Archivio del Tag ‘colonialismo’
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Cremaschi: ladri, bugiardi, razzisti e fascisti. Questa è l’Ue
Un sondaggio commissionato dalla Cgil delinea il porto delle nebbie ove si è incagliata la democrazia italiana. Una maggioranza schiacciante della popolazione esprime un giudizio senza appello sulla Unione Europea e sull’euro. Essi ci hanno danneggiato economicamente e ci impongono regole che distruggono le nostre libertà. L’80% degli intervistati la pensa in questo modo e la vicenda greca ne ha rafforzato le convinzioni. Nello stesso tempo però si è anche rafforzata la maggioranza di chi non vuole cambiare nulla e teme il salto nel buio di ogni rottura con le istituzioni europee e con la moneta unica. Stiamo perdendo e continueremo a perdere sia sul piano delle condizioni di vita che della stessa democrazia, ma non abbiamo alternative alla resa. La rassegnazione alla inevitabilità del peggioramento delle proprie condizioni di vita e di libertà, assieme al timore a reagire, sono il brodo di coltura di ogni operazione autoritaria. Operazione a cui il sistema economico politico che chiamiamo Europa è perfettamente funzionale.Oramai è evidente che nella Unione Europea un solo Parlamento è sovrano, cioè può decidere sulla base dei mandati ricevuti da chi lo ha eletto, ed è ovviamente quello della Germania. Tutte le altre assemblee dei rappresentanti, seppure in diversa misura, sono sottoposte al vincolo della compatibilità delle proprie decisioni con quelle delle istituzioni europee. Spesso gli europeisti ingenui spiegano che il male dell’Europa sarebbe l’unione monetaria in assenza di una unione politica. È una sciocchezza. L’attuale sistema europeo è prima di tutto un sistema politico ove si prendono decisioni politiche. La scelta di affamare e poi sottomettere la Grecia ad un memorandum devastatore e anche antieconomico, come ricorda l’insospettabile Fondo Monetario Internazionale, è stata squisitamente politica. Il sistema di potere europeo doveva punire il governo che aveva osato contrastarlo e ancora di più il popolo, che con oltre il 60% aveva detto no ai suoi diktat. Giusto quindi il paragone con il trattato di Versailles, che per ragioni politiche nel 1919 impose alla Germania dei vincoli insostenibili sul piano economico.Non è dunque vero che l’Europa politica non esista e che bisognerebbe costruirla per contrastare lo strapotere dei mercati. L’Europa politica esiste, è quella che ha schiacciato la Grecia e che le ha imposto un governo coloniale. L’Europa politica esiste: è un protettorato della Germania che adotta le politiche di austerità prima di tutto perché esse servono all’interno del paese guida. I salari dei lavoratori tedeschi sono compressi da anni, se c’è un paese dove ingiustizie sociali e corruzione son cresciuti a dismisura questo è proprio la Germania. Le classi dirigenti tedesche han bisogno come il pane dell’austerità, prima di tutto per controllare il proprio popolo e per questo devono poi imporla a tutta l’Europa. Le istituzioni, i trattati, la gestione concreta del potere europeo sono la costituzionalizzazione delle politiche liberiste di austerità in tutto il continente.La moneta unica a sua volta è il veicolo materiale delle politiche di austerità, non è separabile da esse, come ci ha ricordato il ministro tedesco Schaeuble. Ma la moneta unica ha anche una enorme funzione ideologica. Se nel sistema autoritario europeo vediamo delinearsi il più pericoloso attacco alla democrazia dal 1945 ad oggi, nell’ideologia della moneta unica vediamo risorgere i mostri dell’identità razziale. L’euro è sempre più venduto come una moneta razzista. Chi la possiede, o anche senza possederne sta in uno stato che l’adotta, vive nella parte giusta del mondo. L’euro è la moneta dei ricchi e austeri popoli del Nord, non vorranno i fannulloni e corrotti meridionali abbandonarla per finire in Africa? Questo il messaggio subliminale della minaccia di Grexit rivolta al governo Tsipras, che di fronte ad essa, invece che raccogliere la sfida, si è arreso. L’euro è la moneta dei popoli superiori e quelli inferiori devono perciò meritarla. Come stupirci che di fronte a questo eurorazzismo distillato dalle élites e dai mass media, poi ci siano coloro che fanno i pogrom contro i migranti? Tutto si tiene.Il ricatto contro i popoli, o euro e austerità o l’Africa, finora ha funzionato anche perché le principali correnti politiche di governo se ne sono fatte portatrici. Le grandi famiglie democristiana e socialdemocratica sono al governo in tutta Europa e l’unico governo estraneo ad esse, quello di Syriza, è stato per l’appunto umiliato. D’altra parte le borghesie nazionali non esistono più, in particolare nei paesi debitori come Italia, Spagna, Grecia. I resti dei vertici delle classi imprenditoriali di questi paesi sono oramai parti e appendici del sistema finanziario multinazionale. Si delinea così la vera Troika che governa l’Europa, che si regge su tre gambe. Quella della Germania, quella delle borghesie europee transnazionali, quella del sistema di potere dei partiti popolare e socialdemocratico. È un potere ed un progetto politico europeo quello che ha massacrato e usato come cavia la Grecia. Un potere che vuol governare l’Europa con austerità e liberismo e per questo è disposto a cancellare molto della democrazia. Non tutto? Certo sino ad ora, ma come insegna la storia quando si imbocca la via autoritaria non si sa mai dove ci sia il punto di arresto.Un fascismo bianco liberaleggiante e tecnocratico, o uno brutale e apertamente razzista? Nella Germania del 1930 non si poteva prevedere cosa sarebbe successo. Ma i mostri son già tutti in campo e la loro fabbrica sta nell’umiliazione della democrazia contenuta in ogni atto del sistema politico europeo. La vicenda greca ci consegna un lezione chiarissima. Questa Europa non è riformabile, o la si accetta così come è sperando che non esageri in dittatura. Oppure si organizza la resistenza per rompere la moneta unica e tutto il sistema politico Ue e ricostruire su nuove basi la democrazia e lo stato sociale. Tertium non datur. Proprio di questa sua irriformabilità il sistema di potere europeo a trazione tedesca ha finora fatto largo uso per vincere tante battaglie. O mangi ’sta minestra o salti dalla finestra, sta oramai scritto nella bandiera azzurra stellata che sventola nei pubblici edifici. Ma se, come sempre è avvenuto nel passato, fosse proprio l’irriformabilità del potere la causa della sua sconfitta finale? Su questo devono contare le resistenze alla Troika che si stanno organizzando in ogni paese.(Giorgio Cremaschi, “Eurodittatura e nuova resistenza”, da “Micromega” del 30 luglio 2015).Un sondaggio commissionato dalla Cgil delinea il porto delle nebbie ove si è incagliata la democrazia italiana. Una maggioranza schiacciante della popolazione esprime un giudizio senza appello sulla Unione Europea e sull’euro. Essi ci hanno danneggiato economicamente e ci impongono regole che distruggono le nostre libertà. L’80% degli intervistati la pensa in questo modo e la vicenda greca ne ha rafforzato le convinzioni. Nello stesso tempo però si è anche rafforzata la maggioranza di chi non vuole cambiare nulla e teme il salto nel buio di ogni rottura con le istituzioni europee e con la moneta unica. Stiamo perdendo e continueremo a perdere sia sul piano delle condizioni di vita che della stessa democrazia, ma non abbiamo alternative alla resa. La rassegnazione alla inevitabilità del peggioramento delle proprie condizioni di vita e di libertà, assieme al timore a reagire, sono il brodo di coltura di ogni operazione autoritaria. Operazione a cui il sistema economico politico che chiamiamo Europa è perfettamente funzionale.
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Comprare l’Italia (per poi chiuderla) prima che crolli l’euro
La teoria comincia a confermare i peggiori presagi di alcuni “malpensanti”, ad esempio Mitt Dolcino che mi ospita su questo sito. Quello che è stato a più riprese previsto dall’autore sopra citato si può riassumere come segue: la stagflazione in regime di cambi fissi è una moderna forma di neocolonialismo tedesco a danno dei supposti “partner” deboli dell’Ue; le ricette austere di matrice tedesca stanno indebolendo le aziende dell’Europa periferica ed italiana in particolare che quindi vengono acquisite dall’estero, con massima attenzione per quei paesi che competono direttamente con la Germania (ad es. l’Italia, soprattutto l’Italia); appunto, la Germania è interessata ad acquisire nel Belpaese i competitor delle propie grandi aziende, non per investire con/in esse ma semplicemente per eliminare un avversario (pls check); questo verrà provato a breve con lo svuotamento delle attività italiane delle aziende acquisite, prima di tutto in termini di manodopera e di investimenti (nell’arco di circa un triennio); la Germania deve acquistare quel che resta delle imprese italiane – maggior competitor manifatturiero della Germania – PRIMA prima che l’euro si rompa, onde ovviare alla innegabile competizione della italiana a seguito della svalutazione competitiva che seguirà.Ecco, questa è in pillole la teoria che Mitt Dolcino ha propugnato nei suoi interventi degli scorsi tre anni; forse bisognerebbe ponderare se avesse/avrà o meno ragione, l’acquisto di Italcementi – il più grande cementiere del sud Europa – è un boccone enorme. Di più, un vero banco di prova. Vero che su questo sito si era preconizzata l’acquisizione in passato di Enel da parte dei tedeschi. Altrettanto vero che tale “piece of news” pare fosse informazione accurata, peccato che da una parte l’acquirente in pectore tedesco si stia letteralmente liquefacendo a seguito dei suoi enormi errori manageriali e dei pessimi (relativi al settore) risultati di bilancio (…); dall’altra il duo “governo/Ad di Enel” [bravissimo] hanno saputo tessere una tela ramificatissima e pregevolissima che, anche grazie a supporti esterni (Usa, vedasi l’accordo con Ge per il rinnovabile in Nord America) e all’astuzia del governo con le Tlc in fibra allocate al gigante elettrico, ha esteso le coperture della golden share [e della geopolitica che conta] alla nostra multinazionale dell’energia.Ma ciò non toglie che quello di Italcementi sia un vero simbolo, un passo decisivo nel piano egemonico tedesco, certamente – si teme – solo il primo di una serie: la Germania, avendo compreso che l’euro è destinato a crollare, deve comprare ORA ora le aziende che le fanno concorrenza, soprattutto nella manifattura e soprattutto nel suo settore di elezione, quello primario (cemento, acciaio, energia, autotrazione, chimica etc. ma non nell’oil in quanto ne fu esclusa dopo la sconfitta nell’ultima guerra). O al limite farle chiudere/sperare che chiudano, come la Riva Acciai competitore della iper-problematica ThyssenKrupp (il crollo di Riva a fine del 2011 ha prima di tutto salvato il gigante tedesco dell’acciaio; coincidenza delle coincidenze è che il crollo del nostro gruppo siderurgico sia coinciso con l’alba del governo di Mario Monti e del golpe contro un primo ministro italiano democraticamente eletto, considero il Professore certamente un affiliato o quasi dell’ordoliberismo tedesco, per non dire molto di più).E – lo ripeterò fino allo sfinimento – la Germania deve acquisire i propri competitor in Ue indeboliti dalla crisi PRIMA prima che l’euro si rompa, con il fine di evitare che la svalutazione competitiva italiana spiazzi i suoi giganti nazionali. Ben inteso, sarà facile verificare che Heidelberg ha acquisto Italcementi per farla chiudere o comunque per ridimensionarla, eliminando un competitor. Per altro solo l’aspetto fiscale – tasse molto più basse in Germania che in Italia – giustificherebbe la chiusura della maggioranza delle filiali italiane rispetto a quelle meno tassate/vessate in Germania. Verificate gente, verificate se quanto stiamo asserendo si trasformerà in realtà: in particolare occhio all’occupazione di Italcementi nei prossimi tre/quattro anni ed ai tagli che seguiranno, facile prevedere che finirà come Acciai Speciali Terni simboleggiata nel disastro di Torino, bassi investimenti e chiusura progressiva (speriamo che questa volta almeno si eviti la tragedia). Credetemi, questa storia la conosco davvero bene e non temo – purtroppo – smentita nella visione proposta.E in tutto questo tristissimo epilogo, i nostri politici fanno grande fatica a riconoscere la grave realtà che ci aspetta; questo è l’aspetto più irritante. E soprattutto, a vedere l’ormai evidente protervia tedesca, un piano ben congegnato. Attenti, politici: se la disoccupazione dovesse esplodere per colpa diretta dei tedeschi, stile abbattimento/forte ridimensionamento di Italcementi da parte di Heidelberg, penso che questa volta rischierete davvero di pagarla di fronte ai cittadini, soprattutto vis a vis con le maestranze esodate in forza ad esempio degli effetti del Jobs Act. E ai giovani intraprendenti dico: andatevene da questo paese, se la politica permette che gli stranieri che ci impongono il rigore ci comprino i nostri grandi gruppi a valle all’indebolimento preventivo causato dall’austerity, per voi non c’è futuro. E probabilmente nemmeno per i giovani politici; aspettate per credere, sono pronto a scommettere che da qui a qualche anno saranno loro i responsabili del disastro. Ben inteso, fosse per me chiederei a Mario Monti di emigrare…(“La teoria secondo cui il sistema tedesco deve comprarsi la manifattura italiana prima del crollo dell’euro comuncia ad avverarsi: Italcementi acquistata da Heidelberg”, intervento di “Fantomas” da “Scenari Economici” del 29 luglio 2015).La teoria comincia a confermare i peggiori presagi di alcuni “malpensanti”, ad esempio Mitt Dolcino che mi ospita su questo sito. Quello che è stato a più riprese previsto dall’autore sopra citato si può riassumere come segue: la stagflazione in regime di cambi fissi è una moderna forma di neocolonialismo tedesco a danno dei supposti “partner” deboli dell’Ue; le ricette austere di matrice tedesca stanno indebolendo le aziende dell’Europa periferica ed italiana in particolare che quindi vengono acquisite dall’estero, con massima attenzione per quei paesi che competono direttamente con la Germania (ad es. l’Italia, soprattutto l’Italia); appunto, la Germania è interessata ad acquisire nel Belpaese i competitor delle propie grandi aziende, non per investire con/in esse ma semplicemente per eliminare un avversario (pls check); questo verrà provato a breve con lo svuotamento delle attività italiane delle aziende acquisite, prima di tutto in termini di manodopera e di investimenti (nell’arco di circa un triennio); la Germania deve acquistare quel che resta delle imprese italiane – maggior competitor manifatturiero della Germania – prima che l’euro si rompa, onde ovviare alla innegabile competizione della italiana a seguito della svalutazione competitiva che seguirà.
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Della Luna: Germania criminale, utile idiota dello Zio Sam
“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titolava ieri in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “Il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti.Tsipras, il doppiogiochista bifronte, ha tradito sia il mandato elettorale che quello referendario del suo popolo, finendo per imporgli condizioni addirittura più schiaccianti di quelle inizialmente richieste dalla Germania, per fare lo sporco gioco di questa, condannando la Grecia a misure incompatibili col risanamento, perché aumentare le tasse sui redditi e l’Iva a un’industria già agonizzante significa voler ammazzare l’economia e peggiorare quindi il rapporto deficit/Pil. E licenziamenti massicci con una disoccupazione al 25% sono un suicidio sociale. L’insostenibilità del debito pubblico greco si ripresenterà entro l’anno, aggravata dal calo della produzione e dell’occupazione. Qual è dunque l’obiettivo di Berlino (e quindi del governo fantoccio di Bruxelles)? Disastrare la Grecia per impadronirsi, o far sì che i capitalisti finanziari franco-tedeschi si impadroniscano dei beni pubblici che il traditore Tsipras col suo Parlamento di nominati (come quello italiano) metterà nel fondo di garanzia da 50 miliardi. E far man bassa nelle privatizzazioni che Atene sarà forzata ad eseguire col peggiorare programmato della sua crisi debitoria.La Grecia ha avuto diversi traditori prima di Alexis Tsipras, a cominciare dal famoso Efialte, che insegnò ai persiani di Serse un sentiero segreto attraverso i monti per prendere alle spalle i difensori delle Termopili. I difensori delle Termopili sono sempre giustamente commemorati e celebrati, mentre Efialte è passato come lo sterco dei muli di Serse. Il governo Merkel, venendo alla luce come il padrone incontrastato e il vero manovratore delle istituzioni europee, ha distrutto l’Europa, o meglio l’illusione del processo di unificazione europea. Ormai il re è nudo, cioè tutti vedono che l’apparato detto “Unione Europea” è una macchina di sottomissione in mano al governo e alla finanza germanici, che non ci sono né democrazia né eguaglianza né solidarietà né giustizia né sane ricette economiche né un progetto costruttivo, ma solo il progetto tedesco di indebitare, indebolire e spadroneggiare in una Lebensraum in via di conquista. Razziare gli assets pregiati e far lavorare la gente in condizione di servitù, senza garanzie e senza progetti di vita, solo per pagare interessi su pretesi debiti contratti in cambio di denaro contabile, generato a costo zero da bancari-usurai.L’opinione pubblica tedesca se ne frega, se la mortalità infantile in Grecia sale del 45%. L’imperialismo genocida tipicamente tedesco riemerge periodicamente per guidare alla vittoria i cancellieri “forti”. I quali sinora hanno poi sempre perso, perché si sono messi contro il mondo. Il problema è però chi sta dietro Berlino e la sua campagna di conquiste: quale potenza consente alla Germania di imporre tutto ciò che vuole senza nemmeno negoziare, ma piegando e umiliando chi osa opporsi? Necessariamente una potenza che dispone di superiori forze non solo economiche, ma anche militari: gli Usa, o meglio la power élite che governa Washington, ai cui disegni globali la Germania, con le sue caratteristiche di efficienza e amoralità, è strumentale. Fu grazie alla I Guerra Mondiale scatenata dalla Germania, alle distruzioni e ai debiti che essa produsse, che gli Usa soppiantarono l’Impero britannico e le potenze europee. Fu grazie ai finanziamenti delle banche e della grande industria americana, che Hitler ricostruì e riarmò la Germania. E fu grazie alla II Guerra Mondiale, che Wall Street impose al mondo il suo ordine monetario, anche col Piano Marshall e la ricostruzione.Storicamente, la Germania è uno strumento con cui lo zio Sam sottomette l’Europa. Anche in questi giorni, dietro il bailamme della crisi greca, sta ottenendo il voto favorevole del Parlamento Europeo al Ttip. Già l’Italia, come la Grecia, ha avuto ed ha governi imposti da Berlino, ma guidati da personaggi della banca americana Goldman Sachs, per fare gli interessi stranieri. Governi che hanno massacrato questo paese, i cui conti reggono oggi solo perché il Qe di Draghi li sostiene, abbassando lo spread; ma quando il Qe finirà, il debito italiano rischia seriamente una crisi di sostenibilità come quello greco. Oggi Brunetta dice «io e Forza Italia non cederemo mai la sovranità a Schaeuble», ma fino a due anni fa hanno votato tutto quello che serviva per cederla!(Marco Della Luna, estratti da “Merkel e Serse, conquistare la Grecia”, dal blog di Della Luna del 14 luglio 2015).“Erneut zerstört eine deutsche Regierung Europa”, ossia “Nuovamente un governo tedesco distrugge l’Europa”, titolava ieri in prima pagina “Handelsblatt”, omologo tedesco de “Il Sole 24 Ore”, nella sua edizione online (il primo fu il governo Bethmann-Hollweg nel 1914-18, il secondo il governo Hitler nel 1938-45, il terzo il governo Merkel, oggi); e mette in bella mostra gli elmi chiodati del II Reich che distrusse l’Europa (e consentì l’egemonia degli Usa) scatenando la I Guerra Mondiale, e scatenandola nel modo più sporco: l’invasione del Belgio neutrale, le stragi di civili innocenti, la distruzione gratuita di centri urbani, l’uso massiccio dei gas mortali. Un altro articolo definisce il ministro delle finanze Schäuble “Il seppellitore (Totengräber) dell’Europa”. A intendere: nella vicenda greca, la Germania ha dimostrato che l’Unione Europea non ha una politica propria, è solo una facciata e uno strumento per i suoi interessi egoistici, nazionalistici e imperialistici rispetto agli altri paesi europei. Adesso che tutti lo vedono, l’illusione idealistica e sentimentale dell’unificazione europea, la retorica dei “padri fondatori” e tutte le altre corbellerie appaiono per quel che sono sempre state: camuffamenti.
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La mafia Ue uccide Atene per impaurire noi, infami codardi
Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.«Il “no” massiccio al referendum – scrive Cremaschi su “Micromega” – andava sanzionato in quanto tale, per insegnare ai popoli tentati di ripeterlo quanto alto potrebbe esserne il prezzo. Il taglio delle pensioni minime sotto i 400 euro al mese, quello dei salari dello stesso livello, l’aumento del prezzo dei farmaci là ove la sanità pubblica è scomparsa, l’obbligo a rivedere le minime misure di sostegno ai poveri, agli sfrattati, la cancellazione delle poche riassunzioni, tutte queste non sono misure di grande valore economico, sono rappresaglie sociali. Anche per questo, dopo la firma della capitolazione, la Bce ha deciso di continuare a negare i fondi Ela di emergenza. Le file ai bancomat devono continuare fino a che restino ben stampate nella memoria», di ogni greco e di ogni altro europeo. «Le rappresaglie terrorizzano e puniscono, ma il loro scopo è il dominio. La Grecia è il primo Stato europeo che dal 1945 diventa formalmente una colonia. In questo c’è anche la punizione politica che viene somministrata al governo Tsipras». Massima perfidia, costringere lo stesso Tsipras a firmare condizioni-capestro, peggiori di quelle inizialmente respinte, demolendo così la credibilità del premier “ribelle”.«Il Parlamento greco avrà solo il compito di votare il proprio suicidio accettando la resa», continua Cremaschi. «Poi ogni decisione sarà presa dai tecnici, espressione delle potenze occupanti, che supervisioneranno l’operare del governo coloniale. Tutto questo è meticolosamente definito nel protocollo dell’Eurogruppo». Colpo di Stato, come quello dei colonnelli nel 1967: «Allora fu la Nato ad organizzarlo, ora è la Troika». La differenza? «Allora non erano in discussione le proprietà pubbliche, mentre ora sono in svendita». La Grecia continua ad essere «cavia di trattamenti che vengono somministrati in dosi estreme ad essa e più caute agli altri, ma la medicina è la stessa: il Fiscal Compact e il Semestre Europeo si son aggiunti ai già precedenti trattati che hanno legato indissolubilmente euro e austerità». Ora, poi, ci sono poteri formali per far applicare le peggiori decisioni prese dall’Ue: «Se un Parlamento fa un bilancio dello Stato che le autorità di Bruxelles considerano troppo poco rigoroso, queste stesse autorità possono intervenire per modificarlo. I parlamenti nazionali non hanno più la disponibilità del bilancio dello Stato, ragione per cui 200 e più anni fa sono nati».Sopra di loro sta un’autorità tecnocratica e finanziaria che esercita il potere vero: «La Ue è quindi oggi un colpo di Stato permanente, che sulla Grecia ha esercitato una sperimentazione, per ora, estrema». Ma la riduzione allo stato coloniale della Grecia, oltre che la funzione di esempio, che scopo economico ha? Qui le poche cifre chiare disponibili non lasciano dubbi. «Il paese verrà saccheggiato dai “creditori”. Degli 84 miliardi promessi, solo 10 potrebbero finire in investimenti, cioè produrre interventi nell’economia reale. Tutti gli altri son una partita di giro, soldi che tornano alle banche e al Fmi», e il meccanismo si ripete con gli interessi. «Infatti a garanzia del prestito la Grecia deve impegnarsi in tagli di bilancio e tasse per un cifra vicina ai 15 miliardi e privatizzare beni per 52 miliardi». E’ un paese alla fame, con un Pil 8 volte inferiore a quello dell’Italia. «Da noi, la manovra imposta alla Grecia varrebbe 120 miliardi di tagli e oltre 400 miliardi di privatizzazioni. Riusciremmo a farle noi senza vendere Venezia, Firenze e il Colosseo?».Il via libera ad altri licenziamenti di massa e la fine dei contratti collettivi, imposti dall’Eurogruppo, secondo Cremaschi ridurranno alla schiavitù ciò che resta del lavoro: ci saranno più profitti, ma non ci sarà certo una ripresa in grado di pagare i debiti. «Come ogni usuraio, i creditori potranno allora dire che la Grecia non fa fronte a tutti gli impegni e quindi non può avere tutti i prestiti. Così continueranno a fare affari saccheggiando il paese e terranno in ostaggio tutti gli altri popoli: se non volete finire come loro dovete continuare ad accettare le politiche di austerità. La Troika sarà aiutata in questo ricatto permanente dal controllo totale esercitato sui mass media, che con la loro menzogna sistematica in questi giorni ci han già fornito un’anteprima di fascismo 2.0». Conclusione: «La vicenda greca dimostra una sola verità inconfutabile: questa Unione Europea non è riformabile; se si vuole una politica diversa da quella del massacro sociale e dell’austerità bisogna essere disposti alla rottura completa con essa. Il governo greco non era disposto a questo, e quindi ha capitolato».Il popolo greco, invece, aveva risposto “no” al 62%. «E’ stato un segnale che lor signori han ben colto, e per questo han reagito con tanta brutalità. Ma le rappresaglie, i massacri, possono impaurire una, due, tre volte, poi alla fine ottengono l’effetto opposto, alimentano la rivolta. Per questo la Ue, mostrando la sua vera faccia con la Grecia, ha decretato la sua fine». La rottura «va costruita in mezzo ai popoli, che per vivere liberamente debbono saper reggere il ricatto dell’euro e di tutto quanto è ad esso collegato». Nel 1938, la Cecoslovacchia si arrese alla Germania di Hitler, sostenuta da tutta l’Europa, che pensava così di essersi salvata. Scrisse Churchill: «Scegliemmo il disonore per non avere la guerra, e ottenemmo entrambi». Aggiunge Cremaschi: «Il 13 luglio 2015 è la giornata del disonore europeo, tutti i governi che hanno imposto la resa alla Grecia sono colpevoli d’infamia, ma la condanna morale deve diventare rovescio politico. Starà ai greci decidere come organizzare resistenza e sabotaggio verso il Memorandum, con o senza Tsipras, dipende da lui. Ma resistere alla tirannia Ue è il compito da assumere in ogni paese e in tutto il continente».Non è la Grecia, ma l’Unione Europea, ad aver firmato la sua condanna a morte: oggi sono i greci a scendere all’inferno, ma domani anche i più disattenti avranno capito che razza di regime ci sta votando alla sofferenza eterna, alla spirale senza speranza della crisi innescata dall’Eurozona e dal potere brutale che la governa. Lo sostiene Giorgio Cremaschi, che pure non si nasconde le colpe di Tsipras, peraltro lasciato solo: «La Grecia è stata costretta alla resa dall’isolamento che la Troika è riuscita a costruirle attorno. Sinistre, sindacati, popolo democratico, tutti siamo stati alla finestra, quindi la loro sconfitta è nostra per conseguenze e responsabilità». Il testo varato dall’Eurogruppo? «Non è solo inaccettabile per il popolo greco, ma è una minaccia e una sfida per tutti noi. Siamo tutti greci». Perché tanta ferocia contro i greci? Per rapinarli di tutto. E, intanto, per punirli, visto l’esito del referendum: «Avete alzato la testa? Ora, cittadini greci, vedrete cosa vi costa». La minaccia alla Grecia è in realtà rivolta a tutti noi: non provateci, o vi faremo fare la stessa fine.
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Della Luna: con politici servi, non basterà uscire dall’euro
E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.Probabilmente la parte in buona fede, cioè la meno intelligente, di quelle persone, pur consapevole che la scarsità monetaria è un’illusione, ha collaborato ad affermarla come principio, ad introdurre i vincoli dell’austerità, la frusta dei mercati, il pungolo del rating e la minaccia dello spread, credendo che attraverso questi vincoli quantitativi sia possibile indurre i sistemi politici scadenti a usare bene la moneta, cioè a spendere in modo efficiente, produttivo, a fare riforme, ad ammodernarsi, a sopprimere gli sprechi e la corruzione. La prova dei fatti ha dimostrato che questa credenza era erronea, e che anzi i limiti quantitativi dell’austerità in diversi casi hanno prodotto un peggioramento qualitativo della spesa pubblica, oltre che a un peggioramento quantitativo del deficit, del debito, del Pil, del rating, dell’occupazione (i governi italiani del rigore, per esempio, hanno mantenuto e ampliato la spesa improduttiva destinata ai privilegi della casta, tagliando quella utile alla collettività, perché la casta, per conservare i suoi consensi e i suoi redditi mentre fa tagli della spesa sociale e aumenti di tasse, deve fare più clientelismo e più ruberie).Dire, con Tsipras e altri sedicenti di sinistra, che di fronte a questo fallimento dell’austerità, la soluzione sarebbe semplicemente più solidarietà, fare più spesa a deficit e comunitarizzare i debiti, significa voler restare entro il paradigma della scarsità monetaria. Specularmente, l’altro fronte del pensiero monetario sostiene che la soluzione del problema del rilancio economico sia l’approccio opposto, ossia smetterla coi mendaci dogmi della scarsità monetaria e con le relative, fallimentari ricette, e fare invece investimenti statali diretti mediante spesa pubblica a debito (che tanto lo Stato riesce sempre a sostenere, come dice la Modern Money Theory di Warren Mosler, stante che la moneta è un mero simbolo) oppure, meglio ancora, mediante una spesa sganciata dall’indebitamento (come raccomanda Antonino Galloni) attraverso l’emissione diretta di moneta da parte dello Stato. Ciò darebbe più benessere alla gente e slancio allo sviluppo, ma non migliorerebbe, anzi probabilmente peggiorerebbe, la qualità e l’efficienza della spesa, della produttività e della stessa società, incentivando atteggiamenti improduttivi, assistenzialisti e ristagnanti. Soprattutto nei paesi come l’Italia in cui la classe dominante è parassitaria e retriva, e la mentalità popolare è molto ideologica, e ampia parte della popolazione vive di redditi presi ad altra parte della popolazione. La storia insegna.La lezione da imparare e che la qualità e l’efficienza della spesa, cioè delle decisioni di spesa pubblica e privata, dipendono da fattori sociologici e politici inerenti ai differenti popoli, o ai differenti insiemi di popoli, e derivano dalle loro diverse storie. Lo dimostra il fatto che alcune nazioni vanno bene e altre male pur applicando o subendo tutte i medesimi erronei principi di economia monetaria. Cioè l’efficienza dipende dai fattori storici, sociologici, culturali; dai mores, dai meccanismi di produzione del consenso e della coesione di questo o quel popolo. I vincoli quantitativi esogeni non “correggono” questi fattori – semmai li accentuano. La Germania, il Veneto, la Lombardia hanno una spesa pubblica abbastanza efficiente; la Grecia, l’Italia, Roma, la Sicilia e la Campania no, perché hanno prassi, mores, mentalità diversi, che non correggi imponendo vincoli esterni di bilancio. I popoli efficienti non dovrebbero avere una moneta comune con i popoli inefficienti, né pagare per sostenerli. L’esperienza dell’euro mostra che imporre una moneta comune (anzi, un cambio fisso) a popoli con diverse efficienze non alza quella dei meno efficienti, ma li impoverisce; e l’esperienza dell’Italia unitaria, della Jugoslavia e di altri paesi simili mostra che non la alza nemmeno l’imporre l’unione di bilancio e la solidarietà.Tutti questi fattori, però, vengono oggi superati, sconvolti e travolti dal fatto che il grosso della spesa, dei movimenti monetari, cioè del business, avviene in mercati finanziari, apolidi, e secondo logiche aliene dalla produzione di beni e servizi e dal soddisfacimento dei bisogni reali. Se il 90% delle transazioni monetarie avviene in mercati speculativi liberalizzati, perlopiù opachi e non controllabili, il ruolo delle società, della politica e delle istituzioni nelle scelte di spesa, quindi lo stesso grado di efficienza specifica dei vari organismi nazionali, viene drasticamente ridotto. Le dinamiche e le richieste dei mercati speculativi cambiano continuamente le carte sui tavoli politici e schiacciano le decisioni degli attori del residuo 10% delle transazioni economiche, cioè dei popoli e dell’economia reale, pubblica e privata. Tendono a imporre loro i propri bisogni e le proprie decisioni, a fare di essi una loro colonia, una sorte di appendice, che serve essenzialmente ad assicurare al business speculativo riferimenti contabili stabili e un quadro legislativo-giudiziario di supporto. I bisogni della gente non devono interferire. Perciò lo Stato è divenuto rappresentante di interessi esterni e in conflitto con quelli del popolo, quindi ha perso la legittimazione rispetto a questo.(Marco Della Luna, “Dopo la scarsità monetaria”, dal blog di Della Luna del 5 luglio 2015).E’ fallita nei fatti l’idea che si possa indurre il miglioramento qualitativo della spesa pubblica dei paesi inefficienti imponendo a questa spesa vincoli quantitativi nonché il falso dogma della scarsità monetaria. Coloro che prendono le decisioni finanziarie generali sanno che, in un mondo che usa simboli come moneta, la scarsità monetaria è irreale, è un’illusione (cioè sanno che non ha senso logico dire che manchi e non si possa produrre la moneta necessaria per investimenti utili, che essa prima vada risparmiata e accumulata e solo dopo si possa investire, che sia utile o necessario rispettare il pareggio di bilancio, che vi siano limiti oggettivi e logici alla quantità di debito pubblico sostenibile: non ha senso dire tali cose, perché la moneta che si usa è appunto un mero simbolo senza costo di produzione, senza valore intrinseco, e la moneta legale non costituisce nemmeno un titolo di debito). Quindi, nella misura in cui serve, la moneta può essere prodotta sempre e nella quantità richiesta. Il difficile non è produrne quanta ne serve, ma usarla bene, decidere bene come spenderla: un problema politico, ossia di fare scelte tecnicamente valide nell’interesse generale di medio-lungo termine, e che tali siano percepite, anziché scelte di spesa di interesse personale, clientelare, mafioso, tecnicamente inefficienti, miopi, clientelari, demagogiche.
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Giulietto Chiesa: puniranno la Grecia, anche con la guerra
Il 5 luglio 2015 passerà alla storia. E gli ettolitri di inchiostro virtuale che stanno già diluviando introducono un’epoca nuova, che sarà però drammatica e non felice. Questo, per rispondere subito agli insoddisfatti, agli incerti, ai critici, anche a quelli che criticano Tsipras nonostante la sua vittoria e si accorgono, adesso, con qualche stupore anche un po’ ingenuo, del fatto evidente che siamo tutti sull’orlo di un vulcano, da cui la vittoria non ci ha allontanato. Grazie a Tsipras, anche loro adesso lo vedono meglio. Meglio tardi che mai. Il vulcano è politico. I mercati non possono tollerare, e non tollereranno, che qualcuno possa intaccare il loro potere di decisione. E dunque renderanno un calvario il tentativo della Grecia di sottrarsi alle loro angherie. Ma ormai è accaduto l’inverosimile, e sarà necessaria una punizione esemplare: prepariamoci, quindi. Ma il problema è che ciò che è accaduto in Grecia dice alcune cose indicibili, per loro, per i padroni universali. Dice per esempio che il tabù europeo è stato infranto, e non solo in Grecia, ma molto più lontano; che il sistema – altra cosa – come ha scritto molto bene Pino Cabras, è anelastico, cioè: non è capace di formulare un piano-B una volta che il piano-A non ha funzionato. Così è avvenuto: credevano di vincere, e hanno perduto.E infine, ci dice che quest’Europa non ha più nulla a che vedere con quella di 50 anni fa; che loro hanno preso il potere; che se lo vogliono tenere; e che quello che è avvenuto in Grecia è una bestemmia, per il potere europeo. Dunque, aspettiamoci colpi di coda drammatici e anche violenti, non solo contro i reprobi greci, ma anche contro ogni altra spiaggia dove l’esempio greco potrebbe ripetersi. Il risveglio greco deve dunque dirci che siamo in pericolo: è il 1848 del XXI secolo. Sappiamo come andò a finire, due secoli fa: andò a finire male, perché coloro che volevano ribellarsi non erano organizzati. A questo appuntamento, le masse popolari europee giungono disordinate, disorganizzate, divise, prive di una guida. Questo è un dato di fatto. E dunque, la prima cosa da fare è costruire un fronte ampio, di resistenza popolare, europeo. So che non sarà facile, non mi faccio nessuna illusione, ma una cosa mi è chiara: questa questione non si può eludere, altrimenti saremo sconfitti senza neanche poter combattere. Il nemico, i mercati, sono molto meglio organizzati di noi.Ci hanno pensato prima. Si sono preparati, in qualche modo. Hanno commesso degli errori, ma hanno dalla loro parte gli eserciti, le polizie, e agiscono su molti piani simultaneamente. Non sono né ingenui né impreparati. Per questo, per resistere a questa armata potente e ricca, come sappiamo, le forze popolari avranno bisogno di alleati. Cioè avranno bisogno di una politica estera, di una politica europea comune, che guardi al mondo. Non c’è tempo da perdere. I padroni universali hanno eserciti già in moto – anche questo ci deve far riflettere: non si arriva alla crisi greca senza che loro si siano preparati, con tutta una serie di scenari di guerra già pronti, dall’Ucraina al pre-Baltico, dalla Macedonia all’oltre-Dnestr, alla Grecia stessa (ai confini con l’Albania). Noi siamo già – altro che sull’orlo di un vulcano – siamo già su una bomba accesa, con una miccia che diventa sempre più corta. Dunque, non è soltanto chiudendo gli sportelli bancari e i rubinetti finanziari che i padroni universali muoveranno all’attacco.C’è la guerra, come strumento principe per bruciare i libri mastri e le montagne di carta che sotto forma di debito ci stanno soffocando – la Grecia e noi. Ecco perché è centrale la questione dell’uscita dell’Italia dalla Nato e la sua trasformazione in un paese neutrale – così come sta avvenendo in Austria, altro paese neutrale che si sta muovendo per uscire addirittura dall’Europa. Queste sono questioni cruciali: o noi smetteremo di essere una colonia degli Stati Uniti d’America e decideremo (democraticamente) di diventare neutrali e non entrare in nessuna guerra, o difficilmente, se non succederà questo, noi potremo aiutare la Grecia a vincere in questo difficile calvario, ma anche noi stessi. Così deve avvenire, mentre giriamo intorno al sole.(Giulietto Chiesa, “Il 1848 del XXI secolo”, video-intervento per “Pandora Tv” del 7 luglio 2015).Il 5 luglio 2015 passerà alla storia. E gli ettolitri di inchiostro virtuale che stanno già diluviando introducono un’epoca nuova, che sarà però drammatica e non felice. Questo, per rispondere subito agli insoddisfatti, agli incerti, ai critici, anche a quelli che criticano Tsipras nonostante la sua vittoria e si accorgono, adesso, con qualche stupore anche un po’ ingenuo, del fatto evidente che siamo tutti sull’orlo di un vulcano, da cui la vittoria non ci ha allontanato. Grazie a Tsipras, anche loro adesso lo vedono meglio. Meglio tardi che mai. Il vulcano è politico. I mercati non possono tollerare, e non tollereranno, che qualcuno possa intaccare il loro potere di decisione. E dunque renderanno un calvario il tentativo della Grecia di sottrarsi alle loro angherie. Ma ormai è accaduto l’inverosimile, e sarà necessaria una punizione esemplare: prepariamoci, quindi. Ma il problema è che ciò che è accaduto in Grecia dice alcune cose indicibili, per loro, per i padroni universali. Dice per esempio che il tabù europeo è stato infranto, e non solo in Grecia, ma molto più lontano; che il sistema – altra cosa – come ha scritto molto bene Pino Cabras, è anelastico, cioè: non è capace di formulare un piano-B una volta che il piano-A non ha funzionato. Così è avvenuto: credevano di vincere, e hanno perduto.
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Grecia, schiaffo al totalitarismo. E ora vedrete cos’è l’Ue
Quando circa il 60% di un popolo vota no, sono superflue le solite interpretazioni. E’ un voto forte, conclamato e, a mio giudizio, colmo di speranza. Ma non del tutto sorprendente. Il popolo greco – che molti in questi anni hanno deriso – è un popolo coriaceo, orgoglioso, profondamente consapevole della propria identità. E’ un popolo che ha resistito a secoli di dominazione ottomana, che nella Seconda Guerra Mondiale ha combattuto a viso aperto gli italiani prima (sconfiggendoli) e i tedeschi di Hitler. Quando si sente minacciato, quando si sente vittima di un’ingiustizia reagisce come ha sempre fatto nella sua storia: unendosi e ribellandosi. Il no dei greci è straordinario perché segna un precedente storico. Un popolo di nemmeno 10 milioni di abitanti ha avuto il coraggio di sfidare apertamente l’Europa finanziaria – dominata dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fmi – che ha gettato nella disperazione non solo i greci, ma anche portoghesi, spagnoli, italiani e in fondo quasi tutti i paesi della zona euro, con la sola eccezione della Germania. E lo ha fatto usando lo strumento che quell’Europa di tecnocrati nega ostinatamente e svilisce quotidianamente: la democrazia.Il voto di un popolo che vuole essere ancora sovrano in questa Europa che invece nega la sovranità. E’ uno schiaffo clamoroso, che nemmeno uno spin vergognoso, dai tratti terroristici – perpetrato da tutte le istituzioni europee con la vergognosa complicità di Draghi, che ha portato ai minimi la liquidità alla Grecia, costringendo le banche, in piena campagna referendaria, a rimanere chiuse – ha sortito gli effetti sperati. Altrove queste misure avrebbero provocato una netta vittoria dei sì. In Grecia, invece, è stata vissuta come un gesto imperiale, di occupazione coloniale a cui non si poteva che rispondere con il no. Della serie: noi non ci facciamo intimidire. Che tempra! Che coraggio! Onore al popolo greco. E che esempio per gli altri europei. Il voto di ieri è in ogni caso storico e incoraggia altri popoli a seguire la stessa strada. Da questa mattina sono più forti tutti i movimenti popolari di protesta di tutto il Continente, sia di sinistra che di destra, in Spagna, in Italia, in Francia, in Gran Bretagna. E’ una scossa tellurica che l’Europa dei tecnocrati non potrà ignorare.E questo è l’aspetto più critico e interessante del dopo voto ellenico. Un voto che costringe l’Unione Europea a gettare la maschera, a mostrarsi per quel che è davvero. Infatti, se cede alle richieste di Tsipras e rinegozia il debito, attuando politiche che non siano più solo punitive ma finalmente di stimolo alla crescita economica, rinnega 15 anni di inutile, cieca, prevaricante austerity. Se invece persegue la linea seguita finora, la conseguenza ultima sarà, verosimilmente, da qui a qualche mese il default e il fallimento de facto della Grecia, che si tradurrà in un’uscita di Atene dall’euro con il ritorno alla dracma. Ma se così fosse sarebbe comunque una sconfitta per l’Europa, perché il tabù dell’uscita dalla moneta unica verrebbe infranto, costituendo un precedente dalle conseguenze imprevedibili.Il terzo scenario è quello di un ulteriore, immediato gesto imperiale di Draghi e della Bce, con la chiusura immediata dei rubinetti finanziari alla Grecia, che comporterebbe il fallimento delle banche e uno tsunami sociale. Un gesto di cui verosimilmente Draghi e i suoi referenti dell’elité finanziaria nonché la Germania, sarebbero fieri, ritenendolo l’inevitabile conseguenza della volontà del popolo greco e risponderebbe alle logiche intimidatorie e punitive di chi vuol dimostrare che non esiste salvezza al di fuori di questa Europa – insomma, per dissuadere gli altri popoli dal seguire l’esempio greco. Ma in questo caso mostrerebbe una vocazione totalitaria. Comunque vada, l’Europa finanziaria, basta su criteri assurdi e prevaricatori, oggi ha perso. Come non essere contenti?(Marcello Foa, “Che grande lezione dai greci. E ora vedrete cos’é davvero l’Europa”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 5 luglio 2015).Quando circa il 60% di un popolo vota no, sono superflue le solite interpretazioni. E’ un voto forte, conclamato e, a mio giudizio, colmo di speranza. Ma non del tutto sorprendente. Il popolo greco – che molti in questi anni hanno deriso – è un popolo coriaceo, orgoglioso, profondamente consapevole della propria identità. E’ un popolo che ha resistito a secoli di dominazione ottomana, che nella Seconda Guerra Mondiale ha combattuto a viso aperto gli italiani prima (sconfiggendoli) e i tedeschi di Hitler. Quando si sente minacciato, quando si sente vittima di un’ingiustizia reagisce come ha sempre fatto nella sua storia: unendosi e ribellandosi. Il no dei greci è straordinario perché segna un precedente storico. Un popolo di nemmeno 10 milioni di abitanti ha avuto il coraggio di sfidare apertamente l’Europa finanziaria – dominata dall’Unione Europea, dalla Banca Centrale Europea e dal Fmi – che ha gettato nella disperazione non solo i greci, ma anche portoghesi, spagnoli, italiani e in fondo quasi tutti i paesi della zona euro, con la sola eccezione della Germania. E lo ha fatto usando lo strumento che quell’Europa di tecnocrati nega ostinatamente e svilisce quotidianamente: la democrazia.
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Euro Macht Frei, l’Europa è solo un’espressione germanica
L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.Superiore efficienza, solidarietà interna, conformismo, sopraffazione degli altri popoli, soprattutto se mediterranei, assenza di scrupoli: queste sono le caratteristiche politiche e culturali del popolo tedesco oggi, esattamente come ai tempi del Terzo Reich, ai tempi del Secondo Reich e anche prima. Le atrocità della Seconda Guerra Mondiale, le invasioni di paese neutrale, le stragi di civili, anche di bambini, le compivano anche nella prima, non avevano bisogno di aspettare Hitler e il nazismo. Hitler e il nazismo sono un’espressione dell’animo tedesco profondo (accanto ad altri, ben diversi), una sua costante, non un fattore esogeno e transitorio di disturbo, separabile dalla nazione. Nella consapevolezza di ciò, dopo la Prima Guerra Mondiale, i vincitori le imposero dure condizioni economiche, studiate per impedire che risorgesse come potenza militare. Visto che ciò non era bastato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la si si ridusse molto di dimensioni e la si divise in quattro zone di controllo; ma esistevano piani più radicali per renderla inoffensiva, facendone un paese puramente agricolo.Quasi dimenticavo: durante e dopo la guerra, sovietici e statunitensi sterminarono deliberatamente diversi milioni di civili e di prigionieri tedeschi, trucidandoli o facendoli morire di fame e di stenti. Effetto di queste misure e di queste stragi, è stato di consolidare l’atteggiamento morale condiviso da quel popolo, ossia considerare gli altri popoli come avversari da sottomettere non appena possibile. Con mezzi economici, se non con mezzi militari. Passiamo al Regno Unito. Anche i britannici di oggi continuano i caratteri storici del loro atteggiamento verso l’Europa continentale: Né dentro né fuori, ma meglio fuori che dentro, possibilmente alla distanza giusta per controllare. Nel 2017, faranno un referendum per l’uscita dall’Unione Europea. È però ben possibile che minaccino di farlo allo scopo di ottenere, come già hanno fatto in passato, più vantaggi economici e privilegi dall’Unione Europea, disposta a pagare pur di evitare l’uscita di un membro così insigne, la quale sarebbe una dimostrazione di fallimento dell’Unione Europea stessa, forse l’inizio della sua scomposizione.Ossia, è probabile che da Londra stiano dicendo: Voi, eurocrati predoni e parassiti di Bruxelles e Strasburgo, se volete continuare a fare i vostri comodi, se volete che non rompiamo il vostro giocattolo, la vostra macchina da soldi, pagateci. La Francia mantiene costante la sua identità e fierezza nazionale, la sua forza militare e nucleare indipendente, la sua politica razionalmente egoista anche se spesso ingenua, come dimostrato dagli esiti del suo asse con la Germania, con cui i suoi nani politici si illudevano, e illudevano la gente, che la Francia potesse condividere con questa il dominio sull’Europa, anziché restare al guinzaglio finanziario delle sue banche. Dell’Italia, paese senza peso internazionale, anzi ormai sostanzialmente governato dall’esterno, con oltre vent’anni di ininterrotta decadenza funzionale alle spalle e la mafia come mentalità e metodo della sua politica e della sua burocrazia, non serve dire molto: per un paese appena efficiente, l’unirsi ad essa sarebbe autolesionismo. Quanto puerile idealismo necessita, quanto bisogna… spinellarsi, per credere oggi che da questi presupposti di fatto possa nascere un’Europa unita, se non attraverso la violenza, la coercizione e la sopraffazione? Ma se questo è il progetto degli illuminati architetti che hanno congegnato e calato dall’alto questo ordinamento europeo e questa moneta unica con le sue regole di bilancio, allora proprio la Germania, la patria dei Lager e dei campi di lavoro forzato, è il suo vero e immancabile strumento di realizzazione. Euro macht frei.(Marco Della Luna, “L’Europa è solo un’espressione germanica”, dal blog di Della Luna del 30 maggio 2015).L’Italia è solo un’espressione geografica e l’Europa è solo un’espressione germanica: euro macht frei. L’Unione Europea e l’euro vennero spacciati come strumento per unificare i paesi europei. L’effetto è opposto. I paesi mediterranei, pieni di debiti e di disoccupati, dopo aver ceduto gli asset migliori, vengono spinti verso il Terzo Mondo, mentre il Terzo Mondo, sui barconi, viene spinto dentro di essi. La separazione tra nord e sud d’Europa viene resa sempre più dura e insuperabile. Zero solidarietà e zero veduta d’insieme. Menefreghismo totale e compiaciuto: i paesi nordeuropei si stanno costruendo il loro subcontinente coloniale per trarne mano d’opera e lavorazioni a buon mercato. L’idea di unificazione europea era assurda sin dall’inizio: bastava guardare alle costanti storiche delle principali nazioni europee che dovevano unificarsi, per predire che questo progetto era irrealizzabile. E che, se realizzato, avrebbe portato a un incrocio tra una polveriera come la Jugoslavia unita e una palude malata come l’Italia unita.
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Calcio, la religione perfetta di questo capitalismo spietato
La nascita del calcio moderno è strettamente legato alla nascita dello Stato parlamentare borghese ed ai primi passi del sistema economico capitalista alla fine del XVII secolo e inizi del XVIII in Inghilterra. In questo modo, la configurazione delle regole di questo sport ed il consenso che ne deriva, sono il risultato della filosofia propria del sistema appena creato, dove si incontrano diversi gruppi politici per competere al potere parlamentare sottoscrivendo delle regole concrete sotto la supervisione di un giudice. Gli artefici di questa trasposizione di valori sono stati gli studiosi degli elitisti della ‘public shcools’ britannici, che diedero all’attuale “re degli sport” la forma che ha oggi all’adottare regole comuni per poter competere a livello nazionale tra le squadre legate ai propri centri educativi. Ma fu solo grazie alla classe operaia britannica che il calcio si professionalizzò e si estese, arrivando a tutte le colonie e porti con presenza britannica nel XIX secolo. La rapida espansione si deve, tra le altre cose, a la scarsità di mezzi che richiedeva la dinamica del gioco, dove solo serviva un pallone (o qualcosa che possa sembrare sferico) e alcune delimitazioni che facessero le veci della porta.Una religione mediatizzata. Attualmente questo fenomeno genera potenti comunità vertebrate da sentimenti identitari collettivi che gestano intorno a diversi clubs del mondo, riaffermandosi in ogni partita attraverso una serie di azioni di massa che possono essere ben classificati come riti sociali. Diversi autori fanno notare il parallelismo dei luoghi comuni che condividono il calcio e i riti religiosi. Partendo dagli studi realizzati da Émile Durkheim sulle religioni primitive agli inizi del XX secolo, si intende che la ragion d’essere delle diverse religioni, presenti in tutte le civiltà conosciute, è quella di giustificare la forma sociale della quale a sua volta ne è il risultato. Tutti i riti religiosi compiono in questo modo una funzione unificante della comunità che li praticano. Questi riti solitamente consistono in atti di comunione congiunta dei suoi membri con entità sovra-terrene., che costituiscono in fine una specie di omaggio e riaffermazione della propria comunità e della propria struttura sociale.In coincidenza con le rivoluzioni liberali, dove si elimina la grazia di Dio come giustificazione principale del potere, cominciò in occidente una progressiva, anche se limitata, perdita di autorità politica del cristianesimo, sostituita da diverse forme di culto “laico” della società. Uno di questi è il fenomeno sociale del calcio. Durante il rito calcistico, le tifoserie realizzano un atto di comunione quasi religioso, esprimendo devozione nei confronti del proprio club durante la stagione di calcio ordinaria e alla propria nazione quando gioca la formazione dei rispettivi paesi. Sia in un caso che nell’altro, gli individui approcciano con l’ideale che li unisce affidandosi in questo modo alla comunità alla quale appartengono. Sono diversi gli elementi condivisi dai riti religiosi e calcistici, dove la comunità rafforza e riafferma il sentimento che si ha della stessa. In ogni culto religioso è necessario, in primo luogo, separare gli atti sacri dai profani, configurando un calendario liturgico per la quotidianità dei fedeli. I fine settimana sono i giorni eletti sia per andare a messa che generalmente per andare allo stadio.In secondo luogo, la rottura con la vita profana deve estendersi anche nella sua dimensione spaziale. Una cerimonia religiosa può essere svolta solo in spazi sacri e appositamente preparati per questa. Attualmente, i tempi del calcio emergono solenni nelle città simbolizzandone l’importanza politica ed economica, così come la grandezza dello stesso club. Al loro interno, il terreno di gioco, così come il presbiterio cattolico, si investe come spazio sacro che può essere calpestato unicamente dagli ufficianti del rito, in questo caso i giocatori e l’arbitro. Questo spazio viene sottomesso a particolari attenzioni che lo rendono degno dell’importanza dell’atto: prato curato, pulito e adeguatamente annaffiato.In terzo luogo, in tutti gli atti religiosi hanno luogo una serie di di azioni più o meno collettive e ripetitive, dove i fedeli esprimono la propria devozione verso l’istanza adorata. Alzare le braccia, agitare le sciarpe, alzarsi dalle sedie o intonare canti sono espressioni collettive di venerazione verso il club e che rispecchiano una significativa somiglianza da quelle realizzate dai e dalle fedeli verso le rispettive divinità nei loro rispettivi templi.Tutte le comunità religiose devono avere dei riferimenti storici che servano da esempio ai suoi integranti. La leggenda e il mito attorno a determinati giocatori per un club assomigliano alla tradizionale santificazione cristiana di personaggi storici. I santi costituiscono in questo modo autentici esempi di attuazione e di servizio verso la comunità religiosa, essendo stati canonizzati dalla realizzazione di determinati atti o gesta che contribuirono all’espansione del cristianesimo nel mondo. Nel caso del calcio, i tifosi delle squadre ricordano giocatori emblematici le cui gesta sul terreno di gioco sono state determinanti nel conseguimento di titoli e glorie che ingrandirono il club. Il caso di Diego Armando Maradona è un chiaro esempio del vincolo esistente tra idolatria religiosa e calcistica: intorno a lui si formò la Chiesa maradoniana in Argentina, un culto di stampo parodico ma che comprende sentimenti reali verso la figura del calciatore. A Napoli fu santificato extra-ufficialmente dai tifosi del club.Competitività, consumo e successo sociale. Come si può vedere, i legami tra rito religioso e rito sportivo sono noti. Durante la stagione di calcio prende inizio un culto dedicato alla competizione per il successo professionale (legato al successo sociale) che governa la società contemporanea basata sull’economia di mercato. Ma il calcio nella società attuale non è l’unico spazio di aggregazione collettiva che risponde a queste funzioni di coesione. Il modo in cui le persone consumano quasi tutti gli altri tipi di spettacoli, come il cinema, la musica e la televisione, si avvicinano in gran misura al culto religioso. Un esempio sono le diverse comunità di appassionati (fanatici) creati attorno a prodotti culturali generati dalle industrie dello spettacolo, dove gli integranti mostrano simboli identificativi incorporate in oggetti di merchandising di uso quotidiano o realizzano autentiche mostre di devozione accudendo a cerimonie collettive come concerti , film, o il consumo simultaneo di capitoli di serie televisive.In ognuno di questi campi è un luogo comune l’opera di santificazione delle figure più importanti, condotta dai mass media. Anche se gli antichi santi erano usati come esempi di comportamento ascetico, le celebrità moderne sono santificati esattamente per l’opposto, essendo esempi di opulenza e di comportamenti sociali legati al consumo, che costituiscono il carburante di un sistema sociale basato sulla sovrapproduzione. In questo aspetto, sono disposte intorno al calcio autentici modelli di uomo per la classe operaia, soprattutto perché la maggior parte dei calciatori provengono dai settori più umili della società e hanno raggiunto la fama e il successo solitamente per competenze sul campo e per la dedizione. E ‘ particolarmente significativo che l’ industria mediatica dedichi tale privilegio all’unico posto che il sistema economico capitalista offre in cui la classe sociale non determina il successo nella carriera. I mass media portano a termine questo lavoro di glorificazione di campioni, che investiti come modelli autentici della vita nella società dei consumi, come esempi di virilità, di auto-superamento e lavoro.Dal settore della pubblicità ai telegiornali, ci vengono continuamente mostrate le gesta di questi superuomini in campo e, ogni volta di più, le telecamere si introducono nella loro vita quotidiana per mostrare l’opulenza in cui vivono, le donne bellissime che hanno o la nuova auto che hanno acquisito. Il telespettatore medio della classe operaia vedrà così che un suo simile è arrivato alla cima del successo sociale con i propri mezzi, essendo egli stesso l’unico responsabile delle loro condizioni socioeconomiche. Il mito attualmente generato da giornalisti sportivi e aziende pubblicitarie intorno al calciatore Cristiano Ronaldo è il miglior esempio di questa strategia mediatica. Il marchio sportivo Nike sfrutta da anni la sua immagine come modello di mascolinità e professionalità. “Le mie aspettative sono meglio delle tue” è stato lo slogan lanciato dal brand nel 2009. Una gigantesca immagine del giocatore esultando per un gol con il torso nudo appariva praticamente in ogni fermata metropolitana di Madrid, ricordando ai milioni di lavoratori che usano i mezzi pubblici come siano ancora lontani dal successo sociale e professionale. Il consumo diventa quindi l’unico modo possibile per emulare il superuomo che non sono stati in grado di essere.Il prato politicizzato. Ma quello di cui abbiamo parlato è solo uno degli aspetti attraverso i quali il calcio diviene uno spazio per la disputa politica per il potere e il controllo sociale. È necessario ricordare che il calcio costituisce un’allegoria del combattimento in cui due comunità perfettamente identificate si affrontano attraverso il gioco, che permette di svolgersi senza rischiare l’integrità fisica dei partecipanti. Nella dimensione di fenomeno di massa, questo sport canalizza impulsi aggressivi della società attraverso l’elemento mimetico che costituisce il gioco competitivo su prato, essendo un luogo ideale per soddisfare le pretese di accrescere il potere così come riaffermazioni dell’autorità stabilita. Il fascista Benito Mussolini è stato tra i primi leader politici a vedere nel calcio un importante strumento di propaganda. Dedicò grandi sforzi per costruire stadi monumentali e organizzare grandi eventi sportivi, al fine di dimostrare la potenza della nuova Italia.Attualmente, questa strategia è un modello di base della politica globale, che si reggono su simili pretese imperialiste. Basta notare il modo in cui gli stati nazionali scaricano sul prato il loro orgoglio nazionale, o il modo in cui competono in precedenza per ospitare i mondiali, mostrando il loro livello organizzativo e il loro potenziale di sviluppo per gli investimenti stranieri. Si producono violenti sgomberi di gente povera nei centri delle città, o ingenti investimenti di capitale pubblico nella costruzione di infrastrutture che daranno enormi profitti alle élite economiche locali e straniere. In questi campionati, il calcio funziona come un elemento di coesione. Nel caso della Spagna, dopo l’esito della Coppa del Mondo in Sud Africa 2010 non passò molto tempo prima di sentire dai mass media allegorie riguardo il gran potere che potrebbe avere una Spagna unita nel campo della politica globale, essendo l’unione un requisito vincolante per uscire il prima possibile dalla crisi economica.Il complesso da impero smarrito che costituisce il nazionalismo spagnolo viene riflesso dai media col trionfo della selezione, rafforzando il senso di identità nazionale calmando a sua volta il clima socio-politico”. Si nota un gran contrasto dalla saturazione mediatica dei mondiali del 2010 con il relativo silenzio dei media dopo che gli spagnoli vennero eliminati nel 2014 in Brasile. Attraverso l’armamentario multimediale creato intorno ai trionfi della squadra nazionale, viene generato nella classe operaia una sorta di illusione collettiva di partecipazione allo stato-nazione, come sostituto. In ogni canale televisivo si creano talk show e programmi sportivi condotti da “esperti” che esaltano gli eroi del paese, plasmando uno spirito nazionale che integra i lavoratori, i datori di lavoro, e le istituzioni politiche. Grazie alla facilità che offre nel generare identità collettive, il calcio è un richiamo di massa senza eguali riproducendo le strutture di potere sociali e le diverse tensioni insite in loro.Il calcio e la sessualità. Il calcio rappresenta uno dei grandi bastioni intoccabili di dominio maschile nella sua dimensione più tradizionale. Le glorie calcistiche sono sistematicamente negate alle donne anche se hanno sempre maggiore presenza negli stadi. Esse sono una minoranza, come gli omosessuali, condannate al silenzio più completo. L’associazione tra la virilità e la competizione attraverso il contatto fisico, che è la spina dorsale del culto di calcio, è logica conseguenza del contesto filosofico morale-borghese in cui è stato sviluppato questo sport. Come in ogni altro sport, viene eseguita la discriminazione delle donne a praticare insieme agli uomini, alludendo a ragioni di stampo biologistico. Senza entrare nel merito di una discussione di questo tipo, è sufficiente ricordare che il calcio è uno sport in cui le capacità fisiche si compensano con le capacità tecniche, l’intelligenza del giocatore o la giocatrice, la strategia e la coesione della squadra.Altrimenti sarebbe stato impensabile, per esempio, che una squadra come la squadra spagnola, composta per lo più di giocatori più bassi e relativamente sottili, conquistasse il titolo mondiale nel 2010, rispetto a squadre in gara come il Camerun o la Costa d’Avorio che non hanno nanche raggiunto la seconda fase del torneo. Argomenti di stampo evoluzionista prevalgono rispetto le teorie sociali nello spiegare perché le donne giocano a calcio peggio degli uomini e non sono degne di competere con loro. Sicuramente pensare al fatto che le donne fin dalla nascita partano da una posizione chiaramente svantaggiosa per questo sport (e praticamente qualsiasi altro) rispetto agli uomini a causa della costruzione sociale rigida che coinvolge ruoli di genere nei quali socializzano è più assurdo che pensare che le donne giocano a calcio perché Madre Natura (paradossalmente) così volle. D’altra parte, il culto all’ideale maschile su cui regge lo spettacolo calcistico comporta una sorta di divieto tacito sulla pratica a quegli individui la cui identità sessuale è percepita come una minaccia per i fondamenti della mascolinità tradizionale venerati in questo sport.Non è un caso che ci siano attualmente solo due giocatori professionisti attivi apertamente gay, Anton Hysén svedese e l’americano Robbie Rogers, entrambi giocano attualmente in Usa. I casi più noti sono diventati pubblici dopo il loro ritiro, evidenziando l’incompatibilità della loro identità sessuale con la loro carriera. Interpretando così, ogni partita di calcio professionale come una cerimonia quasi religiosa in cui la società realizza un culto abitudinario dei valori di competitività e mascolinità che governano il sistema socio-politico dominante, si capisce la difficoltà di un calciatore gay di affermarsi come elemento dissonante in un ambiente così mediatico, in cui sarà sottoposto ad un inevitabile giudizio dalla massa. Eppure, a poco a poco cresce il divario della Fifa grazie al coraggio dei giocatori stessi, che silenziosamente lottano per la loro libertà sessuale auspicando lo sviluppo di ulteriori iniziative che promuovono la normalizzazione dell’omosessualità nello sport. Tuttavia, questo è solo l’inizio di un percorso faticoso che comporta la necessità di ripensare i pilastri culturali su cui questo fenomeno di massa si basa.(Manuel González Ayestarán, “Calcio, media e controllo sociale”, da “Rebelion” del 16 dicembre 2014, tradotto da Torito per “Come Don Chisciotte”).La nascita del calcio moderno è strettamente legato alla nascita dello Stato parlamentare borghese ed ai primi passi del sistema economico capitalista alla fine del XVII secolo e inizi del XVIII in Inghilterra. In questo modo, la configurazione delle regole di questo sport ed il consenso che ne deriva, sono il risultato della filosofia propria del sistema appena creato, dove si incontrano diversi gruppi politici per competere al potere parlamentare sottoscrivendo delle regole concrete sotto la supervisione di un giudice. Gli artefici di questa trasposizione di valori sono stati gli studiosi degli elitisti della ‘public shcools’ britannici, che diedero all’attuale “re degli sport” la forma che ha oggi all’adottare regole comuni per poter competere a livello nazionale tra le squadre legate ai propri centri educativi. Ma fu solo grazie alla classe operaia britannica che il calcio si professionalizzò e si estese, arrivando a tutte le colonie e porti con presenza britannica nel XIX secolo. La rapida espansione si deve, tra le altre cose, a la scarsità di mezzi che richiedeva la dinamica del gioco, dove solo serviva un pallone (o qualcosa che possa sembrare sferico) e alcune delimitazioni che facessero le veci della porta.
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Biglino: ma quale religione, nella Bibbia non ve n’è traccia
Molte mie traduzioni stanno trovando conferme inattese, addirittura in forum e siti di consulenza ebraica. Ne cito alcune: la Bibbia parla di ingegneria genetica, gli angeli biblici non sono entità spirituali ma individui in carne ed ossa, i cherubini erano oggetti meccanici (robot, li definiscono gli stessi esegeti ebrei), i cosiddetti miracoli non hanno origine soprannaturale ma tecnologica, la Bibbia non parla di creazione dal nulla, Satana non esiste nell’Antico Testamento. Se il Pentateuco del codice masoretico di Leningrado costituisce anche la base della Torah ebraica, mi si domanda come sia possibile che gli ebrei, che conoscono bene la loro lingua, non si siano accorti che la Torah non può essere un libro sacro? Tra le tante conferme che ho ricevuto da esegeti ebrei c’è anche la seguente: la Bibbia non è un libro di religione. Ho spiegato che il rapporto tra il pensiero ebraico e Yahweh non è basato sulla “fede” di tipo cristiano, bensì sulla fiducia: quel popolo rispetta la sua parte del “patto” avendo fiducia nel fatto che Yahweh a sua volta rispetterà le promesse a lui formulate, e che sono da concretizzarsi esclusivamente su questa terra.Il significato che comunemente si attribuisce al termine “sacro” nella nostra cultura è totalmente estraneo al testo biblico. Non si può procedere dal testo biblico per ipotizzare la figura di un dio esterno all’esistente, perché l’Antico Testamento non contempla questo concetto di Dio e non ne parla mai. Su un sito di consulenza sulla lingua ebraica si legge che Elohim, stando alla loro traduzione, non sarebbe un semplice plurale, ma un “plurale di astrazione”, cioè un singolare a tutti gli effetti? Nei libri, nelle conferenze e nei filmati che ho realizzato appositamente ho ampiamente documentato – e documento ogni volta – come questa operazione filologica sia un tentativo, assolutamente privo di ogni fondamento, di mantenere la tesi dottrinale monoteista. Tutta la Bibbia dimostra che gli Elohim erano tanti: su questo non ci possono essere dubbi; li conosce, li nomina, li considera molteplici con una naturalezza e una semplicità che sono evidenti già nelle Bibbie tradizionali, quelle che quasi tutti hanno in casa.In “La Bibbia non è un libro sacro” esamino ulteriormente questo aspetto ed evidenzio anche come sarebbe assurdo ipotizzare il contrario dal punto di vista storico e sociale del comportamento tenuto nei loro confronti dagli stessi antenati del popolo ebraico. Come è stato possibile scambiare questo “colonizzatore/governatore di nome Yaweh” con il Dio dei teologi? Non si tratta di “scambiare”: questo farebbe infatti pensare ad un errore. L’operazione che è stata volutamente avviata e condotta nei secoli – a partire dal sacerdozio del Tempio di Gerusalemme – è consistita nel trasformare totalmente quel personaggio creando la figura di un Dio che nell’Antico Testamento non è mai stata presente. Gli Elohim sono stati fatti divenire il Dio unico identificandolo in Yahweh, mentre è evidentissimo che quest’ultimo non era che uno di loro. Non un errore, dunque, ma una palese e reiterata mistificazione, resa possibile dal fatto sostanziale che i fedeli non leggono la Bibbia per vari motivi: nel passato il popolo non sapeva leggere, poi c’è stata la proibizione esplicita e infine a questi elementi si affianca la pigrizia innata di molti di noi. Ma ora la situazione sta cambiando: la comprensione e l’informazione si diffondono.Come mai affermo che nel Genesi non esiste il concetto di creazione? L’ho documentato in 70 pagine di “Non c’è creazione nella Genesi”, e qui sintetizzo: il verbo “bara” non significa mai “creare”, in nessuno dei passi biblici; inoltre, come affermano tutti gli studiosi di filologia semitica (alcuni de quali sono citati nel mio libro), quella radice verbale non significa creare – e tanto meno creare dal nulla – in nessuna lingua semitica. Significa sempre intervenire in una situazione già esistente, per modificarla. Ed è esattamente ciò che gli Elohim hanno fatto a partire dal primo versetto della Genesi, che non parla quindi di creazione ma di un lavoro preciso e concreto, finalizzato a trasformare un territorio per renderlo fruibile da parte degli Elohim. Varie chiavi di decodifica (tante, e diverse le une dalle altre) vengono presentate da secoli e sono quelle teologiche, esoterico-iniziatiche, cabalistiche. In questa grande varietà di tesi, che si annullano spesso a vicenda, non faccio altro che inserire anche la mia: poi ciascuno sceglierà. Le varie chiavi di lettura utilizzano questo atteggiamento esegetico: “Quando la Bibbia dice che… in realtà vuol dire che…”. Io invece “faccio finta che” quando la Bibbia scrive una cosa voglia dire proprio quella, e vedo cosa ne viene fuori.Negli anni di traduzione condotti per le Edizioni San Paolo mi sono accorto che ne esce un mosaico preciso, chiaro, evidente, coerente di per sé e soprattutto affascinante. Ed è quello che sto provando a raccontare da alcuni anni. Alla luce di questa mia lettura dell’Antico Testamento è ancora possibile una fede cristiana? Per fortuna la fede non ha e non deve avere bisogno di un libro, tantomeno di un libro come quello, costruito nel modo che sto da tempo spiegando nelle conferenze: un libro, anzi un insieme di libri scritti e riscritti, copiati con continue variazioni, emendati, interpolati, corretti, contenenti più di 1.500 errori, sviste, contraddizioni palesi. Sono testi in cui, per secoli, tutti i detentori del potere hanno fatto di volta in volta ciò che hanno voluto. Testi sui quali le singole tradizioni non concordano neppure: per la Chiesa cattolica i libri da considerare veri sono 46, per la cultura ebraica e per il protestantesimo sono solo 39, per i cristiani copti sono veri i libri che invece non lo sono né per Roma né per Gerusalemme. La cosiddetta “tradizione” non solo non è garanzia di verità, ma è certezza di manipolazione. La fede deve necessariamente essere altro.(Mauro Biglino, dichiarazioni rilasciate alla pagina Facebook “L’insostenibilità storica del Cristianesimo e il mito di Gesù” il 13 dicembre 2013. Già traduttore di ebraico antico per le Edizioni San Paolo, di recente Biglino ha proposto una inedita traduzione letterale dell’Antico Testamento ricavata dal Codice Masoretico di Leningrado, quello su cui si basa la Bibbia comunemente diffusa oggi in Occidente, ricavandone volumi come “Non c’è creazione nella Bibbia”, “Il Dio Alieno della Bibbia”, “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia” e “La Bibbia non è un libro sacro”, pubblicati da Uno Editori).Molte mie traduzioni stanno trovando conferme inattese, addirittura in forum e siti di consulenza ebraica. Ne cito alcune: la Bibbia parla di ingegneria genetica, gli angeli biblici non sono entità spirituali ma individui in carne ed ossa, i cherubini erano oggetti meccanici (robot, li definiscono gli stessi esegeti ebrei), i cosiddetti miracoli non hanno origine soprannaturale ma tecnologica, la Bibbia non parla di creazione dal nulla, Satana non esiste nell’Antico Testamento. Se il Pentateuco del codice masoretico di Leningrado costituisce anche la base della Torah ebraica, mi si domanda come sia possibile che gli ebrei, che conoscono bene la loro lingua, non si siano accorti che la Torah non può essere un libro sacro? Tra le tante conferme che ho ricevuto da esegeti ebrei c’è anche la seguente: la Bibbia non è un libro di religione. Ho spiegato che il rapporto tra il pensiero ebraico e Yahweh non è basato sulla “fede” di tipo cristiano, bensì sulla fiducia: quel popolo rispetta la sua parte del “patto” avendo fiducia nel fatto che Yahweh a sua volta rispetterà le promesse a lui formulate, e che sono da concretizzarsi esclusivamente su questa terra.
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La Bibbia alla lettera: dal cielo nessun Dio, solo guerrieri
“Quelli là”. Li chiama proprio così, Mauro Biglino, gli dei che i libri antichi hanno tramandato fino a noi. Nei testi vedici, nell’epica mesopotamica, nella poesia greca, nella Bibbia, riconosce gli stessi protagonisti: individui arrivati da un altro mondo, per dominare il nostro. Esseri assai avanzati dal punto di vista tecnologico, ma per nulla spirituali. Anzi. Fin troppo materiali, iracondi, vendicativi, passionali, gelosi. Tutto, fuorché entità trascendenti. Biglino ha espresso queste sue teorie nei vari saggi che ha scritto fino ad oggi: “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia”, “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è creazione nella Bibbia”, e l’ultimo, “La Bibbia non è un libro sacro”. Teorie che ripete nelle sue conferenze, in giro per l’Italia, sempre affollatissime. Le ha elaborate traducendo il Codice di Leningrado, scritto in ebraico masoretico: da questa pergamena, risalente all’XI secolo, derivano tutte le Bibbie che noi abbiamo in casa. Scartando le interpretazioni teologiche, metaforiche, allegoriche, simboliche e concentrandosi solo su quella letterale, lo studioso è arrivato ad una conclusione scioccante: nell’Antico Testamento di Dio non c’è traccia.«Sì, esattamente. Tra i tanti dubbi che ho, questa è una delle mie poche certezze: la Bibbia non parla di Dio. Quando parla di Jahwè, intende un individuo che fa parte di un gruppo di individui chiamati Elohìm, guidati da uno che chiamava Eliòn. Questi individui hanno avuto un rapporto con l’umanità, ma un rapporto speciale, nel senso che se la sono un po’ fabbricata. Jahwè era uno di questi, tra l’altro anche uno dei meno importanti. Emerge insomma una realtà che è confermata dai libri sacri degli altri popoli, di tutti i continenti della Terra, che nella sostanza ci raccontano esattamente le stesse cose: ovviamente con una terminologia diversa perché sono lingue diverse, culture diverse, ma la realtà è sempre quella». Una visione sconcertante e destabilizzante, come ho avuto modo di dire più volte allo stesso autore. In sostanza, in quelle pagine che abbiamo letto e studiato più o meno tutti a catechismo, sarebbe raccontata una storia ben diversa da quella che ci hanno spiegato.A partire dalla stessa Genesi, racconto simbolico – ci hanno insegnato – di come dal nulla Dio abbia generato l’intero creato, umanità inclusa. Ma Biglino dissente in toto, in virtù dell’etimologia del verbo ebraico utilizzato per descrivere la nascita dell’Universo. «Creazione è un termine improprio, perché il termine “barà” non ha quel significato, non soltanto nell’Antico Testamento, ma proprio come radice semitica: non significa mai creare né tantomeno creare dal nulla. Significa intervenire su una situazione già esistente per modificarla, che è esattamente quello che hanno fatto questi signori. Cioè hanno introdotto un pezzettino del loro Dna all’interno di esseri che hanno trovato già su questo pianeta per modificarli e per renderli, per loro, utilizzabili. Ci hanno reso capaci, diciamo così, di capire ed eseguire degli ordini», dice il ricercatore, condividendo di fatto l’idea che noi uomini – così come siamo ora – saremmo il prodotto di un intervento di ingegneria genetica. Una affermazione già sostenuta nei suoi libri da Zecharia Sitchin, sulla base di quanto descritto dai testi mesopotamici: basta sostituire il termine Annunna (o Annunaki) con Elohìm, e tutto corrisponderebbe.Sarebbero vari i passi “incriminati” dai quali emergerebbe una realtà tutt’altro che divina di queste entità – “quelli là”, direbbe Mauro Biglino. Ad esempio, vengono citati i mezzi sui quali si spostavano nel cielo, con precise caratteristiche materiali: sono pesanti, metallici, lucenti e pure pericolosi. Descrizioni – al di là delle traduzioni teologiche – che sembrano coincidere con i moderni “Ovni”, oggetti volanti non identificati. «Certo – conferma lo studioso delle religioni – oltre alla Genesi ci sono altri libri dell’Antico Testamento che danno indicazioni completamente diverse: penso al Libro di Ezechiele, piuttosto che al Libro di Zaccaria, in genere interpretati come allegorie e metafore, ma che al contrario sono di una chiarezza evidente. Questi libri in particolare ci raccontano degli strumenti sui quali questi signori si muovevano». Tutto molto inquietante. E assurdo. Ma a voler credere all’interpretazione – letterale – del testo ebraico così come lo traduce Biglino, allora quelli lì, gli Elohìm, chi erano? Se davvero si trattava di creature in carne ed ossa, da dove erano arrivate? E cosa volevano?«Purtroppo la Bibbia non ce lo dice, ma erano sicuramente individui dotati di tecnologia superiore, inarrivabile per i tempi, forse in parte inarrivabile anche per noi. Si sono spartiti la Terra, come afferma il Libro del Deuteronomio, come ci racconta Platone nel “Crizia”, come ci tramandano i popoli di tutti i continenti della Terra. Insomma, si sono suddivisi il pianeta e l’hanno governato comportandosi come normali colonizzatori. Jahwè era uno di questi. Tra l’altro, Jahwè è definito dalla Bibbia “uomo di guerre”, quindi combatteva». Uno dei libri più noti di Mauro Biglino, non a caso, ha un titolo emblematico: “Il Dio alieno della Bibbia”. Fino a poco tempo fa, a tutti coloro che gli domandavano quale ne fosse il pianeta d’origine, lo scrittore rispondeva sempre di ignorarlo e di voler parlare solo delle cose che conosceva, ovvero quelle scritte dagli autori veterotestamentari. Ma proprio da quel testo e da analogie scoperte in altre culture antiche, adesso è giunto quanto meno ad una ipotesi, per spiegare la provenienza di questa presunta stirpe di dominatori extraterrestri.«C’è un’indicazione del termine Nephilim, un termine plurale, che indica però una razza diversa rispetto a quella degli Elohìm. Il termine Nephilà al singolare, in aramaico, indica la costellazione di Orione. Questo mi fa venire in mente quello che c’è scritto nei testi vedici, dove si parla di una possibile provenienza di questi qui da una zona vicino alla stella Betelgeuse, che corrisponde alla spalla destra della costellazione di Orione, una zona che veniva chiamata Mrigashira – ovvero, testa d’antilope – perché il cacciatore Orione se la portava sulla spalla destra. Quindi ci sarebbe una corrispondenza tra dei possibili Orioniani, diciamo così, o comunque provenienti da quella parte del cielo, indicati dal termine Nephilìm, e almeno una parte di quegli altri che in Oriente dicevano provenire dalla stessa porzione di cielo. È solo un’ipotesi, ovviamente. Tra l’altro Betelgeuse – ed è una cosa molto curiosa – deriva dall’arabo Ibn al-Jawzā. Ma Beth El significa Casa di El, cioè Casa dell’Elohim. Chissà…».(Sabrina Pieragostini, “Mauro Bigliono e gli Elohim venuti dallo spazio”, da “Panorama” del 4 luglio 2014).“Quelli là”. Li chiama proprio così, Mauro Biglino, gli dei che i libri antichi hanno tramandato fino a noi. Nei testi vedici, nell’epica mesopotamica, nella poesia greca, nella Bibbia, riconosce gli stessi protagonisti: individui arrivati da un altro mondo, per dominare il nostro. Esseri assai avanzati dal punto di vista tecnologico, ma per nulla spirituali. Anzi. Fin troppo materiali, iracondi, vendicativi, passionali, gelosi. Tutto, fuorché entità trascendenti. Biglino ha espresso queste sue teorie nei vari saggi che ha scritto fino ad oggi: “Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia”, “Il Dio alieno della Bibbia”, “Non c’è creazione nella Bibbia”, e l’ultimo, “La Bibbia non è un libro sacro”. Teorie che ripete nelle sue conferenze, in giro per l’Italia, sempre affollatissime. Le ha elaborate traducendo il Codice di Leningrado, scritto in ebraico masoretico: da questa pergamena, risalente all’XI secolo, derivano tutte le Bibbie che noi abbiamo in casa. Scartando le interpretazioni teologiche, metaforiche, allegoriche, simboliche e concentrandosi solo su quella letterale, lo studioso è arrivato ad una conclusione scioccante: nell’Antico Testamento di Dio non c’è traccia.
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Barnard: come asfaltare chi osa negare i crimini di Israele
Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.E’ sempre Israle che sferra il primo colpo, e si tratta di un colpo mortale: pulizia etnica, aggressioni terroristiche, omicidi, campagne militari, stragi, stupri di massa, persecuzioni di ogni genere. Tramortiti da tanta violenza, i palestinesi impiegarono oltre 50 anni a reagire, portando il loro caso di fronte alle Nazioni Unite. Tutto inutile, però: Israele continua a uccidere, e il mainstream lo dipinge regolarmente come vittima della storia e della violenza araba. Una montagna sanguinosa di mistificazioni, che Barnard prova a demolire pubblicando il mini-saggio “Come ‘asfaltare’ chi difende Israele con 10 autorevoli risposte”. Fonti: libri di storia di ogni provenienza, relazioni di organi internazionali, documenti ufficiali di governi occidentali. Autore di libri scomodi come “Perché ci odiano”, che indaga le reali cause della (recente) ostilità del mondo islamico verso l’Occidente imperialista, Barnard definisce questo nuovo studio una «guida imbattibile per distruggere uno per uno gli argomenti usati dai personaggi mediatici asserviti alla menzogna quando difendono il terrorismo d’Israele e il genocidio dei palestinesi».Premessa: «Anti-sionismo non significa antisemitismo. Sionisti = élite ebrea criminale genocida dominante in Palestina dall’800 a oggi. Semiti sono i normali ebrei e palestinesi, d’Israele, della Palestina o del mondo. Solo gli ignoranti, o i falsari amici dei sionisti, spacciano un anti-sionista per antisemita». Primo luogo comune: “Sono gli arabi ad aver sempre attaccato gli ebrei emigrati in Palestina per sfuggire alle persecuzioni europee”. Falso: «Menzogna storica totale. Per tutto il XIX secolo e oltre, i palestinesi accolsero l’emigrazione ebraica europea con favore, amicizia ed entusiasmo. Al punto che le massime autorità religiose ebraiche d’Europa lo testimoniarono». Lo disse il 16 luglio del 1947 l’eminente rabbino Yosef Tzvi Dushinsky, alle Nazioni Unite: prima del sionismo, «non vi fu mai un momento, nell’immigrazione degli ebrei ortodossi europei in Palestina, nel quale gli arabi abbiano opposto resistenza alcuna. Al contrario, quegli ebrei erano i benvenuti per via dei benefici economici e del progresso che ricadevano sugli abitanti locali, che mai temettero di essere sottomessi. Era risaputo che quegli ebrei giungevano solo per motivi religiosi e non ebbero difficoltà a stabilire rapporti di fiducia e di vera amicizia con le comunità locali».Vent’anni prima, si esprimeva nello stesso modo un altro rabbino di grande fama, Baruch Kaplan, già a capo della “Beis Yaakov Girls School” di Brooklyn, in giovinezza attivo nella Yeshiva (scuola religiosa) di Hebron. «Gli arabi – dichiarò Kaplan – furono sempre assai amichevoli, e noi ebrei condividemmo la vita con loro a Hebron secondo relazioni di buona amicizia». Lo stesso religioso riferì che il rabbino polacco Avraham Mordechai Alter aveva compiuto una ricognizione in Palestina per «capire che tipo di persone erano i palestinesi, così da poter poi dire alla sua gente se andarci o no». In una lettera, «scrisse che gli arabi erano un popolo amichevole e assai apprezzabile». Lo conferma la Commissione Shaw del governo inglese, a proposito delle violenze fra arabi e sionisti nel 1929: «Prima della Grande Guerra (1915-18) gli arabi e gli ebrei vivevano fianco a fianco, se non in amicizia, almeno con tolleranza». Negli 80 anni precedenti, cioè in epoca precedente al fenomeno sionista, «non ci sono memorie di scontri violenti fra i due popoli». Due popoli? Secondo la vulgata sionista, non esisteva un vero popolo Si trattava di “tribù sparse”, con “pochi individui che vivevano sulle terre bibliche”. Un leader storico del movimento sionista europeo, Israel Zangwill, dichiarò a inizio secolo che «la Palestina è una terra senza popolo», al contrario degli ebrei, «popolo senza terra». Una menzogna, scrive Barnard, smentita di nuovo dall’interno dello stesso movimento sionista europeo, che iniziò la colonizzazione su larga scala della Palestina alla fine del XIX secolo.Al 7° congresso sionista del 1905, un leader di nome Yitzhak Epstein si alzò e lasciò agli atti questa frase: «Diciamoci la verità. Esiste nella nostra cara terra d’Israele un’intera nazione palestinese, che vi ha vissuto per secoli, e che non ha mai pensato di abbandonarla». La narrazione filo-sionista condanna chi considera colonialisti gli israeliani? Peccato, perché «il movimento sionista europeo nacque razzista, violento e prevaricatore (come è oggi). All’arrivo in Palestina trattarono subito i palestinesi come bestie, perché li consideravano poco più che bestie. Furono i sionisti a iniziare violenze e atrocità contro i palestinesi pacifici». A inizio ‘900, in uno scambio fra un fondatore del movimento sionista ebreo europeo, Chaim Weizmann (che sarà il primo presidente d’Israele nel 1948) e gli allora padroni coloniali inglesi, si legge: «Gli inglesi ci hanno detto che in Palestina ci sono qualche migliaio di negri (“kushim”), che non valgono nulla». Parole inequivocabili, e indelebili. Il più celebre umanista sionista della storia, Ahad Ha’am, lanciò un allarme contro la violazione dei diritti dei palestinesi da parte dei sionisti: gli ex “servi nelle terre della Diaspora” «d’improvviso si trovano con una libertà senza limiti, e questo cambiamento ha risvegliato in loro un’inclinazione al dispotismo».«Essi – continua Ha’am – trattano gli arabi con ostilità e crudeltà, gli negano i diritti, li offendono senza motivo, e persino si vantano di questi atti. E nessuno fra di noi si oppone a queste tendenze ignobili e pericolose». Era il 1891, osserva Barnard, mezzo secolo prima di Hitler: già allora il razzismo e la violenza sionista faceva questo a palestinesi innocenti. «Per quasi 50 anni prima dell’Olocausto – continua Barnard – i sionisti che emigravano in Palestina aggredirono i palestinesi e programmarono nei dettagli la pulizia etnica della Palestina, con metodi feroci e terroristici. Ripeto: 50 anni prima di Hitler». Il padre del movimento sionista, Theodor Herzl, aveva dichiarato: «Tenteremo di sospingere la popolazione (palestinese) in miseria oltre le frontiere, procurandogli impieghi nelle nazioni di transito, mentre gli negheremo qualsiasi lavoro sulla nostra terra… Sia il processo di espropriazione che l’espulsione dei poveri devono essere condotti con discrezione e di nascosto». Un’altra personalità sionista di fine ‘800, Leo Motzkin, sancì: «La colonizzazione della Palestina si fa colonizzando tutta l’Israele biblica, e deportando i palestinesi da altre parti».E’ quindi ovvio che il destino di pulizia etnica del palestinesi fu progettato 50 anni prima della Shoah. E anche nelle decadi successive alla fine ‘800, «il razzismo e la pulizia etnica contro i palestinesi rimasero priorità», per lo Stato ebraico. Alla fine degli anni ’30, ricorda Barnard, «il leader sionista Yossef Weitz aveva anticipato gli infami protocolli nazisti di Wannsee (che, fra le altre cose, listavano gli ebrei d’Europa da deportare) scrivendo i ‘Registri dei Villaggi’ dove si indicavano tutte le famiglie palestinesi da cacciare a forza». Peggio: «Addirittura Ephraim Katzir (che diventerà presidente di Israele, pensate) arrivò a lavorare in laboratorio per trovare un veleno per accecare i palestinesi». Il leader storico sionista, David Ben Gurion, aveva redatto il Piano Dalet per la completa pulizia etnica della Palestina ben prima dell’arrivo in Palestina dei profughi dai campi di sterminio tedeschi. Nel suo stesso diario, Ben Gurion scrisse cose atroci su come colpire i palestinesi innocenti: «Dobbiamo essere precisi su coloro che colpiamo. Se accusiamo una famiglia palestinese non c’è bisogno di distinguere fra colpevoli e innocenti. Dobbiamo fargli del male senza pietà, altrimenti non sarebbe un’azione efficace».E allora, l’aggressione araba contro gli ebrei del 1948? “Tutte le nazioni arabe attorno alla Palestina – dice il mainstream sionista – tentarono di sterminare gli ebrei, che per fortuna vinsero quella guerra, se no sarebbe stato un altro Olocausto!”. Infatti, i leader arabi “incitarono via radio i palestinesi ad abbandonare i loro villaggi per permettere lo sterminio degli ebrei!”. Per questo, “i palestinesi se ne andarono volontariamente”. «Menzogna completa», protesta Barnard. Intanto, allo scoppio della guerra arabo-ebraica del 1948, gli ebrei sionisti avevano già inflitto 50 anni di atrocità, pulizia etnica e stragi ai civili palestinesi, «per cui la reazione araba aveva una giustificazione pluri-decennale». Ma la tanto millantata guerra del 1948 fu «una messa in scena totale, una vera bufala già organizzata affinché i sionisti vincessero, grazie ad accordi segreti fra Ben Gurion e il Re arabo della Transgiordania, Abdullah». La “guerra bufala”, la chiamò nelle sue memorie il comandante delle truppe arabe, l’ufficiale arabo-inglese Glubb Pasha.Il re Abdullah e Ben Gurion finsero di combattersi per poi spartirsi la Palestina. Le altre truppe arabe non potevano impensierire Israele: «Gli egiziani erano per la metà Fratelli Musulmani con le ciabatte ai piedi, i libanesi non combatterono mai, i siriani erano armati ma erano quattro gatti, e gli iracheni erano sotto gli ordini del traditore Abdullah, per cui fecero nulla». Infatti, dai diari di Ben Gurion, risulta che in piena guerra del ’48 raccomandò al suo esercito: «Tenete il meglio delle truppe per la pulizia etnica della Palestina, secondo il Piano Dalet». Quanto alle “trasmissioni radio” dei leader arabi per incitare i palestinesi ad abbandonare la regione, si tratta di un falso storico sonoramente smentito dalla Bbc, che monitorò l’intera massa di comunicazioni circolate in Medio Oriente nel 1948. Tutte le trascrizioni sono custodite al British Museum di Londra: in esse, scrive Barnard, non vi è traccia di un singolo ordine di evacuazione da parte di alcuna radio araba dentro o fuori dalla Palestina.Al contrario, si possono leggere gli appelli ai civili palestinesi affinché rimanessero a presidiare le loro case. E lo si può ben capire: nel 1948, alla vigilia della guerra “fondativa” del mito dell’invincibilità militare di Davide che si batte per difendersi dal gigante Golia, «la pulizia etnica sionista aveva già espulso 750.000 palestinesi, tutti civili». Ma la menzogna è tenace, si replica puntualmente con la Guerra dei Sei Giorni del 1967, quando gli arabi “tentarono di sterminare gli israeliani”, i quali “in una prova di eroismo militare riuscirono ad evitare un altro Olocausto”. «Questa versione è una farsa, distrutta vergognosamente dai documenti segreti del governo americano e della Cia», annota Barnard. «Non solo gli israeliani non corsero alcun reale pericolo nella cosiddetta Guerra dei Sei Giorni, ma gli arabi tentarono di tutto per non combattere, e furono ignorati da Tel Aviv e dagli Usa. Il governo israeliano invece terrorizzò la popolazione ebraica in quell’occasione, sapendo perfettamente che avrebbe attaccato per primo e avrebbe stravinto».Lo rivelano i documenti americani “declassificati” nel 2005: fu Israele ad aggredire gli arabi, non il contrario. La Cia sapeva che Israele avrebbe annientato gli arabi. Il 3 giugno 1967, al Pentagono, il ministro della difesa statunitense Robert McNamara incontrò il capo del Mossad, Meir Amit. «Quanto durerà questa guerra?», gli chiese. «Durerà sette giorni», rispose il capo dell’intelligence israeliana. Tutto questo mentre il presidente egiziano Nasser, teoricamente nemico di Israele, «disperatamente tentava i contatti con gli inglesi e con gli americani per evitare la guerra», inviando a Washington il suo ministro degli esteri Zakariya Mohieddin per cercare di mediare la pace. «Mentre Mohieddin sta per partire per l’America, gli israeliani attaccano l’Egitto e distruggono l’esercito egiziano».Il premier israeliano Menahem Begin, molti anni dopo confessò tutto: l’aggressione araba era una ‘bufala’. Fu Israele ad aggredire, disse al “New York Times”: «Nel giugno del 1967 di nuovo affrontammo una scelta. Le armate egiziane nel Sinai non erano per nulla la prova che Nasser ci stesse attaccando. Dobbiamo essere onesti con noi stessi. Noi decidemmo di attaccare lui». Questa, conclude Barnard, è un’altra grande bugia che ci hanno raccontato, ed è un modello della storiografia su Israele: «Ci raccontano sempre questa cosa, che Israele è la vittima, che sta per soccombere agli arabi cattivi, mentre la realtà è esattamente diametralmente l’opposto». Perché tante menzogne? Semplice: «L’élite bellica sionista-israeliana ha bisogno delle finte aggressioni arabe, ha bisogno dei pericoli, ha bisogno della minaccia inventata o gonfiata per mantenersi al potere».Per questo, aggiunge Barnard, l’élite israeliana ha così tanta paura della pace, e lavora da sempre – anche all’Onu – per sabotarla in ogni modo, a partire dalla storica risoluzione 181 del 1947. «La leadership sionista visse, e sopravvive oggi, solo grazie alla strategia della tensione che loro creano provocando violenze, proprie o palestinesi, continue». Se la leadership sionista accettasse la pace, continua Barnard, «dovrebbe confrontarsi con un paese, Israele, che essa gestisce da cani». A quel punto, «gli israeliani li caccerebbero». Sono vittime del loro governo, debitamente disinformate. Come valutare, del resto, lo stesso piano di pace del 1947? Consegnava agli ebrei, minoranza assoluta, il 56% delle terre. Il Negev andava a Israele, benché abitato da 90.000 arabi e appena 600 ebrei, ai quali andava anche l’unico porto commerciale vitale, Haifa. Poi andava agli ebrei l’86% delle terre fertili, aranceti, ulivi. Ai palestinesi erano anche negati i confini con la Siria, dove vi sono le fonti di acqua. E Gerusalemme rimaneva “internazionale”, ma di fatto in mano ebraica. «Questa è la vergognosa realtà. Come potevano i palestinesi accettare?».Lord Alan Cunningham, l’ultimo Alto Commissario inglese in Palestina, scrisse a Ben Gurion nel marzo 1948: «I palestinesi sono calmi e ragionevoli, voi sionisti fate di tutto per provocare violenza». Il diplomatico americano Mark Ethridge, inviato alla conferenza di Pace di Losanna nel 1949, dichiarò furioso: «Se non siamo arrivati alla pace è primariamente colpa d’Israele». Nel 1971 il presidente egiziano Sadat aveva offerto la pace a Israele in cambio del suo Sinai illegalmente occupato. Tel Aviv reagì mandando Ariel Sharon a fare la pulizia etnica del Sinai, dove l’esercito israeliano fece orrende stragi condannate dall’Onu e causò la Guerra del Kippur, del 1973. Inoltre, «la criminosa invasione israeliana del Libano nel 1982 (19.000 morti civili arabi) fu causata non da minacce a Israele, ma dall’esatto contrario». Massima rivelazione dell’orrore, il massacro dei civili rifugiati nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila, sterminati da miliziani su ordine dello stesso Sharon.La vera crisi, per Israele, è la pace: Tel Aviv andò in tilt nel 1982, di fronte alla clamorosa proposta di pace avanzata da Yasser Arafat. Il leader dell’Olp, futuro capo dell’Autorità Nazionale Palestinese, fece di tutto per fermare gli estremisti islamici. Lo ammise lo stesso capo dei servizi segreti ebraici Shab’ak, cioè Ami Ayalon, in una relazione al governo: «Arafat sta facendo un ottimo lavoro, si è lanciato anima e corpo contro i terroristi». La massima occasione per la pace? Fu l’incontro a Camp David nel luglio del 2000 fra Clinton, Arafat e il premier israeliano Ehud Barak. «La stampa mondiale riportò che fu Arafat a rifiutare la pace, ma è falso. Fu il contrario. Ai palestinesi non fu presentata alcuna proposta scritta, gli fu chiesto di cedere un 9% di terre, e di ricevere un misero 1%, gli fu negata ogni discussione sul ritorno dei profughi cacciati dalla pulizia etnica pre 1948 (come invece sancisce la Risoluzione Onu 194) e non gli fu concesso nulla su come dividersi Gerusalemme. Come poteva Arafat accettare?».E’ provato che, mentre Israele predicava la pace, in segreto pianificava altra pulizia etnica della Palestina, nonché l’uccisione di Arafat e la guerra ai civili. Sono stati scoperti 5 piani segreti della difesa israeliana a questo scopo, racconta Barnard: nel 1996 il piano “Field of Thorns”, nel 2000 il secondo piano “Field of Thorns”, nel 2001 il piano Dagan, nel luglio 2001 il piano di Shaul Mofaz chiamato “La Distruzione dell’Anp di Arafat”, che in quel momento collaborava con Tel Aviv, e nel 2002 il piano “Eitam” con gli stessi scopi. Nel 2003 gli Usa propongono la pace nel documento “The Road Map”, dove si parla anche di un “Israele che cessi ogni violenza contro i civili palestinesi”. I palestinesi l’accettarono e dichiararono il cessate il fuoco. Tel Aviv portò 14 emendamenti alla proposta americana e di fatto la distrusse. Ma non solo. Ariel Sharon intensificò gli assassinii di sospetti (ma non processati) membri di Hamas, ammazzandogli spesso anche mogli e bambini, ovviamente esacerbando le tensioni. Fine della “Road Map”.Stessa musica con i cessate il fuoco di Hamas, «praticamente sempre violati da Israele, al punto che nel 2006 in una conversazione segreta fra i leader di Hamas in Gaza e Damasco, si sente dire “Non abbiamo ricevuto nessun beneficio dal nostro cessate il fuoco di un intero anno, Israele continua la violenza contro i civili, e stiamo perdendo la reputazione coi civili palestinesi”». Nel famoso rapimento da parte di Hamas del soldato israeliano Gilad Shalit, viene omessa una verità scomoda, e cioè che «il giorno prima Israele aveva rapito due medici palestinesi senza alcun mandato legale, e li ha fatti sparire “incommunicado” (mai rilasciati né processati). La provocazione fu quindi israeliana». Eppure, in un articolo sul “Washington Post” del luglio 2006, il leader di Hamas Ismail Haniyeh riconobbe pienamente il diritto d’Israele di esistere, nonché il diritto alla pace fra «tutti i popoli semiti dell’area». Haniyeh lo fece «nonostante sapesse che quando Arafat riconobbe Israele nel 1993 non ottenne assolutamente nulla, solo violenza». Così, Tel Aviv ignorò anche l’offerta di Haniyeh.Nel 2007 gli Stati Uniti offrono la pace nel Trattato di Annapolis. Ma poiché il testo della Casa Bianca contiene la frase “cessare il terrorismo sia da parte palestinese che israeliana”, Israele boicottò tutto l’accordo. Fine del Trattato di Annapolis. Persino da dentro l’establishment militare d’Israele arriva l’ammissione che è Tel Aviv che boicotta la pace. L’ex capo del Mossad, Efraim Halevy, dicharò nel 2009: «Se Israele volesse veramente eliminare la minaccia dei razzi di Hamas», rudimentali aggeggi, «dovrebbe permettere ai civili di Gaza di sopravvivere consentendo loro di ricevere i beni vitali attraverso la frontiera con l’Egitto, non strangolarli alla fame. Questo garantirebbe la pace a Israele per decenni». Lo conferma Robert Pastor, docente all’American University, già inviato dell’ex presidente Usa Jimmy Carter nei Territori Occupati, cioè Cisgiordania e Gaza. Parole esplicite: è Israele che boicotta la pace. «Hamas – dice Pastor – aveva fermato il lancio dei razzi dal giugno al novembre 2008, ma Tel Aviv non solo rinnegò la promessa di allentare lo strangolamento dei civili di Gaza per cibo, medicinali, e acqua, ma bombardò un “tunnel della disperazione”, quelli che fanno passare poche cose dall’Egitto ai palestinesi. Comunicai chiaramente al governo israeliano che Hamas avrebbe esteso il cessate il fuoco se l’assedio di Gaza si fosse allentato, ma mi ignorarono totalmente».Scrive il mitico reporter d’inchiesta americano Seymour Hersh: «L’attacco a Gaza (2008) da parte d’Israele, e i massacri conseguenti, vennero guarda caso quando il governo turco era riuscito a mediare con diplomatici di Tel Aviv un accordo completo per il ritiro israeliano dal Golan occupato illegalmente da Israele. Ma è ovvio che l’assalto a Gaza distrusse tutta la mediazione. Non fu una coincidenza». Lo sostiene anche l’“Huffington Post”: «Il cessate il fuoco di Hamas del 2008 reggeva benissimo. Fu Israele a uccidere per primo, il 4 novembre. Poi sempre un raid aereo israeliano uccise altri 6 palestinesi, nonostante il cessate il fuoco. Abbiamo fatto un seria ricerca su chi, fra Israele e Hamas, ha rotto più volte il cessate il fuoco in quasi 10 anni, con l’aiuto dell’organizzazione israeliana B’Tselem. E’ indubbiamente Israele che uccide per primo durante un cessate il fuoco, nel 78% dei casi precisamente. Hamas ha violato le tregue solo nell’8% dei casi. Ma se parliamo di tregue lunghe più di 9 giorni, Israele le ha violate per primo nel 100% dei casi».Come si può affermare di fronte a queste prove che sono i palestinesi a rifiutare la pace? A spezzare le tregue? E’ l’esatto contrario, protesta Barbnard. «Questo, senza dimenticare che anche in tempi di cessate il fuoco, Israele continua la sua politica di pulizia etnica palestinese e di violenze gratuite e distruttive contro i villaggi palestinesi, contro il loro diritto di nutrirsi, con rapimenti di minori che spariscono “incommunicado”, torture di prigionieri senza processo e senza tutele legali». Nonostante ciò, la narrazione filo-sionista ha il coraggio di ripetere che “Israele è l’unico Stato democratico della zona”, e quindi “è vergognoso chiamarlo Stato razzista”. In realtà, proprio il razzismo «fu ed è la linfa vitale di tutto il movimento sionista: oggi Israele è l’unico Stato moderno che mantiene un sistema di apartheid feroce contro i palestinesi, talmente rivoltante da essere stato condannato in tutto il mondo». La democrazia in Israele? «Riguarda solo la popolazione ebraica, e neppure tutta».Pochi sanno che le leggi emanate nei decenni dal Jewish National Fund sulle terre di Palestina, da loro occupate attraverso la pulizia etnica, sanciscono che tali terreni sono riservati al 90 agli ebrei; ai palestinesi è proibito affittare o comprare quei terreni che una volta erano loro, prima della colonizzazione sionista. Nel 2003 l’Istituto Israeliano per la Democrazia fece un sondaggio fra gli ebrei israeliani che diede questi risultati: il 53% sostenne che i palestinesi non avevano diritto all’eguaglianza civica con gli ebrei, e il 57% disse che andavano semplicemente cacciati a forza. Il Comitato dell’Onu sui diritti economici, sociali e culturali ha denunciato in termini tragici la mancanza di democrazia in Israele: anche i cittadini israeliani di origine araba sono esclusi dalla residenza nel 93% delle terre; sono esclusi dalla maggior parte dei sindacati, dei servizi pubblici come acqua, elettricità, alloggi, sanità, e sono relegati alle scuole peggiori. I loro salari sono sempre inferiori a quelli degli ebrei. Infine, dice il rapporto dell’Onu, il trattamento da parte israeliana dei beduini è al limite dei crimini contro l’umanità. Bella democrazia, no?«Non c’è Stato ebraico senza la cacciata dei palestinesi e l’espropriazione della loro terra», schiarì Sharon. Razzismo, apartheid. Lo disse anche un famoso giurista sudafricano, John Dugard, esperto di segregazione razziale, inviato dalle Nazioni Unite in Israele e Territori Occupati. Dugard consegnò all’Onu le seguenti parole: «Le leggi e le azioni d’Israele nei Territori Occupati (illegalmente), certamente rispecchiano parti dell’apartheid sudafricana. Si può forse negare che lo scopo di tali azioni e di tali leggi è di mantenere il dominio di una razza (ebrei) su un’altra razza (palestinesi), per schiacciarli sistematicamente?». La democrazia israeliana, inoltre, tollera fra i partiti dell’arco costituzionale il “National Union Party”, che chiede apertamente la distruzione della popolazione palestinese e nega ai palestinesi il diritto di esistere. «Israele – scrive Barnard – è l’unico Stato al mondo dove nel 1995 il governo ha introdotto il concetto di “gruppi di popolazione”, distinguendo il gruppo “ebrei e altri” dal gruppo “arabi”. Il primo comprende ebrei e cristiani non arabi, il secondo musulmani e arabi cristiani. L’unico altro Stato al mondo che aveva questa distinzione settaria era il Rwanda».E c’è di peggio: una rappresentante del partito israeliano “Jewish Home”, la giovane Ayelet Shaked, insieme all’accademico israeliano Mordechai Kedar dell’università di Bar Ilan, ha scritto che le famiglie, cioè bambini, mogli e nonni dei “terroristi” di Hamas «vanno sterminate», e che le loro sorelle e madri «vanno stuprate», dopo 80 anni di orrori ebraici contro quelle famiglie, quelle madri e quelle sorelle. E’ esplicito il professor Joel Beinin, docente di storia alla Stanford University, negli Usa: ha intitolato un suo saggio “Il razzismo è il pilastro dell’operazione Protective Edge di Israele”. Davide e Golia? Sì, ma bisogna invertire le parti:«Il primo attacco suicida palestinese contro Israele è dell’aprile 1994 ad Afula, esattamente dopo un secolo di terrore e di crimini sionisti-israeliani contro i civili palestinesi», chiosa Barnard, che nel suo dossier documenta in modo millimetrico lo sterminato bilancio dell’orrore israeliano. «Uno dei più gravi atti terroristici commessi dal regime di Tel Aviv, in violazione di ogni norma morale e di legalità internazionale, è l’indiscriminato attacco armato agli operatori medici e paramedici che vanno in soccorso ai civili e ai militari palestinesi feriti o uccisi durante gli scontri».Anche questa indicibile pratica è documentata oltre ogni dubbio. «Le Forze di Difesa Israeliane hanno sparato sui veicoli che tentavano di raggiungere gli ospedali, con conseguenti morti e feriti. Medici e personale paramedico sono stati uccisi da colpi di arma da fuoco mentre viaggiavano sulle ambulanze, in chiara violazione della legalità internazionale». Da anni Israele sferra attacchi mostruosi su Gaza, sterminando i civili, col pretesto di difendersi dai rudimentali razzi di Hamas, sparati per disperazione. In 14 anni, i razzi Kassam hanno ucciso dai 33 ai 50 civili israeliani, mentre in soli 6 anni Israele ha assassinato un totale di 2.221 civili palestinesi di Gaza, donne e bambini. Norman Finkelstein, ebreo americano e professore di scienze politiche, aggiunge un dettaglio agghiacciante: «Per reprimere la resistenza palestinese, un ufficiale israeliano di alto rango ha sollecitato l’esercito ad analizzare e a far proprie le lezioni su come l’armata tedesca combatté nel Ghetto di Varsavia». Finkelstein è figlio di vittime dell’Olocausto. «Se gli israeliani non vogliono essere accusati di essere come i nazisti – scrive – devono semplicemente smettere di comportarsi da nazisti».Quando, il 22 luglio 1946, il terrorismo sionista fece esplodere l’hotel King David di Gerusalemme che ospitava il quartier generale britannico uccidendo 86 funzionari e 5 passanti, e mandando all’ospedale altre 58 persone, Winston Churchill dichiarò testualmente: «Se i nostri sforzi per il futuro del sionismo devono produrre un nuovo gruppo di delinquenti degni della Germania nazista, molti come me dovranno riconsiderare le posizioni tenute così a lungo». Nella stessa epoca, 1948, Albert Einstein e Hannah Arendt scrissero di loro pugno sul “New York Times” una protesta veemente contro la brutale ferocia sionista verso i palestinesi, definendola «simile, in organizzazione e metodi, ai partiti nazisti e fascisti». Lo stesso anno, fu addirittura un ministro del primo governo dello Stato d’Israele, Aharon Cizling, a dichiarare: «Adesso anche gli ebrei si sono comportati come i nazisti, e io sono sotto shock». Parole che tutti dovrebbero ricordare sempre, sottolinea Paolo Barnard, autore di uno studio – basato su prove e documenti storici – che accerta le spaventose e sistematiche atrocità (preventive) commesse da Israele contro i palestinesi.