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Archivio del Tag ‘cemento’

  • Green Deal, maxi-raggiro: raddoppia la razzia della Terra

    Scritto il 24/11/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ogni anno l’uomo estrae dal suolo e dal sottosuolo terrestre 50 miliardi di tonnellate di materiali da costruzione, combustibili fossili, minerali e metalli. Per intenderci, una massa pari a quella di 140.000 Empire State Building. A questo gigantesco prelievo di risorse naturali è correlato un devastante impatto ambientale. Tutti abbiamo in mente le immagini delle petroliere in avaria che riversano in mare migliaia di tonnellate di greggio. Non tutti sanno, invece, che uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi decenni è stato causato da una miniera di rame (il disastro di Ok Tedi) o che una delle principali cause degli incendi boschivi in Amazzonia e in Africa è proprio l’attività estrattiva. Per allentare la pressione antropica (umana) sull’ecosistema terrestre un gruppo agguerrito di scienziati, comunicatori, attivisti e politici è riuscito gradualmente a imporre a un’ampia fetta dell’opinione pubblica occidentale una nuova prospettiva di sviluppo, incentrata apparentemente su un consumo più razionale delle risorse naturali. Invece di estrarre miliardi di tonnellate l’anno di carbone, petrolio e gas naturale dovremo imparare a sfruttare l’energia del Sole e del vento, risorse rinnovabili il cui sfruttamento non danneggia l’ecosistema. Tutto giusto, no? No, tutto sbagliato.
    Pannelli solari, pale eoliche, batterie e auto elettriche sono dispositivi tecnologici fatti di cemento, plastica, acciaio, titanio, rame, argento, cobalto, litio e decine di altri minerali. Un commentary uscito su “Nature Geoscience” pochi anni fa stima che, solo per convertire un settimo della produzione di energia primaria mondiale (25.000 TWh), potrebbe essere necessario triplicare la produzione di calcestruzzo (da poco più di 10 miliardi di tonnellate l’anno a quasi 35), quintuplicare quella di acciaio (da poco meno di due miliardi di tonnellate a poco più di 10) e moltiplicare di varie volte quella di vetro, alluminio e rame. E stiamo parlando di convertire alle energie rinnovabili neanche il 15% del fabbisogno energetico mondiale. Non solo, va considerato anche un aspetto tecnico: il “filone d’oro” esiste solo nei fumetti. Per fare un esempio, in un giacimento di rame, mediamente il rame è presente con una concentrazione di circa lo 0,6%. Questo vuol dire che per estrarre una tonnellata di metallo bisogna sbriciolare più di 150 tonnellate di roccia. Le grandi miniere d’oro sudafricane macinano 5/6.000 tonnellate di roccia al giorno per estrarre meno di 20 tonnellate di metallo prezioso l’anno. Ma non basta.
    Come si produce l’alluminio? Beh, con un procedimento che consuma moltissima energia: per produrre una tonnellata di alluminio, infatti, sono necessari circa 30.000 kwh (tra energia termica ed elettrica). E anche la siderurgia è un’attività energivora: la produzione di una tonnellata di acciaio richiede tra gli 800 e i 5.000 kwh equivalenti. Quindi, solo per produrre l’acciaio necessario a costruire pannelli e turbine eoliche sufficienti a generare 25.000 Twh l’anno di energia rinnovabile, potremmo avere bisogno di 7.000/40.000 Twh l’anno di energia fossile in più. E non è finita qui. Di circa una decina di materiali alla base della “rivoluzione verde”, infatti, le riserve conosciute basterebbero a coprire solo pochi di anni di consumo in uno scenario 100% rinnovabili. L’Unione Europea, per esempio, prevede che, per centrare gli ambiziosi target del Green Deal, avrà bisogno di molte più terre rare di quante ne vengano estratte attualmente in tutto il mondo. È bene sottolineare che queste stime non sono le maldicenze di un mercante di dubbi pagato da Big Oil. L’Onu, la Commissione Europea, la Banca Mondiale hanno prodotto ampi rapporti in cui arrivano a conclusioni analoghe: serviranno moltissime risorse naturali in più. Gli studi che approfondiscono l’argomento d’altro canto sono numerosi, e pubblicati sulle riviste scientifiche più autorevoli del mondo: “Pnas”, “Science”, “Nature”.
    Eppure, nonostante il vasto panorama di riviste divulgative che seguono da vicino la “rivoluzione verde”, da “Le Scienze” alle tante testate digitali, curiosamente in lingua italiana non esiste un singolo approfondimento su questo aspetto, così enorme e così contraddittorio. La percezione, piuttosto diffusa a dire il vero, è che chi fa divulgazione scientifica da un po’ di tempo si sia arrogato il diritto di scegliere cosa divulgare e cosa no. Abbia deciso di fare politica invece che informazione, insomma. Non si spiega, altrimenti, come sia possibile scagliarsi quasi quotidianamente contro il paradigma della crescita e, nello stesso tempo, appoggiare una “rivoluzione verde” che immagina di raddoppiare – quantomeno – il prelievo di risorse naturali in pochi decenni. Oppure come sia possibile che, mentre ci si indigna per i disastri ambientali in Amazzonia o in Australia, si progetti di scavare fosse profonde 170 km per cercare i metalli necessari a soddisfare il fabbisogno dell’industria eolica e solare (una prospettiva che per il momento, tra l’altro, è fantascienza pura, dato che si parla di operare a temperature e pressioni ingestibili con la tecnologia attuale).
    La miniera d’oro di TauTona, in Sud Africa, è la miniera a cielo aperto più profonda del mondo e arriva a 3,9 km di profondità. Immaginatela 40 volte più grande. Su “Econopoly” ci eravamo già occupati di questo aspetto e lo avevamo fatto ben prima che la pandemia di Covid-19 mettesse in luce che la scienza non è affatto monolitica come la dipingono alcuni media (sul clima impazzito ascoltate gli scienziati: ok, ma quali?). In definitiva, dietro a quella che chiamiamo “rivoluzione verde” si nasconde in realtà un programma per accrescere rapidamente e drasticamente il prelievo di risorse naturali. Con tutto quello che consegue per la salute degli ecosistemi e anche degli esseri umani: per estrarre miliardi tonnellate di ghiaia, argilla, ferro, bauxite e rame in più, distruggeremo altre foreste incontaminate, inquineremo ulteriormente aria e acqua, spingeremo verso l’estinzione decine di migliaia di specie animali. Quindi, in buona sostanza, uno scenario molto diverso da quello che viene venduto all’opinione pubblica.
    Non si tratta di una distopia, di un futuro lontano avvolto nelle nebbie del probabilmente e del forse: la Commissione Europea ha appena annunciato un programma di finanziamenti per l’industria mineraria europea e il prezzo del rame vola (+40% da marzo a oggi), trainato proprio dalla domanda legata alle auto elettriche cinesi e al Green Deal europeo. Ci siamo già dentro, stiamo già devastando centinaia di ecosistemi alla ricerca di litio e cobalto per le batterie o terre rare per i magneti delle turbine eoliche. Sospinti dall’emotività, alimentiamo una bolla epocale. Ci sono altre soluzioni? La temperatura continua ad aumentare, non possiamo fare finta di niente. Certo che ci sono altre soluzioni. E di nuovo, ci si scontra con il muro di gomma della divulgazione: l’opinione pubblica è stata convinta che non ci siano altre strade ma in realtà non è così. Prendiamo un caso esemplare: la Cattura Diretta in Atmosfera (Dac). La cattura diretta è una tecnologia dall’apparenza pionieristica, ma in realtà molto semplice, che permette di separare l’anidride carbonica dall’aria. Niente di fantascientifico, esistono decine di impianti pilota perfettamente funzionanti in tutto il mondo.
    Genericamente questa tecnologia viene ridicolizzata in quanto molto costosa: i risultati certificati a livello scientifico si attestano su un costo minimo di 94 dollari per ogni tonnellata di anidride carbonica catturata dall’atmosfera. Oggettivamente, un costo non indifferente dato che ne emettiamo quasi 37 miliardi di tonnellate l’anno. Chiunque faccia notare che stiamo parlando dei dati relativi a un impianto pilota, molto piccolo, e che in un impianto di grandi dimensioni i costi potrebbero essere già ora molto più bassi, viene accusato di pensiero magico, nonostante il potenziale delle economie di scala sia noto e facilmente misurabile. Oltretutto, si pretende che la cattura diretta competa con le rinnovabili senza beneficiare di incentivi pubblici, mentre le rinnovabili vengono generosamente sussidiate. Beh, la cosa curiosa è che le stime attuali sui costi della “rivoluzione verde” si aggirano intorno ai 5.000/6.000 miliardi l’anno, mentre catturare l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera a 94 dollari la tonnellata (ripetiamolo: un costo irragionevolmente gonfiato immaginando un impiego su larga scala) costerebbe “solo” 3.000 miliardi l’anno! È veramente difficile capire come si possa definire la cattura diretta costosa, appoggiando contemporaneamente una soluzione che costa il doppio.
    Da non dimenticare, poi, come sottolinea proprio “Nature”, che la cattura diretta ha un vantaggio fondamentale rispetto a tutte le altre soluzioni: minimizza l’incertezza, aggredisce il nocciolo del problema. Da una parte parliamo di ridurre l’aumento della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera attraverso complessi meccanismi culturali e sociali, dall’altra di toglierla direttamente con una tecnologia. Ancora più curioso è il caso della riforestazione e dell’agricoltura rigenerativa (da non confondere con l’agricoltura biologica o biodinamica: parliamo di agricoltura intensiva con rese superiori a quella chimica tradizionale), due opzioni perfettamente ecosostenibili che ci permetterebbero di tamponare rapidamente il problema del cambiamento climatico, con un dispendio di risorse limitato e ricadute socioeconomiche allettanti. Eppure, le iniziative in questa direzione sono continuamente sotto il fuoco degli scienziati, dei divulgatori e degli attivisti green. Un paradosso. L’accusa è spiazzante: l’adozione di queste soluzioni potrebbe rallentare la transizione verso le energie rinnovabili.
    Ma l’obiettivo finale di questo gigantesco sforzo è mettere al sicuro il pianeta dall’incertezza climatica oppure far fare un mucchio di soldi alla lobby delle energie rinnovabili? Oramai è diventato molto difficile capirlo. Elon Musk è indubbiamente un imprenditore brillante, un genio del nostro tempo, ma non per questo ci dobbiamo sentire obbligati a versargli 1.000/2.000 miliardi di dollari l’anno, generosamente irrorati da fondi pubblici che togliamo alla sanità o all’educazione, solo per fare due esempi. Sarebbe bello poter chiosare, come d’altronde va molto di moda in questi tempi, dicendo che è sempre più importante studiare, informarsi, approfondire, perché ne va del nostro futuro. Ma se a monte c’è un filtro che seleziona quali informazioni devono arrivare ai media e quali no, questo diventa solo l’ennesimo esercizio di stile altezzoso e inconcludente. «Va notato che l’Ipcc nel suo quinto rapporto, coerentemente con tutte le precedenti relazioni di valutazione, non affronta esplicitamente la questione delle implicazioni materiali degli scenari di sviluppo climatico» (World Bank).
    (Enrico Mariutti, “La grande eresia: la rivoluzione verde è un’enorme fake news?”, dal “Sole 24 Ore” dell’11 novembre 2020; l’articolo è pubblicato nel supplemento “Econopolis”. Ricercatore e analista in ambito economico ed energetico, nonché autore de “La decarbonizzazione felice”, Mariutti è il “founder” della piattaforma di microconsulenza Getconsulting e presidente dell’Isag, Istituto Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie).

    Ogni anno l’uomo estrae dal suolo e dal sottosuolo terrestre 50 miliardi di tonnellate di materiali da costruzione, combustibili fossili, minerali e metalli. Per intenderci, una massa pari a quella di 140.000 Empire State Building. A questo gigantesco prelievo di risorse naturali è correlato un devastante impatto ambientale. Tutti abbiamo in mente le immagini delle petroliere in avaria che riversano in mare migliaia di tonnellate di greggio. Non tutti sanno, invece, che uno dei disastri ambientali più gravi degli ultimi decenni è stato causato da una miniera di rame (il disastro di Ok Tedi) o che una delle principali cause degli incendi boschivi in Amazzonia e in Africa è proprio l’attività estrattiva. Per allentare la pressione antropica (umana) sull’ecosistema terrestre un gruppo agguerrito di scienziati, comunicatori, attivisti e politici è riuscito gradualmente a imporre a un’ampia fetta dell’opinione pubblica occidentale una nuova prospettiva di sviluppo, incentrata apparentemente su un consumo più razionale delle risorse naturali. Invece di estrarre miliardi di tonnellate l’anno di carbone, petrolio e gas naturale dovremo imparare a sfruttare l’energia del Sole e del vento, risorse rinnovabili il cui sfruttamento non danneggia l’ecosistema. Tutto giusto, no? No, tutto sbagliato.

  • Contro la disoccupazione l’unica guerra di Trump: stravinta

    Scritto il 11/10/19 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.
    In primo luogo Trump ha promesso di non iniziare nuovi conflitti geopolitici, al fine di risparmiare le vite di giovani americani e di consentire ad ogni paese ove vi sono tensioni di superarle in autonomia. Una volta eletto, ha rispettato questo impegno? I dati sono sotto gli occhi di tutti. Trump non ha iniziato alcun conflitto e i suoi interventi (ad esempio in Siria) sono risibili rispetto a quelli dei suoi predecessori, Obama e Bush. Ha minacciato Turchia, Corea del Nord, Venezuela. Ma stava solo prendendo per i fondelli i falchi del Pentagono, che da anni sono rimasti senza cibo. Sentite cosa ha dichiarato su di lui l’economista Paul Krugman, non senza un travaso di bile: «A quanto pare, per Trump distruggere la Nato non è un mezzo per raggiungere uno scopo: è lo scopo in sé. Trump non vuole riformare l’ordine mondiale. Vuole distruggerlo». E tutto l’intervento di Krugman viene riportato sul maggior organo di informazione finanziaria d’Italia. Sì, insomma, quando questi si arrabbiano è segno che la direzione intrapresa è quella giusta.
    Ma veniamo all’economia, alla “struttura”, tanto per usare termini marxisti. Trump aveva promesso di aiutare il settore economico manifatturiero americano. Anche se il manifatturiero pesa pochino dentro la balena economica americana, molti statunitensi sono infatti in difficoltà da anni, perché diverse fabbriche hanno chiuso i battenti per lasciare la produzione nelle mani dei paesi emergenti o di quelli già emersi, come la Cina. Gli Usa, infatti, non sono abitati solo da avvocati ebrei della Grande Mela che vanno a teatro e suonano il flauto nei pub, come Woody Allen, né la costa ovest è frequentata solo dagli smanettoni della Silicon Valley e dagli artisti di San Franciso. Ci sono anche operai, artigiani, estrattori, agricoltori. Insomma, l’America non è solo Apple e Facebook! Trump lo ha capito e ha pensato di aiutare il mondo del lavoro anche della gente comune, e lo sta facendo con politiche protezionistiche tese a savaguardare le produzioni locali. I risultati che finora ha ottenuto sono di destra o di sinistra? Se ancora vi piacciono queste classificazioni, giudicate da soli il dato uscito stamani: il tasso di disoccupazione negli Usa oggi è arrivato al 3,5%.
    Sembrerà strano, ma non tutti quelli che mi leggono sono intelligenti, e allora per i più duri di comprendonio vale la pena ripeterlo almeno 5 volte, con l’invito di ripetere questa frase ogni mattina, prima delle abluzioni. «Il tasso di disoccupazione – recitano le agenzie – non era così basso dal dicembre di 50 anni fa. Rivisti al rialzo anche i dati sull’occupazione dei due mesi precedenti: a luglio i nuovi posti sono passati da 159.000 a 166.000, ad agosto da 130.000 a 168.000». Cosa significa, per una comunità di enormi dimensioni (327 milioni di abitanti) abbassare la disoccupazione al 3,5%? Due cose, anzitutto: i lavoratori dipendenti hanno maggior potere contrattuale, e in quei territori non lavora solo chi non vuole lavorare. Pregherei i detrattori di risparmiarmi la filastrocca sull’America che non ha la sanità pubblica, il diritto allo studio e le solite cose. Lo so benissimo e combatto contro questo, nel mio piccolo, da sempre. Ma sono distorsioni del capitalismo che non sono di sicuro imputabili a Trump, eletto nel 2016. Che piaccia o no, Trump sta dimostrando almeno due  cose: da un lato, che la pianificazione pubblica dell’economia può dare enormi risultati. Dall’altro, che il mondo può essere una realtà politica e culturale multipolare.
    (Massimo Bordin, “Trump ha ucciso la disoccupazione, ora tocca ai suoi critici”, dal blog “Micidial” del 4 ottobre 2019).

    Quando incontro persone che sono venute a conoscenza delle mie osservazioni su Putin e Trump, il refrain che ascolto è sempre lo stesso: da quando in qua ti piacciono i dittatori? Vorresti forse un modello che si ispira agli autoritarismi? E avanti di questo passo. Tralasciando l’analisi su Putin (ho scritto un libro su di lui dove è spiegato tutto quello che c’è da sapere), prendiamo in considerazione la mia “simpatia” per Donald Trump, anche e soprattutto alla luce di quanto accaduto oggi. In primo luogo, deve essere chiaro che non nutro alcuna simpatia per il presidente americano. Non mi piace come speaker, né tanto meno la sua carriera privata, sbandierata in modo presuntuoso sui media, quando in realtà stiamo parlando di un palazzinaro newyorkese che ha ereditato una cospicua fortuna dal padre costruttore. Non mi piace il suo look – abiti fuori misura – né la sua trasmissione televisiva sull’imprenditoria, dove esibiva il solito fare paternalistico dell’imprenditore che si è fatto da sé (e non è vero…). Mi stufano i seimila tweet che pubblica quotidianamente, e che sono spesso contraddittori. Fatta questa doverosa precisazione, veniamo però alle cose che Trump ha davvero detto e poi davvero fatto.

  • Ecatombe di alberi in ogni città: intralciano il wireless 5G

    Scritto il 24/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Altro che potature programmate fuori stagione. Un abbattimento di alberi per le strade di mezzo mondo. Una vera e propria strage di verde pubblico è in corso in Occidente. Roba mai vista prima d’ora, se non altro per l’anomala sincronicità nell’esecuzione dei tagli: Inghilterra, Scozia, Irlanda, Francia, Olanda, America e pure Italia. Decine di migliaia di alberi (anche secolari e rigogliosi) tagliati con disinvoltura alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, tra gli interrogativi dell’opinione pubblica e le proteste di chi, sgomento per l’anomala coincidenza, s’interroga sui risvolti meno evidenti spingendosi alla ricerca di verità occulte. Dietrologia? A placare gli animi non bastano le relazioni tecniche di agronomi che (legittimamente) certificano malattia e morte naturale di arbusti, fogliame e rami. Perché il problema non è tanto (e solo) saperne di più sullo stato delle piantumazioni abbattute, ma capire se esiste un motivo più subdolo e soprattutto se in tutto questo ci sia una regia nell’esecuzione: perché decine di migliaia di alberi sono stati abbattuti tutti insieme, proprio adesso? Anche in città distanti decine di migliaia di chilometri l’una dall’altra? In Europa come in America?
    Nella “smart city” Prato sono scesi in strada gli attivisti del comitato locale “Stop 5G”, cartelli in mano hanno accompagnato la chirurgica esecuzione mostrando slogan su un’ipotetica correlazione col wireless di quinta generazione: “Più alberi, meno antenne”, l’equazione sfilata in corteo pure nel “Friday For Future”. E’ successo così anche alle porte di Roma, dove il “Comitato Stop 5G Cerveteri” ha diffuso una nota in cui veniva chiesto al sindaco ceretano di chiarire sulla contestata demolizione. Alessio Pascucci, primo cittadino nella città della necropoli etrusca ma pure coordinatore nazionale di “Italia in Comune” (il cosiddetto partito dei sindaci fondato dal parmense Pizzarotti dove è iscritta anche una consigliera della Regione Veneto firmataria di una mozione Stop 5G), è uscito allo scoperto accusando di teorie complottiste, rettiliane e terrapiattiste i difensori dell’ecosistema che nell’“Internet delle cose” ipotizzano il mandante del sincronico abbattimento di alberi, annunciato persino in 60.000 unità a Roma dalla giunta Raggi. Mentre in Abruzzo, nell’intento di scongiurare il de profundis, le “Mamme Stop 5G” portano i loro figli nei prati per farli abbracciare agli alberi, manco fossero scudi umani nell’avanzata dell’intelligenza artificiale.
    Puntando su studi e consulenze d’esperti, l’inchiesta di “Oasi Sana” prova a gettare un po’ di luce, tra le ombre di una polemica che promette strascichi non solo in sedi amministrative locali. Interviste e documenti alla mano, ecco cosa ne viene fuori su alberi e 5G. Alla faccia dei negazionisti. Il nesso esiste eccome: tra natura e intelligenza artificiale, tra albero e 5G la convivenza è critica… uno dei due è di troppo! «L’acqua, di cui in genere sono ricchi gli alberi e le piante, assorbe molto efficacemente le onde elettromagnetiche nella banda millimetrica», sostiene Andrea Grieco, docente di fisica a Milano ed esperto dei problemi legati all’inquinamento elettromagnetico. «Per questo motivo costituiscono un ostacolo alla propagazione del segnale 5G. In particolare le foglie, con la loro superficie complessiva elevata, attenuano fortemente i segnali nella banda Uhf ed Ehf, quella della telefonia mobile. Gli effetti biologici sono ancora poco studiati, però alcune ricerche rilevano danni agli alberi e alle piante sottoposte a irraggiamento da parte delle Stazioni Radio Base (le antenne spesso sui tetti dei palazzi, Ndr)».
    Quindi il sillogismo è presto fatto: alberi = clorofilla = acqua. E le inesplorate microonde millimetriche dalle mini-antenne 5G (senza studio preliminare sugli effetti per l’uomo, nonostante le radiofrequenze siano possibili cancerogeni per l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) trovano nell’acqua e negli alberi un ostacolo nel trasporto dati, non avendo il segnale del wireless di quinta generazione lo stesso campo elettrico né la stessa penetrazione a lungo raggio dei precedenti standard 2G, 3G e 4G. In pratica, l’albero funge da barriera. Le foglie dell’albero assorbono lo spettro di banda del 5G, impedendone l’ottimale ricezione del segnale emesso dalle mini-antenne!
    Un documento di 46 pagine dell’autorevole Ordance Survey (si tratta dell’ente pubblico del Regno Unito incaricato di redigere la cartografia statale) sulle pianificazioni geo-spaziali del 5G stilato come manuale d’uso per pianificatori e autorità locali dal Dipartimento per la digitalizzazione, cultura, media e sport, afferma che nelle strade urbane si deve prima di tutto «valutare se l’area ha un flusso di traffico significativo e in particolare autobus e camion», per poi considerare come il segnale del 5G possa essere impattato, cioè ostacolato, «identificando tutti gli oggetti significativi in ​​genere», con altezza «oltre i 4 metri», quali (ad esempio) «pareti alte, statue e monumenti più piccoli, cartelloni pubblicitari» e (guarda caso) «alberi di grandi dimensioni e siepi alte», poiché arbusti, foglie e rami «devono essere considerati come bloccanti del segnale» del 5G al pari di materia solida (pietra e cemento).
    Se durante i test di valutazione ingegneristica sulla velocità di trasmissione del 5G condotti in particolari condizioni atmosferiche (neve, pioggia intensa) il colosso americano Verizon ha individuato nelle foglie sugli alberi un problema, sempre d’oltre Manica un altro documento (già pubblicato in esclusiva su “Oasi Sana”) conferma il nesso alberi e 5G. E’ dell’Istituto per i sistemi di comunicazione dell’Università britannica di Surrey a Guildford (Est Inghilterra) e dice come i «nuovi modi con cui le autorità di pianificazione locali possono lavorare con gli operatori di reti mobili per offrire enormi opportunità future per le comunità locali (…) è ridurre le altezze dei montanti mobili in modo che siano schermati visivamente da edifici e/o alberi, visto che gli alberi rappresentano l’ostruzione più alta e più probabile. Tuttavia, ciò scherma anche i segnali a radiofrequenza e ha sconfitto l’obiettivo di una copertura affidabile» del 5G. «Le curve tracciate nel diagramma – continua il testo redatto dai cattedratici – mostrano come all’aumentare dell’altezza dell’albero, sopra la linea di irradiazione della stazione radio base, aumenta anche quella che è noto come la ‘zona di Fresnel’ o perdita di ombre».
    Giungendo al dunque, infine, dall’Inghilterra vengono smascherati i conflitti tra alberi e 5G, ovvero cono d’ombra e segnale wireless sui lampioni della luce: «Per evitare questa perdita di ombreggiamento ed essere al di fuori della zona di Fresnel, è necessario che l’altezza dell’albero sia almeno 3 metri inferiore rispetto all’altezza della stazione di base». In definitiva, sia gli studiosi del 5G dell’Ordance Survey che quelli di Surrey a Guildford, convergono sullo stesso punto dicendo apertamente la stessa cosa: gli alberi con altezza ricompresa tra i 4 e i 3 metri sono un intralcio, un vero e proprio ingombro per la diffusione del segnale elettromagnetico del 5G che, irradiato dai lampioni della luce, non verrebbe recepito a terra dai nuovi Smartphone! Come anticipato dal fisico Andrea Grieco, che foglie e piante assorbano l’elettrosmog è risaputo. Lo certifica anche uno studio dell’americana Katie Haggerty che, sul giornale internazionale per le ricerche forestali, ha pubblicato gli esiti sull’influenza nociva delle radiofrequenze sulle piante. «Numerosi episodi si sono stati registrati in Nord America», deduce la ricercatrice, condotti esperimenti su piante schermate e non, irradiate da campi elettromagnetici.
    «La morfologia e il comportamento dei due gruppi esposti a radiofrequenza erano molto simili. Piantine non schermate e finte schermate avevano tessuto fogliare che variava di colore dal giallo al verde e un’alta percentuale di tessuto fogliare in entrambi i gruppi esposti mostrava lesioni necrotiche. Le foglie nel gruppo schermato erano sostanzialmente prive di lesioni del tessuto fogliare, ma le foglie non schermate e finte schermate erano tutte influenzate in qualche misura dalla necrosi del tessuto fogliare». In conclusione, oltre che per l’umanità, l’elettrosmog è pericoloso per ecosistema e piante. E gli alberi sono un intralcio al grande business del 5G. Certo, da qui a dire che tra Europa e America decine di migliaia di alberi siano stati sicuramente abbattuti per installare nuove antenne a microonde millimetriche ce ne passa, ma è un dubbio fondato e tutt’altro che azzardato su cui le istituzioni sono chiamate a chiarire. Responsabilmente. Senza inutili giri di parole. Anche perché la verità sarà nella prova dei fatti. Su quelle stesse strade senza più verde, spunteranno come funghi antenne 5G dai lampioni della luce?
    (Maurizio Martucci, “Ecatombe di alberi. Intralciano il wireless del 5G”, da “Oasi Sana” del 15 aprile 2019).

    Altro che potature programmate fuori stagione. Un abbattimento di alberi per le strade di mezzo mondo. Una vera e propria strage di verde pubblico è in corso in Occidente. Roba mai vista prima d’ora, se non altro per l’anomala sincronicità nell’esecuzione dei tagli: Inghilterra, Scozia, Irlanda, Francia, Olanda, America e pure Italia. Decine di migliaia di alberi (anche secolari e rigogliosi) tagliati con disinvoltura alla luce del sole, sotto gli occhi di tutti, tra gli interrogativi dell’opinione pubblica e le proteste di chi, sgomento per l’anomala coincidenza, s’interroga sui risvolti meno evidenti spingendosi alla ricerca di verità occulte. Dietrologia? A placare gli animi non bastano le relazioni tecniche di agronomi che (legittimamente) certificano malattia e morte naturale di arbusti, fogliame e rami. Perché il problema non è tanto (e solo) saperne di più sullo stato delle piantumazioni abbattute, ma capire se esiste un motivo più subdolo e soprattutto se in tutto questo ci sia una regia nell’esecuzione: perché decine di migliaia di alberi sono stati abbattuti tutti insieme, proprio adesso? Anche in città distanti decine di migliaia di chilometri l’una dall’altra? In Europa come in America?

  • Sparisce Chiamparino, ma crolla la diga NoTav in val Susa

    Scritto il 01/6/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Aiuto, vince il partito Sì-Tav anche in valle di Susa, già roccaforte dei 5 Stelle. Sicuri? «Se dobbiamo vedere realmente chi ha fatto del Tav il suo punto principale, allora dobbiamo leggere nella batosta di Chiamparino un dato positivo», scrive il sito “NoTav.info”. L’ex “padre padrone” del Piemonte, infatti, «non ha creato quella breccia che il Pd e il centrosinistra “madamino” volevano aprire, anzi». Dopo aver riempito le piazze di improvvisati attivisti pro-Tav, l’ex governatore piemontese (fermatosi al 35,8%) è uscito con le ossa rotte dalle elezioni regionali, surclassato dal centrodestra di Alberto Cirio (49,9%). Letteralmente “asfaltati” invece i grillini, schiantati da un umiliante 13,6%. «La Torino-Lione si farà», si è affrettato a dire il trionfatore, Cirio. «Quello che si è svolto in Piemonte, e persino in valle di Susa, è già un sostanziale referendum sulla grande opera», secondo Matteo Salvini, anch’esso arruolato nella cordata per la maxi-infrastruttura più inutile d’Europa. Ma, come segnalano i NoTav, a far rumore è soprattutto il crollo di Chiamparino: una sconfitta personale altamente simbolica, per un politico navigatissimo che negli ultimi anni aveva puntato tutto proprio sugli appalti per costruire la ferrovia-doppione di quella che già collega Torino e Lione attraverso la linea storica della valle di Susa, la Torino-Modane, via traforo del Fréjus (appena riammodernato con una spesa di quasi mezzo miliardo).
    Ora, di fronte alla débacle, Chiamparino si prepara al ritiro dalle scene: rinuncerà persino a sedere in Consiglio regionale, cedendo il posto a candidati più giovani. Cresciuto nel Pci-Pds, eletto sindaco di Torino nel 2001 e poi riconfermato trionfalmente nel 2006, Chiamparino è stato classificato dal “Sole 24 Ore” il sindaco più amato d’Italia, con un consenso del 75%. Vicinissimo a Sergio Marchionne, ha tentato di ripristinare il ruolo industriale della città (prima che la Fiat “emigrasse” a Detroit). Nel Pd ha avuto un ruolo di primo piano (riforme) sia con Veltroni che con Franceschini. E’ stato presidente nazionale dell’Anci, portavoce dei Comuni italiani e coordinatore dei sindaci delle città metropolitane. Poi, nel 2012, il gran salto nella finanza, come presidente della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria di Intesa SanPaolo. Salvo poi tornare tranquillamente alla politica attiva nel 2014, divenendo presidente del Piemonte (poi anche a capo della conferenza dei presidenti delle Regioni italiane). Crescente, negli ultimi dieci anni, il suo impegno per la Torino-Lione. Forte la criminalizzazione della resistenza popolare rispetto alla grande opera: «Ormai siete quattro gatti», disse nel 2010 ai NoTav, che gli risposero con una marcia di 40.000 persone.
    Un anno dopo, gli attivisti si opposero allo sgombero forzato del sito di Chiomonte, prescelto per impiantare il cantiere del mini-tunnel geognostico. E’ solo un’opera accessoria, l’unica finora realizzata: del traforo ferroviario vero e proprio, tra Italia e Francia (54 chilometri, da Susa alla Maurienne) non è stato scavato neppure un metro. In vent’anni, l’unica forza politica di governo capace di opporsi al Tav valsusino è stato il Movimento 5 Stelle. In precedenza, ministri come Ronchi e Pecoraro Scanio (Verdi) più Paolo Ferrero (Rifondazione Comunista) erano riusciti a frenare temporaneamente Prodi. Ma solo Di Maio – dopo l’impegno personale di Beppe Grillo in valle di Susa – ha avuto la forza di ridiscutere interamente il progetto già nel “contratto di governo” con Salvini, per poi affidare a Toninelli, finalmente, un’analisi costi-benefici. Scontato l’esito del lavoro della commissione, presieduta dal professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, uno dei migliori specialisti europei in tema di trasporti. Il verdetto: la linea Tav Torino-Lione, costosissima, è completamente inutile. Nonostante ciò, Salvini non ha mollato l’osso: i bandi di gara per far partire i cantieri del tunnel italo-francese restano aperti fino all’autunno. E ora, con il crollo dei 5 Stelle (al 17% alle europee, al 13% in Piemonte) la posizione degli alleati dei NoTav si è ulteriormente indebolita.
    La marea salviniana, peraltro, ha fatto breccia anche in valle di Susa: alle europee, la Lega ha convinto la stragrande maggioranza degli abitanti. I 5 Stelle restano il primo partito soltanto in 6 Comuni della vallata (Exilles, Venaus, Mompantero, Bussoleno, Chianocco e Vaie), mentre i NoTav perdono un alleato strategico a Susa, dove il sindaco uscente Sandro Plano non è riuscito a farsi riconfermare. Secondo i NoTav, comunque – a parte Susa – il voto comunale ha confermato le amministrazioni vicine agli attivisti che si oppongono alla grande opera. «Altro discorso è quello del Movimento 5 Stelle, che evidentemente ha pagato la mancanza di decisione e di risultati rispetto alle aspettative create, sul Tav come su tutto il resto», scrive “NoTav.info”, che aggiunge: «Non ci stupiscono le dichiarazioni di personaggi come Ferrentino ed Esposito, che sono più contenti del voto alla Lega in ottica Sì-Tav che tristi per la batosta presa, segnale chiaro di come il partito del cemento non abbia colori». Antonio Ferrentino e soprattutto Stefano Esposito, esponenti del Pd piemontese, non hanno risparmiato accuse ai NoTav, demonizzando l’opposizione al super-treno. Dal canto loro i NoTav resistono, consapevoli del fatto che proprio la filiera di potere delle grandi opere ben rappresenta la post-democrazia attuale, con scelte imposte dall’alto (spesso assurde, come la Torino-Lione) e contro la volontà popolare. Sovranità confiscata dal business, anche se in vent’anni i supporter del Tav non sono mai riusciti a dimostrarne l’utilità.

    Aiuto, vince il partito Sì-Tav anche in valle di Susa, già roccaforte dei 5 Stelle. Sicuri? «Se dobbiamo vedere realmente chi ha fatto del Tav il suo punto principale, allora dobbiamo leggere nella batosta di Chiamparino un dato positivo», scrive il sito “NoTav.info”. L’ex “padre padrone” del Piemonte, infatti, «non ha creato quella breccia che il Pd e il centrosinistra “madamino” volevano aprire, anzi». Dopo aver riempito le piazze di improvvisati attivisti pro-Tav, l’ex governatore piemontese (fermatosi al 35,8%) è uscito con le ossa rotte dalle elezioni regionali, surclassato dal centrodestra di Alberto Cirio (49,9%). Letteralmente “asfaltati” invece i grillini, schiantati da un umiliante 13,6%. «La Torino-Lione si farà», si è affrettato a dire il trionfatore, Cirio. «Quello che si è svolto in Piemonte, e persino in valle di Susa, è già un sostanziale referendum sulla grande opera», secondo Matteo Salvini, anch’esso arruolato nella cordata per la maxi-infrastruttura più inutile d’Europa. Ma, come segnalano i NoTav, a far rumore è soprattutto il crollo di Chiamparino: una sconfitta personale altamente simbolica, per un politico navigatissimo che negli ultimi anni aveva puntato tutto proprio sugli appalti per costruire la ferrovia-doppione di quella che già collega Torino e Lione attraverso la linea storica della valle di Susa, la Torino-Modane, via traforo del Fréjus (appena riammodernato con una spesa di quasi mezzo miliardo).

  • Se la Cina ci ripensa: Via Polare della Seta, e addio Italia

    Scritto il 01/4/19 • nella Categoria: idee • (6)

    E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.
    In un’analisi publicata sul suo blog, Barnard fa notare che il gigante logistico cinese Cccc (China Communications Construction Co.) esporrebbe gli scali italiani a pericoli considerevoli. Il primo: «Trieste e Genova possono trasformarsi in cloache d’inquinanti cinesi, avvelenando i cittadini e costringendo le amministrazioni a costi per danni di centinaia di milioni». Il secondo: «Gli investitori cinesi sono spietati: un solo sciopero di lavoratori portuali italiani, una sola vertenza ambientale italiana, e ci possono far causa per milioni o anche miliardi». Motivo: nel 1985, l’Italia ha firmato un trattato bilaterale con la Cina, ancora valido, dove il nostro paese s’impegna a rispettare la micidiale “Risoluzione delle dispute tra investitore e Stato” (Isds), dove «qualsiasi investitore cinese può far causa all’Italia se ritiene che le sue leggi gli danneggino il business, e i termini dei processi sono scandalosamente sbilanciati verso le mega-aziende». Poi c’è l’insidia degli eventuali lavoratori a contratto: non per forza italiani, magari cinesi. E nel caso, pesantemente sfruttati. Ma se i rischi connessi al lavoro riguardano le sole maestranze, l’inquinamento investirebbe le intere aree urbane.
    I quattro porti più inquinanti al mondo, avverte Barnard, sono ad alta intensità di navi cargo cinesi. «Singapore, Hong Kong, Tianjin e Port Klang. E’ un caso che nessuno di essi sia in Usa o in Europa?». Gli scali commerciali “vomitano” oltre 20 milioni di tonnellate all’anno di CO2, ossidi di azoto e di zolfo, metano e particolato Pm10. «E’ noto che i cargo di containers sputano veleni anche se fermi in porto, e si calcola che queste emissioni terribilmente nocive per gli abitanti delle città portuali si quadruplicheranno entro il 2050, secondo dati Unctad-Ocse del 2015». Emissioni, calcola Barnard, che in termini di danni collaterali (salute) costeranno 12 miliardi di euro all’anno, secondo le stime dell’Ocse sugli abitanti delle 50 principali città portuali (e questo già oggi, senza ancora la mega-espansione del traffico a Genova e Trieste). Nel porto greco del Pireo, ingigantito e gestito dal colosso cinese Cosco, gli operai hanno scioperato per ottenere almeno «il triste titolo di “lavoratori di mansioni usuranti e insalubri”». Qualcuno ci ha pensato, firmando il Memorandum Italia-Cina? Quanto al business, per Genova e Trieste «si parla più di un aumento di traffico di cargo che di partecipazioni societarie cinesi».
    Innanzitutto, continua Barnard, non è affatto chiaro chi pagherà per gli enormi ampliamenti strutturali dei due porti. La Cina? «Pechino ci presterà milioni, a patto che gli appalti vadano alle sue aziende? O ci presterà soldi e basta? O ce li metteremo noi? C’è caos, su questi punti». E poi: cosa significa mettere lavoratori sotto il controllo dei colossi cinesi? Gli esperti del Global Human Rights Lawyers (Ius Laboris, diritti del lavoro) scrivono quest’anno che «per gli Stati Uniti le scelte sono chiare in tema di Via della Seta: o si chiudono a riccio sul mercato interno con alto protezionismo, oppure accettano di abbassare il costo del lavoro e le protezioni sindacali dei propri lavoratori per competere coi cinesi». Chiaro il concetto? Washington ha già provato cosa significhi aprire ai colossi cinesi: a Saipan, territorio off-shore degli Stati Uniti, pochi anni fa gli americani concessero appalti a tre mega-aziende cinesi per la costruzione di un enorme sito turistico. Ebbene, il 91% dei posti di lavoro fu importato dalla Cina. Scaduti i visti, scrive Barnard, «i cinesi piuttosto che pagare di più per impiegare operai americani locali truffarono le autorità Usa importando lavoratori cinesi illegali con finti visti turistici». Li facevano lavorare 13 ore al giorno, con salari illegali negli Usa. «La sicurezza sul lavoro fu definita “atroce”, con montagne di feriti e persino di morti, come denunciato da Aaron Halegue della New York University Law School. Washington dovette intervenire, e fu una strage di cause e litigi, con una ridda di manager cinesi in galera».
    Stessa storia ad Atene, se non peggio: al Pireo, il colosso cinese Cosco s’è inventato «un sindacato cinese fittizio che vigilava su diritti fittizi», dopo aver preteso «la quasi totale esclusione del sindacato portuale ellenico». Anche in Grecia c’erano molti operai cinesi. Dopo le proteste furono rispediti a casa, «ma al loro posto non furono assunti i portuali greci, bensì operai a contratto dall’Est Europa». Così, Atene è rimasta senza lavoro. Nel 2014 i portuali greci organizzarono uno sciopero per denunciare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro, sotto il management di Cosco. «Il premier Samaras gli mandò immediatamente la polizia in assetto antisommossa, e perché? Perché all’istante – scrive ancora Barnard – l’ambasciata cinese ad Atene aveva chiamato il governo, minacciando ritorsioni milionarie per danni al loro business secondo il sopraccitato infame sistema Isds». Conclusione: visto che le imponenti espansioni di Trieste e Genova coinvolgeranno manodopera cinese, il governo ha pensato a come affrontare l’eventuale ricatto, se Pechino dovesse imporre le sue maestranze, come condizione per onorare i suoi impegni finanziari? Sempre secondo Barnard, questi aspetti – piuttosto decisivi – non emergono mai, nelle dichiarazioni rilasciate dai presidenti delle autorità portuali Zeno D’Agostino (Trieste) e Paolo Signorini (Genova), nonché dal sottosegretario “gialloverde” Michele Geraci: cauti e garantisti sui media italiani, ma assai più filo-cinesi (business puro, senza tutele) se intervistati da giornali stranieri.
    Barnard sottolinea l’enorme asimmetria fra Italia e Cina: «L’economia cinese ha una potenza di fuoco da circa 14.000 miliardi di dollari; quella italiana è circa 1.900 miliardi di dollari, 7 volte di meno». Per i cinesi, investire in Italia per far profitti per appena 10 anni e poi tirarsi indietro, lasciando “arrugginire” le banchine di Genova e Trieste una volta spremuto il Belpaese, «è un rischio da spiccioli del caffè». Per noi, invece, sarebbe un disastro. «Ma attenti: le chance che questo accada si stanno materializzando già oggi», avverte Barnard, paventando la peggiore delle ipotesi: quella che vede la Cina in fuga dall’Italia, bypassando Suez e il Mediterraneo grazie alle due vere vie commerciali del futuro, l’Artico e l’Eurasia. Tutti oggi parlano della Via della Seta (marittima), ma Pechino sta già lavorando alla “Via Polare della Seta”. Ovvero: i ghiacci del Polo Nord si stanno sciogliendo a un ritmo vertiginoso, con estati a 30 gradi simili a quelle dell’Adriatico. Come i giganti occidentali dei cargo (ed esempio la Maersk), anche i cinesi stanno scommettendo sulle rotte marittime del Grande Nord liberato dai ghiacci.
    Per ora, riassume Barnard, i cargo seguono ancora la rotta del Sud, dalla Cina al Mediterraneo, attaverso Malesia, India, Golfo di Aden e Canale di Suez. Da qui l’interesse per Genova e Trieste. Tragitto: 13.000 miglia marittime. Ma se le navi fanno invece rotta verso Nord (Siberia, Russia, Norvegia), arrivano a Rotterdam dopo sole 8.000 miglia, tagliando i tempi di due settimane, con risparmi colossali. Ad oggi la direttrice artica è ancora poco battuta, ma la Copenhagen Business School – spiega Barnard – ha calcolato che, dati gli sforzi sia russi che cinesi, la Via Polare della Seta (già oggi percorribile anche d’inverno) diventerà frequentatissima in meno di 20 anni. Altro motivo per cui Pechino potrebbe preferirla: «La rotta tradizionale, a Sud, costringe i cinesi a passare per infinite “gogne” imposte dal dominio americano di ogni miglio di quella tratta, un fatto che strategicamente è intollerabile per la Cina». E non è tutto: a peggiorare le prospettive di Genova e Trieste c’è anche la rotta ferroviaria, sempre per le merci cinesi. Attraversa tutta l’Asia Centrale, la Turchia e i Balcani, arrivando in Europa occidentale attraverso la Grecia. «Anche su questa rotta il presidente Xi Jinping sta investendo cifre e soprattutto tecnologie forsennate, perché per questa via le merci arrivano da noi in meno di 14 giorni, un record».
    Le nuove tratte a scorrimento veloce «ridurranno i tempi ad addirittura 10 giorni», cioè record «imbattibili da qualsiasi rotta marittima». Questo poterebbe i costi ferroviari – oggi superiori a quelli marittimi – entro i limiti della convenienza. «E allora diventa fin banale arrivarci: noi italiani – conclude Barnard – adesso partiremo come pazzi a ingigantire Genova e Trieste, con investimenti “mega” che ancora nessuno sa da chi veramente saranno pagati. Stiamo facendo una scommessa senza precedenti, con pericoli ambientali e lavorativi alti o altissimi». Ma qualcuno, dalle parti di Di Maio, ha pensato a cosa potrebbe accadere fra una decina d’anni, con il boom della rotta marittima del Nord e l’esplosione ferroviaria eurasiatica? Il traffico verso l’Italia potrebbe crollare del 30%, con effetti devastanti sul nostro Pil entro il 2030. «Avete un’idea di che razza di voragine significherà, per le due città e per l’Italia che hanno investito e/o si sono indebitate?». Prima di firmare, il goveno ha affidato serie previsioni ai massimi esperti mondiali? «Bella roba, ritrovarci con Trieste e Genova fra pochi anni trasformate in ipertrofie di cemento e acciaio, inquinate come fogne, con disoccupazione, e ad arrugginirsi al sole. Debiti, buchi di bilancio, titoli da ripagare… Non sarebbe il primo, né l’ultimo, dei soliti dilettanteschi “Italian Jobs”».

    E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.

  • Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: basta frottole Ue

    Scritto il 10/12/18 • nella Categoria: idee • (7)

    Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.
    Lo hanno scandito dal palco, di fronte alle decine di migliaia di torinesi e valligiani (almeno 70.000, secondo i NoTav), i sindaci delle cittadine francesi al di là del confine, spintisi fino a Torino per contribuire a bonificare i cervelli dalle grossolane menzogne della vecchia élite cementiera subalpina affamata di soldi pubblici: «La Francia ha finora accettato il progetto Torino-Lione solo perché i costi sono per lo più a carico dell’Italia. Ma, anche qualora l’inutile tunnel si scavasse, Parigi non prenderebbe in considerazione la costruzione della nuova linea: documenti alla mano, di quella ferrovia se ne riparlerebbe solo a partire dal 2038». Perché sarebbe inutile, il traforo miliardario? «Perché la linea ferroviaria già esistente è semi-deserta: non ci sono merci da trasportare (né ce ne saranno, secondo tutte le proiezioni). E’ così sotto-utilizzata, la Torino-Modane che collega stabilmente Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, che basterebbe già oggi a togliere tutti i Tir dalle strade e dall’autostrada, facendoli viaggiare sui treni».
    Per i passeggeri, va da sé, il problema non esiste: senza contare i voli low-cost, che hanno annullato la concorrenza ferroviaria sulle lunghe tratte, sono comunque quotidiane in valle di Susa le corse del Tgv francese che collega rapidamente Milano a Parigi. La manciata di minuti che si risparmierebbero con il nuovo euro-tunnel da 57 chilometri costerebbero 30-40 miliardi, ma le cifre sono solo teoriche: in Italia la rete Tav è costata quasi il triplo che nel resto d’Europa, con il prezzo degli appalti lievitato anche del 400% rispetto alla stima iniziale. Quello che lascia sgomenti, di fronte al delirio narrativo che ha nutrito la leggenda della Torino-Lione, è la totale assenza di certezze: nonostante la tenacia della protesta della valle di Susa, che ha raccolto la solidarietà di vastissimi strati dell’opinione pubblica italiana, nessuno dei governi degli ultimi vent’anni – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni – ha mai voluto o potuto spiegare perché mai l’Italia dovrebbe spendere miliardi per un’infrastruttura dall’impatto sicuramente devastante.
    Il territorio alpino sarebbe infatti terremotato da anni di cantieri e irrimediabilmente compromesso, visto che si scaverebbe tra montagne piene di amianto e persino di uranio (negli anni ‘70, al tempo del nucleare italiano, l’Agip realizzò decine di tunnel esplorativi proprio sui monti alle spalle di Susa, dato che il Massiccio dell’Ambin è il più grande giacimento di minerale radioattivo di tutte le Alpi Occidentali). Quanto allo spinoso problema idrogeologico, sono gli stessi geologi – tra i redattori del progetto – ad ammettere di non poter valutare l’impatto dell’euro-tunnel: le viscere di quei monti ospitano un’immensa riserva idrica, una sorta di grande lago sommerso. Perforare il bacino sotterraneo potrebbe voler dire far cambiare corso ai fiumi ed esporre più valli alpine al rischio di inondazioni catastrofiche. Citando tecnici della Regione Piemonte, nel saggio “Binario morto” (Chiarelettere), il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, spiega che – una volta realizzato il tunnel e poi la nuova ferrovia – il raccordo con la rete Tav italiana potrebbe avvenire solo a 30 metri di profondità, “bucando” la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana di Torino.
    Senza contare l’esborso folle, per un’Europa che muove guerra all’Italia per lo 0,1% del deficit 2019, i maggiori trasportisti italiani – come il professor Marco Ponti, del Politecnico di Milano – ricordano che la chiave logistica per le merci (che per motivi di sicurezza devono viaggiare lentamente) non è la rapidità, ma la puntualità. Nel miglior sistema di smistamento del mondo, quello degli Usa, i treni merci viaggiano a 60 miglia; ma dispongono di efficienti piattaforme logistiche, di cui non c’è traccia né in Piemonte né sulle Alpi del Rodano – dove il trend dei trasporti è in calo da anni, le ferrovie esistenti sono semi-abbandonate e tutte le proiezioni per il futuro dicono che la direttrice commerciale su cui il mercato punta non è la Torino-Lione, ma la Genova-Rotterdam. Se i tecnici universitari a cui si sono rivolti i NoTav hanno prodotto chilometri di documentazione a sfavore del maxi-progetto, sul versante opposto non si è mai usciti dal lobbismo vecchia maniera, fino all’imbarazzante gossip meta-politico delle sedicenti “madamine” torinesi, pronte a invocare “sviluppo e progresso” ma – per loro stessa ammissione – senza conoscere una sola virgola del dossier Torino-Lione. Se si possono capire i piccoli circuiti industriali della vecchia Torino tradita dall’esodo della Fiat, traslocata a Detroit grazie a Marchionne, non è comprensibile il silenzio assordante della politica.
    Gilet Gialli a Torino ed77e
    Dietro alle “madamine” non è difficile scorgere l’ombra di personaggi multiruolo come Sergio Chiamparino, emblema vivente della sinistra neoliberista, passato senza colpo ferire dalla guida del Comune a quella della Regione, dopo aver presieduto la Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. Quello che sconcerta, semmai, è la politica nazionale: lungi dal rappresentare, tutelare ed eventualmente rassicurare i 60.000 abitanti della valle di Susa, preoccupati per la loro sicurezza, dopo decenni di proteste i governanti non hanno ancora spiegato, ai cittadini, perché mai dovrebbero sacrificare in modo così devastante il loro territorio. I vari esecutivi, di ogni colore, non hanno mai avuto la cortesia di motivarla, la Torino-Lione: non hanno mai chiarito a cosa servirebbe, in cosa sarebbe strategica per il sistema-Italia o almeno per il Piemonte. Gli unici dati oggettivi vengono, come sempre, dal fronte avverso: il profilo occupazionale della maxi-opera sarebbe così insignificante (qualche centinaio di addetti) che il costo medio di ogni singolo lavoratore supererebbe il milione di euro.
    Prima e meglio di altre battaglie politiche italiane, quella contro la Torino-Lione ha precisato i termini reali della questione, cioè il diritto democratico di essere innanzitutto informati. Si può discutere se un’opera serva o meno, ma quello che non è accettabile – di fronte alla prove negative fornite dgli oppositori – è che si continui a imporla senza spiegarla, limitandosi a criminalizzare comodamente la protesta. Prima e meglio di ogni altro evento politico recente, la battaglia democratica della valle di Susa – esplosa nel lontano 8 dicembre 2005 – ha illuminato lo scenario con il quale l’intero paese avrebbe fatto i conti, molti di anni dopo, insieme al resto d’Europa: da una parte un’élite autoritaria, la stessa che oggi spinge la polizia di Macron a trattare gli studenti francesi come prigionieri di Guantanamo, e dall’altra il cosiddetto popolo ex-sovrano, quello dei cittadini declassati al rango di neo-sudditi, in balia di un potere apolide e senza volto, che impone decisioni senza mai fornire adeguate spiegazioni.
    Anche per questo, l’8 dicembre 2018 a Torino, è stata particolarmente istruttiva – oltre che rincuorante – la presenza dei sindaci delle valli francesi interessate dal progetto: nel ribadire la loro piena solidarietà alle migliaia di famiglie del corteo NoTav, hanno sottolineato una vicinanza civile e politica con i “cugini” italiani, alla faccia di Macron e degli altri burattini dell’attuale Disunione Europea. In quel loro “Je suis NoTav”, i francesi rivendicano la loro (e nostra) parte d’Europa, intesa come piattaforma di convivenza democratica popolata di cittadini liberi di pensare, di esprimere la loro voce, di contribuire a un mondo meno ingiusto e meno incomprensibile. Un mondo fatto di “vicini di casa” che si parlano e si capiscono. Quella delle nazioni contrapposte, sembrano dire i francesi accorsi a Torino, è solo una fiaba sinistra, che fa comodo ai sovragestori del potere europeo e magari ai loro oppositori apparenti, arruolati dal neo-sovranismo. La guerra non conviene mai, al popolo: l’antagonismo nazionistico è un imbroglio ridicolo. C’era più Europa, l’8 dicembre a Torino, di quanta non se ne sia vista a Bruxelles negli ultimi vent’anni.
    (Giorgio Cattaneo, “Je suis NoTav, i sindaci francesi a Torino: amici italiani, fermiamo insieme il treno di questa Ue che ci deruba e ci divide”, dal blog del Movimento Roosevelt del 9 dicembre 2018).

    Fa parte del paesaggio mentale artificiale: è il solito balletto dei numeri esibiti per gonfiare o sgonfiare le manifestazioni di piazza. Le folkloristiche “madamine” Sì-Tav, da Marco Revelli definite “fate ignoranti” perché dichiaratamente all’oscuro delle ipotetiche ragioni a supporto della Torino-Lione, lo scorso 10 novembre erano 20-25.000 per la questura di Torino, ma una volta sbarcate su “Stampa” e “Repubblica” sono diventate 30.000. Tempo un mese, di fronte alla marea NoTav che l’8 dicembre ha invaso la città, sempre le stesse “madamine” sono magicamente diventate 40.000, per la letteratura giornalistica di una metropoli tramortita dal fiume umano non-ignorante, anzi informatissimo, sceso in corteo fino a intasare piazza Castello. Missione: avvertire il governo gialloverde che una vasta avanguardia democratica della popolazione italiana non tollera che si tenga in piedi a tutti i costi, a beneficio di quella che appare un’esigua ciurma di affaristi, il miraggio della grande opera più inutile d’Europa: una ferrovia di cui non è ancora stato costruito neppure un metro. E a proposito di Europa, ha scaldato i torinesi la generosa presenza dei sindaci francesi, benché oscurata dai media mainstream che hanno preferito parlare solo della rappresentanza transalpina di Gilet Gialli, aggiornati alla bisogna (“Je suis NoTav”). La verità vale oro, specie se recitata in francese nel cuore di Torino: la Francia non sa che farsene, della ipotetica Torino-Lione.

  • Scie chimiche? Il generale Mini: si decidano a spiegarle

    Scritto il 22/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Scie chimiche? «I cittadini pretendano un’inchiesta precisa, rigorosamente scientifica, per chiarire una volta per tutte la natura di un fenomeno ormai vistoso: cieli velati da centinaia di scie bianche rilasciate dagli aerei». Lo afferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Kfor in Kosovo, interpellato da Fabio Frabetti a “Border Nights”. Tema dell’intervista: clima “impazzito” e manipolato, sperimentazioni clandestine in corso, nuove armi segrete di distruzione di massa. Mentre l’attualità italiana propone eventi meteorologici di inaudita, devastante potenza – la distruzione delle foreste nelle Dolomiti, sradicate da trombe d’aria – da più parti ci si domanda se vi sia un nesso tra l’apocalisse del clima e il recente spettacolo dei cieli quotidianemente “sporcati” dai voli di linea. «Trovo inaccettabile e sospetto – dichiara Mini – l’atteggiamento di chi stronca in partenza queste voci, deridendo chi paventa una eventuale irrorazione dei cieli». Non è ammissibile, sottolinea Mini, che l’argomento venga sempre liquidato senza spiegazioni, facendo passare per pazzi visionari i cittadini preoccupati per la comparsa di quelle scie nel cielo. Ribadisce: è giusto pretendere spiegazioni finalmente esaurienti, da parte dei militari (a cominciare dall’aeronautica) e dagli stessi politici che hanno responsabilità di governo. E’ giunto il momento di chiarire cosa sta succedendo, lassù.
    Lo stesso Mini, che peraltro precisa di non disporre delle necessarie competenze tecnico-scientifiche in materia, dichiara di non credere alla “teoria della cospirazione”, secondo cui saremmo oggetto di una sorta di infernale esperimento progettato per nuocere deliberamente alla nostra salute e a quella dell’ambiente. Recente la denuncia di un ex operatore aeroportuale di Milano Malpensa, Enrico Gianini, che parla di aerei che una volta a terra perdono liquidi inquinati da metalli pesanti. «Credo alla buona fede di Gianini», afferma Mini: «Non condivido la conclusione che lui trae, ma certamente ha visto qualcosa di strano». Il vero problema? Mancano le spiegazioni, per quelle scie nel cielo. Vietato lamentarsi, quindi, se si moltiplicano le domande. Fabio Mini è stato il primo, in ambito militare, a parlare apertamente di guerra climatica. Fonti ufficiali: Nazioni Unite e aeronautica Usa, autrice quest’ultima del dossier “Owning the wheather”, che – prima ancora del Duemila – annuncia che entro il 2025 sarà raggiunto il pieno controllo del clima, a scopo militare. «Siamo nel 2018, cioè a oltre metà strada: ed è certo che test sono in corso, perché i militari non esitano a sperimentarle, le nuove tecnologie, anche se non sono ancora mature: non lo erano neppure le atomiche sganciate sul Giappone nel 1945».
    E’ questione di intendersi, ribadisce Mini: oggi disponiamo certamente di potenti dispositivi in grado di determinare cambiamenti climatici. Vari paesi, come la Cina, ne parlano apertamente: i “rainmaker” cinesi utilizzano aerei, razzi e cannoni per “bombardare” le nubi con ioduro d’argento e aumentare l’intensità delle precipitazioni. Possibile che qualcosa del genere stia accadendo anche in Italia, là dove si registrano eventi catastrofici? Mini è prudente: siamo nel campo del possibile, certo, ma si tratta di un’ipotesi altamente improbabile. Anche perché non è facile maneggiare certe tecnologie in spazi ristretti e densamente popolati: gli effetti potrebbero rivelarsi pericolosamente imprevedibili. Inoltre, aggiunge il generale, è impossibile affrettare conclusioni: prima bisognerebbe analizzare con estrema precisione statistica anche la ciclicità naturale degli eventi atmosferici “estremi”. Anche per questo, insiste Mini, probabilmente non è il caso di prendere alla lettera lo scienziato del Cnr, Antonio Raschi, che a “Porta a porta” ha detto che «è in corso un esperimento planetario», riguardo alla modificazione del clima. Solo una frase infelice, come ammesso dallo stesso Raschi? Intervistato da Massimo Mazzucco, il tecnico si è anche dichiarato all’oscuro di un dossier scientifico dello stesso Cnr, che documenta “l’aviodispersione” di sostanze chimiche condotta già nel 1966, per incrementare le precipitazioni nell’Italia centrale, alla vigilia della disastrosa alluvione dell’Arno.
    Oggi la realtà è sotto gli occhi di tutti: si assiste a violentissime piogge tropicali, mentre a cedere in modo rovinoso è un territorio iper-cementificato o in stato di degrado a causa dell’incuria, in preda a un gravissimo deterioramento idrogeologico. Purtroppo, aggiunge Mini, a essere ormai oltre la soglia di sicurezza è il livello di manipolazioni che stiamo progressivamente infliggendo all’ecostema nel suo complesso. «Non c’è un grande complotto, secondo me, ma ci sono tantissimi complotti, piccoli e grandi, che stanno seriamente compromettendo la stabilità ecologica del pianeta». I militari? «Fanno certamente la loro parte, ma la “guerra climatica” non è che una delle tante, in corso: Usa, Russia e Cina stanno inseguendo la super-arma che dia loro la supremazia assoluta». E poi c’è l’arma quotidiana per eccellenza, l’informazione: «Persino il web è diventato uno strumento di divisione e di odio. E l’odio è frutto di manipolazione: stimolare l’odio è facilissimo». L’obiettivo è sempre lo stesso: «Mettere le persone l’una contro l’altra», divide et impera. Aggiunge Mini: «Non ci vogliamo più bene, è venuto meno il rispetto per la dignità umana». Il movente? «L’avidità, la sete di denaro». Tutto il resto è valle, comprese le super-armi segrete e i misteri, forse “chimici”, dei nostri cieli. Vie d’uscita? Informarsi, protestare, pretendere spiegazioni.

    Scie chimiche? «I cittadini pretendano un’inchiesta precisa, rigorosamente scientifica, per chiarire una volta per tutte la natura di un fenomeno ormai vistoso: cieli velati da centinaia di scie bianche rilasciate dagli aerei». Lo afferma il generale Fabio Mini, già comandante della missione Kfor in Kosovo, interpellato da Fabio Frabetti a “Border Nights”. Tema dell’intervista: clima “impazzito” e manipolato, sperimentazioni clandestine in corso, nuove armi segrete di distruzione di massa. Mentre l’attualità italiana propone eventi meteorologici di inaudita, devastante potenza – la distruzione delle foreste nelle Dolomiti, sradicate da trombe d’aria – da più parti ci si domanda se vi sia un nesso tra l’apocalisse del clima e il recente spettacolo dei cieli quotidianamente “sporcati” dai voli di linea. «Trovo inaccettabile e sospetto – dichiara Mini – l’atteggiamento di chi stronca in partenza queste voci, deridendo chi paventa una eventuale irrorazione dei cieli». Non è ammissibile, sottolinea Mini, che l’argomento venga sempre liquidato senza spiegazioni, facendo passare per pazzi visionari i cittadini preoccupati per la comparsa di quelle scie nel cielo. Ribadisce: è giusto pretendere spiegazioni finalmente esaurienti, da parte dei militari (a cominciare dall’aeronautica) e dagli stessi politici che hanno responsabilità di governo. E’ giunto il momento di chiarire cosa sta succedendo, lassù.

  • Italia, clima sabotato? Magaldi: possibile, ma improbabile

    Scritto il 07/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (32)

    Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.
    I paesi del Mediterraneo sono quelli più a rischio, dicono recenti studi universitari: ci siamo surriscaldati più del resto del mondo (+1,4 gradi centrigradi) e siamo stati bersagliati da un maggior numero di eventi estremi. Peggio: nei prossimi anni, per la nostra area si prevede un riscaldamento del 25% in più rispetto alla media mondiale. I dati emergono da una ricerca internazionale condotta da svariati atenei dell’area (Marsiglia e Barcellona, Salento e Nicosia, Haifa e Rabat), pubblicata sulla “Nature Climate Change”. Il riscaldamento nel Mediterraneo è più elevato che nel resto del mondo per una serie di motivi combinati tra loro: «La regione si trova in una zona di transizione fra i regimi di circolazione atmosferica delle medie latitudini e della fascia subtropicale. È caratterizzata da una complessa morfologia di catene montuose e forti contrasti terra-mare, una popolazione umana densa e in crescita, e varie pressioni ambientali». Secondo 13 agenzie Usa, è colpa dell’uomo se si registrano temperature da record. Quelle degli Stati Uniti sono aumentate drammaticamente negli ultimi decenni, toccando il loro livello più alto da 1.500 anni. A dirlo è un rapporto federale: per gli scienziati, dal 1880 al 2015 le temperature sono aumentate di 1,6 gradi Fahrenheit (0,9 gradi centigradi) e le cause sono da considerarsi legate al comportamento degli esseri umani.
    Dal 1980 la situazione è addirittura precipitata, secondo il rapporto Usa, con un drammatico aumento delle temperature che ha portato al clima più caldo degli ultimi 1.500 anni: «Ci sono evidenze che dimostrano come le attività umane, specialmente le emissioni di gas serra, sono le principali responsabili dei cambiamenti climatici rilevati nell’era industriale. Non ci sono altre spiegazioni alternative, non si tratta di cicli naturali che possano spiegare questi cambiamenti climatici». Secondo un rapporto dell’istituto europeo Climate Analytics, non sarà possibile contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi se l’Unione Europea non avvierà da subito la chiusura di oltre 300 centrali a carbone. In Italia, l’impatto delle violentissime perturbazioni “tropicali” è reso ancora peggiore a causa dello stato di abbandono e di degrado di troppe aree: deforestazione e cementificazione selvaggia. Non è il caso però delle Dolomiti, dove sono stati rasi al suolo – in modo inaudito – migliaia di ettari di bosco in perfetta salute. A chi si interroga sull’anomalo infittirsi di scie rilasciate dagli aerei (paesi come Israele e la Cina ammettono di utilizzare l’aviodispersione per modificare il clima) si risponde che mancano riscontri certi sulle vere cause del disastro che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Certo è la Terra a presentarci il conto dei troppi abusi subiti, mentre il rialzo termico non accenna ad arrestarsi e le temperature restano pericolosamente molto al di sopra delle medie stagionali.
    A un quadro già così fosco è possibile aggiungere l’impatto di un’ipotetica modifica climatica segreta? Nel suo bestseller “Massoni”, Magaldi ha svelato i peggiori retroscena del potere mondiale. Sabotatori del clima a scopo anti-italiano? «Se qualcuno suppone che vi siano degli interventi proditori, questi sono tecnicamente possibili, in certi casi», ammette Magaldi: «Siamo nell’ambito del possibile, non sono tesi assurde o strampalate. Poi però – aggiunge – bisogna verificare i fatti, in termini scientifici, avendo la capacità di ricostruire una narrativa coerente e congruente». Innanzitutto: cui prodest? «A chi giova mettere in atto, da apprendista stregone, delle dinamiche tragiche e che possono diventare incontrollabili?». Si tratterebbe di «strumentazioni potentissime e pericolosissime», alla portata del Deep State e del back-office del potere? Se ad allarmarsi sono i comuni cittadini, che magari «seguono siti o pubblicazioni più o meno complottarde», figuriamoci se la situazione potrebbe mai cogliere di sorpresa «tutti i segmenti delle agenzie di intelligence». In altre parole: «Non è facile, fare delle cose del genere», ribadisce Magaldi. «Tenderei a ritenere poco plausibile, anche se possibile, che qualcuno voglia operare in questi termini, cioè scatenare proditoriamente e consapevolmente delle situazioni di questo tipo. Però – ripete – siamo nel campo delle ipotesi: in termini scientifici, se qualcuno ha gli strumenti (e le fonti) per approfondire in modo adeguato, lo faccia e lo racconti».

    Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.

  • Galloni: la lettera di Tria, il disavanzo e le bombe d’acqua

    Scritto il 24/10/18 • nella Categoria: idee • (8)

    I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.
    Delle prime due c’è poco da dire; della spesa in disavanzo – con debito, per di più, in moneta estera, l’euro – si sta parlando in questi giorni tra il nostro governo ed i vertici dell’Unione (sarebbe più esatto Disunione, ma lasciamo stare) e, quindi, cerchiamo di riassumere i termini della questione. I singoli Stati sono liberi di decidere le proprie politiche economiche, ma nel rispetto degli accordi e dei parametri concordati. Di fronte ad una crisi occupazionale, sociale ed ambientale senza precedenti, il “Pacta sunt servanda” viene sempre superato dal “Ad impossibilia nemo tenetur”: se ci fossero milioni di persone per strada a protestare energicamente, nessuno avrebbe dubbi; ma – a differenza di quanto accadeva fino a pochi decenni fa – sembra che, a parte qualche terremotino elettorale, le situazioni reggano… finchè reggono. La spesa pubblica in disavanzo è ed è stato lo strumento principe con cui i governi puntavano alla crescita economica: infrastrutture, scuole e università, welfare, ecc. poi si è riscontrato un indebolimento dello strumento senza, però, che nessun’altra misura l’abbia potuto sostituire.
    La riduzione delle tasse si è rivelata controproducente se ottenuta con una pari riduzione della spesa; sarebbe efficace e necessaria a parità di spesa: ma, con ciò, il deficit aumenterebbe. Orbene, la minore efficacia della spesa in deficit è stata dovuta a un indebolimento del moltiplicatore della spesa produttiva e per investimenti; il moltiplicatore è il valore – superiore ad 1 – per cui moltiplicare (di qui il nome) la spesa stessa per valutarne l’impatto sul Pil; per gli antikeynesiani – ad esempio il Fmi o la Banca Mondiale – che ne vogliono sminuire l’importanza, esso è 1,5; tempo fa esso era stato stimato, per le grandi infrastrutture, la ricerca, ecc. intorno a 3 e si posizionava tra il 2 e il 3 per quanto riguardava i sussidi di disoccupazione, le  pensioni sociali, ecc. Adesso succede che esso non raggiunge il 2 per le grandi infrastrutture e, in generale, gli investimenti produttivi, perché l’intensità del lavoro – grazie alle tecnologie – si è molto ridotta; invece rimane elevato nelle prestazioni cosiddette assistenzialistiche purchè queste ultime raggiungano persone o famiglie attorno alle condizioni di povertà (quei milioni e milioni che non sono in grado nemmeno di garantirsi due pasti completi al giorno).
    Allora: la lettera che lunedì 22 ottobre mattina il ministro Tria ha inviato ai vertici economici di Bruxelles (e che il presidente Conte ha immediatamente appoggiato) prevede che, se la manovra italiana in corso non produrrà effetti adeguati sul Pil, onde non superare il 2,4 di deficit (rispetto al Pil), la spesa dovrà essere tagliata. In altri termini, questo governo – a differenza dei precedenti – dà priorità alla crescita del Pil (quello, peraltro, che ci chiedono i “mercati”) e non alla tenuta dei conti che, si badi, però, rimane un vincolo, non una variabile residuale. Ma, per far crescere il Pil occorre una spinta notevole; infatti, il rapporto tra spesa pubblica e Pil non è più lineare, ma complesso: se un grande aumento della spesa a deficit assicura un aumento più che proporzionale del Pil, un piccolo aumento può avere un effetto nullo, non un effetto proporzionato. Paradossalmente, come s’è già detto, avrà un effetto maggiore la spesa assistenziale invece che quella – si badi bene, necessaria, necessarissima – per le infrastrutture, l’ambiente, ecc. Siccome le previsioni internazionali per il 2019 non sono buone (si veda, anche il mio ultimo “L’inganno e la sfida, 2019: le ragioni di una crisi finanziaria”, il rischio è che tra qualche trimestre bisognerà ricominciare a tagliare la spesa pubblica.
    Invece, proprio per affrontare la crisi, occorrerebbe fare il contrario: lo Stato deve occuparsi dei poveri, dei giovani, delle buche, delle bombe d’acqua, degli ospedali, del territorio, delle scuole. Risorse si possono ricavare dalla valorizzazione del patrimonio esistente; ma perché ciò accada e non sia un’inutile svendita della ricchezza, occorrono investimenti anche in disavanzo, collaborazione coi partner privati e stranieri. In uno scenario di spinta alla valorizzazione del nostro immenso patrimonio semiabbandonato, il deficit spending deve spingersi fino al pieno riassorbimento di tutte le risorse disoccupate: tecniche, umane e finanziarie (si pensi che, in Italia, 1 milione e trecentomila persone detengono, oltre tutto il resto, più di 500mila euro inutilizzati nelle banche). Una tale misura dovrebbe valere per tutti i paesi dell’Unione e, quindi, varierebbe a seconda del rispettivo tasso di disoccupazione combinato con la capacità di proporre progetti di valorizzazione delle risorse stesse.
    Tale scenario non pregiudicherebbe gli interessi dei paesi più forti che, quindi, dovrebbero spendere meno e consentirebbe di superare la più grande remora verso l’Europa: vale a dire che le scelte deflazionistiche dei passati decenni abbiano consentito solo un maggiore impoverimento ed asservimento dei cittadini invece dell’obbiettivo contrario (per cui la politica si sarebbe dovuta battere con determinazione). Infine, ciascuno Stato può eserciate sovranità monetaria nazionale – per qualche punto di Pil, senza esagerare – in quanto tali mezzi avrebbero circolazione solo interna, non sarebbero convertibili, avrebbero, all’emissione, lo stesso segno algebrico delle imposte (quindi ridurrebbero il deficit) e, quindi, ritornerebbero all’emittente in pagamento delle tasse. Tale misura, un po’ più di deficit ed il ritorno a banche di credito legate al territorio ed agli investimenti produttivi, assicurerebbero maggiore occupazione, la crescita sostenuta del Pil ed un miglioramento dei conti pubblici.
    (Nino Galloni, “La lettera di Tria, la spesa pubblica e le bombe d’acqua”, da “Scenari Economici” del 22 ottobre 2018).

    I cambiamenti climatici – non dovuti alle emissioni di anidride carbonica, ma all’attività solare – devono farci riflettere su due aspetti: come affrontarli; con quali risorse economiche. La sfida, oggi come domani, non consiste nella velleitaria resistenza ai cambiamenti (che ci sono sempre stati, non sono opera dell’uomo, ma adesso avvengono a fronte di un’antropizzazione ben diversa rispetto al passato), ma nella fattiva predisposizione di tutti gli strumenti disponibili. Da una parte occorre che la cementificazione non significhi la predisposizione di barriere che impediscono all’acqua di defluire; dall’altra che tutte le infrastrutture esistenti subiscano una manutenzione efficace e tempestiva. Ciò implica dei costi di cui la comunità deve farsi carico per non doverne affrontare di ben maggiori, quando le catastrofi – sempre più sovente – accadono: 1) si possono fare delle collette; 2) si possono raccogliere coattivamente delle tasse di vario genere; 3) lo Stato può spendere in disavanzo anche per fornire i mezzi monetari necessari alle istituzioni dedicate; 4) lo Stato può emettere una propria valuta nazionale non a debito che non è contemplata – né, quindi, impedita – dall’articolo 128 del Trattato di Lisbona che si occupa di banconote e di moneta avente corso legale nell’Unione.

  • Antiche civiltà pre-umane sulla Terra. La scienza: possibile

    Scritto il 14/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.
    Evoluzione dell’intelligenza nel Tempo Profondo, un analogo dello Spazio Profondo? Alla luce di queste convergenze interdisciplinari, non così scontate o banali come forse potrebbero apparire al profano, mi propongo di offire il mio punto di vista paleontologico come “analogo” a quello del ricercatore coinvolto nel progetto Seti. Parto da una provocazione. In base alle formulazioni più pessimiste della equazione di Drake, esiste solo un pianeta nel quale forme di vita intelligenti sono comparse, la Terra. Nei fatti, esso è finora il solo dal quale abbiamo evidenze di vita, di qualunque forma o complessità. Nonostante esso sia l’unico (e quindi migliore) caso noto, noi non abbiamo una stima precisa di quante volte, in quante forme ed in quali contesti, la vita intelligente sia comparsa sulla Terra. Noi conosciamo un singolo caso di specie intelligente (intesa qui come autocosciente, dotata di linguaggio articolato, pensiero simbolico e tecnologia trasmessa culturalmente) comparsa sulla Terra, Homo Sapiens. Ma fu il solo episodio? Questo unico caso è, purtroppo, il peggiore esempio possibile dal quale tentare di ricavare qualche principio generale sulle proprietà e i fattori che concorrono alla comparsa dell’intelligenza su un pianeta, dato che il soggetto osservante e l’oggetto osservato si fondono in un’unica creatura che, come nel peggiore incubo scaturito dalle peggiori aberrazioni del Principio di Indeterminazione, distorce in modo imprevedibile la nostra percezione del fenomeno.
    L’esempio più lampante di quanto la nostra autoreferenziale percezione della condizione umana abbia influenzato e distorto il modo di valutare criticamente il fenomeno dell’evoluzione dell’intelligenza in un pianeta è dato proprio dalla quasi totale mancanza di ipotesi o modelli che abbiano anche solo abozzato una possibile evoluzione di altri, dell’intelligenza non-umana, sulla Terra. A parte rari casi, che menzionerò sotto, quasi nessuno si è mai posto la domanda se l’intelligenza (capace di produrre linguaggio simbolico, cultura, tecnologia) sia mai comparsa qui, sulla Terra, prima di Homo Sapiens. Lo sciovinismo antropocentrico è talmente viscerale in Homo Sapiens, che egli non ha (quasi) mai ipotizzato che questo pianeta, sul quale arroga ed esercita un indiscusso diritto di proprietà, possa aver ospitato prima di lui altre intelligenze, altre civiltà, altre forme di vita capaci di produrre qualcosa di analogo a ciò che il progetto Seti sta cercando nello spazio esterno.
    Eppure, la vita, intesa come aggregati complessi di molecole organiche autoreplicanti e capaci di svolgere attività metabolica, esiste sulla Terra da almeno 3 miliardi e mezzo di anni (35.000 volte la durata dell’intera specie umana e oltre 3 milioni di volte la durata dell’intera civiltà post-paleolitica), mentre la vita pluricellulare dotata di sistema nervoso esiste da almeno 600 milioni di anni (6.000 volte la durata dell’intera specie umana): possibile che l’evoluzione dell’intelligenza sia un evento così altamente improbabile, contingente e accessorio da essersi verificata solamente in noi? Quanto è realistico abbandondare il nostro sciovinistico dogma dell’unicità dell’intelligenza umana sulla Terra, e ipotizzare che anche altre specie, non-umane, abbiano raggiunto quello stadio evolutivo qui, sul “nostro” pianeta? Questa domanda è, nella scala del Tempo Profondo, il tempo nel quale operano i paleontologi, l’equivalente della domanda alla base del Seti, sebbene nel secondo caso sia applicata allo Spazio Profondo.
    Estendiamo la provocazione, e chiediamoci se sulla Terra siano esistite altre forme di vita intelligente, forse persino civiltà avanzate, nel vastissimo passato remoto precedente la comparsa della nostra specie. Per meglio comprendere se questa domanda sia lecita oppure una fantasia gratuita, confrontate la durata dell’attuale civiltà tecnologica umana post-neolitica, circa 6.000 anni, con i 600 milioni di anni di esistenza della vita complessa (un misero centomillesimo) e provate a stimare quanto di tutto ciò che Homo Sapiens ha prodotto sarà ancora “evidente” sulla superficie terrestre tra 100 milioni di anni – nell’ipotesi che la nostra specie si estingua oggi. In pochi decenni, tutti i satelliti artificiali umani in orbita ricadrebbero verso terra, disintegrandosi nell’atmosfera. In pochi secoli, tutto ciò che fu creato dall’uomo e che esiste sulla superficie terrestre sarebbe ricoperto dal rapido ritorno della vegetazione selvatica in quei luoghi che l’uomo aveva trasformato in città, strade, aree coltivate. La capacità delle radici in crescita delle piante di disgregare anche la roccia, figurarsi materiali come asfalto o cemento, non dà molte speranze di persistenza a buona parte dei nostri manufatti, apparentemente molto tenaci, di restare intatti dopo che le piante si fossero riprese possesso delle terre emerse.
    Nel giro di alcuni millenni, al più qualche milione di anni, l’erosione, gli agenti atmosferici, le future fasi glaciali, il sollevamento dei mari, la deriva dei continenti, il sollevamento di nuove catene montuose, tutto ciò distruggerebbe qualsiasi struttura superficiale (manufatti, strade, edifici, porti) non ancora distrutta dall’espansione della vegetazione. Buona parte dei monili di materiale resistente alla corrosione sarebbe dilavato dalle acque, trasportato in mare dai fiumi, dalle alluvioni e dalla lenta subsidenza dei suoli, e nel giro di qualche milione di anni si accumularebbe sul fondo dei mari, formando una stratificazione che, progressivamente sepolta sotto strati successivi, e compattata dalla loro pressione, si trasformerebbe in roccia. Nei successivi milioni di anni, il ritorno totale della Natura come unica signora della Terra cancellerebbe la quasi totalità delle prove della nostra passata esistenza. Forse qualcosa persisterebbe sepolta sotto i fondali oceanici, ma sarebbe condannata ad un lento dissolvimento, sotto le inesorabili pressioni prodotte dai movimenti della crosta terrestre. L’unica testimonianza della nostra esistenza, quindi, sarebbe quel sottile strato di carbonio e metalli pesanti, vestigio della nostra tecnologia, accumulatosi sul fondale oceanico ed eventualmente riemerso come parte marginale di qualche catena montuosa.
    Pertanto, se questo è l’inevitabile destino delle ultime tracce della civiltà umana, perché non dovrebbe essere già tutto avvenuto per una specie precedente la nostra, della quale, appunto, ogni traccia è andata distrutta al di fuori di qualche sottile strato sedimentario? Se l’intero ciclo dell’esistenza di una civiltà, la sua estinzione e la quasi totale distruzione naturale di ogni sua manifestazione scampata all’estinzione, si compie in qualche milione di anni, non esiste obiezione logica per cui il vastissimo passato geologico della Terra non possa contenere al suo interno dozzine di episodi come quello appena narrato. Ciò è coerente con la stima data dai paleontologi che solamente una frazione ridotta di tutte le specie comparse sulla Terra ha lasciato tracce fossili: se, come tutti concordano, le specie intelligenti sono una ridottissima frazione nel totale delle specie comparse, appare chiaro che è altamente improbabile che esse ricadano nella ridotta frazione che si manifesterà sotto forma di fossili. Improbabile, ma non impossibile.
    Pertanto, un possibile indizio dell’esistenza di una civiltà non-umana sulla Terra potrebbe essere un sottile strato la cui composizione chimica anomala (dovuta ad un eccesso di carbonio e metalli pesanti) potrebbe indicare l’accumulo dei residui di una qualche specie tecnologicamente avanzata. Lo scenario ipotetico che vi ho appena illustrato fu sviluppato, indipendentemente uno dall’altro, da due autori, John C. McLoughlin (1984) e Mike Magee (1993), come ipotesi fantascientifica per spiegare le anomalie geologiche e paleontologiche presenti nel famoso “limite K-T”, il livello geologico che segna la fine dell’era Mesozoica e la grande estinzione dei dinosauri: secondo questi autori, una specie intelligente di dinosauro, vissuta 65 milioni di anni fa, fu la causa della grande estinzione e della propria autodistruzione, secondo modalità e tempi non tanto diversi da quelli con cui oggi Homo Sapiens sta alterando, in modo forse irreparabile, la biosfera ed il clima.
    Aldilà della plausibilità di questo scenario, notare che sia io che i miei due predecessori siamo caduti, quasi incosciamente, nello sciovinismo autoreferenziale ed antropocentrico che avevo criticato all’inizio, proponendo un’ipotesi plasmata sulla nostra condizione umana. In realtà, non è detto che tutte le specie intelligenti siano portate a sviluppare la metallurgia, l’allevamento intensivo o un massiccio sfruttamento delle risorse naturali, come siamo soliti fare noi, e quindi potrebbero non lasciare una traccia stratigrafica così evidente della loro presenza sul pianeta del passato. In alternativa, come imposteremmo un “Seti”, qui inteso come “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, e che lezioni potrebbe darci in appoggio al suo più famoso fratello maggiore, rivolto allo spazio esterno? La prima domanda da porsi è se sia possibile ridurre la gamma dei candidati al ruolo di “extinct-terrestrials”: quali linee evolutive animali potrebbero essere le più plausibili candidate? L’osservazione delle specie viventi al giorno d’oggi, ci mostra almeno 3 linee evolutive che mostrano (almeno in forma incipiente) le potenzialità per evolvere un’intelligenza avanzata. Il primo passo sarebbe quindi di cercare tra i rappresentanti estinti di quelle linee evolutive dei potenziali candidati.
    (Andrea Cau, estratto da “Search for Extinct Terrestrial Intelligence”, intervento pubblicato il 15 agosto 2012 sul blog “Theropoda” a cura dello stesso Cau, paleontologo dei vertebrati).

    Sebbene a prima vista la mia disciplina, la paleontologia dei vertebrati, possa apparire totalmente fuori tema per un Carnevale collegato ad un progetto come quello Seti (Search for Extra-Terrestrial Intelligence), esistono delle intriganti similitudini tra questi due ambiti di ricerca, la cui esplorazione e comparazione può portare spunti e punti di vista alternativi, potenzialmente fecondi. L’osservazione dello spazio è accomunata all’indagine paleontologica dal fatto che la distanza sia una misura del tempo. Così come i segnali elettromagnetici provenienti dal cosmo sono tanto più antichi quanto più distante è la loro sorgente, così in paleontologia la posizione di un fossile indica un’età più antica tanto più il fossile è posto in profondità nella serie stratigrafica. L’interconnessione tra posizione nello spazio e distanza nel tempo dei fenomeni osservati dalle due discipline rende quindi la mente del paleontologo e quella dell’astronomo ugualmente predisposte a pensare in modo “quadrimensionale”, a concepire spazio e tempo non come variabili indipendenti, ma come manifestazioni di un unico fenomeno. Il progetto Seti è rivolto alle immensità extraterrestri alla ricerca di segnali, tracce che, per quanto flebili, siano evidenza di forme di vita intelligenti. In questo, il progetto Seti è convergente all’attività del paleontologo, che sonda le profondità geologiche alla ricerca di evidenze, per quanto flebili e frammentarie possano essere, della vita del remoto passato.

  • Morandi, Benetton, soldi: tragedia “annunciata dalle stelle”

    Scritto il 02/10/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Il viadotto Morandi? Quei due monconi danno al paesaggio una sensazione di guerra, e fanno intuire quale ferita sociale ed economica sia stata inferta alla città di Genova, già duramente provata dal passato recente. Utilizzando il mio ambito di ricerca, l’astrologia, per esaminare la vicenda del ponte crollato – che dava sempre la sensazione, percorrendolo, di una leggera instabilità – parto dal suo ideatore, l’ingegner Riccardo Morandi, nato di lunedì all’inizio del secolo scorso sotto il segno della Vergine – elemento Terra, che in genere favorisce questo tipo di professione. I Vergine sono portati al calcolo, alla precisione, e hanno una buona dose di senso pratico (come gli altri segni di Terra). Lui però era anche abbastanza visionario, per via di quel rapporto armonico del Sole (l’Io profondo) con Nettuno (fantasia, capacità evolutiva e di trasformazione). Infatti ha ideato e portato avanti dei progetti che poggiavano su un materiale allora all’avanguardia, il calcestruzzo armato pre-compresso, di cui ottenne il brevetto nel ‘48, e che allora pareva potesse rispondere alle esigenze di un paese in via di ricostruzione e ammodernamento, a costi inferiori rispetto ai materiali classici (la Vergine tende sempre a fare economia, è una sua caratteristica).
    Al momento della costruzione, terminata nel 1967, nessuno – a cominciare da lui – si era posto il problema della durabilità di questo materiale nuovo, esposto agli agenti atmosferici. Ma pare che, negli anni, questo pensiero lo abbia abbastanza tormentato. Fu portato a dare suggerimenti per la manutenzione, che a quanto pare non sono stati presi troppo in considerazione. Ma l’elemento principale della mia analisi è la nascita del ponte stesso. Infatti l’indagine astrologica è possibile non solamente sulle persone, ma su qualsiasi cosa (o animale) che nasca, in un dato momento, in un determinato punto della Terra, per il noto effetto analogico: se decifro i simboli celesti presenti in quella data ora, giorno, anno e luogo, ho il quadro delle caratteristiche di quanto sta nascendo, perché “come in alto, così in basso”. Quel ponte è stato inaugurato il 4 settembre 1967, alle ore 17,30. Ed era un lunedì: giorno tradizionalmente legato alla Luna, la quale – come si sa – è legata all’elemento Acqua. La prima cosa che colpisce, nel quadro astrale, è l’accumulo di buona parte dei pianeti in un settore che ha un significato ben preciso: morte e rinascita.
    Si tratta dell’Ottava Casa legata allo Scorpione, segno d’Acqua, mentre questi pianeti sono nel segno della Vergine. Il Sole (che rappresenta proprio la vita) e la Luna sono congiunti. La Luna si trova infatti nella fase di “luna nuova”, fiaccata e resa invisibile dal Sole: e questo aspetto abbassa le aspettative di vita. Invece di rinforzarsi a vicenda, questi due corpi celesti si ledono. Mercurio, Urano e Plutone sono tutti nel segno della Vergine, e tutti in contatto tra loro a farsi forza. Ma Urano può procurare incidenti ed errori tecnici, e tutti sono pur sempre in un settore che parla di morte (e anche di politica, perché sicuramente un’opera del genere non poteva nascere senza l’avvallo della politica del tempo). Poi si aggiunge Venere – un poco, come dire, la salute del ponte stesso. E’ sempre in Vergine, e con una posizione dissonante con Marte in Scorpione (che non promette bene, per la durata del ponte stesso). Il clamore suscitato, non solo in Italia, da questo ponte avveniristico, è ben descritto da due pianeti nel settore della fama, della visibilità; peccato che si tratti del solito Marte e di Nettuno in Scorpione. Sono pianeti poco favorevoli a una fama duratura e priva di pericoli.
    Se poi vogliamo proprio entrare nell’ambito specifico della durabilità, vediamo che Saturno – simbolo dello scheletro umano e quindi anche della struttura interna di questa costruzione – è isolato, e quindi senza alcun appoggio: non depone certo a favore di una lunga vita. Notizia da prendere con beneficio di inventario: pare siano stati fatti degli studi sull’impatto della Luna, che sappiamo avere da sempre degli effetti sulla Terra e soprattutto sulle acque, presenti anche nel corpo umano. Pare che la Luna abbia un effetto sulle costruzioni in cui è presente il cemento – che, non dimentichiamolo, si forma anche con l’acqua, anche se poi viene assorbita. Il ponte Morandi è nato di lunedì, con una Luna importante ma indebolita: per questo, il cemento ne sarebbe risultato indebolito? Lascio in sospeso la risposta: sono una ricercatrice, sempre alla ricerca di conferme. Questa comunque è la situazione natale del ponte, che resta sempre sullo sfondo. Ma poi i pianeti si muovono, seguendo le loro orbite regolari, e quindi prevedibili, creando rapporti armonici o dissonanti coi pianeti natali. E come erano messi, quel tragico martedì 14 agosto, alle ore 11,36?
    Erano molto significativi, anche se non necessariamente leggibili con quanto è realmente successo, dato che le previsioni sono l’aspetto meno facile (e sotto certi aspetti anche meno utile) nell’analisi astrologica, perché possono anche condizionare le persone. Ma comunque la capacità di previsione esiste, e questi transiti danno più di un indizio. Anzitutto il giorno, martedì, mi ha portato subito a cercare di vedere dove si trovava Marte, quel giorno: si trovava bene in evidenza, in primo piano. Marte è un pianeta dirompente, legato agli incidenti, ma era Venere (la salute di questo ponte) ad essere insidiata da due pianeti più pericolosi, in questi casi: si tratta di Saturno e Urano, entrambi portatori di incidenti e difficoltà anche quando, come in questo caso, si trovano in posizione armonica. Ho la sensazione che la tragedia avrebbe potuto essere molto, ma molto più grave, se si pensa che poteva anche passare un treno, sotto il ponte, e che il fatto che piovesse in quella maniera abbia limitato il transito di veicoli, in un giorno tra l’altro di grande traffico. Proprio il fatto che Saturno e Urano formassero con Venere un aspetto armonico credo che abbia contribuito a limitare i danni: se non fosse stato armonico, molto probabilmente ci sarebbero stati guai peggiori.
    Comunque, l’Ottava Casa è anche simbolo di rinascita: è certo che il ponte rinascerà. E chi potrebbe esserne il nuovo padre? Forse Renzo Piano, che si è offerto fin da subito gratuitamente per via del suo legame con la città. Per una strana coincidenza, anche Renzo Piano è della Vergine. E non finisce qui, l’affinità con l’ingegner Morandi: anche in Renzo Piano, infatti, Nettuno (simbolo di fantasia) è unito al Sole; ma il Nettuno di Piano è in Vergine, e quindi è più prudente e tecnico del Nettuno di Morandi, che si trovava in Cancro (Acqua). Ne so qualcosa, perché ho anch’io Nettuno in Vergine (e Nettuno è un pianeta lento, e quindi generazionale). Ma le analogie con Morandi finiscono qui, perché Renzo Piano ha un tema molto più solido, strutturato e fortunato di quello di Morandi. Renzo Piano è nato a Genova da una famiglia di imprenditori edili e ben presto, dopo la laurea in architettura, ha fatto esperienza all’estero, collaborando fin da giovanissimo con uno dei massimi architetti mondiali e realizzando con lui l’originale Centre Pompidou a Parigi. In seguito ha collaborato con i maggiori architetti e ingegneri del mondo, realizzando opere famose che spaziano dai musei alla chiesa di Padre Pio a Monterotondo, fino al grattacielo più alto d’Europa, The Shard, a Londra, di straordinaria arditezza – più che un grattacielo, sembra un sogno fattosi realtà.
    Il suo stile non sembra appartenere a nessuna scuola corrente. Si basa su di una interazione tra aspetti tecnologici, pratici e anche poetici, che contraddistinguono le sue opere. Lui ha avuto un tringolo a stella, che è una grande potenza, tra il Sole (il suo Io profondo, la sua parte attiva) con Giove e Saturno (attivismo) in Capricorno, e Urano (lavoro e capacità pratica) in Toro. I tre segni di Terra sono uniti, e in posizione armonica, diventano un potente volano per capacità lavorativee pratiche. Ma lui ha anche degli aspetti generosi e delle punte idealistiche: con Venere in Leone (genersiotà) e Marte in Sagittario (che sempre effetti idealistici). Se si aggiunge la Luna (la sua parte femminile) nell’efficiente, ambizioso e costruttivo segno del Capricorno, ecco il quadro di una persona vincente, che è stata il grado di sviluppare al massimo le sue capacità iniziali. Certo, quando vedo una veda posizione del Sole con Giove (il pianeta che, oltre a un carattere fiducioso, dona sempre anche la quasi-certezza che la vita stessa offrirà delle opportunità di crescita e di successo) non mi meraviglia che una personi così incominci la sua vita col nascere nell’ambiente sociale giusto – meglio tra costruttori edili che nella famiglia dell’assassino della porta accanto – e faccia, nell’arco della sua vita, gli incontri giusti al momento giusto. Ben venga il suo ponte, dunque, anche se non è ancora certo che sarà lui a realizzarlo.
    Rispetto a questa vicenda c’è un aspetto che mi ha inquietato molto, come credo tanti italiani. Mi riferisco all’evidente mancanza di un’adeguata manutenzione del ponte stesso da parte della società che ne ha la gestione. Nel lontano 1999, la gestione della maggior parte delle autostrade italiane – detenuta dall’Iri e controllata dal ministero del Tesoro – venne data a quella che sarà poi costituita, nel 2002, come società Autostrade per l’Italia, che dal 2007 ha parte del gruppo Atlantia, il cui principale azionista è la veneta famiglia Benetton. Atlantia controlla la maggioranza dei 6.000 chilometri di autostrade italiane, costruite con investimenti pubblici (ossia con i soldi del cittadino italiano), e si è rivelata una gallina dalle uova d’oro. Nel’ultimo anno, a fronte di un fatturato di 3.600 miliardi, ha realizzato un utile di 998 milioni (il 19% in più dell’anno precedente). E quindi mi è scattata la curiosità di capire qualcosa, sul piano astrologico, di questa famiglia potentissima, sia economicamente che politicamente, che è partita da esordi difficili e poveri. Si tratta di quattro fratelli – Luciano, Giuliana, Gilberto e Carlo – rimasti orfani di padre nel 1945, ma pieni di iniziativa e di voglia di lavorare (come accadeva in molte famiglie, nel dopoguerra). Cominciano piano piano, con Giuliana che confeziona in casa maglioni colorati, che poi Luciano vende, mentre Gilberto tiene i conti e Carlo – un disegnatore – si occupa degli aspetti tecnici e produttivi. E da lì volano.
    Negozi in tutto il mondo, la prestigiosa sede in Veneto. Proprietari di mezza Patagonia, dove allevano le pecore per i loro prodotti (e dove, tra parentesi, hanno avuto un contenzioso con gli indigeni sfrattati). Poi: l’acquisizione di altri marchi, ma soprattutto la costruzione di una rete diffusa di interessi finanziari, lontanissimi dai maglioncini colorati che avevano costituito la loro prima fortuna. I fratelli più vecchi sono i gemelli Luciano e Giuliana, nati col Sole nel segno del Toro, con Urano (il pianeta del lavoro) pure in Toro, in posizione vincente per intraprendere un lavoro indipendente e creativo. E in effetti sono loro ad aprire la strada, con la prima confezione artigianale da parte di Giuliana di un maglioncino giallo, in un momento in cui non erano di moda i colori sgargianti, e l’intuizione di Luciano di commercializzare i prodotti. Segue Gilberto, il fratello di mezzo, con il Sole nel segno dei Gemelli: adattissimo a occuparsi di finanza, sotto un segno intelligente e abbastanza disinvolto – anche se, eticamente parlando, per muoversi in un ambito in cui non abbondano gli scrupoli. E anche in lui c’è una fortunata, vincente congiunzione tra Urano (pianeta del lavoro), Giove (fortuna e denaro) e Saturno (potere). L’ultimo era Carlo, nato col Sole nel segno del Capricorno congiunto a Giove (il che aiuta, a raggiungere degli obiettivi); è morto recentemente, mentre era in corso un passaggio di Saturno nel suo segno.
    Comunque, non a caso, i fratelli Benetton sono nati sotto tre segni di Terra (l’elemento che, più di altri, possiede tenacia e capacità lavorativa) e un segno di Aria (che suggerisce le capacità di muoversi nel volatile e difficile mondo della finanza). Che dire? Il successo e il potere raggiunto li hanno allontanati, come spesso succede, dal mondo delle persone comuni, quelli che hanno problemi con il mutuo e a raggiungere la fine del mese, inclusi gli sfollati di Genova che ora affrontano tutti i disagi del non avere più una casa – senza contare il dolore delle persone che hanno perso i loro cari. Ho passato gli ultimi trent’anni della mia vita a occuparmi di ricerca spirituale. Sono in contatto con guide spirituali, e ho una chiara visione di quella che dovrebbe essere l’impostazione corretta di una vita ben spesa – che è sempre lontana dall’egoismo, dall’avidità e  dal volere sempre di più, incuranti degli altri. Il desiderio di rifarsi sugli altri per riscattarsi dalle sofferenze patite è molto umano e molto diffuso. E non è facile abbandonare questo modo di essere, perché sembra darci forza (se invece ti accosti al perdono, ti sembra una debolezza).
    In effetti il perdono non dovrebbe essere superficiale ma, anzi, dovrebbe essere il riconoscimento che, qui sulla Terra, siamo tutti compagni di viaggio e possiamo sbagliare; quindi non vale ergersi a giudici, perché siamo tutti passibili di fraintendimenti ed errori. Fatto nel modo giusto, il perdono è un segno di grande forza: certifica che tu hai raggiunto pace, tranquillità e forza interiore. Se uno si guarda attorno, però, vede un grande vociare… Alla mia età ho ormai una visione più distaccata, ma tutto questo comunque mi fa male: anche se con gli anni subentra una certa saggezza, questo spettacolo mi ferisce sempre. E quello che mi ferisce di più è l’egoismo, l’avidità. Mi chiedo: che bisogno c’è di accumulare fortune immense, che spesso i discendenti (meno saggi e meno preparati a lavorare) poi dissipano in poco tempo? E comunque: a che serve accumulare, procurando danni strada facendo? Perché è difficile accumulare fortune senza far danni attorno. Di solito, se lavori onestamente e senza buttarti in troppi campi, non riesci a raggiungere certe posizioni. Io me lo chiedo, perché vedo persone che sono prese da questa ansia di primeggiare sugli altri, e così perdono di vista tante cose, molto più importanti: la solidarietà, la compassione, un occhio per chi ha meno di te.
    (Germana Accorsi, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti durante la trasmissione web-radio “Border Nights” del 25 settembre 2018).

    Il viadotto Morandi? Quei due monconi danno al paesaggio una sensazione di guerra, e fanno intuire quale ferita sociale ed economica sia stata inferta alla città di Genova, già duramente provata dal passato recente. Utilizzando il mio ambito di ricerca, l’astrologia, per esaminare la vicenda del ponte crollato – che dava sempre la sensazione, percorrendolo, di una leggera instabilità – parto dal suo ideatore, l’ingegner Riccardo Morandi, nato di lunedì all’inizio del secolo scorso sotto il segno della Vergine – elemento Terra, che in genere favorisce questo tipo di professione. I Vergine sono portati al calcolo, alla precisione, e hanno una buona dose di senso pratico (come gli altri segni di Terra). Lui però era anche abbastanza visionario, per via di quel rapporto armonico del Sole (l’Io profondo) con Nettuno (fantasia, capacità evolutiva e di trasformazione). Infatti ha ideato e portato avanti dei progetti che poggiavano su un materiale allora all’avanguardia, il calcestruzzo armato pre-compresso, di cui ottenne il brevetto nel ‘48, e che allora pareva potesse rispondere alle esigenze di un paese in via di ricostruzione e ammodernamento, a costi inferiori rispetto ai materiali classici (la Vergine tende sempre a fare economia, è una sua caratteristica).

  • Avviso a Di Maio: entriamo nel futuro insieme alla Cina

    Scritto il 19/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.
    Chengdu sarà lo snodo centrale della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della Seta che integrerà lo spazio eurasiatico e coinvolgerà la maggior parte della popolazione mondiale. Su invito delle autorità cinesi ho partecipato con una delegazione di politici, imprenditori, diplomatici e ricercatori di tutta Europa a un intensissimo programma di dieci giorni tra Pechino e Chengdu. Un vortice di incontri e visite presso istituzioni, imprese innovative, scuole di partito, agenzie internazionali, mirante a stabilire relazioni solide fra la Cina e le personalità che in Europa vogliono comprendere e partecipare al grande impulso della Bri. Gli interlocutori che ho trovato in Cina stanno passando al setaccio ogni novità di ciascun paese europeo e perciò manifestano molta attenzione nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del governo da esso guidato. Questo interesse mi ha aperto molte porte presso gente concreta e desiderosa di capire. A Pechino ho visitato la fabbrica della Beijing Electric Vehicle (Bjev), i concorrenti della più famosa e americana Tesla nella produzione di veicoli elettrici. Ne hanno già prodotto 250mila e puntano a essere leader mondiali del nuovo mercato. Un dirigente Bjev si lascia scappare una battuta: «La Tesla è un costoso giocattolino per ricchi, noi siamo i fornitori di auto elettriche per le masse a prezzi popolari».
    Con il corrispettivo di 16mila euro, un cittadino della classe media cinese può portarsi a casa una berlina con un’autonomia di quasi 500 km a ogni carica, mentre crescono le infrastrutture che diffondono in mezza Cina i punti di rifornimento dedicati ai veicoli elettrici. Ed è ormai pronto a entrare in produzione un nuovo sistema che è l’uovo di Colombo rispetto ai tempi lunghi delle ricariche, ossia il cambio di batteria presso i punti di rifornimento: anziché aspettare ore per ricaricare, togli la batteria (ormai più piccola, compatta ed estraibile) quando è scarica e la sostituisci ogni volta con una già ricaricata. Solo il tempo ci dirà se davvero milioni di persone passeranno all’auto elettrica, e se questo sia il modello giusto di mobilità. Intanto gli investimenti accelerano e il settore automobilistico cinese nel suo insieme è trainante. In Italia in molti santificano i dirigenti Fiat, ma la storia ci ha già detto che non si sono mai accorti del risveglio dello sterminato mercato cinese. Dovremo tutti essere migliori dei dirigenti Fiat, per i tanti campi dell’economia che non sono irrimediabilmente perduti. L’attimo è ora.
    Racconterò a parte delle altre imprese ad alta tecnologia che ho visitato a Pechino e nel Sichuan, dei parchi scientifici, delle migliaia di ingegneri che hanno regalato alla optoelettronica cinese la leadership per gli schermi ad altissima definizione, e così via. Mi concentro ora su un dato più politico di questa missione. Ho fatto da portavoce dell’intera delegazione nella serata finale del programma, dove ho pronunciato un discorso durante l’incontro ufficiale con il vicepresidente e responsabile delle Finanze del Sichuan, Ouyang Zehua, e altri dirigenti di questa regione di 91 milioni di abitanti, vasta quanto la Francia. Ouyang è un signore molto dinamico dallo sguardo ironico e curioso che sprizza ottimismo e pragmatismo da tutti i pori, mentre snocciola i risultati economici, e ne ha ben donde: il tasso di crescita del Pil del Sichuan nel 2018 è dell’8,2% in un anno, in aggiunta a una lunga serie storica di dati formidabili. L’orgoglio del dirigente cinese si combina con una cosa molto italiana: la passione per il cibo, la sua varietà, il suo legame con la cultura e il territorio. Il Sichuan è probabilmente l’area del pianeta che condivide di più con l’Italia una precisa caratteristica, ossia la ricchezza dell’assortimento di tradizioni culinarie, con infinite varianti subregionali spesso raffinatissime. Ora che il Sichuan ha ben motivate ambizioni da “ombelico del mondo”, combina questa sua millenaria tradizione gastronomica con un’apertura schietta e curiosa verso altre tradizioni.
    Il vino è ormai sempre più presente a tavola, e anche i formaggi e altri prodotti agroalimentari europei. Perciò prendete nota e siateci! Non siate come gli Agnelli e i loro manager sempre sopravvalutati! Un ottimo punto di partenza è la Western China International Fair di Chengdu che apre il 20 settembre 2018. Di Maio rappresenterà un’Italia in veste di paese ospite d’onore. I pianificatori della nuova megalopoli, che abbiamo incontrato presso un parco scientifico dove tutto viene programmato come se il videogame Simcity prendesse davvero corpo, ci mostrano con grande orgoglio il gigantesco plastico della Chengdu del 2034. Non ragionano come i palazzinari a corto raggio nostrani, anche se non credo siano meno spregiudicati. Mentre oggi lo sviluppo asimmetrico di Chengdu sembra concentrarsi in mille mostruose lingue di cemento che turbano minacciosamente qualsiasi senso della misura urbanistica da noi conosciuta, per il futuro – un futuro immediato – la cura per la dismisura è un’ulteriore dismisura. Cioè un colossale rimodellamento e ri-bilanciamento dei poli di sviluppo, un investimento-monstre su “scala cinese” in tecnologie verdi, energie rinnovabili, opere idrauliche di rinaturalizzazione del paesaggio.
    Nel gioco Simcity puoi cambiare il paesaggio con la tempistica degli umani, ma puoi divertirti a usare il “God Mode”, la “modalità di Dio”, e mettere fiumi e laghi dove non c’erano e farlo in tempi rapidissimi. Ed ecco che nella Chengdu reale le aree dedicate a parchi avranno ciascuna dimensioni paragonabili a una grande città italiana, con specchi d’acqua estesi e insenature suggestive. Il nuovo cuore di Chengdu sarà una città nella città, tutta da sviluppare, il nuovo distretto di Tianfu. Si tratta di una città-parco dove si concentreranno le attività commerciali e scientifiche legate alle nuove rotte eurasiatiche. Sarà tutto costruito entro sette anni, avrà una superficie di circa 600 kmq (superiore a quella di Roma entro il Grande Raccordo Anulare), i grattacieli più alti della Cina occidentale e dieci linee di metropolitana distinte dalle altre decine di linee del resto della città di Chengdu, un’enorme stazione ferroviaria che collegherà Chengdu a mezzo mondo, incluse le nuove linee superveloci. Ricordiamo che molte città cinesi si collegheranno entro pochi anni con treni a levitazione che viaggeranno a velocità vicine ai mille km/h.
    Chengdu ha già un aeroporto da 45 milioni di passeggeri l’anno. Nel 2020 inaugureranno un secondo aeroporto internazionale da sei piste con altri 90 milioni di passeggeri l’anno. Il Sichuan diventerà la meta di un turismo d’affari che non si limiterà a vedere il parco dei panda (a proposito, sono bellissimi!). Sarà anche la base di partenza di una ormai vasta classe media pronta a girare quell’Europa che saprà accoglierla. Non dimentichiamo che a un’ora e mezzo da Chengdu c’è un’altra megalopoli ultramoderna, Chongqing, con i suoi 30 milioni di abitanti, anche loro parte di una “affluent society” pronta a viaggiare e già in pieno respiro internazionale. Quanti giornalisti e politici italiani si curano di raccontare queste città, dal peso demografico e industriale così cospicuo? Davvero pochi. È davvero così difficile raccontare un mondo così importante per il futuro nostro e dei nostri figli e smarrirlo invece come una traccia muta e indecifrabile? Non è un tantino squilibrata un’informazione che della Cina sa restituire ai cittadini solo il luogo comune dell’involtino primavera (mai visto in tutto il viaggio) o dei negozi di chincaglierie a poco prezzo?
    È come se di un grande palazzo sontuoso, fresco di lavori e ricco di tesori, si volesse vedere solo lo sgabuzzino delle scope. Troppi giornali italiani sanno vedere solo i bugigattoli della storia, e infatti puzzano di muffa. Sino a poco tempo fa, persino agli occhi di chi in Europa prendeva le decisioni che contano, Chengdu e altre grandi realtà cinesi erano solo dei luoghi remoti, un puntino ignoto sulla cartina dell’Asia. Ma oggi Chengdu e il Sichuan influenzeranno in modo diretto il lavoro di chi in Europa fa le leggi, programma le decisioni economiche e fa impresa, qualsiasi settore voglia considerare. Solo una parte è pronta a questa nuova realtà, mentre dobbiamo esserlo tutti. Ad esempio, vogliamo regalare alla Polonia il ruolo di principale terminale europeo della Bri, accontentandoci delle diramazioni secondarie? Oppure dobbiamo guardare all’Africa, dove la Cina ha innescato un altro gigantesco processo economico? Cioè guardare alla nostra geografia, alla nostra profondità strategica, a dove si collocano la penisola iberica, la Sardegna, la penisola italiana, la Sicilia.
    Ho chiesto dunque ai dirigenti cinesi se i terminali delle Vie della Seta fossero una pianificazione ormai conclusa, o se fossero aperti ad altre iniziative. «Naturalmente siamo aperti – mi risponde Ouyang – e penso anche che tra gli investimenti in Africa e quelli in Europa ci debba essere una cerniera». Il che corrisponderebbe a chiudere il cerchio. Colgo l’occasione per parlargli – come avevo già fatto con altri dirigenti cinesi – del grande valore pratico e simbolico che avrebbe una rapida ricostruzione congiunta del ponte di Genova con i campioni cinesi delle infrastrutture, una goccia rispetto al mare di cose che si possono fare, ma una goccia importante. Ouyang coglie la portata della proposta, e mi rivela che la prossima settimana ci sarà proprio a Chengdu un concerto dell’orchestra di Genova in memoria delle vittime, nel bellissimo auditorium da poco inaugurato. La cosa mi sorprende e mi fa piacere, forse avevo visto giusto.  Facciamo in modo che le buone idee si diffondano, come le emozioni della musica.
    (Pino Cabras, “Spoiler cinese per Di Maio”, da “Megachip” del 19 settembre 2018. Condirettore di “Megachip”, alle ultime elezioni politiche Cabras è stato eletto deputato 5 Stelle al collegio uninominale Sardegna 3 – Carbonia).

    Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.

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