre tipologie di derivati, nel 99% dei casi non c’è la consegna del sottostante. Come dire che scommetto sul prezzo futuro del grano ma non ho nessun interesse nel grano. Non ho un pastificio né sono un produttore. Sto unicamente realizzando una scommessa speculativa sul prezzo futuro di qualcosa.Per chiarire, è come se su 100 assicurazioni automobilistiche, una servisse a tutelare i proprietari di automobili, le altre 99 a scommettere che il mio vicino di casa avrà un incidente. Scommesse che esasperano l’andamento dei prezzi, creano volatilità e instabilità. Gli impatti e i danni maggiori ricadono tanto sui piccoli produttori di grano quanto sui consumatori, che si ritrovano in balia della montagna russa dei prezzi generata dalla speculazione. Non solo. Con una “normale” speculazione posso comprare una certa quantità di grano per 5.000 euro, sperare che il prezzo salga e rivenderlo. Al di là dei problemi di stoccaggio, devo materialmente avere i 5.000 euro. Posso invece acquistare per 100 euro un derivato che mi consente di comprare tra un mese lo stesso grano a 5.000 euro. Uso una leva finanziaria di 50 a 1, controllo 5.000 euro con 100 di investimento. Se tra un mese quel grano vale 5.100, realizzo 100 euro con 100, non con 5.000, il 100% di profitto invece del 2%. Se le cose vanno male, le perdite possono essere altrettanto ingenti.Quando esplode la crisi finanziaria a cavallo del 2008, giganteschi capitali fuggono dai mercati finanziari “tradizionali” e tramite i derivati si riversano sulle materie prime, alimentari e non. Il prezzo dovrebbe essere determinato dall’incontro tra domanda e offerta. Investimenti puramente finanziari creano però un’ulteriore domanda “artificiale”, il che spinge al rialzo il prezzo, richiamando altri investitori, ovvero un ulteriore aumento della domanda. Il fenomeno si autoalimenta, si crea una bolla finanziaria. Quando qualcuno inizia a vendere parte il percorso inverso: scoppia la bolla, panico sui mercati e prezzi che crollano. Sia i produttori sia i consumatori si trovano in balia dell’instabilità. Nel 2008 aumenta il prezzo di tutte e 25 le principali materie prime. Un aumento all’unisono più unico che raro e a maggior ragione ingiustificabile in un periodo di crisi. Il prezzo del grano e del mais raddoppia in pochi mesi senza che si verifichi una siccità o un altro evento naturale. Un aumento così repentino non può nemmeno essere spiegato con il cambiamento di dieta dei paesi emergenti, la crescita dei bio-combustibili o i cambiamenti climatici, tutti fenomeni di lungo periodo. E’ l’ondata speculativa che determina se milioni di esseri umani saranno in grado di sfamarsi o meno.Se possibile, c’è anche di peggio: l’instabilità e la volatilità non sono “fastidiosi” effetti collaterali, ma la base stessa del gioco. Compro un titolo per 100 euro. Se dopo un anno vale 101 euro ho realizzato una speculazione, ma il margine di profitto è bassissimo, l’1%. Se invece il titolo è in preda a fortissime oscillazioni e i prezzi sono instabili, si possono realizzare maggiori profitti. In una spirale perversa la stessa speculazione è oggi in grado di generare le oscillazioni su cui poi andrà a guadagnare: più scommesse girano su un dato titolo, più i prezzi rischiano di impazzire e più crescono le possibilità di profitti a breve, attirando nuovi squali. Le materie prime, naturalmente soggette a variabilità dei prezzi, diventano con i derivati il terreno di caccia ideale degli speculatori. La dimensione di questi fenomeni è tale che spesso i prezzi vengono determinati da manovre speculative, non da produzione e commercio. Un ribaltamento delle funzioni paradossale per una finanza che dovrebbe essere uno strumento al servizio dell’economia. I derivati sono diventati “the tail that wags the dog”, la coda che scodinzola il cane.Non solo. Acquistando un derivato sul grano non finanzio i contadini o le produzioni. Mentre centinaia di milioni di persone, in particolare nelle aree rurali, sono escluse dall’accesso al credito, somme stratosferiche inseguono profitti a breve da scommesse sul cibo, causando impatti devastanti per le fasce più deboli della popolazione. L’aspetto più incredibile è quindi che la finanza non provoca “unicamente” instabilità, crisi e squilibri, ma non riesce nemmeno a fare ciò che dovrebbe fare. Da un lato sterminati capitali sono alla continua ed esasperata ricerca di qualche sbocco di investimento. Dall’altro enormi necessità non vengono finanziate e fasce sempre più ampie della popolazione, anche da noi, si trovano escluse dai servizi finanziari. Semplificando, domanda e offerta di denaro non si incontrano. Con buona pace dell’idea dei “mercati efficienti” alla base della dottrina neoliberista che si è imposta nell’ultimo trentennio, l’attuale sistema finanziario rappresenta il più macroscopico fallimento del mercato.Una finanza che, sia direttamente tramite speculazioni o operazioni illecite, sia indirettamente tramite il drenaggio di capitali e la crescita delle disuguaglianze, è alla base dell’instabilità e delle crisi attuali. Di fronte a un sistema politico e mediatico che continua a imporre una visione secondo la quale la finanza pubblica è il problema e quella privata la soluzione, occorre ripartire per un radicale cambiamento di rotta sia riguardo alle politiche economiche sia, più in generale, per un ribaltamento dell’immaginario della crisi che ci viene quotidianamente raccontato.(Andrea Baranes, “Il fallimento della finanza”, tratto da “Fermate il mondo: voglio scendere!” di marzo-aprile 2015, ripreso da “Attac Italia”).Lo scandalo SwissLeaks, in cui la Hsbc è accusata di avere aiutato decine di migliaia di clienti a nascondere i propri soldi su conti cifrati, è tornato alla ribalta in queste settimane. L’ennesimo caso che mostra come troppo spesso i maggiori gruppi bancari giochino un ruolo di primo piano in operazioni di al limite, e spesso ben oltre il limite, della legalità. Parliamo di una banca sola. E’ quasi impossibile anche solo elencare gli scandali, gli abusi e i crimini recentemente emersi a carico del sistema finanziario: dalle manipolazioni del mercato delle valute a quello dei tassi di riferimento (Libor e Euribor), dagli episodi di corruzione all’evasione fiscale, a moltissimi altri ancora. La stessa Hsbc nel 2012 ha ricevuto una multa di 1,9 miliardi di dollari dalle autorità statunitensi per una vicenda legata al riciclaggio del denaro di cartelli della droga messicani. Se le conseguenze delle operazioni illecite o apertamente illegali sono devastanti, paradossalmente sono ancora peggiori, se possibile, gli impatti del “normale” funzionamento di questo sistema finanziario.
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Odiano Putin perché intercettò i missili Nato contro la Siria
Gli americani hanno dichiarato guerra a Putin, ma quello che non vi dicono è decisivo. La crisi in Ucraina è stata scatenata dopo che la flotta russa schierata nel Mediterraneo a difesa di Damasco ha neutralizzato un attacco missilistico segreto, scatenato nel 2013 contro la Siria. Mai accaduta una cosa simile, dal 1945: le armi russe avrebbero “parato” i missili statunensi, facendoli inabissare in mare aperto prima che potessero raggiungere la costa siriana. Lo afferma l’Ossin, osservatorio internazionale indipendente che annovera tra i suoi collaboratori grandi esperti, giornalisti e giuristi anche italiani, attenti osservatori del Maghreb e del Medio Oriente. L’associazione avvalora oggi le prime notizie, mai confemate all’epoca ma diffuse subito da fonti libanesi, che nel 2013 parlarono addirittura di abbattimenti di aerei Nato in prossimità della Siria a opera della contraerea di Mosca. Non di caccia si trattò, ma di missili Tomahawk, scrive Ossin: i missili furono intercettati dal sistema russo anti-missilistico dispiegato al largo delle coste siriane, “assediate” da un vasto contingente aeronavale angloamericano e forse anche francese.Questa, sostiene il centro studi, è la ragione segreta – e forse determinante – che ha spinto Obama e i falchi del Pentagono a premere l’acceleratore sull’Ucraina, facendo esplodere la crisi per rappresaglia contro Putin, il capo del Cremlino che ha osato opporsi con le armi all’attacco illegale scatenato dalla Nato contro la Siria per poi minacciare direttamente l’Iran. Sullo sfondo, un torbido retroterra di depistaggi: dalle accuse false al regime di Assad di aver usato gas tossici contro la popolazione di Damasco, fino all’abbattimento del volo Mh-17 in Ucraina attribuito ai filo-russi, nonostante le evidenze fornite dimostrino che l’aereo di linea fu colpito da un missile aria-aria, scagliato da un jet militare di Kiev tracciato dai radar russi. La “guerra” contro Mosca è ovviamente originata da motivi geopolitici: Washington non sopporta che l’Europa dipenda dalla Russia per l’energia, proprio mentre Putin allaccia relazioni strategiche con la Cina e insieme a Pechino guida i Brics, il gruppo di paesi emergenti (India, Brasile, Sudafrica) impegnati a promuovere un sistema economico mondiale che non dipenda più dal dollaro, cioè dai ricatti politici del Fmi e della Banca Mondiale.«L’elemento scatenante della improvvisa ostilità contro la Russia e Putin», scrive Ossin sul suo sito, si può però individuare «in quasi tutti gli avvenimenti, non resi pubblici, che si sono susseguiti tra la fine di agosto e l’inizio di settembre 2013». Ovvero: «Un attacco a sorpresa della Nato contro la Siria è stato stoppato dalla Russia». Secondo Ossin, «è stata probabilmente la prima volta, dopo la Seconda Guerra Mondiale, che un attacco militare organizzato dall’Occidente si è trovato contro una forza sufficiente a imporre il suo annullamento». Attenzione: «Non lo si è detto alla gente in Occidente». Troppo imbarazzante per Obama e i leader europei. Meglio allora lasciare la presa sulla Siria e optare per il nuovo piano, e cioè «demolire l’Ucraina e impadronirsi della Crimea». Ma anche l’acquisizione della strategica Crimea è fallita, come si sa: la popolazione, attraverso un referendum, ha scelto di tornare alla madrepatria russa, da sempre presente nella penisola con la grande base navale di Sebastopoli che ospita la flotta del Mar Nero, quella che fu impiegata in Siria nel 2013 per sventare l’attacco della Nato.Ossin riferisce che il 31 agosto 2013 un ufficiale statunitense telefonò alla segreteria del presidente francese Hollande per preannunciargli una telefonata di Obama che avrebbe dato il via all’attacco. Così, Hollande dispose che i caccia Rafale fossero armati con missili da crociera Scalp, da lanciare contro la Siria da 400 chilometri di distanza. Poi, invece, Obama chiamò Hollande a fine giornata per annunciargli che l’attacco previsto per l’indomani, 1° settembre, alle 3 di notte, non ci sarebbe stato. Tre giorni dopo, scrive Ossin, alle 6,16 del 3 settembre, «venivano lanciati due missili contro le coste siriane “dalla zona centrale del Mediterraneo”», ma i due missili «si sono inabissati in mare». Secondo Israel Shamir, che cita fonti diplomatiche attraverso la stampa libanese, quei missili sarebbero stati lanciati da una base aerea della Nato in Spagna, e sarebbero stati abbattuti «da un sistema russo di difesa mare-aria, posto a bordo di navi russe». “Asia Times” sostiene che i russi abbiano fatto ricorso ai loro disturbatori di frequenza Gps «per rendere impotenti i costosissimi Tomahawk, disorientandoli e rendendoli inefficaci». Un’altra versione, infine, attribuisce il lancio ai “soliti” israeliani.«Vi è stato l’invio da parte della Russia di una forza navale operativa, messa insieme frettolosamente, ma competente, verso la costa siriana», scrive un accanito oppositore di Obama come il blogger geopolitico “The Saker”. Quella russa «non era una forza tale da poter battere la marina Usa», ma era comunque «in grado di fornire all’esercito siriano una visione completa del cielo, al di sopra e oltre la Siria». In altri termini, aggiunge “The Saker”, «per la prima volta, gli Stati Uniti non hanno potuto realizzare un attacco a sorpresa», né con i missili da crociera, né con la loro potenza aerea. «Peggio: la Russia, l’Iran e Hezbollah si sono impegnati in un programma nascosto ma dichiarato di assistenza materiale e tecnica della Siria, che è riuscito alla fine a battere l’insurrezione wahhabita», lo jihadismo finanziato dagli Usa che poi, come sappiamo, è stato “dirottato” in Iraq sotto la sigla “Isis”. «Ci è difficile conoscere tutte le manovre sotterranee che si sono susseguite tra agosto e settembre 2013», ammette Ossin, «ma il risultato finale è chiaro: dopo anni di tensioni crescenti e di minacce, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno deciso di non attaccare la Siria, così come avevano deciso». A stopparli, è stata la fermezza di Putin.«Ora, dopo il ripiegamento – continua Ossin – possiamo constatare che questo attacco diretto fallito contro la Siria ha dato luogo a un crescente attacco indiretto e alla crescita di quello che viene attualmente conosciuto come Stato Islamico». L’osservatorio sostiene che non ci sono solo cattive notizie, ricordando che il 29 agosto 2013 il Parlamento di Londra tenne conto dell’opinione pubblica, contraria all’attacco, e negò al governo Cameron l’autorizzazione ad aggredire la Siria. Fondamentale, inoltre, la clamorosa iniziativa pubblica di Papa Francesco, con veglia di preghiera contro l’attacco Nato (per inciso, la diplomazia vaticana è in contatto con tutti i paesi del mondo, compresi quelli non rappresentati all’Onu). L’altra ragione della rinuncia all’attacco, aggiunge Ossin, è l’ampiezza della concentrazione di truppe della Siria, della Russia, e anche della Cina: «Russi e cinesi non si sono accontentati di bloccare gli Stati Uniti in ambito di Consiglio di Sicurezza, hanno “votato” anche con la loro forza militare». In quei giorni infatti si parlò di navi da guerra di Pechino dirette verso il Canale di Suez per rinforzare la flotta russa. «Quand’è che i cinesi hanno inviato l’ultima volta loro navi da guerra nel Mediterraneo?».Per Shamir, si è trattato di un punto di svolta epocale: «L’egemonia statunitense è cosa del passato, il bruto è stato messo sotto controllo: abbiamo doppiato il Capo di Buona Speranza, simbolicamente parlando, nel settembre 2013. Con la crisi siriana il mondo si è trovato di fronte ad una biforcazione essenziale della storia moderna. Era un lascia o raddoppia, rischioso quasi come la crisi dei missili cubani del 1962». Secondo l’analista, «ci vorrà un po’ di tempo perché ci si renda pienamente conto di quanto abbiamo vissuto: è normale, per avvenimenti di tale portata». Russia e Cina «hanno semplicemente costretto gli Stati Uniti a ritirarsi e ad annullare i loro piani di guerra». Inoltre, «la gente comune – negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in molti altri paesi – era del tutto contraria all’attacco, quanto lo stesso popolo siriano». Un altro analista internazionale di peso, come Pepe Escobar, è ancora più drastico: «La Cina si è tolta i guanti diplomatici. E’ giunto il momento di costruire “un mondo disamericanizzato”», dotato cioè di «una moneta di riserva internazionale che sostituisca il dollaro».Per Escobar, «invece di adempiere ai propri obblighi come una potenza che esercita una leadership responsabile», una Washington «egocentrica» ha di fatto «abusato della posizione di superpotenza e ha perfino accresciuto il caos mondiale trasferendo i propri rischi finanziari all’estero, provocando tensioni regionali nei conflitti territoriali e impegnandosi in guerre senza senso, giustificate da menzogne». La Cina non starà più a guardare: vuole fermare «le avventure militari degli Stati uniti», poi allargare l’adesione alla Banca Mondiale e al Fmi ai paesi emergenti, e infine preparare una nuova moneta di riserva internazionale, «che sostituisca la dominazione del dollaro». E’ per questa ragione, conclude Ossin, che i leader dell’Occidente non celebrano la guerra che non vi è stata: in Siria, russi e cinesi «hanno costretto l’Occidente a rispettare il diritto internazionale e ad evitare una guerra illegale». Inoltre, i cinesi vedono in questo l’inizio di una nuova era della politica mondiale: Usa, Europa e Giappone «dovranno rassegnarsi al fatto che non potranno più prendere da soli tutte le importanti decisioni del mondo». L’instabilità planetaria dunque si accentuerà, ma almeno ora sappiamo perché la diffidenza verso Putin si è trasformata in scontro senza quartiere: tutta “colpa” di quei missili inabissati in mare, emblema di una superpotenza non più onnipotente.Gli americani hanno dichiarato guerra a Putin, ma quello che non vi dicono è decisivo. La crisi in Ucraina è stata scatenata dopo che la flotta russa schierata nel Mediterraneo a difesa di Damasco ha neutralizzato un attacco missilistico segreto, scatenato nel 2013 contro la Siria. Mai accaduta una cosa simile, dal 1945: le armi russe avrebbero “parato” i missili statunensi, facendoli inabissare in mare aperto prima che potessero raggiungere la costa siriana. Lo afferma l’Ossin, osservatorio internazionale indipendente che annovera tra i suoi collaboratori grandi esperti, giornalisti e giuristi anche italiani, attenti osservatori del Maghreb e del Medio Oriente. L’associazione avvalora oggi le prime notizie, mai confemate all’epoca ma diffuse subito da fonti libanesi, che nel 2013 parlarono addirittura di abbattimenti di aerei Nato in prossimità della Siria a opera della contraerea di Mosca. Non di caccia si trattò, ma di missili Tomahawk, scrive Ossin: i missili furono intercettati dal sistema russo anti-missilistico dispiegato al largo delle coste siriane, “assediate” da un vasto contingente aeronavale angloamericano e forse anche francese.
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Gli orrori della globalizzazione e il silenzio degli intellettuali
Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.«La crisi finanziaria, imprevista e imprevedibile, è curata con costanti iniezioni di liquidità (come se fosse quella di ottanta anni fa) che però hanno effetti sui sintomi ma non sulle ragioni del male oscuro», scrive Giannuli sul suo blog. «Le rivolte arabe, anch’esse impreviste, segnalano una interdipendenza stretta fra crisi economica e dinamiche socio-culturali che sfugge alle capacità di gestione della comunità internazionale». In più, «lo sviluppo cinese ha mutato i rapporti di forza esistenti ma porta con sé problemi insospettati». Questo, continua lo storico, determina un profondo disorientamento soprattutto (ma non solo) nelle classi dirigenti, «che si trovano ad affrontare problemi a un livello di complessità incomparabilmente maggiore del passato, e questo disorientamento sta già producendo effetti molto negativi sul piano delle decisioni: è lo shock da globalizzazione, il fenomeno più rilevante della nostra epoca che si impone al centro dell’attenzione di storici, sociologi, economisti, politologi».Almeno per quel che riguarda l’Occidente, secondo Giannuli, lo shock sembra determinare tre fenomeni: la paralisi dei decisori, la paura dei governati e l’afasia degli intellettuali. «I decisori appaiono sempre più indecisi sul da farsi, tanto sul fianco finanziario (dove l’unica cosa che riescono a decidere è l’inondazione di liquidità, che fa guadagnare tempo ma non cura la crisi), quanto sul piano delle relazioni internazionali (e le esitazioni americane su Iran, Siria e Califfato ne sono una testimonianza, non meno che il pantano ucraino da quale nessuno sa come uscire)». Di fronte a un corso dei fatti, che Giannuli reputa «del tutto imprevisto», e non frutto di pianificazione da parte di una ristrettissima élite, come invece suggerisce Gioele Magaldi nel libro “Massoni”, che svela il ruolo occulto delle “Ur-Lodges”, le superlogge internazionali del massimo potere mondiale, i decisori (tanto politici quanto finanziari) «reagiscono schierandosi a difesa dell’esistente e senza chiedersi se le patologie socio-economiche in atto non siano un prodotto di quel sistema che rifiutano costantemente di mettere in discussione».Dai governanti “rassegnati” alla globalizzazione autoritaria, senza più alternative politiche, si passa ai governati, «cui era stato promesso che la globalizzazione sarebbe stato un cammino fiorito». I cittadini, scrive Giannuli, «assistono impotenti al crollo di queste aspettative, al peggioramento delle loro condizioni di vita, e avvertono sempre più la paura del futuro». Che è, al tempo stesso, «paura dei diversi che giungono dal sud del mondo e che si pensa minaccino posti di lavoro e identità culturale, paura della crisi che erode risparmi e getta nella disoccupazione, paura della concorrenza delle merci straniere che tagliano l’erba sotto i piedi alle nostre aziende, paura di un fisco sempre più vorace che programmaticamente non colpisce più i grandi capitali volati nei paradisi finanziari ma si accanisce sui ceti medi». E ancora: «Paura del terrorismo, delle epidemie, di tutto». E su questo paesaggio «impera il chiassoso silenzio degli intellettuali, che parlano di tutto senza dir nulla». Infatti, «una critica della globalizzazione e dei modi con cui si è realizzata e va avanti è tentata solo da pochissimi», i quali però vengono «spinti ai margini» e restano «privi, in gran parte, di accesso alle tribune massmediatiche». Secondo Giannuli, «c’è una sottile vendetta della storia che punisce chi aveva imposto il “pensiero unico”: democrazia liberale (o quel che si pensava fosse tale) e liberismo economico erano l’unica forma di pensiero legittimata», a scapito di «tutte le altre correnti di pensiero, pure interne al mondo occidentale».Per il politologo dell’ateneo milanese, «la resa senza condizioni della socialdemocrazia ha segnato la riduzione dello spazio politico: tutto il resto ne era espulso». E così, «il rullo compressore della finanza, attraverso gli opportuni finanziamenti, la direzione dei mass media, il controllo dell’industria culturale, la colonizzazione delle facoltà, persino l’uso calibrato del Premio Nobel, tutto è stato usato per imporre questa dittatura culturale. E gli intellettuali – in grande maggioranza – si sono adattati gioiosamente a questo stato di cose, rinunciando ad ogni residuo spirito critico». Oggi, nel momento della crisi, i decisori – non meno che i governati – di fatto «non trovano le parole per capire quel che sta accadendo, e non sanno riconoscere la crisi in atto». E questo, conclude Giannuli, «accade perché dal fronte degli studiosi, dei “tecnici”, di quelli che dovrebbero illuminarli, viene solo un confuso starnazzare che non dice nulla. E’ questa la rumorosa afasia degli intellettuali», peraltro “incanalati” nel mainstream dai tempi del manifesto “La crisi della democrazia”, promosso dalla Commissione Trilaterale: propaganda conculcata negli atenei e nei media anxche attraverso la poderosa macchina dei think-tanks, come l’Aspen Institute, che recluta intellettuali di fama. Il Verbo è sempre lo stesso: il Mercato deve vincere sullo Stato. La democrazia sociale? Rottamata. Il vero potere è finito nelle mani di pochissimi, come nel feudalesimo medievale. E paga legioni di intellettuali perché non dicano la verità e non raccontino quello che sta davvero succedendo.Il fenomeno della globalizzazione ha preso le mosse negli ultimissimi anni ‘80, dopo una gestazione ventennale, e ormai è al quarto di secolo: un periodo sufficiente a individuare alcune delle sue principali tendenze e caratteristiche. Non c’è mass media, partito politico, impresa o singolo intellettuale che non affermi che con la globalizzazione tutto è cambiato, che siamo entrati in una fase storica diversa in cui occorre predisporsi ad un continuo mutamento. «Ma, all’atto pratico, l’osservazione suggerisce – almeno in Occidente – che imprese, partiti, mass media e anche intellettuali continuano a comportarsi nei modi consueti». Tutto, scrive Aldo Giannuli, viene letto sulla base di analogie con il passato: la crisi? E’ una ripetizione del 1929. Il disordine mondiale? E’ la riproposizione del periodo che precedette la Prima Guerra Mondiale. L’incontro con altre culture? Già visto nel ‘500, e sono gli altri che devono accettare la cultura più avanzata, ovviamente quella occidentale. «I fatti stanno prendendo una direzione molto diversa da quella prevista e le analogie con il passato servono a poco per capire le tendenze in atto», sostiene Giannuli.
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Asse Londra-Pechino: ciao Usa e Ue, godetevi la Merkel
Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.«Com’è noto – scrive Sapelli sul “Sussidiario” – queste tre istituzioni sono dominate dagli Usa e dal Giappone, unitamente a un ruolo secondario, ma importante, degli europei». In una sua relazione del 2010, la Banca Asiatica di Sviluppo sosteneva che, per realizzare il complesso di infrastrutture necessarie allo sviluppo dell’area euro-asiatica, si sarebbero dovuti come minimo investire 8 trilioni di dollari dal 2010 al 2020. «Finora nulla è stato fatto, ed è per questo che la nuova istituzione, promossa dalla Cina, nel lasso di tempo dal 2013 al 2014, aumentava il suo capitale da 50 a 100 miliardi con l’intervento decisivo dell’India nella cofondazione della stessa banca». In breve, racconta Sapelli, nel 2014 a Pechino si svolse una cerimonia di insediamento della nuova banca a cui parteciparono, oltre alla Cina e all’India, paesi come Thailandia, Malesia, Singapore, Filippine, Pakistan, Bangladesh e Brunei, insieme a Cambogia, Laos, Birmania, Nepal, Sri Lanka, e persino Uzbekistan e Mongolia. «Significative anche le firme del Kuwait, dell’Oman e del Qatar, a cui si aggiunsero nel 2015 anche quella della Giordania e dell’Arabia Saudita, nonché del Tagikistan e infine del Vietnam». Ma attenzione: nel 2015 hanno aderito anche Nuova Zelanda e Inghilterra.Sapelli considera «straordinaria» già la notizia dell’adesione della Nuova Zelanda, «che aspira sempre più manifestamente a una politica differenziata rispetto all’Australia», che non a caso nel contesto del “Trans-Pacific Pact” ha firmato con gli Stati Uniti un accordo militare in funzione anti-cinese e dichiaratamente pro-giapponese. «Ma la notizia bomba – sottolinea Sapelli – è quella dell’adesione dell’Inghilterra». Cameron e Osborne, primo ministro e titolare degli esteri, sono stati chiari fin da subito, anche sul “Telegraph”, dichiarando che «il Regno Unito, in primo luogo, ha di mira i suoi interessi nazionali». Il problema, avverte Sapelli, ha gà avuto i suoi risvolti nel contesto della Nato, in cui «il Regno Unito ha diminuito i suoi investimenti in armamenti portandoli sotto il tetto del 2%, soprattutto in armi convenzionali, mentre invece, di contro, aumentava la sua spesa difensiva sul fronte nucleare missilistico, in terra, in cielo, in mare». Il Regno Unito? Non si sta affatto “isolando”. Al contrario: «Si sta sempre più allontanando dall’Europa», e quindi «guarda sempre più al mondo e in primo luogo all’Asia e, con atteggiamento più incerto, all’Africa».Quello a cui Londra sta voltando le spalle è «l’Europa deflazionistica, germanico-teutonica, antirussa». Per Sapelli, questo è «il trionfo postumo della Thatcher, che fu costretta a dimettersi dal suo stesso partito perché non credeva nell’accrocchio di un euro costruito a immagine del marco». Secondo l’analista, questa decisione inglese «avrà conseguenze devastanti in Europa, perché la Francia, da sola, non osa opporsi alla Germania». Quanto all’Europa del Sud, «è profondamente infetta dall’ideologia blairista e neoliberista, che altro non è che l’altra faccia dell’ordoliberalismus tedesco». Di fatto, «il Regno Unito abbandona l’Europa per ritornare a essere una potenza mondiale intracontinentale». E per far questo, «sceglie di allearsi con la Cina in una prospettiva di lungo periodo», ampliando così il solco apertosi con la crisi di Suez del ‘56, quando gli Usa (e l’Urss) si opposero all’invasione inglese dell’Egitto non-allineato di Nasser, mettendo fine al monopolio britannico sul Mediterraneo. Alla nascita del clamoroso asse Londra-Pechino, gli Stati Uniti hanno reagito «in modo convulso, come al solito nervoso, indispettito e privo di lungimiranza strategica». In ogni caso, continua Sapelli, è indubbio che «la ferita è profonda». E l’incapacità egemonica degli Usa «in quest’occasione è apparsa in modo preclaro e drammatico». Infatti, «tutte le famiglie politiche degli Usa sono in preda al caos».La divisione tra Stati Uniti e Gran Bretagna «non potrà che rafforzare la Cina e, di fatto, anche la Russia, con conseguenze inaspettate anche nel Mediterraneo». Nella nuova super-banca cinese, infatti, sono presenti anche Giordania, Arabia Saudita, Oman e Qatar: «Una chiara dichiarazione di guerra diplomatica agli Usa, impegnati in trattative sul nucleare con l’Iran». Inutile aggiungere, conclude Sapelli, che le conseguenze saranno «drammatiche» anche per l’Italia, «paese a sovranità limitata e verso cui il Regno Unito aveva avuto dagli Usa la delega di occuparsi dei suoi esiti governativi e oltre, com’era stato reso manifesto dalla non lontana visita privata della Regina Elisabetta e del suo consorte all’allora presidente Giorgio Napolitano», evento che Sapelli definisce «caso unico al mondo di visita privata di un monarca a un presidente della Repubblica». Tra le ombre che gravano sul nostro paese, anche l’influenza israeliana nell’eventuale dopo-Netanyahu e i rivolgimenti in Libia per mano dell’Isis. Tutto questo, anche alla luce della svolta inglese: chi condizionerà le decisioni strategiche italiane nel Mediterraneo?Sullo sfondo, naturalmente, l’impressionante iniziativa della Cina di Xi Jingping, che «ha iniziato a costruire una possente rete di istituzioni alternative al potere dominante del mondo di oggi, ossia agli Usa». In particolare, Pechino «sta costruendo una rete di istituzioni finanziarie alternative a quelle egemonizzate dagli Usa e dai suoi alleati europei». Si è iniziato con la Brics Bank, che oltre ai cinesi raccoglie Brasile, Russia e India, e si è continuato con la “New Silk Road”, «che unisce in un progetto infrastrutturale e finanziario i paesi che, dalla Mongolia all’Afghanistan, sino alla Turchia, costituiscono il cuore dell’Eurasia, o meglio dell’Heartland, sulla rotta che fu di Alessandro Magno, al quale Xi Jinping si dice spesso idealmente si accomuni». Dinanzi a queste iniziative, «l’Occidente è rimasto muto, sprofondando nel suo autismo germanico in Europa e nella sua dissociazione schizofrenica negli Usa», dove «l’isterico ometto» Netanyahu, invitato dai repubblicani, ha potuto parlare al Congresso sfidando «l’inconsapevole povero Obama». Insomma, «il disordine sta diventando caos». E in questo caos, la Cina avanza. Reclutando addittura l’Inghilterra.Nessuno se ne accorge, ma la Gran Bretagna sta divorziando dall’Europa “tedesca” e stringe un’alleanza strategica con la Cina, nemico numero uno degli Stati Uniti. Lo rivela l’economista Giulio Sapelli: i media non ne parlano, avverte, e la cosa non è affatto casuale, data l’enormità delle conseguenze che comporta. In pratica, Londra “saluta” anche Washington e annuncia che d’ora in poi “farà da sé”, sul piano geopolitico, aderendo al gigantesco complesso finanziario messo in piedi da Pechino, nel Pacifico, per contrastare l’egemonia degli Usa e del Giappone. Per Sapelli, storico dell’università di Milano, si tratta di una vera e propria “guerra”, assolutamente clamorosa e non più sotterranea, da quando il Regno Unito ha aderito formalmente all’Aiib, l’Asian Infrastructure Investment Bank fondata dai cinesi nel 2013. Un gigante che «si propone la missione di creare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica in diretta concorrenza con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale e la Banca Asiatica di Sviluppo», quest’ultima con sede a Manila.
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Sorpresa, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo
Spaghetti, chitarra, mandolino. E poi mafia, corruzione, evasione fiscale. Eppure, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, in barba alla retorica cialtrona dei denigratori dello Stivale. Davanti ci sono ovviamente l’inglese, il cinese e lo spagnolo. Poi, però, l’italiano. Perfettamente normale, dice Aldo Giannuli. E altrettanto normale è che gli unici a stupirsene siano proprio gli italiani. È lo stesso sito della Farnesina a dichiararlo: la lingua italiana, nel 2014, è la quarta lingua più studiata al mondo, con un totale di 687.000 allievi che la studiano all’estero nelle università, senza contare scuole e corsi privati. Un numero pari al totale degli iscritti al primo anno della scuola superiore in Italia. Ben 81 Istituti italiani di cultura offrono 8.165 corsi, frequentati da 69.500 persone, mentre i 406 comitati della Società Dante Alighieri dispongono di 266 centri di certificazione per 195.400 studenti. L’italiano, insomma, è vivo, richiesto e imparato in tutto il pianeta. Ovvio: l’Italia possiede il 70% dei beni culturali della Terra, è una grande patria della letteratura, è la meta d’elezione per milioni di turisti attirati dall’arte, dal paesaggio e dal cibo.Scontato, rileva Giannuli nel suo blog, che l’inglese primeggi: se si contano anche gli indiani, si tratta di una lingua parlata da un miliardo e mezzo di persone. Inoltre, è la principale lingua franca del mondo. E così la Cina, che da sola raggiunge il miliardo e mezzo di parlanti: «E’ la lingua del principale paese emergente, anzi forse ormai è meglio dire “emerso”, seconda potenzia mondiale». Quanto allo spagnolo, «è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa». E’ invece «inspiegabile» che la quarta lingua più studiata sia l’italiano, quella cioè di uno Stato che annovera «poco più di sessanta milioni di parlanti», forse settanta includendo eritrei, albanesi, somali, italiani all’estero e cittadini della Svizzera italiana. Restiamo «un paese relativamente piccolo e in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti», da Berlusconi a Renzi. Clamoroso, dunque, che l’italiano preceda «lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese». Come si spiega? «Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere».Prima di tutto, continua Giannuli, «si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa cattolica». La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, «ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano, che è parlato correntemente in Vaticano e usato prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quarant’anni». E anche in ordini religiosi importanti, come i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano. «Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che hanno avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio», con non pochi figli e nipoti che si sono mantenuti bilingui. Inoltre, purtroppo, l’italiano è spesso usato anche «fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo e altre organizzazioni criminali come i colombiani».Resta enorme l’importanza dell’italiano sul piano culturale, «e anche qui si sono dimenticate troppe cose». Per esempio, «che l’italiano è la lingua principale del melodramma». Nel mondo «ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ‘80». Un po’ di italiano, quantomeno, lo si canticchia dappertutto. «Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale», perché ha avuto uno sviluppo continuo nel tempo, dal XIII secolo in poi, «con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli». Lo stesso «non mi pare si possa dire delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia, che presentano maggiore discontinuità». Chi voglia avere un’idea del “peso” della letteratura italiana, continua Giannuli, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi. Dunque «non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia», anche per colpa della nostra pessima scuola, «il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare».Superfluo, infine, parlare del peso mondiale dell’arte italiana: Pompei e Roma, le vestigia archeologiche, le città d’arte come Firenze e Venezia, i tesori dei mille borghi storici. E poi il capolavoro del Rinascimento, rivoluzione culturale made in Italy. Oggi, poi, parlano italiano anche la moda e la gastronomia. «Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente – si risponde Giannuli – che gli italiani del tempo presente sono impari, rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato». Naturalmente, c’è chi li sempre “aiutati” a sottostimarsi: il paese ha avuto “la peggior classe dirigente d’Europa”, secondo molti critici, dominata da una nomenklatura di basso profilo, corrotta e clientelare, ai tempi in cui la sinistra italiana andava fermata – anche con le bombe nelle piazze – per impedirle di salire al potere quando al posto della Russia c’era ancora l’Urss. Italia sempre colonizzata dallo straniero, denunciano libri come “Il golpe inglese”; svenduta a trance sul ponte del Britannia, poi sull’altare di Bruxelles e dell’euro. Sul piatto della bilancia europea ha pesato l’acciaio della Germania, mentre il Belpaese non ha potuto far valere i suoi immensi giacimenti culturali, quelli che il mondo ci invidia. Dunque non lamentiamoci troppo degli italiani: non è tutta colpa loro.Spaghetti, chitarra, mandolino. E poi mafia, corruzione, evasione fiscale. Eppure, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, in barba alla retorica cialtrona dei denigratori. Davanti ci sono ovviamente l’inglese, il cinese e lo spagnolo. Poi, però, l’italiano. Perfettamente normale, dice Aldo Giannuli. E altrettanto normale è che gli unici a stupirsene siano proprio gli italiani. È lo stesso sito della Farnesina a dichiararlo: la lingua italiana, nel 2014, è la quarta lingua più studiata al mondo, con un totale di 687.000 allievi che la studiano all’estero nelle università, senza contare scuole e corsi privati. Un numero pari al totale degli iscritti al primo anno della scuola superiore in Italia. Ben 81 Istituti italiani di cultura offrono 8.165 corsi, frequentati da 69.500 persone, mentre i 406 comitati della Società Dante Alighieri dispongono di 266 centri di certificazione per 195.400 studenti. L’italiano, insomma, è vivo, richiesto e imparato in tutto il pianeta. Ovvio: l’Italia possiede il 70% dei beni culturali della Terra, è una grande patria della letteratura, è la meta d’elezione per milioni di turisti attirati dall’arte, dal paesaggio e dal cibo.
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Putin: 11 Settembre organizzato dagli Usa, eccovi le prove
L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.La notizia trapela dal newsmagazine “Veterans Today”: un collaboratore, Gordon Duff, segnala che sulla “Pravda” del 7 gennaio 2015 si parla dell’imminente, clamorosa iniziativa dei russi: smascherare definitivamente l’imbroglio mondiale dell’11 Settembre, quello degli arei dirottati sulle Torri “all’insaputa della Cia e dell’Fbi”, senza alcuna reazione da parte della difesa aerea americana. «Le evidenze satellitari russe che provano la demolizione controllata del World Trade Center con “armi speciali” – scrive “Come Don Chisciotte” – sono state recensite da un redattore di “Veterans Today”, mentre si trovava a Mosca». Gli analisti ritengono che l’attuale situazione di “guerra fredda” tra Washingon e Mosca rappresenti la quiete prima della tempesta: «Putin colpirà una sola volta, ma ha intenzione di farlo con notevole durezza», annuncia “Veterans Today”. «L’elenco delle prove include delle immagini satellitari», aggiunge il newsmagazine, e il materiale in via di pubblicazione «dimostrerebbe la complicità del governo degli Stati Uniti negli attacchi del 9/11 e la successiva manipolazione dell’opinione pubblica».«Le ragioni dell’inganno e dell’assassinio dei propri cittadini – continua Duff – avrebbero servito gli interessi petroliferi degli Stati Uniti e delle corporazioni statali del Medio Oriente». La Russia si preparebbe quindi a dimostrare, in modo clamoroso, che «l’America ha utilizzato il terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, contro i suoi stessi cittadini, per creare il pretesto per un intervento militare in paesi stranieri». Se così dovesse essere, aggiunge Duff, «la conseguenza diretta della tattica di Putin sarebbe quella di rendere note le politiche terroristiche segretamente adottate dal governo degli Stati Uniti: secondo gli analisti americani, la credibilità del governo statunitense ne risulterebbe compromessa e ci sarebbero, di conseguenza, delle proteste di massa nelle città e infine una rivolta generalizzata». A quel punto, si domanda Duff, gli Usa come potranno rapportarsi ancora sulla scena politica mondiale? «La leadership americana nella lotta contro il terrorismo internazionale ne risulterebbe totalmente compromessa, dando un immediato vantaggio agli Stati-canaglia e ai terroristi islamici».Lo stesso Barack Obama non è immune da accuse: tutti ricordano la scandalosa gestione dell’ultimo capitolo dell’affare Bin Laden, dichiarato morto in Pakistan senza uno straccio di prova, il presunto cadavere inabissato nell’Oceano Indiano. Morti anche i soldati del commando che avrebbe ucciso il capo di Al-Qaeda ad Abbottabad: fulminati “per errore” da fuoco amico, a Kabul, poche settimane dopo il misterioso blitz. Tutte le voci più importanti della dissidenza, negli Usa, hanno denunciato come palesemente falsa la versione ufficiale sulla strage dell’11 Settembre, mentre il Senato degli Stati Uniti ha concluso, di recente, che l’Fbi era perfettamente al corrente delle mosse dei futuri dirottatori-kamikaze. Finora, il manistream ha avuto buon gioco nel rifiutare i sospetti, avvalorando la verità ufficiale sulla base di una semplice tesi: il crimine evocato – strategia della tensione, con numeri smisuratamente stragistici – è troppo mostruoso per essere accettato. Impossibile digerire l’idea che qualcuno, al Pentagono, abbia organizzato l’attentato del secolo, arrivando addirittura ad “accecare” l’aviazione Usa per molte ore e a “sequestrare” il presidente Bush, fatto letteralmente scomparire “per proteggerlo”, e anche per impedirgli di reagire. “Complottismo”, è stata finora la formula liquidatoria per seppellire le scomode verità sull’11 Settembre, illuminate da prestigiose contro-inchieste: le Torri sarebbero crollate secondo le procedure della “demolizione controllata”, grazie all’impiego di esplosivi speciali come la nano-termite, di origine militare. E se ora Putin riuscisse davvero a confermare questa versione con evidenze esclusive?Gioele Magaldi, autore del dirompente libro “Massoni”, sulla scorta di documentazione top secret di origine massonica (che l’autore si dichiara pronto a esibire in caso di contestazioni) rivela che Osama Bin Laden non fu soltanto reclutato dalla Cia in Afghanistan ai tempi dell’invasione sovietica, ma fu “affiliato” nientemeno che da Zbigniew Brzezinski e inserito nel potentissimo club ultra-segreto delle superlogge internazionali. Una di queste, denominata “Hathor Pentalpha”, sarebbe stata creata da Bush padre con intenti palesemente eversivi: usare il terrorismo per manipolare l’opinione pubblica e trascinare l’Occidente nella “guerra infinita”, a beneficio delle super-lobby del petrolio e delle armi. Nella “Hathor Pentalpha” sarebbe arruolato anche Tony Blair, che più di ogni altro si spese per costruire la suprema menzogna delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Oggi, l’erede di Bin Laden è il “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi, misteriosamente scarcerato nel 2009 dal centro di detenzione di Camp Bucca in Iraq, perché potesse combattere nel sedicente “Esercito Siriano Libero” e poi fondare l’Isis, il cui nome coincide con quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, nei testi antichi chiamata anche “Hathor”. Solito schema: creare l’armata del terrore per poi scatenare una guerra. E, prima ancora, una campagna elettorale: quella di Jeb Bush, ultimo rampollo della dinastia presidenziale del fondatore della “Hathor Pentalpha”, definita «superloggia del sangue e della vendetta» perché nata quando Bush – affiliato a superlogge reazionarie – fu battuto nella corsa alla Casa Bianca da Ronald Reagan, sostenuto da clan massonici concorrenti.Sempre secondo Magaldi, lo stesso Putin è “affiliato” a una superloggia latomistica internazionale. L’autore di “Massoni” sostiene inoltre che da qualche anno sia in atto una sorta di guerra inframassonica: le “Ur-Lodges” progressiste starebbero preparando una controffensiva, dopo gli ultimi decenni in cui il mondo è caduto letteralmente nelle mani dell’élite finanziaria che ha pilotato la globalizzazione più selvaggia, calpestando i diritti dei popoli e gettando anche l’Occidente in una crisi senza precedenti, il cui punto più critico è l’Europa, dove le classi medie sono state rapidamente impoverite a beneficio dell’oligarchia neo-feudale che domina Bruxelles con il dogma neoliberista del rigore. In parallelo, si muovono scenari geopolitici: come previsto da tutti gli analisti, il gigante cinese è cresciuto in modo esponenziale, minacciando la supremazia americana. La Russia di Putin, prima provocata in Siria e ora assediata in Ucraina a due passi da casa, rappresenta la prima linea del fronte, mentre i Brics lavorano nelle retrovie per preparare un’alternativa multipolare, anche finanziaria, alla “dittatura” del petrodollaro. Quella che Papa Francesco chiama Terza Guerra Mondiale si sta avvicinando. Nel tentativo di scongiurarla, Putin giocherà davvero la sconvolgente carta delle “prove definitive” per accusare il governo Usa per l’11 Settembre?L’attacco alle Torri Gemelle «è stato pianificato dal governo degli Stati Uniti, ma è stato eseguito per procura, in modo tale che l’attacco contro l’America e il popolo degli Stati Uniti sembrasse un’aggressione effettuata da organizzazioni terroristiche internazionali». Attenzione: «Le prove fornite sarebbero a tal punto convincenti, da smontare completamente la versione ufficiale dell’11 Settembre sostenuta dal governo degli Stati Uniti». Quali prove? Quelle che starebbero per essere pubblicate a Mosca, controfirmate nientemeno che da Vladimir Putin. Ultima mossa, clamorosa, per tentare di fermare la macchina da guerra che – dalla Siria all’Ucraina – sta assediando i non-allienati allo strapotere di Washington, Russia e Cina in primis, tenendo sotto ricatto anche i paesi del petrolio e la stessa Europa, costretta a varare sanzioni autolesioniste contro l’impero del gas e usare la Nato come minaccia contro Mosca. Il presidente russo, annuncia la “Pravda”, si prepara dunque al colpo del ko: l’esibizione di «prove schiaccianti», satellitari, che inchioderebbero l’intelligence di Bush al crimine dell’11 Settembre, spaventoso massacro ai danni dei cittadini americani, da terrorizzare al punto da indurli a sostenere le guerre a venire, cominciando da Iraq e Afghanistan.