Archivio del Tag ‘colonialismo’
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L’euro sarà la vostra tomba, parola di Godley (era il 1992)
Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?Dato che il trattato non propone nessuna nuova istituzione oltre alla banca europea, i suoi sponsor devono supporre che non sia necessario nient’altro. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si auto-regolano e che non hanno nessun bisogno di essere gestite. Sono giunto alla conclusione che una tale visione – che le economie siano organismi capaci di auto-regolazione che mai in nessun caso necessitano di una qualche forma di gestione – ha di fatto determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato costruito. Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo incarna la saggezza convenzionale dell’Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone), secondo la quale i governi sono incapaci di perseguire gli obiettivi tradizionali della politica economica, come la crescita e la piena occupazione, e quindi non dovrebbero nemmeno provarci. Tutto ciò che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e tenere il bilancio in pareggio.C’è voluto un gruppo composto in gran parte di banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente sia l’unica istituzione sovranazionale necessaria a governare un’Europa integrata e sovranazionale. Ma c’è anche molto di più. Bisogna sottolineare sin dall’inizio che la creazione di una moneta unica nella Ce è veramente destinata a segnare la fine della sovranità delle nazioni che la compongono e del loro potere di agire in modo indipendente sulle grandi questioni. Come ha sostenuto in modo molto convincente Tim Congdon, il potere di emettere la propria moneta, e di intervenire tramite la propria banca centrale, è il fatto principale che definisce l’indipendenza di una nazione. Se un paese rinuncia a questo potere, o lo perde, acquisisce lo status di ente locale o di colonia. Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Ma perdono anche il potere di finanziare i deficit con emissione di moneta, e gli altri metodi per ottenere finanziamenti sono soggetti a regolamentazione da parte dell’autorità centrale. Né possono modificare i tassi di interesse.Dato che le autorità locali non possiedono nessuno degli strumenti di politica macroeconomica, la loro scelta politica è limitata alle questioni relativamente minori – un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là. Penso che quando Jacques Delors enfatizza la novità del principio di ‘sussidiarietà’, in realtà ci sta solo dicendo che saremo autorizzati a prendere decisioni su un maggior numero di questioni relativamente poco importanti rispetto a quanto potevamo supporre in precedenza. Forse ci permetterà di avere i cetrioli ricurvi, dopo tutto. Veramente un grande affare! Permettetemi di esprimere un punto di vista diverso. Credo che il governo centrale di qualsiasi Stato sovrano dovrebbe impegnarsi con continuità per determinare il livello generale ottimale di servizi pubblici, l’imposizione fiscale complessiva più corretta, la corretta allocazione delle spese tra obiettivi concorrenti e la equa ripartizione della pressione fiscale. Il governo deve anche determinare in che misura qualsiasi disavanzo tra spesa e tassazione debba esser finanziato da un intervento della banca centrale e quanto debba essere finanziato dal prestito pubblico e a quali condizioni.Il modo in cui i governi decidono tutte queste questioni (e alcune altre), e la qualità della loro leadership, in interazione con le decisioni degli individui, delle imprese e del settore estero, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Questo influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza, non solo tra gli individui ma tra intere regioni, fornendo assistenza, si spera, alle persone colpite dai cambiamenti strutturali. Non si può semplificare troppo sull’utilizzo di questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, volti a promuovere il benessere di una nazione e a proteggerla al meglio possibile dagli shock di varia natura a cui inevitabilmente può andare soggetta. Non vuol dire molto, per esempio, dire che i bilanci dovrebbero essere sempre in pareggio, nel momento in cui un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40% del Pil avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) di un bilancio in pareggio al 10%.Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macro-economiche di un governo, basta solo chiedersi quale sarebbe la risposta adeguata, in termini di politica di bilancio, monetaria e valutaria, per un paese che produce grandi quantità di petrolio, ad un aumento del prezzo del petrolio di quattro volte. Sarebbe giusto non fare niente? E non si dovrebbe mai dimenticare che in periodi di fortissima crisi, può anche essere appropriato per un governo centrale peccare contro lo Spirito Santo di tutte le banche centrali e invocare la ‘tassa da inflazione’ – appropriandosi deliberatamente delle risorse e riducendo, attraverso l’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta di una nazione. Dopo tutto, era proprio mediante la tassa da inflazione proposta da Keynes che avremmo dovuto fare i pagamenti di guerra. Enumero tutti questi argomenti non per suggerire che la sovranità non dovrebbe essere ceduta per la nobile causa dell’integrazione europea, ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni, semplicemente queste devono essere assunte da qualche altra autorità.La lacuna incredibile nel programma di Maastricht è che, mentre contiene un progetto per l’istituzione e il modus operandi di una banca centrale indipendente, non esiste nessun progetto per l’analogo, in termini comunitari, di un governo centrale. Eppure dovrebbe semplicemente esistere un sistema di istituzioni che svolgano a livello comunitario tutte quelle funzioni che sono attualmente esercitate dai governi dei singoli paesi membri. La contropartita per rinunciare alla sovranità dovrebbe essere che i paesi membri siano costituiti in federazione, a cui sia affidata la loro sovranità. E il sistema federale, o il governo, come sarebbe meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare nei confronti dei suoi membri e del mondo esterno tutte quelle funzioni che ho brevemente descritto sopra. Consideriamo due esempi significativi di ciò che un governo federale, che amministra un bilancio federale, dovrebbe fare. I paesi europei sono attualmente bloccati in una grave recessione. Allo stato attuale, dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone sono deboli, non è affatto chiaro quando si potrà avere una ripresa significativa.Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose. Eppure l’interdipendenza delle economie europee è già così forte che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di perseguire politiche espansive per conto suo, perché ogni paese che cercasse di espandersi per proprio conto incontrerebbe presto un vincolo della bilancia dei pagamenti. La situazione attuale richiede con forza una reflazione coordinata, ma non esistono né le istituzioni né un quadro di pensiero condiviso che potranno condurre a questo desiderabile risultato, che sarebbe di per sé ovvio. Si dovrebbe riconoscere con franchezza che se la depressione dovesse volgere seriamente al peggio – per esempio, se il tasso di disoccupazione dovesse attestarsi in modo permanente intorno al 20-25%, come negli anni Trenta – i singoli paesi prima o poi eserciterebbero il loro diritto sovrano di dichiarare che il movimento di integrazione nel suo insieme è stato un disastro e ritornare al controllo dei cambi e al protezionismo – a un’economia da stato d’assedio, se volete. Ciò equivarrebbe a una riedizione del periodo tra le due guerre.In un’unione economica e monetaria in cui il potere di agire in maniera indipendente venisse effettivamente abolito, una reflazione ‘coordinata’ come quella che adesso sarebbe così urgente e necessaria potrebbe essere intrapresa solo da un governo federale europeo. Senza un’istituzione del genere, la Uem impedirebbe azioni efficaci da parte dei singoli paesi, senza sostituirle con alcunché. Un altro ruolo importante che qualsiasi governo centrale deve svolgere è quello di garantire una rete di sicurezza sui livelli di sussistenza delle regioni che ne fanno parte, che siano in crisi per ragioni strutturali – a causa del declino di alcune industrie, per esempio, o a causa di alcuni cambiamenti demografici economicamente sfavorevoli. Attualmente questo accade nel corso naturale degli eventi, senza che nessuno in realtà ne accorga, perché gli standard comuni dei finanziamenti pubblici (ad esempio, la salute, l’istruzione, le pensioni e le indennità di disoccupazione) e un sistema fiscale comune (auspicabilmente, progressivo) sono entrambi istituiti in via generale su tutte le singole regioni.Di conseguenza, se un settore soffre un grado insolito di declino strutturale, il sistema fiscale genera automaticamente i trasferimenti netti in suo favore. In extremis, una regione che non potesse produrre nulla, non morirebbe di fame perché sarebbe titolare di pensioni, indennità di disoccupazione e reddito dei dipendenti pubblici. Che cosa succede se un intero paese – una potenziale ‘regione’ di una comunità completamente integrata – subisce una battuta d’arresto strutturale? Finché si tratta di uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta. Può quindi commerciare con successo al livello di pieno impiego, a patto che il popolo accetti i necessari tagli dei redditi reali. Con l’unione economica e monetaria, questa strada è ovviamente sbarrata, e la sua prospettiva è veramente grave, a meno che un bilancio federale non adempia a una funzione redistributiva. Come è stato chiaramente riconosciuto nella relazione MacDougall, pubblicata nel 1977, per rinunciare all’opzione della svalutazione ci deve essere una contropartita in termini di redistribuzione fiscale.Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno seriamente sostenuto che l’Uem, abolendo il problema della bilancia dei dei pagamenti nella sua forma attuale, in realtà abolirebbe il problema, laddove esso esista, di un persistente fallimento nella competizione sui mercati mondiali. Ma, come sottolineato dal professor Martin Feldstein in un suo importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è pericolosamente errato. Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è beneficiario di un sistema di perequazione fiscale, allora non c’è nulla che possa impedirgli di subire un processo di irrimediabile tracollo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame. Sono solidale con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher), che, di fronte alla perdita di sovranità, desiderano scendere all’istante dal treno della Uem. Sono solidale anche con coloro che perseguono l’integrazione nel quadro giuridico di una sorta di costituzione federale, che disponga di un bilancio federale molto più grande del bilancio comunitario. Quello che trovo assolutamente sconcertante è la posizione di coloro che stanno puntando all’unione economica e monetaria, senza la creazione di nuove istituzioni politiche (a parte una nuova banca centrale), e che alzano le mani con orrore alle parole ‘federale’ o ‘federalismo’. Questa è la posizione attualmente adottata dal governo e dalla maggior parte di coloro che prendono parte al pubblico dibattito.(Wynne Godley, “Su Maastricht e tutto il resto”, profetico intervento apparso sulla “London Review of Book” nel lontano 1992, l’8 marzo, ora riproposto dal blog “Vox Populi”. Economista e autore di svariati saggi, Godley è stato consulente del Tesoro britannico, poi docente del King’s College e direttore di dipartimento all’Università di Cambridge).Molte persone in tutta Europa hanno improvvisamente realizzato di non sapere quasi nulla sul Trattato di Maastricht, mentre giustamente si rendono conto che questo trattato può fare una grande differenza nella loro vita. La loro legittima ansia ha portato Jacques Delors a dare l’indicazione che il punto di vista della gente comune in futuro dovrebbe essere consultato con più attenzione. Avrebbe potuto pensarci prima. Anche se sono favorevole a procedere verso un’integrazione politica in Europa, credo che il progetto di Maastricht presenti gravi carenze, e anche che il dibattito pubblico su di esso sia stato stranamente povero. Con un rifiuto danese, con la Francia che ci è andata vicino, e con l’esistenza stessa dello Sme messa in discussione dopo i saccheggi da parte dei mercati valutari, questo è un buon momento per fare il punto. L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Ce dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma come deve essere gestito il resto della politica economica?
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Morte ai palestinesi, questa Italia fa rimpiangere Craxi
Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – i berlusconiani, Renzi, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».Anche per fare questo, però, «serve un briciolo di dignità e di spessore», scrive Marchi su “L’Interferenza”. Qualità elementari, che purtroppo «questo ceto politico non possiede». Perlomeno, la classe politica della Prima Repubblica «cercava di assolvere alla funzione che all’interno dell’alleanza politico-militare occidentale le era stata affidata, con un relativo margine di autonomia politica, di equilibrio e di capacità di mediazione reale in quella che era la sua area geopolitica di pertinenza, cioè il bacino del Mediterraneo». Partiti come Dc, Psi e Pci credevano nel ruolo politico dell’Italia nell’area mediterranea e mediorientale. Di sicuro si sarebbero comportati «con maggiore dignità e senso dello Stato». Marchi ricorda il celebre discorso alla Camera del 6 novembre del 1985 con cui l’allora presidente del Consiglio, Bettino Craxi, difese il legittimo diritto dei palestinesi alla lotta armata per liberare la propria terra dalla potenza occupante, «azzardando addirittura un paragone storico fa il movimento di liberazione nazionale palestinese e quello risorgimentale e mazziniano». Per non parlare del famoso episodio di Sigonella dell’ottobre dello stesso anno, dove lo stesso Craxi impedì ai marines Usa di catturare un commando palestinese del Fplp che aveva sequestrato una nave da crociera italiana, l’Achille Lauro.Il commando palestinese aveva ucciso un passeggero americano di religione ebraica, Leon Klinghoffer, costretto sulla sedia a rotelle. Tra parentesi, la vittima «non era un anziano qualsiasi», spiega oggi uno studioso come Gianfranco Carpeoro: Klinghoffer era il capo del “B’Nai Brit”, la superloggia massonica segreta ebraica, che corrisponde alla sezione più impenetrabile del Mossad, l’intelligence israeliana. «L’aereo su cui viaggiavano i membri del commando palestinese – ricorda Marchi – fu fatto circondare dai carabinieri», che impedirono armi in pugno ai marines americani di catturare i palestinesi, per poi far ripartire l’aereo verso il porto sicuro della Jugoslavia comunista di Tito. «Un episodio che provocò un momento di grave tensione nei rapporti fra il governo italiano e quello americano», e che oggi appare lunare, incredibile. La crisi di Sigonella «rilanciava il ruolo dell’Italia nello scacchiere mediorientale come paese non ostile ai popoli arabi, in continuità con una politica di cooperazione e collaborazione con i paesi maghrebini e mediterranei già iniziata a suo tempo dal presidente dell’Eni, Enrico Mattei, che per questo fu assassinato dalle multinazionali del petrolio Usa».C’è chi sostiene che Usa e Israele non avessero dimenticato quell’affronto, aggiunge Marchi. Si ritiene infatti che la successiva caduta in disgrazia di Craxi avesse in qualche modo a che vedere con la sua politica di apertura nei confronti dell’Olp e in generale dei governi nazionalisti laici arabi, ben oltre le vicende di Tangentopoli. «Questo ovviamente non fa di Craxi, così come di Andreotti e in generale di quel ceto politico da loro rappresentato, degli eroi della lotta dei popoli del mondo contro l’imperialismo, però ci offre una testimonianza reale di quale sia il livello dell’attuale classe politica». Un panorama desolante, che comprende a pieno titolo anche la Lega Nord di Salvini, che «ha votato contro lo Stato di Palestina con una dichiarazione esplicitamente filoisraeliana». La Lega si rivela così «una forza di finta opposizione al “sistema”, schierata in realtà su posizioni filo-atlantiste». Le simpatie per Putin e la Corea del Nord? «Nero seppia da buttare in faccia alla parte culturalmente più debole del suo elettorato». Morte ai palestinesi, dunque, ora e sempre, anche da parte del Salvini che spande odio verso i migranti più disperati. «E’ bene non farsi ingannare da questa gente, molto abile in queste operazioni di maquillage dalle quali purtroppo molte persone in buona fede tendono a farsi condizionare – conclude Marchi – soprattutto in assenza di un’alternativa politica solida».Bei tempi, quelli di Craxi e Andreotti – perlomeno, rispetto all’attuale disastro politico. Cartina di tornasole, il voto del 27 febbraio sul (mancato) riconoscimento italiano dello Stato di Palestina. Tutti contrari, in aula – berlusconiani e renziani, perfino Sel – con l’unica eccezione del M5S, favorevole ai palestinesi “senza se e senza ma”. «Il partito unico che ci governa, ivi compresa la Lega Nord e il cespuglio “rosafucsia” alla “sinistra” del Pd», i cui esponenti vendoliani «fingono di litigare nei vari talk-show», non è stato neanche capace di votare quella che di fatto sarebbe stata poco più di una mozione di intenti, sebbene di alto valore simbolico. Il voto, scrive Fabrizio Marchi, non avrebbe comunque comportato nessuna ricaduta concreta sulla realtà della cosiddetta “crisi” israelo-palestinese, «cioè l’occupazione neocoloniale e razzista a cui è sottoposto da decenni il popolo palestinese da parte dello Stato di Israele e di tutti i suoi governi, nessuno escluso». Forse, aggiunge Marchi, «ci sono anche modi relativamente più dignitosi per servire i propri padroni, ad esempio fingendo di avere una propria autonomia politica: in fondo a questo serviva o avrebbe potuto servire votare in favore dello Stato di Palestina».
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Estorsioni e bugie, perché la Germania non cambia mai
Spezzare le reni alla Grecia per mettere in chiaro le cose: chi comanda non avrà pietà di nessuno. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si chiama: capitalismo tedesco. Mordeva l’Europa già prima di Hitler, è deflagrato nella Seconda Guerra Mondiale e ora ha ripreso a correre, col Quarto Reich dei poteri forti che manovrano la loro figurina politica, Angela Merkel. I regimi cambiano, ma le linee geopolitiche di fondo restano le stesse: «La tracotanza delle classi dominanti tedesche al tavolo negoziale di Bruxelles sulla questione greca non si spiega solo ricorrendo alle origini luterane della loro cultura», sostiene Moreno Pasquinelli. «Si può comprendere piuttosto alla luce delle costanti della politica di potenza tedesca». Sono evidenti le medesime tendenze espansionistiche, attraverso i secoli:da Federico II il Grande alla cancelliera Merkel, passando prima per Bismarck e poi per Hitler. «Com’è ovvio nessun regime confessa i suoi appetiti, tanto più se sono imperialistici». La verità, quindi, esplode solo con la guerra: allora, «ciò che è latente si disvela e viene alla luce». E riecco dunque la vecchia Germania, col suo pericoloso suprematismo mercantilista: sottomettere economie per conquistare mercati.Da Bismarck in poi, «l’espansionismo militare germanico ha sempre fatto seguito a una strategia economica mercantilistica». Oggi l’ordine dei fattori sembra invertito, ma il risultato (disastroso per l’Europa) è lo stesso, scrive Pasquinelli su “Sollevazione”. Attenzione: se una potenza imperialistica viene contrastata e i suoi mercati di sbocco tendono a sfuggirle, prima o poi sviluppa la sua potenza bellica. «La posizione punitiva e oltranzista di Berlino verso la Grecia non dev’essere fraintesa», perché – oggi come ieri – non è certo il Mediterraneo «il boccone succulento che brama davvero l’imperialismo tedesco», ma «le praterie euroasiatiche, Russia in primis – e di cui Polonia, baltici e Ucraina sono solo dei ponti». Per lanciarsi ad Est, proprio come il Terzo Reich ieri, anche oggi «Berlino non avere nemici né ad Ovest né a Sud». Infatti, prima di marciare su Mosca, «Hitler dovette coprirsi le spalle ad Occidente, e lo fece – non senza prima essersi assicurata la benevolenza russa col Patto Ribbentrop-Molotov – annientando militarmente la Francia».Perché allora la Merkel tiene duro contro i greci, fino al punto di spingerli fuori dall’Eurozona? «Berlino deve “spezzare le reni” alla piccola Grecia per ribadire, anzi irrobustire, la sua supremazia, non più solo economica ma politica, sull’Europa occidentale, e avere quindi mani libere ad Est». Oggi, le armi tedesche sono l’Unione Europea e l’euro: Ue e moneta unica «sono i ferri con i quali la Germania soggioga e incatena a sé la Francia e tutti i suoi alleati». Hollande? Ridotto a comparsa, anche ai negoziati di Minsk. E se qualcuno crede alla sincerità – talora drammatica – dei tedeschi, si sbaglia di grosso. E’ la storia a smentirlo: «Contrariamente a quanto si pensa, Hitler fu un maestro nell’arte dell’occultamento dei suoi piani di aggressione», ricorda Pasquinelli. La famigerata Conferenza di Monaco del settembre 1938, con la quale ottenne da inglesi, francesi e italiani l’autorizzazione ad annettersi (dopo l’Austria) la Cecoslovacchia, «fu anche il frutto della sua memorabile abilità nell’ingannare i suoi interlocutori». Ne abbiamo le prove, data la risaputa meticolosità tedesca: i nazisti trascrissero anche le discussioni informali tra loro.«Grazie a queste – continua Pasquinelli – sappiamo non solo che tutti i piani di aggressione erano stati pensati e preparati fin nei dettagli molti anni prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale; abbiamo un’immagine icastica di quale fosse realmente il disegno strategico del grande capitalismo tedesco che sosteneva il regime nazista». Non ci credete?«Chi trova esagerato quanto noi affermiamo, che cioè esista una linea di continuità tra l’attuale geopolitica tedesca e quella nazista – scrive Pasquinelli – dovrebbe leggere con attenzione quanto affermò Hitler nelle sue conversazioni coi suoi più stretti collaboratori. Al netto delle farneticazioni razziali (“Herrenvolk”) e dei deliri di onnipotenza hitleriani, questa linea di continuità e una certa peculiare “essenza” del capitalismo tedesco, emergono con chiarezza». L’europeismo di facciata della Germania, paese da sempre ultra-nazionalista, «sfocia nell’esterofobia e nello sciovinismo conclamato». Non stupitevi, dunque, se la Germania minaccia sistematicamente l’Europa. Vale la pena considerare «quanto conti, nella psicologia dell’élite tedesca, l’amorevole adesione dei propri sudditi», e quindi oggi «quanto quindi pesi, per la Merkel, il sostegno dei suoi connazionali, la cui dimensione è direttamente proporzionale alla spietata durezza che ostenta col popolo greco».«L’ultimo degli apprendisti, il più modesto dei carrettieri tedeschi, è più vicino a me che non il più importante dei lord inglesi», chiarì Hitler nel marzo del 1942. Per Pasquinelli, «sarebbe sbagliato sottovalutare, malgrado i reiterati proclami di fede globalistici e cosmopolitici delle classi dominanti tedesche, quanto insomma pesi, nella psicologia di quelle élite, il “Deutschtum”, la germanitudine. Se si va alle radici di certo pensiero politico nazionalistico tedesco non c’è solo il reazionario Carl Schmitt col suo concetto geopolitico di “Grossraum”, che egli non a caso declinava come “comunità pluralistica di liberi popoli”. C’è Herbert Backe, che enunciò la tesi del “Grossraumordung”, come premessa del predominio imperialistico tedesco non solo ad Est ma anche ad Ovest (“Nahrungsfreiheit”). E come dimenticare Franz Albert Six, uno dei massimi e più arguti teorici della politica estera nazista? Egli vedeva “nella concentrazione delle forze economiche europee sotto l’egida del Reich l’attuazione del principio della solidarietà europea”».L’europeismo? «Si può declinare in modi molto diversi, quello nazista compreso», che è la “versione estrema” della tradizionale geopolitica tedesca. «Una politica egemonica connaturata a quello che riteniamo sia il Quarto Reich, quello che ha avuto i suoi natali con il crollo del Muro di Berlino e quindi l’annessione della Germania orientale». Ancora Hitler affermava: «Lo spazio russo è la nostra India. Come gli inglesi, noi domineremo questo impero con un pugno di uomini». E poi: «La sicurezza dell’Europa non sarà assicurata se non quando avremo ricacciato l’Asia dietro agli Urali». Quanto alla rozza plebe della Romania, «farebbe bene a rinunciare nei limiti del possibile ad avere un’industria propria», perché in quel modo «dirigerebbe le ricchezze del suo suolo, e specialmente il grano, verso il mercato tedesco; in cambio riceverebbe da noi i prodotti manifatturati di cui ha bisogno». Oggi il menù è cambiato, ma la musica no: deindistrializzare il Sud Europa, a cominciare dall’Italia, per fornire al capitalismo tedesco manodopera a basso costo.L’11 aprile 1942, nell’euforia delle prime folgoranti vittorie, Hitler sintetizza la politica tedesca in questi termini: «Per dominare i popoli che abbiamo sottomessi nei territori a est del Reich, dovremo di conseguenza rispondere nella misura del possibile ai desideri di libertà individuale che essi potranno manifestare, privarli dunque di qualsiasi organizzazione di Stato e mantenerli così a un livello culturale il più basso possibile». Chiaro, no? «Bisogna partire dal concetto che questi popoli non hanno altro dovere che servirci sul piano economico. Il nostro sforzo deve dunque consistere nel trarre dai territori che essi occupano tutto quanto se ne può trarre. Per impegnarli a consegnarci i loro prodotti agricoli, a lavorare nelle nostre miniere e nelle nostre fabbriche d’armi, li adescheremo aprendo un po’ dappertutto spacci di vendita nei quali potranno procurarsi i prodotti manifatturati dei quali abbisognano. Se vogliamo preoccuparci del benessere individuale di ognuno, non otterremo alcun risultato imponendo loro un’organizzazione sul modello della nostra amministrazione. In tal modo non faremmo che attirarci il loro odio. Infatti, quanto più gli uomini sono primitivi, tanto più avvertono come una costrizione insopportabile qualsiasi limitazione della loro libertà personale».Spezzare le reni alla Grecia per mettere in chiaro le cose: chi comanda non avrà pietà di nessuno. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Si chiama: capitalismo tedesco. Mordeva l’Europa già prima di Hitler, è deflagrato nella Seconda Guerra Mondiale e ora ha ripreso a correre, col Quarto Reich dei poteri forti che manovrano la loro figurina politica, Angela Merkel. I regimi cambiano, ma le linee geopolitiche di fondo restano le stesse: «La tracotanza delle classi dominanti tedesche al tavolo negoziale di Bruxelles sulla questione greca non si spiega solo ricorrendo alle origini luterane della loro cultura», sostiene Moreno Pasquinelli. «Si può comprendere piuttosto alla luce delle costanti della politica di potenza tedesca». Sono evidenti le medesime tendenze espansionistiche, attraverso i secoli: da Federico II il Grande alla cancelliera Merkel, passando prima per Bismarck e poi per Hitler. «Com’è ovvio nessun regime confessa i suoi appetiti, tanto più se sono imperialistici». La verità, quindi, esplode solo con la guerra: allora, «ciò che è latente si disvela e viene alla luce». E riecco dunque la vecchia Germania, col suo pericoloso suprematismo mercantilista: sottomettere economie per conquistare mercati.
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Fine della crisi? Via la Germania dall’Ue, e addio alla Nato
A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.Negli anni recenti ciò che è successo è stato che Washington ha espanso oltre misura la sua disponibilità monetaria e il dollaro ha denominato il debito. Washington inflaziona la sua valuta come ha fatto, anno dopo anno, col “quantitative easing”. Una politica che, strettamente parlando, non è finita. Ciò costringe le altre nazioni a inflazionare le proprie valute, altrimenti il valore di scambio delle loro valute aumenta e le esportazioni vengono tagliate, e quindi per proteggere i mercati di esportazioni tutti devono inflazionare se lo fanno gli Stati Uniti. Così la conseguenza è che il mondo ora è sommerso da “fiat money”, ma la produzione di merci e di servizi non è cresciuta in modo commensurabile alla crescita del denaro. Ci aspettiamo una seria inflazione mondiale per molte ragioni. Molta di questa moneta è sotto chiave nel sistema bancario. C’è comunque una situazione molto instabile, ogni volta che la creazione di “fiat money” superi la produzione di beni e servizi.Penso che la situazione abbia raggiunto il punto in cui molte nazioni, parlo di nazioni potenti come la Russia e la Cina, si rendono conto che il sistema del dollaro, il sistema di pagamenti basato sul dollaro, si sta frantumando, ed è anche il sistema che può essere usato per imporre sanzioni su nazioni che non seguono le imposizioni di Washington. Avete sanzioni se vi comportate indipendentemente da Washington. Quindi si possono già vedere movimenti per abbandonare il sistema, e ciò certamente avverrà. La Cina è il più grande creditore del Tesoro statunitense: possiede la parte maggiore del debito Usa e ha legato la sua valuta al dollaro per dimostrare che la sua valuta è buona quanto il dollaro. E ciò che vediamo è che la valuta cinese è meglio del dollaro. Io penso che l’obiezione della Cina è il modo in cui gli Stati Uniti usano la loro valuta come un’egemonia finanziaria sopra tutte le altre nazioni. La usano per minare la sovranità delle altre nazioni.Lo vediamo con le sanzioni contro la Russia. Questo è il modo per costringere la Russia a sottomettersi al volere di Washington. Ma stanno ottenendo il risultato opposto. La Russia sta lasciando il sistema dei pagamenti basati sul dollaro. E inoltre, a causa della stupidità dei governi europei, la Russia sta riorientando il suo commercio dall’Europa all’Oriente. Lo vediamo oggi con gli sviluppi in campo energetico. Così ciò manderà in frantumi il sistema di pagamento basato sul dollaro. Le nazioni europee sono i grandi facilitatori dell’egemonia di Washington. Se le nazioni europee fossero davvero sovrane e fossero in grado di condurre politiche internazionali indipendenti non sarebbero stati vassalli degli Stati Uniti e questo limiterebbe lo strapotere degli Usa e priverebbe gli Stati Uniti della copertura per le sue guerre di aggressione. Cosa può fare l’Europa? Può disimpegnarsi dalla Nato. Essere un membro della Nato vuol dire assoggettarsi al controllo di Washington. La Nato esisteva per proteggersi dall’invasione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Questa minaccia è spartita da almeno vent’anni. Eppure la Nato continua ad espandersi e viene usata dagli Stati Uniti per le sue guerre in Africa e nel Medio Oriente.Cosa ci guadagna l’Europa da tutto ciò? Niente. E adesso viene trascinata in un confronto militare con la Russia. Che cosa ne uscirà da tutto ciò? Nulla di buono per l’Europa. E’ quindi necessario che i paesi europei riacquistino la loro sovranità. Ma non sono sovrani, sono colonie. Sono regimi fantoccio. Non hanno politiche estere indipendenti. Sono assoggettate al volere di Washington. E ciò costituisce una grande facilitazione per l’egemonia di Washington. Senza ciò gli Stati Uniti sarebbero solo un altro paese tra tanti. Magari un paese molto forte, certo, ma un paese tra tanti. Quando però uno ha tutta l’Europa, il Canada, l’Australia e il Giappone come regimi fantoccio e Stati vassalli, diventa strapotente. Quindi, ciò che l’Europa può fare? Lasciare la Nato. La Nato non protegge più l’Europa, ma la mette in pericolo perché la coinvolge nelle guerre di Washington.Perché gli Usa riescono ad assoggettare le nazioni europee? Ci sono vari motivi. Uno è che dopo la Seconda Guerra Mondiale il dollaro è diventato la moneta di riserva, e ciò dà un potere enorme agli Stati Uniti. Un’altra ragione è stata la lunga Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e la propaganda secondo cui l’Europa poteva essere invasa dall’Urss, con la conseguente dipendenza dell’Europa, che dura da decenni, dalla protezione americana. Se tu dipendi dalla protezione di un altro paese finisci per dover seguire le politiche di quel paese perché dipendi da quel paese. E’ il ruolo che assumi col tempo. Tutto ciò avrebbe dovuto finire con il collasso dell’Unione Sovietica. Sfortunatamente il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla ribalta negli Stati Uniti l’ideologia dei neoconservatori, che dice che la storia ha scelto gli Stati Uniti per dominare il mondo. Sarebbe la “Nazione Eccezionale”, la “Nazione Indispensabile”. E il collasso del comunismo, del socialismo, avrebbe provato che gli Stati Uniti dovevano esercitare la loro egemonia sul mondo.Questa ideologia è stata istituzionalizzata nella politica estera e militare degli Stati Uniti. Abbiamo la dottrina Brzezinski e la dottrina Wolfowitz. E in sostanza queste dottrine dicono che gli Stati Uniti devono prevenire l’ascesa di ogni altro paese che abbia il potere e la capacità di bloccare i propositi di Washington nel mondo. Questi due Stati, oggi, sono la Russia e la Cina. E quindi questa ideologia è estremamente pericolosa, perché mette il mondo in conflitto con la Russia e la Cina. E questi sono tra i principali paesi nucleari, e sono grandi economie ed enormi aree geografiche. E quindi l’ideologia dell’egemonia americana è una minaccia alla stessa esistenza della vita sulla Terra. La possibile alternativa rappresentata dalla Germania? Temo che la Merkel sia solo un pupazzo di Washington. E’ molto difficile per un leader europeo alzarsi in piedi e rappresentare il proprio popolo invece che gli Stati Uniti. Tutti i leader europei rappresentano gli Stati Uniti e non rappresentano il popolo della Francia, della Germania o il popolo britannico. Rappresentano gli Stati Uniti. E certamente sono ben remunerati per questo. E quindi i leader che mostrano una qualche disposizione a non stare al gioco sono sempre rovinati.Immaginatevi se la Germania dovesse semplicemente lasciare l’Ue . Restare non serve agli interessi della Germania. Perché la Germania verrebbe munta e pagherebbe i debiti dell’Ue, e dell’Ucraina. O se la Germania lasciasse la Nato: perché la Germania dovrebbe stare nella Nato? La Germania ha grandi collegamenti economici con la Russia. Ma questi stanno per essere sacrificati per far piacere agli americani. Quindi, sì, la Germania potrebbe fare molto. Potrebbe lasciare la Ue, potrebbe lasciare la Nato. Questo sarebbe la fine dell’egemonia statunitense. Ma non succederà, perché i paesi occidentali non hanno più, a mio avviso, la democrazia: i loro leader non rappresentano il popolo. Negli Stati Uniti rappresentano ideologie e rappresentano potenti gruppi di interessi, come ad esempio il complesso militare e di sicurezza, Wall Street e le grandi banche, e poi l’agribusiness, la lobby israeliana, le industrie estrattive, il petrolio, le miniere, l’industria del legno. Tutti questi sono interessi potentissimi, le cui donazioni determinano chi viene eletto. E le persone che traggono beneficio da questi contributi alle campagne elettorali sono alleate alle fonti del denaro. Quindi tutto il processo viene rimosso dalla rappresentazione del popolo. Il popolo non fornisce i soldi che eleggono i candidati. E quindi si ha una situazione in cui l’Europa è solo un vassallo degli Stati Uniti.Questi leader non possono nemmeno rappresentare gli interessi del loro popolo ma devono conformarsi alle politiche degli Stati Uniti. Perciò si può solamente dire che la democrazia in fin dei conti non esiste. E’ solo una copertura perché i governi sono incapaci di rappresentare gli interessi del popolo. Cosa dovrebbero fare i lavoratori e le persone comuni per ribilanciare lo squilibrio nei confronti del capitale? E’ chiaro che non possono fare nulla all’interno di questo sistema. Ciò che ha distrutto il potere dell’uomo comune negli Stati Uniti è stato la delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro dell’industria manifatturiera. Quando l’industria è stata delocalizzata all’estero, i sindacati sono stati distrutti. E quando i sindacati sono stati smantellati, la fonte indipendente di finanziamento del Partito Democratico è stata distrutta. Di conseguenza, i Democratici ora devono rivolgersi agli stessi gruppi di interesse che finanziano i Repubblicani. Devono rivolgersi al complesso militare-sicurezza, a Wall Street, alle banche. E così, entrambi i partiti sono finanziati dalle medesime fonti. A tutti gli effetti, c’è un unico partito.L’unica cosa che possono fare i lavoratori spossessati è contestare la legittimità del governo e ribellarsi. E’ l’unica alternativa che hanno. Non c’è nessuna possibilità di cambiare il sistema dall’interno. Fin quando protestare vuol dire protestare pacificamente vuol dire che la gente accetta la struttura e semplicemente cerca di convincere coloro che hanno il potere che devono cambiare le proprie idee. Ma questo non avverrà. Non succede mai. Abbiamo raggiunto un punto in cui i lavoratori sono spinti ai margini. Non hanno nessuna influenza, nessuna rappresentanza. Quanto all’Europa, tutto quello che posso dire è che paesi che hanno una così lunga storia non devono rinunciare alla loro sovranità, per Washington. Devono riconquistare la loro sovranità per proteggere il mondo dall’aggressione di Washington. Devono ridiventare indipendenti, per costringere gli Usa a mollare questa ideologia della supremazia mondiale, perché è molto pericolosa – pericolosa per gli americani, per gli europei, per i cinesi, per i russi, per tutti. Potete vedere i morti e le distruzioni nel Medio Oriente da tredici anni. E l’ingerenza irresponsabile del governo degli Stati Uniti in Ucraina, le accuse irresponsabili contro la Russia, contro la Cina, la costruzione di basi militari sulle frontiere della Russia e in Asia per bloccare l’accesso della Cina alle risorse. Tutto questo ci porterà alla guerra. Ma la Russia e la Cina non sono la Libia o l’Iraq.(Paul Craig Roberts, dichiarazioni rilasciate a Piero Pagliani per un’intervista su “Pandora Tv”, ripresa da “Megachip” il 13 febbraio 2015).A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte: solo il dollaro aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale. Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’euro, avete il rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a una nazione assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni. Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con valuta di riserva puoi rilassarti, perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito.
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Sorpresa, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo
Spaghetti, chitarra, mandolino. E poi mafia, corruzione, evasione fiscale. Eppure, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, in barba alla retorica cialtrona dei denigratori dello Stivale. Davanti ci sono ovviamente l’inglese, il cinese e lo spagnolo. Poi, però, l’italiano. Perfettamente normale, dice Aldo Giannuli. E altrettanto normale è che gli unici a stupirsene siano proprio gli italiani. È lo stesso sito della Farnesina a dichiararlo: la lingua italiana, nel 2014, è la quarta lingua più studiata al mondo, con un totale di 687.000 allievi che la studiano all’estero nelle università, senza contare scuole e corsi privati. Un numero pari al totale degli iscritti al primo anno della scuola superiore in Italia. Ben 81 Istituti italiani di cultura offrono 8.165 corsi, frequentati da 69.500 persone, mentre i 406 comitati della Società Dante Alighieri dispongono di 266 centri di certificazione per 195.400 studenti. L’italiano, insomma, è vivo, richiesto e imparato in tutto il pianeta. Ovvio: l’Italia possiede il 70% dei beni culturali della Terra, è una grande patria della letteratura, è la meta d’elezione per milioni di turisti attirati dall’arte, dal paesaggio e dal cibo.Scontato, rileva Giannuli nel suo blog, che l’inglese primeggi: se si contano anche gli indiani, si tratta di una lingua parlata da un miliardo e mezzo di persone. Inoltre, è la principale lingua franca del mondo. E così la Cina, che da sola raggiunge il miliardo e mezzo di parlanti: «E’ la lingua del principale paese emergente, anzi forse ormai è meglio dire “emerso”, seconda potenzia mondiale». Quanto allo spagnolo, «è la lingua di mezzo miliardo di parlanti ed è in rapida espansione negli Usa». E’ invece «inspiegabile» che la quarta lingua più studiata sia l’italiano, quella cioè di uno Stato che annovera «poco più di sessanta milioni di parlanti», forse settanta includendo eritrei, albanesi, somali, italiani all’estero e cittadini della Svizzera italiana. Restiamo «un paese relativamente piccolo e in decisa decadenza, ignorato dalle grandi potenze e ridicolizzato dai suoi piccoli politici passati e presenti», da Berlusconi a Renzi. Clamoroso, dunque, che l’italiano preceda «lingue come il francese, il tedesco, il russo, il portoghese, il giapponese». Come si spiega? «Il guaio è che i giornalisti italiani sono molto ignoranti e, quel che è peggio, non fanno nessuna ricerca prima di scrivere».Prima di tutto, continua Giannuli, «si dimentica che l’italiano è la lingua franca di uno dei principali soggetti geopolitici mondiali: la Chiesa cattolica». La lingua ufficiale della Chiesa, come si sa, è il latino, «ma quella in uso fra i prelati (e spesso anche i semplici preti) di nazioni diverse è soprattutto l’Italiano, che è parlato correntemente in Vaticano e usato prevalentemente dal Papa, vescovo di Roma, anche se non si tratta più di un italiano da quasi quarant’anni». E anche in ordini religiosi importanti, come i salesiani o i gesuiti, la lingua corrente è l’italiano. «Poi c’è da considerare che l’Italia è uno dei paesi che hanno avuto una cospicua emigrazione nell’ultimo secolo: circa 40 milioni di persone sparse soprattutto in Argentina, Usa, Canada, Australia, Germania, Francia e Belgio», con non pochi figli e nipoti che si sono mantenuti bilingui. Inoltre, purtroppo, l’italiano è spesso usato anche «fra gli uomini di Cosa Nostra o fra gli ‘ndranghetisti sparsi per il mondo e altre organizzazioni criminali come i colombiani».Resta enorme l’importanza dell’italiano sul piano culturale, «e anche qui si sono dimenticate troppe cose». Per esempio, «che l’italiano è la lingua principale del melodramma». Nel mondo «ci sono tanti melomani che apprezzano molto la nostra musica lirica, basti pensare al successo mondiale avuto da Pavarotti dagli anni ‘80». Un po’ di italiano, quantomeno, lo si canticchia dappertutto. «Poi la letteratura italiana è sicuramente una delle primissime a livello mondiale», perché ha avuto uno sviluppo continuo nel tempo, dal XIII secolo in poi, «con capolavori di livello mondiale, in tutti i secoli». Lo stesso «non mi pare si possa dire delle letterature di Inghilterra, Francia, Germania, Spagna e Russia, che presentano maggiore discontinuità». Chi voglia avere un’idea del “peso” della letteratura italiana, continua Giannuli, può consultare la monumentale collana di testi della Ricciardi. Dunque «non sorprende che ci siano autori italiani (da Petrarca a Gramsci o Leopardi) più amati e letti all’estero che in Italia», anche per colpa della nostra pessima scuola, «il cui principale scopo è far odiare agli studenti tutto quello che fa loro studiare».Superfluo, infine, parlare del peso mondiale dell’arte italiana: Pompei e Roma, le vestigia archeologiche, le città d’arte come Firenze e Venezia, i tesori dei mille borghi storici. E poi il capolavoro del Rinascimento, rivoluzione culturale made in Italy. Oggi, poi, parlano italiano anche la moda e la gastronomia. «Che morale possiamo ricavare da questa terribile sproporzione fra l’apprezzamento che la cultura e la lingua italiana riscuotono nel mondo e la pochezza dell’autostima degli italiani? Semplicemente – si risponde Giannuli – che gli italiani del tempo presente sono impari, rispetto al patrimonio culturale che li sovrasta. Peccato». Naturalmente, c’è chi li sempre “aiutati” a sottostimarsi: il paese ha avuto “la peggior classe dirigente d’Europa”, secondo molti critici, dominata da una nomenklatura di basso profilo, corrotta e clientelare, ai tempi in cui la sinistra italiana andava fermata – anche con le bombe nelle piazze – per impedirle di salire al potere quando al posto della Russia c’era ancora l’Urss. Italia sempre colonizzata dallo straniero, denunciano libri come “Il golpe inglese”; svenduta a trance sul ponte del Britannia, poi sull’altare di Bruxelles e dell’euro. Sul piatto della bilancia europea ha pesato l’acciaio della Germania, mentre il Belpaese non ha potuto far valere i suoi immensi giacimenti culturali, quelli che il mondo ci invidia. Dunque non lamentiamoci troppo degli italiani: non è tutta colpa loro.Spaghetti, chitarra, mandolino. E poi mafia, corruzione, evasione fiscale. Eppure, l’italiano è la quarta lingua più studiata al mondo, in barba alla retorica cialtrona dei denigratori. Davanti ci sono ovviamente l’inglese, il cinese e lo spagnolo. Poi, però, l’italiano. Perfettamente normale, dice Aldo Giannuli. E altrettanto normale è che gli unici a stupirsene siano proprio gli italiani. È lo stesso sito della Farnesina a dichiararlo: la lingua italiana, nel 2014, è la quarta lingua più studiata al mondo, con un totale di 687.000 allievi che la studiano all’estero nelle università, senza contare scuole e corsi privati. Un numero pari al totale degli iscritti al primo anno della scuola superiore in Italia. Ben 81 Istituti italiani di cultura offrono 8.165 corsi, frequentati da 69.500 persone, mentre i 406 comitati della Società Dante Alighieri dispongono di 266 centri di certificazione per 195.400 studenti. L’italiano, insomma, è vivo, richiesto e imparato in tutto il pianeta. Ovvio: l’Italia possiede il 70% dei beni culturali della Terra, è una grande patria della letteratura, è la meta d’elezione per milioni di turisti attirati dall’arte, dal paesaggio e dal cibo.
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Bricmont: terrorismo umanitario, presto il mondo ci punirà
«Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una guerra». Nessuno di coloro che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto, ricorda il professor Jean Bricmont dell’università belga di Louvain, autore del saggio “Humanitarian Imperialism”. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla Grande Guerra sono stati distrutti, inclusi quello britannico e quello francese. «E non è tutto: una guerra conduce a un’altra guerra». Per il filosofo inglese Bertrand Russell, la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone, ma poi le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico, che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan e all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la Prima Guerra Mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler.«Russell si fermò qui, ma la storia continua», scrive Bricmont in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La sconfitta di Hitler portò alla guerra fredda e alla nascita di Israele. La “vittoria” dell’Occidente nella guerra fredda condusse al diffuso desiderio di schiacciare la Russia una volta per tutte. Quanto a Israele, la sua creazione produsse un conflitto permanente e creò una situazione inestricabile nel Medio Oriente». Ci vorrebbe un “pacifismo istituzionale”, dice Bricmont: istituzioni a guardia della pace. L’Onu? Doveva appunto «salvare l’umanità dalla “piaga della guerra”, in seguito all’esperienza della Seconda Guerra Mondiale». Sovranità degli Stati, dunque, «per impedire che le grandi potenze intervenissero militarmente contro le nazioni più deboli, a prescindere dal pretesto». Ma visto che «non esiste una forza di polizia internazionale che faccia valere il diritto internazionale», non resta che «un bilanciamento di potere», corollario dell’antica politica di potenza. Equilibrio ancora più precario dopo che l’Occidente ha interpretato la fine della guerra fredda «come una vittoria unilaterale del Bene contro il Male».Da qui il boom occidentale dell’ideologia dei diritti umani e del diritto agli “interventi militari umanitari”, sviluppata da influenti intellettuali occidentali già a partire dalla metà degli anni ’70, spesso sostenitori di Israele. Il “diritto” all’intervento umanitario, ricorda Bricmont, è stato respinto dalla maggioranza dell’umanità, anche dal Movimento dei Non Allineati a Kuala Lumpur nel febbraio 2003, alla vigilia dell’attacco Usa all’Iraq. L’intervento militare “umanitario”? «Non trova fondamento né nella Carta delle Nazioni Unite, né nel diritto internazionale». In Occidente, però, quel tipo di intervento «è quasi unanimemente accettato». L’intervento degli Stati Uniti, scrive Bricmont, «è eterogeneo ma costante, e viola sistematicamente lo spirito, e spesso anche la lettera, della Carta delle Nazioni Unite». Nonostante i principi di libertà e democrazia agitati come paravento, «l’intervento statunitense ha ripetutamente comportato conseguenze disastrose, in tutto il mondo.A pesare non solo «i milioni di morti dovuti alle guerre dirette e indirette, in Indocina, America Centrale, Sudafrica e Medio Oriente», ma anche «le opportunità perdute, “l’uccisione della speranza” per centinaia di milioni di persone che avrebbero tratto beneficio dalle politiche sociali progressiste iniziate da personaggi come Arbenz in Guatemala, Goulart in Brasile, Allende in Cile, Lumumba in Congo, Mossadegh in Iran, i Sandinisti in Nicaragua o Chavez in Venezuela, che sono stati sistematicamente rovesciati, deposti o assassinati con il pieno appoggio dell’Occidente». Inoltre, aggiunge Bricmont, «ogni aggressione compiuta dagli Stati Uniti provoca una reazione: il dispiegamento di uno scudo anti-missile produce più missili, non meno. Bombardare dei civili – sia deliberatamente, sia come “danno collaterale” – provoca più resistenza armata, non meno. Cercare di deporre o rovesciare dei governi produce più repressione interna, non meno. Incoraggiare le minoranze secessioniste dando loro l’impressione, spesso falsa, che l’unica Superpotenza verrà in loro aiuto in caso di repressione, porta a più violenza, odio e morte, non meno». E ancora: «Circondare una nazione con basi militari produce più spese per la difesa da parte di quella nazione, non meno. E il possesso di armi nucleari da parte di Israele incoraggia altri stati del Medio Oriente ad acquistare tali armi».L’ideologia dell’intervento umanitario, continua Bricmont, in realtà fa parte di una lunga storia degli atteggiamenti occidentali nei confronti del resto del mondo. «Quando i colonialisti occidentali sbarcarono sulle coste dell’America, dell’Africa o dell’Asia orientale, venivano sconvolti da ciò che noi ora definiremmo violazioni dei diritti umani, e che loro chiamavano “usanze barbare” – sacrifici umani, cannibalismo, donne costrette a legarsi i piedi». Quell’indignazione, reale o simulata, «è stata usata per giustificare o coprire i crimini delle potenze occidentali: il commercio degli schiavi, lo sterminio dei popoli indigeni e il furto sistematico di terre e risorse». Così, «questo atteggiamento di sincera indignazione è continuato fino ad oggi e sta alla base della pretesa che l’Occidente ha “il diritto di intervenire” e “il diritto di proteggere”, chiudendo al tempo stesso gli occhi di fronte a regimi oppressivi considerati “nostri amici”, ad una incessante militarizzazione e continue guerre, e allo sfruttamento massiccio del lavoro e delle risorse».I fautori dell’intervento “umanitario” rivendicano che il loro interventismo sia gestito dalla comunità internazionale? «Ma ad oggi non c’è nulla che si possa definire una vera comunità internazionale. In realtà – scrive Bricmont – niente può illustrare meglio l’ipocrisia dell’ideologia umanitaria quanto il contrasto tra la reazione occidentale alle richieste d’indipendenza del Kosovo e alla richiesta di autonomia dell’Ucraina dell’Est. In entrambi i casi vi è il rifiuto di negoziare, ma in un caso con il totale appoggio all’indipendenza, e nell’altro caso con la totale opposizione all’autonomia». I promotori dell’intervento umanitario lo presentano come l’inizio di una nuova era, ma nei fatti è la fine di una vecchia epoca, sostiene Bricmont: «La più grande trasformazione sociale del ventesimo secolo è stata la decolonizzazione. Continua oggi nella creazione di un mondo veramente democratico e multipolare, in cui il sole sarà tramontato sull’impero Usa, proprio come accadde per vecchi imperi europei». Lo pensano in molti, ormai, ancje in Occidente, anche se «purtroppo non viene riportato nei nostri mezzi di comunicazione».Aggiunge Bricmont: «Durante le recenti campagne isteriche anti-russe, i nostri media sembrano aver completamente abbandonato lo spirito critico dell’Illuminismo che l’Occidente pretende di possedere. L’ideologia dei diritti umani, che ci dipinge come i buoni contro i cattivi, presenta la caratteristica di tutte le fedi religiose, ed è particolarmente intrisa di fanatismo». Nella Prima Guerra Mondiale, «tutte le parti in causa pretendevano di avere Dio al proprio fianco». Oggi, conclude Bricmont, «l’ideologia dei diritti umani ha sostituito le antiche fedi, ma funziona come una religione ed è la base di un nuovo nazionalismo, quello degli Stati Uniti e dell’Unione Europea». C’è chi pensa che tutto questo bellicismo ideologico sia dovuto a calcoli economici razionali da parte di cinici profittatori? «Io penso che questa interpretazione sia troppo ottimista e che ignori, per citare nuovamente Russell, “l’oceano dell’umana follia sul quale la fragile barca della ragione umana naviga precariamente”. Le guerre sono state fatte per ogni tipo di ragioni non economiche, come la religione o la vendetta, o semplicemente per ostentare potere». Attenzione: «Se i cittadini occidentali non riescono a mobilitarsi contro i propri governi e mezzi di comunicazione per fermare l’attuale follia, starà ad altri paesi svolgere questo compito. C’è da sperare che possano riuscirvi, senza aggiungere un ulteriore capitolo sanguinoso alla storia che è iniziata con la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese».«Ci sono almeno due cose più facili da iniziare che da finire: un amore e una guerra». Nessuno di coloro che parteciparono alla Prima Guerra Mondiale si aspettava che durasse così a lungo o che avesse le conseguenze che ha avuto, ricorda il professor Jean Bricmont dell’università belga di Louvain, autore del saggio “Humanitarian Imperialism”. Tutti gli imperi che hanno partecipato alla Grande Guerra sono stati distrutti, inclusi quello britannico e quello francese. «E non è tutto: una guerra conduce a un’altra guerra». Per il filosofo inglese Bertrand Russell, la volontà delle monarchie europee di schiacciare la Rivoluzione Francese portò come esito a Napoleone, ma poi le guerre napoleoniche produssero il nazionalismo germanico, che a sua volta condusse a Bismarck, alla sconfitta francese di Sédan e all’annessione dell’Alsazia-Lorena. Tutto questo diede forza al revanscismo francese che portò, dopo la Prima Guerra Mondiale, al Trattato di Versailles, la cui iniquità diede un forte impulso al nazismo di Hitler.
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Hathor Pentalpha e Isis, il romanzo criminale che ci attende
Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”. Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo. Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.Si tratta di massoni speciali, potentissimi, interconnessi fra loro nel super-network segreto delle Ur-Lodges. Uomini del massimo potere, abituati da sempre a influire nelle grandi decisioni geopolitiche, condizionando istituzioni che – in Occidente, a partire dagli Usa – vengono considerate esse stesse una sorta di emanazione massonica: senza il secolare impegno laico della “libera muratoria” europea nella lotta contro l’oscurantismo vaticano e l’assolutismo monarchico, non avremmo avuto gli Stati moderni, la scienza moderna, la cultura moderna. Erano massoni i maggiori scienziati – da Newton a Einstein – così come i maggiori letterati e musicisti. Massoni anche i padri fondatori degli Stati Uniti. Massone l’americano Roosevelt, spettacolare campione della spesa pubblica vocata allo sviluppo della piena occupazione, secondo il credo del più grande economista del ‘900, il massone inglese John Maynard Keynes, su cui si basa tutta la sinistra europea marxista e post-marxista che ha messo in piedi il grandioso sistema di protezione sociale del welfare, fondato sulla sovranità democratica e monetaria per mitigare gli appetiti antisociali del “libero mercato”.La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, promossa dalla “libera muratrice” Eleanor Roosevelt alle Nazioni Unite, l’assemblea planetaria eretta sulle rovine della Seconda Guerra Mondiale, prefigura un’umanità redenta, liberata, globalizzata nei diritti e nelle aspirazioni al futuro. Esattamente il contrario dell’attuale globalizzazione neo-schiavistica, aristocratica, mercantilista, neo-feudale. Un disegno cinico e reazionario, oggi chiamato semplicemente “crisi”, sviluppato negli anni ‘70 dai ristrettissimi circoli elitari internazionali preoccupati dall’avanzata del loro grande nemico: la democrazia. Da qui il famigerato memorandum di Lewis Powell per stroncare la sinistra in tutto l’Occidente e il manifesto “La crisi della democrazia” promosso dalla Commissione Trilaterale sempre con lo stesso obiettivo: collocare i propri uomini (Thatcher, Reagan, Kohl, Mitterrand) alla guida dei paesi-chiave, per occupare lo Stato e traviarlo, in modo che non servisse più l’interesse pubblico, ma obbedisse ai diktat delle grandi lobby, l’industria delle armi, le grandi multinazionali invadenti e totalitarie.Una storia già raccontata? Sì, anche, da diversi analisti “eretici”. Ma mai, finora, dallo sconcertante punto di osservazione del massone Magaldi, che fornisce dettagli inediti e spiegazioni spiazzanti, partendo da una rivelazione capitale: tutti gli uomini del massimo potere, nel ‘900, sono sempre stati accomunati dall’iniziazione esoterica. Questo fa di loro gli esponenti privilegiati di un circuito cosmopolita autoreferenziale e invisibile, protetto, ma al tempo stesso profondamente dialettico, non sempre concorde. Anzi, proprio alla guerra sotterranea che ha dilaniato il “terzo livello” del super-potere è dedicata la straordinaria contro-lettura di Magaldi: che nel golpe in Cile, ad esempio, non vede solo il noto complotto delle multinazionali americane per colpire il governo socialista, pericolosamente amico dei lavoratori e dei loro salari, ma anche – e soprattutto, in questo caso – il ruolo decisivo del massone Kissinger nel colpo di Stato promosso dalla Cia contro il massone Allende, come monito all’intera America Latina, da ridurre a periferia coloniale, e anche alla stessa Europa, dove le stesse “menti raffinatissime” hanno organizzato il “golpe dei colonnelli” in Grecia e i tre tentativi di colpo di Stato in Italia, affidati a Borghese e Sogno ma supervisionati da Licio Gelli, emissario della potentissima superloggia “Three Eyes”, quella di Kissinger.Sul fronte opposto, si è mossa nell’ombra la “fratellanza bianca” delle superlogge progressiste, per tentare di rintuzzare i colpi dei “grembiulini” oligarchici. Come in un romanzo di Dan Brown, in un film di Harry Potter? Non a caso, sostiene Magaldi: proprio nel cinema e nella letteratura, negli ultimi anni, si è concentrata l’azione delle Ur-Lodges democratiche, in attesa di una grande riscossa – pace contro guerra, diritti contro privilegi – di cui lo stesso libro del “gran maestro” del Grande Oriente Democratico, affiliato alla superloggia progressista “Thomas Paine”, è parte integrante. Per credere a Magaldi, all’inizio della lettura, occorre accettare di indossare i suoi occhiali. Poi, però, già dopo poche pagine, diventa impossibile togliergli: quelli che aggiunge, infatti, sono preziosi tasselli che spiegano ancor meglio i passaggi-chiave della storia del “secolo breve”, senza mai discostarsi dalla verità accertata, dalla storiografia corrente. Solo (si fa per dire) Magaldi aggiunge nomi e cognomi. Completa la storia che già conosciamo integrandola con indizi inequivocabili, che illuminano retroscena finora rimasti in ombra.I riflessi della “grande guerra” che Magaldi racconta li stiamo pagando oggi: la crescita delle masse in Occidente è finita, e il mondo è sull’orlo della Terza Guerra Mondiale. Tutto è cominciato alla fine degli anni ‘60, prima con la morte di Giovanni XXIII e John Fitzgerald Kennedy, poi con il doppio omicidio di Bob Kennedy e Martin Luther King, che le Ur-Lodges progressiste volevano entrambi alla Casa Bianca. Nessuno si stupisca, dice Magaldi, se da allora la sinistra è stata sconfitta in modo sistematico: hanno vinto “loro”, i padreterni neo-feudali che volevano confiscare i diritti democratici e le garanzie del lavoro, retrocedendo i cittadini occidentali al rango di sudditi impauriti dal futuro e assediati dal bisogno. Sempre “loro”, gli egemoni, si sarebbero persino abbandonati a un clamoroso regolamento di conti: il clan che voleva George Bush alla Casa Bianca avrebbe fatto sparare a Reagan, e i sostenitori occulti di Reagan, per rappresaglia, di lì a poco avrebbero promosso l’attentato simmetrico a Wojtyla, eletto Papa anche col sostegno occulto degli amici di Bush.Poi, su tutto, è calato l’ambiguo sudario della pax massonica, suggellato nello storico patto “United Freemasons for Globalization”, sottoscritto nel 1981 non solo dalle superlogge occidentali di destra e di sinistra, ma anche dai “confratelli” sovietici alla vigilia della Perestrojka di Gorbaciov e dagli stessi cinesi, in vista delle grandiose riforme del “fratello” Deng Xiaoping. Peccato che però qualcuno abbia “esagerato”, riconosce il super-massone oligarchico che si firma “Frater Kronos”, nella sconcertante appendice del libro di Magaldi, in cui quattro pesi massimi delle Ur-Lodges si confrontano sulla trattazione, dopo aver aiutato il massone italiano a mettere in piazza tanti segreti di famiglia. “Frater Kronos”, su cui si lesinano le informazioni personali per mascherarne l’identità, dimostra l’autorevolezza del grande vecchio del potere occidentale. «No, non sono il fratello Kissinger», scherza, quasi a suggerire che potrebbe trattarsi di un pari grado, del calibro di Zbigniew Brzezinski. Anche “Frater Kronos” – chiunque egli sia in realtà – conferma l’allarme: qualcosa è andato storto, qualcuno è andato oltre il perimetro concordato. Un nome su tutti: quello del “fratello” George Bush senior, che sarebbe “impazzito di rabbia” dopo la bruciante sconfitta inflittagli dai sostenitori di Reagan. Da allora, ancor prima di diventare a sua volta presidente, Bush avrebbe dato vita a una superloggia definita inquietante, pericolosa e sanguinaria, denominata “Athor Pentalpha”, che avrebbe reclutato il gotha neocon del Pnac, il piano per il Nuovo Secolo Americano, da Cheney a Rumsfeld, nonché fondamentali alleati europei, da Blair a Sarkozy. Missione del clan: destabilizzare il pianeta, anche col terrorismo, a partire dall’11 Settembre.Per questa missione, si legge nel libro di Magaldi, è stato riciclato il “fratello” Osama Bin Laden, arruolato dallo stesso Brzezinski ai tempi dell’invasione sovietica in Afghanistan. Risultato, dopo l’attentato alle Torri: una serie di guerre, in sequenza, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, anche dietro lo schermo della “primavera araba”. Il nuovo bersaglio è la Russia di Putin? C’è una precisa geopolitica del caos: e i golpisti occidentali puntano sempre sulla loro creatura più grottesca, il fondamentalismo islamico. Ci stanno lavorando dal lontano 2009, quando i militari americani del centro iracheno di detenzione di Camp Bucca si videro recapitare l’ordine di rilascio dell’allora oscuro Abu Bakr Al-Baghdadi, l’attuale “califfo” dell’Isis. Regista dell’operazione? Sempre loro: la famiglia Bush. Per la precisione il fratello di George Walker, Jeb Bush, che vorrebbe fare di Al-Baghdadi il nuovo Bin Laden, da spendere per le presidenziali 2016. Dietrologia? Anche qui, “Massoni” fornisce chiavi inedite, partendo dall’attitudine esoterica degli iniziati: Isis non è solo il nome dell’orda terroristica messa in piedi da segmenti della Cia, è anche quello della divinità egizia Iside, vedova di Osiride, carissima ai massoni che si definiscono anche “figli della vedova”. In alcuni testi antichi, Isis è chiamata anche con un altro nome, Athor. Proprio come la superloggia di Bush e Blair. Il Medio Oriente sta bruciando, è tornato lo spettacolo dell’orrore dei tagliatori di teste. “Frater Kronos” è preoccupato, il 2015 comincia male. Sicuri che non sia il caso di indossarli ancora, gli occhiali di Gioele Magaldi?(Il libro: Gioele Magaldi, “Massoni. Società a responsabilità illimitata. La scoperta delle Ur-Lodges”, Chiarelettere, 656 pagine, 19 euro).Globalizzazione violenta, a mano armata. Un progetto criminale, deviato, spietato. Coltivato e attuato da criminali. Attorno a loro, una corte di politici, capi di Stato, economisti, giornalisti. Tutti a ripetere la canzoncina bugiarda del neoliberismo: lo Stato non conta più, è roba vecchia, a regolare il mondo basta e avanza il “libero mercato”. Peccato che il paradiso golpista dell’élite non possa prescindere dallo Stato, l’ingombrante monopolista della moneta e delle tasse. Lo Stato va quindi conquistato, occupato militarmente per via elettorale. Deve capitolare, rinnegare la sua funzione storica, servire le multinazionali e non più i cittadini, che devono semplicemente ridiventare sudditi, pagare sempre più tasse, veder sparire i diritti conquistati in due secoli, elemosinare un lavoro precario e sottopagato. Le menti del commissariamento mondiale sono state chiamate oligarchia, impero, tecnocrati, destra economica, finanza, banche, neo-capitalismo. Gioele Magaldi chiama costoro con un altro nome: “Massoni”, come il titolo del suo libro esplosivo. E mette sul piatto 650 pagine di rivelazioni, che stanno scalando le classifiche editoriali nell’assordante silenzio dei media mainstream.
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Il paradiso di Severgnini, questo falso Occidente criminale
È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).E poco importa se questi movimenti hanno storie e radici socioculturali diverse nelle diverse situazioni, tanto ormai si può giocare sul luogo comune di un Islam radicale globalizzato e omologato che esiste solo nell’imaginario dei media del “mondo libero” (salvo poi dover fare i salti mortali come in Siria, dove il mostro Bashar al-Assad e i “terroristi” del Pkk curdo vengono ora considerati alleati nella lotta contro i super mostri dell’Isis). Subito dopo la “cleptocrazia” di Putin che tenta di “riesumare la Grande Russia” aggredendo l’Ucraina; e qui – a parte la faccia tosta di definire cleptocrazia il regime russo quando si è cittadini della nazione più corrotta del mondo, come hanno appena dimostrato gli scandali Mose, Expo e Roma Mafia – c’è una palese inversione della realtà storica, visto che ad assediare la Russia e a tentare di colonizzare i paesi ex comunisti dell’Est Europa è stato semmai, dopo il 1989, proprio il “mondo libero” occidentale.Infine l’eterno, ridicolo (per la sua irrilevanza geopolitica) bersaglio di Pyongyang, un regime da operetta che viene presentato come una terribile minaccia per la libertà, solo per avere orchestrato alcuni attacchi informatici contro la Sony, che ha prodotto un film satirico in cui si dileggia il regime nordcoreano (nel mondo libero non si censura: ci si limita a nascondere al pubblico la verità, come hanno dimostrato le rivelazioni di Assange e Snowden, i quali, per avere rovinato l’immacolata immagine dei campioni della libera informazione, sono ora costretti a vivere in esilio). Questi “nuovi Erode” possono farci paura, tuona Severgnini, ma non si illudano: essi non possono vincere; a vincere saremo noi, il mondo libero occidentale, e lo faremo con la forza delle idee e non con la violenza (peccato che sulla testa delle centinaia di migliaia di civili massacrati in Iraq e in Afghanistan, per tacere delle tante altre guerre combattute in nome della libertà, siano piovute bombe e non idee). Ma vediamo quali sono queste idee vincenti.Pace (abbiamo appena accennato ai virtuosi massacri spacciati per guerre umanitarie); benessere (la crisi iniziata nel 2008 ha svelato la realtà di un mondo in cui le disuguaglianze sono tornate ai livelli dell’800 e dove all’arricchimento smisurato di un pugno di esponenti dell’alta finanza corrisponde l’immiserimento di milioni di cittadini comuni); istruzione (vogliamo parlare dei costi di un’istruzione superiore che torna ad essere appannaggio di ristrette élite?); tolleranza (quella di un paese “libero” come gli Stati Uniti, dove migliaia di cittadini di colore disarmati vengono assassinati da poliziotti che non solo non rischiano di essere incriminati ma conservano anche il posto?), rispetto per le donne (anche se dietro la retorica del politically correct si nasconde la realtà di un lavoro femminile che continua a essere sottopagato, per tacere dei femminicidi perpetrati nelle normali famiglie borghesi).Che dire poi della presunta superiorità del mercato garante di libertà e democrazia: finché dovremo ancora ascoltare questa baggianata? È vero che è passato molto tempo da quando i regimi nazifascisti si sono dimostrati del tutto compatibili con il libero mercato, ma oggi, con la Cina totalitaria che si avvia a diventare la maggiore potenza capitalistica mondiale, siamo di fronte a una smentita ancora più clamorosa. Insomma, se questi sono i suoi “valori”, allora non solo è possibile che l’Occidente perda, ma si può dire che ha già perso, perché di quei valori non ne è rimasto in piedi nemmeno uno: a combattere i “nuovi Erode” non c’è Gesù, ma un vecchio Erode non meno feroce dei suoi nemici. Eppure, scrive Severgnini, i migranti rischiano ancora la vita in mare «per un pasto, un letto, un ospedale, una strada in cui non bisogna tremare di paura davanti a un poliziotto». Rischiano la vita perché a casa loro crepano di fame, ma qui, più che pasti, letti e ospedali, trovano squallidi ghetti assediati da folle razziste (do you remember Tor Sapienza?) e, se non subiscono passivamente qualsiasi angheria, o se sono “irregolari”, tremano eccome davanti a un poliziotto.Alla fine, quasi prevedendo le sarcastiche obiezioni avanzate in questo articolo, Severgnini le rintuzza con il solito refrain: «Eppure il mondo ci riconosce che, per adesso, non s’è inventato niente di meglio della democrazia e del mercato». È l’argomento con cui il pensiero unico neoliberista cerca di legittimare, sia pure con argomenti di basso profilo (“in fondo non abbiamo niente di meglio”), la propria egemonia culturale. Ed è proprio sul piano culturale, prima ancora che su quello politico, che occorre lavorare per smontarlo, come alcuni (non moltissimi purtroppo) cercano di fare. Uno di questi era Hosea Jaffe, un economista sudafricano morto qualche giorno fa in Italia, dove ha vissuto i suoi ultimi anni di vita. Marxista eretico (i marxisti ufficiali non gli perdonavano di avere rinfacciato alle sinistre occidentali la loro complicità con il colonialismo), iconoclasta fino ad accusare gli stessi Marx ed Engels di eurocentrismo non senza venature razziste, Jaffe è stato in prima fila nelle lotte contro diversi regimi coloniali e neocoloniali africani, e si è battuto perché partiti e sindacati occidentali riconoscessero che parte delle loro conquiste salariali e sociali erano finanziate dal supersfruttamento dei popoli del Terzo Mondo.Oggi le sue idee trovano una sia pure parziale applicazione nelle lotte di quei movimenti sudamericani, africani e asiatici che hanno cominciato a capire di doversi inventare un’alternativa globale al “mondo libero”. Possiamo solo sperare che lavorino abbastanza in fretta per impedire che la rabbia dei milioni di disperati esclusi dai nostri “paradisi” trovi rappresentanza solo da parte dei nuovi Erode di cui sopra. Senza dimenticare che quella rabbia inizia a montare anche qui e, in assenza di un’alternativa di sinistra credibile, rischia di imboccare la strada che aveva imboccato negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, una strada in fondo alla quale ci aspetterebbero orrori peggiori di quelli che oggi inquietano i sogni dei pacifici borghesi occidentali.(Carlo Formenti, “Severgnini e la vecchia retorica del mondo libero contro l’impero del male”, da “Micromega” del 22 dicembre 2014).È ancora possibile, a un quarto di secolo dalla caduta del Muro di Berlino, ridurre i conflitti che agitano il mondo globale a una contrapposizione bipolare fra “il mondo libero” (appellativo classicamente riferito – ça va sans dire – all’Occidente) e un “impero del male” che (venuto a mancare lo spettro del comunismo) viene ora identificato con un variegato schieramento di “mostri” cui si tenta di attribuire un’improbabile identità comune? Sembrerebbe un’azzardata operazione retrò, ma ciò non ha impedito a Beppe Severgnini di provarci sulle pagine del “Corriere della Sera”. Vediamo in primo luogo come Severgnini – emulo del Dottor Frankenstein – cerca di costruire la figura di un grande Nemico assemblando pezzi eterogenei di movimenti e Stati “canaglia” (“i nuovi Erode”). In cima alla lista, prevedibilmente, i movimenti integralisti islamici sparsi per il mondo (Iraq, Siria, Nigeria, Pakistan, stranamente manca l’Afghanistan).
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Stati Uniti e impuniti: eroina afghana, business record
Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della Nato. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato. Una notizia un po’ più inattesa è giunta l’anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l’attuale business dell’eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all’ago – come negli anni ‘80 – ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l’uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di “fumo” per favorire la confusione dei consumatori.Oggi un vero scoop sarebbe consistito nel registrare un decremento della produzione di droga in Afghanistan, ma si tratta di un’eventualità che al momento non avrebbe alcuna base realistica. Gli organi di stampa che hanno riportato la notizia hanno insistito sul dettaglio che il governo statunitense avrebbe speso 7,6 miliardi di dollari per contrastare la produzione ed il traffico di oppio, ma senza risultato. La cosa fa sorridere, dato che, da almeno cinque anni, neppure il diretto coinvolgimento della Nato nel business dell’oppio rappresenterebbe più uno scoop. Lo scorso anno qualche barlume di notizia a riguardo è trapelato anche sulla stampa ufficiale, ma riferendosi solo ai casi di soldati della Nato coinvolti nel traffico; casi, peraltro, tutti rigorosamente insabbiati, sia in Italia, che in Canada, che nel Regno Unito. La stampa ha fatto finta di credere che il coinvolgimento riguardasse soltanto dei militari di bassa forza o, al più, dei sottufficiali, oltre che i già ampiamente screditati “contractors”.Il massimo della critica che ci si è concesso è stato quello di fustigare il cinismo o l’ingenuità della Nato, la quale, pur di sconfiggere i cattivissimi Talebani, avrebbe “chiuso gli occhi” sui loschi traffici di personaggi legati al governo filo-occidentale di Karzai. Si tratta della solita fiaba ufficiale sugli “scomodi alleati” degli Usa. Se dalla carta stampata si passa alla “informazione” televisiva, le cose vanno addirittura peggio, poiché lì è obbligatorio far finta di credere che siano i malvagi Talebani ad autofinanziarsi con l’oppio, perciò persino accennare alla “giovane narcodemocrazia” afghana rappresenta ancora un tabù. Eppure si tratta di notizie ufficiali che si riscontrano sui siti delle organizzazioni internazionali. La Banca Mondiale ha recentemente dedicato un rapporto alla situazione in Afghanistan, osservando che il 90% della produzione mondiale di eroina proviene oggi da quel paese. La Banca Mondiale si lancia in solenni ammonimenti al governo afghano circa i rischi di “deragliamento” che la drug-economy potrebbe provocare ad un paese così faticosamente avviato verso la democrazia e lo sviluppo.Lo stesso carosello di ipocrisie lo si riscontra da parte dell’organizzazione gemella della Banca Mondiale, cioè il Fondo Monetario Internazionale. Più di dieci anni fa, addirittura nel 2003, il Fmi già ammoniva il governo afghano circa i rischi di trasformarsi in un narco-stato. La colpevolizzazione anche allora era tutta per il paese colonizzato, mentre non si accennava alle responsabilità dell’occupante Usa-Nato, il quale, se “sbaglia”, lo farebbe solo per troppa bontà. Del resto il Fmi e la Nato sono praticamente la stessa cosa. Quindi si può riscontrare una pseudo-informazione a doppio livello: uno per le masse, le quali devono credere che i Talebani, oltre che fanatici, siano anche narcotrafficanti, e un altro livello per i “cittadini più informati”, ai quali è concesso di sapere che il governo Karzai è coinvolto nel traffico, e per questo ogni tanto è costretto a beccarsi una reprimenda dagli organismi internazionali. Paradossalmente, il maggior grado di infantilizzazione tocca proprio ai “cittadini più informati”, ai quali spetta di credere che il “troppo buono” papà statunitense spenda 7,6 miliardi per redimere dalla droga il figlioletto discolo, ma che questi continua a deluderlo.La realtà è invece che come narcostato e narcodemocrazia, l’Afghanistan di Karzai ha ancora parecchio da imparare dai Narcostati Uniti d’America. Ma legioni di giornalisti e di intellettuali si incaricano di narrare alle masse la storia inversa, secondo la quale i guai del mondo deriverebbero dal parassitismo e dall’indisciplina dei poveri, ritratti come sempre pronti ad estorcere favori da governi troppo generosi e premurosi. L’impunità che gli Usa e la Nato possono ostentare nella vicenda della droga afghana, è davvero totale; nel senso che, grazie all’armatura propagandistica del “troppobuonismo”, riescono a sfuggire persino a sanzioni puramente morali. L’impunità viene addirittura percepita da gran parte dell’opinione pubblica come garanzia di moralità, perciò non vi è nulla di strano nel fatto che agli Usa si riconosca tranquillamente un ruolo internazionale di giudice e di censore nei confronti di altri Stati; cosa che consente agli Usa ogni genere di provocazione e di doppio gioco. Infatti, mentre l’amministrazione Obama dichiara di essere in guerra contro l’Isis, in realtà sta ancora cercando di colpire e isolare la Siria di Assad con insistenti accuse per il presunto uso di armi chimiche.(“I Narcostati Uniti d’America”, da “Comidad” del 30 ottobre 2014).Pochi giorni fa è arrivata la notizia di un ennesimo record della produzione di oppio in Afghanistan. Non è una sorpresa, dato che dal 2002 ogni anno ha segnato un ulteriore incremento della produzione di papavero da oppio in quel paese, casualmente dopo la sua occupazione da parte della Nato. In base ai dati ufficiali, si tratterebbe di un incremento sia in quanto a raccolto che a terreno coltivato. Una notizia un po’ più inattesa è giunta l’anno scorso, quando sono stati pubblicati i dati sulla produzione di cannabis in Afghanistan. Manco a dirlo, anche nella produzione di cannabis si è registrato il solito record. Il dato sulla cannabis è coerente con l’attuale business dell’eroina afghana, che è economica ed abbondante, e quindi destinata non all’ago – come negli anni ‘80 – ma al fumo, per poter conquistare sempre nuovi consumatori. Anche se non esiste alcuna prova scientifica che l’uso di cannabis in se stesso predisponga al consumo di droghe più pesanti, è però frequente che nello spaccio si offrano contemporaneamente vari tipi di “fumo” per favorire la confusione dei consumatori.
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Israele, guerra e Pil: e i palestinesi diventano schiavi inutili
Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.A sdoganare un linguaggio più che esplicito sono alcuni esponenti dell’establishment di Tel Aviv, come la parlamentare Ayelet Shaked, quella che durante l’ultimo assedio di Gaza esortò a colpire «tutto il popolo palestinese, inclusi gli anziani e le donne, le loro città e i loro villaggi, i loro beni e infrattutture». Anche le donne, colpevoli di allevare «serpenti». Su “The Times of Israel”, Yonahan Gordan spiega «quando si approva un genocidio», e argomenta: «Che altro modo c’è allora per affrontare un nemico di questa natura che non sia lo sterminio completo?». Il vicepresidente del Parlamento israeliano, Moshe Feiglin, membro del partito Likud di Netanyahu, sollecita l’esercito israeliano a uccidere indiscriminatamente i palestinesi di Gaza e a utilizzare ogni possibile mezzo per farli andar via: «Il Sinai non è lontano da Gaza e possono andarsene, questo sarà il limite dello sforzo umanitario di Israele». Questi appelli alla pulizia etnica e al genocidio stanno crescendo di frequenza, scrive Robinson nella sua analisi, ripresa da “Come Don Chisciotte”.Il clima politico in Israele ha continuato a spostarsi a destra: «Quasi la metà della popolazione ebrea di Israele appoggia una politica di pulizia etnica dei palestinesi», scrive Robinson. Secondo un sondaggio del 2012, «la maggioranza della popolazione appoggia la completa annessione dei Territori Occupati e l’istituzione di uno stato di apartheid». Il timore di una crescita del fascismo in Israele ha portato 327 sopravissuti, discendenti di sopravissuti e vittime del genocidio ebreo perpetrato dai nazisti, a pubblicare una lettera aperta sul “New York Times” del 25 agosto che esprimeva allarme per «la estrema disumanizzazione razzista dei palestinesi nella società israeliana, che ha raggiunto un picco febbrile». La carta continuava: «Dobbiamo alzare la nostra voce collettiva e usare il nostro potere collettivo per porre fine a tutte le forme di razzismo, incluso il genocidio in corso del popolo palestinese». Il problema, aggiunge Robinson, è che lo stesso progetto sionista può essere letto come basato sul genocidio della pulizia etnica: testualmente, l’articolo 2 della convenzione dell’Onu del 1948 definisce il genocidio come “azioni commesse con l’intenzione di distruggere totalmente o parzialmente un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”.La drammatica escalation degli ultimi anni, rivela Robinson, ha origini economiche: è la globalizzazione a rendere ormai “superflui” i lavoratori palestinesi, ridotti allo status di “umanità eccedente”. «La rapida globalizzazione di Israele a partire dalla fine degli anni ‘80 coincise con le due Intifada (proteste) palestinesi e con gli accordi di Oslo, negoziati dal 1991 al ‘93 e che naufragarono negli anni seguenti». A premere per gli accordi di pace, i poteri forti finanziari: i focolai geopolitici della guerra fredda avevano ostacolato l’accumulazione di capitali e occorreva “stabilizzare” il Medio Oriente. «Il processo di Oslo – spiega Robinson – si può vedere come un pezzo chiave nel puzzle politico provocato dall’integrazione del Medio Oriente nel sistema capitalista globale emergente», il contesto nel quale poi si inserirà la stessa “primavera araba”. Gli accordi di Oslo, naturalmente, rimasero lettera morta: avevano promesso ai palestinesi una soluzione definitiva entro 5 anni, con uno statuto per i rifugiati e il loro diritto al ritorno in Palestina, una definizione delle frontiere e della gestione dell’acqua, nonché la ritirata di Israele dai Territori Occupati. Durante il periodo di Oslo, cioè tra il 1991 e il 2003, «l’occupazione israeliana della Cisgiordania e Gaza si intensificò smisuratamente».Perché fallì il processo di pace? Prima di tutto, perché «non era destinato a risolvere la difficile situazione dei palestinesi espropriati, ma a integrare una dirigenza emergente palestinese nel nuovo ordine mondiale e a dare a questa dirigenza una partecipazione nella difesa di quest’ordine, in modo che assumesse un ruolo nella vigilanza interna delle masse palestinesi nei Territori Occupati». C’è anche un profilo finanziario: l’Anp creata a Oslo doveva servire a integrare il capitale palestinese con quello dell’area del Golfo. E si sperava che l’Anp «servisse per mediare nell’accumulazione di capitali transnazionali nei Territori Occupati, mantenendo il controllo sociale sulla popolazione inquieta». Nel frattempo, la nuova economia israeliana – il complesso militare e di sicurezza, altamente tecnologico – si andava integrando col capitale corporativo transnazionale di Usa, Europa e Asia, proiettando l’economia israeliana anche nelle reti economiche regionali (Egitto, Turchia e Giordania). Infine, in quel periodo Israele «visse un episodio di grande immigrazione transnazionale, tra cui l’afflusso di circa un milione di immigrati ebrei, che indebolì la necessità di Israele di manodopera palestinese durante gli anni ‘90».«Fino a che la globalizzazione non prese vita, verso la metà degli anni ‘80, la relazione di Israele coi palestinesi rifletteva il classico colonialismo, nel quale il potere coloniale aveva usurpato la terra e le risorse dei colonizzati per poi farli lavorare, sfruttandoli», scrive il professor Robinson. «Però l’integrazione del Medio Oriente nell’economia globale e la società basata sulla ristrutturazione economica neoliberale, inclusa la ben conosciuta litania di misure quali la privatizzazione, la liberalizzazione del commercio, la supervisione del Fondo Monetario Internazionale sull’austerità e i prestiti della Banca Mondiale, aiutò a provocare la propagazione di pressioni da parte delle masse di lavoratori e dei movimenti sociali e la democratizzazione delle basi, che si riflette nelle Intifada palestinesi, il movimento operaio attraverso il Nordafrica e il malessere sociale, che si resero più visibili nelle rivolte arabe del 2011. Questa onda di resistenza forzò una reazione da parte dei governanti israeliani e dei loro alleati statunitensi».Integrandosi nel capitalismo globale, continua Robinson, l’economia israeliana visse due grandi ondate di ristrutturazione. La prima, negli anni ‘80 e ‘90, fu una transizione dall’economia tradizionale (agricoltura e industria) verso un nuovo modello basato sull’informatica: Tel Aviv e Haifa divennero le Silicon Valley del Medio Oriente, e nel 2000 il 15% del Pil di Israele e il 50% dell’export avevano origine dal settore dell’alta tecnologia. «Poi, dal 2001 in poi, e soprattutto sulla scia del disastro delle dot-com del 2000, che coinvolse imprese che commerciavano in Internet, e della recessione a livello globale, secondariamente per gli accadimenti del 11 Settembre 2001 e la rapida militarizzazione della politica mondiale, si produsse in Israele un altro spasmo volto a supportare un “complesso globale di tecnologie militari, di sicurezza, di spionaggio e di vigilanza contro il terrorismo”». Israele è divenuto la patria di imprese tecnologiche, pioniere della cosiddetta “industria della sicurezza”. «Di fatto, l’economia di Israele si è globalizzata specificamente attraverso l’alta tecnologia militare: gli istituti di esportazione israeliani stimano che nel 2007 c’erano circa 350 imprese transnazionali israeliane dedite ai sistemi di sicurezza, di spionaggio e controllo sociale, che si situarono nel centro della nuova politica economica israeliana».Le esportazioni israeliane di prodotti e servizi collegati alla “lotta al terrorismo” aumentarono del 15% nel 2006 e si prevedeva che sarebbero cresciute del 20% nel 2007, per un valore di 1,2 miliardi di dollari all’anno, secondo Naomi Klein. Questa crescita esplosiva «fa di Israele il quarto trafficante d’armi del mondo, davanti al Regno Unito». Numeri: Israele ha più azioni tecnologiche quotate al Nasdaq (molte collegate all’industria della sicurezza) che ogni altro paese straniero, e ha più brevetti hi-tech registrati negli Usa di quanti ne abbiano Cina e India messe insieme. Oggi, il 60% delle esportazioni israeliane è collegato alla tecnologia, specie nell’industria della sicurezza. In altre parole, sintetizza Robinson, «l’economia israeliana si è alimentata della violenza locale, regionale e mondiale, dei conflitti e delle disuguaglianze». Le sue principali imprese? «Hanno finito per dipendere dal conflitto». La guerra in Palestina, nel Medio Oriente e in tutto il mondo, è ormai un business che influenza l’intero sistema politico dello Stato israeliano.«Questa accumulazione militare è caratteristica anche degli Usa e di tutta l’economia mondiale globalizzata», annotra Robinson. «Viviamo sempre più in un’economia da guerra mondiale e certi stati, come Usa e Israele, sono ingranaggi chiave di questa macchina. L’accumulazione militarista per controllare e contenere gli oppressi e gli emarginati e per sostenere l’accumulazione nella crisi si prestano a tendenze politiche fasciste o a quello che noi abbiamo definito “il fascismo del XXI secolo”». Questo cambia (in peggio) la sorte della popolazione palestinese, che fino agli anni ‘90 era «una forza lavoro a basso costo per Israele». E’ stata soppiantata innanzitutto dal milione di nuovi arrivi dall’Est Europa, dopo il collasso dell’Urss, che hanno incrementato gli insediamenti coloniali: ebrei sovietici, a loro volta «resi profughi dalla ristrutturazione neoliberale post-sovietica». In più, l’economia israeliana cominciò ad attirare manodopera dall’Africa e dall’Asia, «dato che il neoliberismo produsse crisi con milioni di profughi dalle vecchie regioni del Terzo Mondo».Insieme alla recessione, la nuova mobilità lavorativa transnazionale ha permesso all’élite finanziaria mondiale «la riorganizzazione dei mercati del lavoro e il reclutamento di forze lavoro transitorie, private dei loro diritti e facili da controllare». Un’opzione «particolarmente attraente per Israele, dato che elimina la necessità di manodopera palestinese politicamente problematica». Oltre 300.000 lavoratori immigrati – provenienti da Thailandia, Cina, Nepal e Sri Lanka – ora costituiscono la forza lavoro predominante nell’agroalimentare di Israele, così come la manodopera messicana e centroamericana lo è nell’agroalimentare statunitense, nella stessa condizione precaria di super-sfruttamento e discriminazione. «Il razzismo che molti israeliani hanno mostrato nei confronti dei palestinesi (esso stesso prodotto del sistema di relazioni coloniale) ora si è tramutato in una crescente ostilità verso gli immigrati in generale», osserva Robison, «man mano che il paese si tramuta in una società totalmente razzista».E dato che l’immigrazione globale ha eliminato la necessità di Israele di avere manodopera a basso costo palestinese, quest’ultima si è convertita in una popolazione marginale eccedente. «Prima dell’arrivo dei rifugiati sovietici – scrive Naomi Klein – Israele non poteva neanche per un momento prescindere dalla popolazione palestinese di Gaza o della Cisgiordania; la sua economia non avrebbe potuto sopravvivere senza la mano d’opera palestinese». All’epoca, «circa 130.000 palestinesi abbandonavano le loro case a Gaza e in Cisgiordania ogni giorno e andavano in Israele per pulire le vie e costruire le strade, mentre gli agricoltori e i commercianti palestinesi riempivano camion di mercanzia e le vendevano in Israele e in altre parti dei Territori». Poi, in vista della grande trasformazione strutturale dell’economia israeliana, già nel ‘93 – anno della firma degli accordi Oslo – Tel Aviv inaugurò la politica di chiusura: palestinesi confinati dei Territori Occupati, pulizia etnica e forte aumento degli insediamenti ebraici. Istantaneo il crollo del reddito palestinese, di almeno il 30%, fino al bilancio del 2007, con disoccupazione e povertà al 70%.«Dal ‘93 al 2000, che si pensava dovessero essere gli anni nei quali veniva realizzato l’accordo di “pace” che esigeva la fine dell’occupazione israeliana e lo stabilirsi di uno Stato palestinese – scrive Robinson – i coloni israeliani in Cisgiordania raddoppiarono, arrivando a 400.000, poi a 500.000 nel 2009 e continuarono aumentando. La denutrizione a Gaza è agli stessi livelli di alcune delle nazioni più povere del mondo, con più della metà delle famiglie palestinesi che assumono un solo pasto al giorno. Mano a mano che i palestinesi venivano espulsi dall’economia di Israele, le politiche di chiusura e l’incremento dell’occupazione distrussero a loro volta l’economia palestinese». Il collasso degli accordi di Oslo, insieme a quella che Robinson chiama «la farsa delle negoziazioni di “pace” in corso, nel mezzo di un’occupazione israeliana sempre maggiore», può rappresentare un dilemma politico per i poteri forti transnazionali, che oggi vorrebbero «trovare meccanismi per lo sviluppo e l’assoggettamento dei ricchi palestinesi e dei gruppi capitalisti».In base alla logica perversa dell’élite, quella «del capitale militarizzato, incrostato nell’economia israeliana e internazionale», l’attuale situazione è eccellente: «E’ un’opportunità d’oro per espandere l’accumulazione di capitale per lo sviluppo e la commercializzazione di armi e di sistemi di sicurezza in tutto il mondo, attraverso l’uso dell’occupazione e della popolazione palestinese in cattività come obiettivi d’attacco e prova sul terreno». E’ questa élite affaristica e tecnologico-militare a condizionare oggi la politica di Israele. «La rapida espansione economica per l’alta tecnologia della sicurezza creò un forte desiderio nei settori ricchi e potenti di Israele di abbandonare la pace a favore di una lotta per la continua espansione della “guerra al terrore”», ricorda la Klein. Comodissimo, quindi, il conflitto coi palestinesi: non già come «battaglia contro un movimento nazionalista con mete specifiche al riguardo della terra e dei diritti», ma come «parte della guerra globale al terrorismo, come se fosse una guerra contro forze fanatiche e illogiche basate esclusivamente su obiettivi di distruzione».Israele sa che la pace non rende, scrisse su “Haaretz” nel 2009 Amira Hass, una delle poche voci critiche coraggiose nei media israeliani. L’industria della sicurezza? Fondamentale, per l’export: armi e munizioni si provano tutti i giorni a Gaza e in Cisgiordania. La protezione degli insediamenti? «Richiede uno sviluppo costante della sicurezza, la vigilanza e la dissuasione con strumenti come barriere, fili spinati, videocamere di vigilanza elettroniche e robot». Questi dispositivi «sono l’avanguardia della sicurezza nel mondo sviluppato e servono per le banche, le imprese e i quartieri di lusso a lato dei quartieri malfamati e delle enclavi etniche dove bisogna reprimere le ribellioni». Oggi, i palestinesi “rendono” ancora in un solo modo: come cavie, come bersagli. E se “la pace non rende”, si può immaginare chi investa sulla guerra, il grande business dell’Occidente sfinito dalla crisi e dominato dall’oligarchia globalista, di cui fa parte pienamente anche l’élite israeliana. Quella che ha strappato ai palestinesi le loro terra, ne ha fatto strage (pulizia etnica), ha sfruttato a lungo i superstiti, ma ora li considera “umanità eccedente”, sgradevole, da eliminare in ogni modo. Non c’è più posto, per loro: si accomodino pure sul Sinai, nel deserto.Come mai prima d’ora, i palestinesi rischiano di essere cancellati dall’anagrafe dell’umanità: Israele, che li sottopone a uno spietato regime di apartheid, non fa nulla per impedire che si faccia strada la “soluzione finale” del genocidio, di cui Gaza sta già facendo esperienza. Lo sostiene il professor William Robinson, sociologo dell’università californiana di Santa Barbara, in un’analisi presentata su “Truth-Out” in cui delinea il fondamento economico della persecuzione: se fino a ieri la manodopera palestinese sfruttata poteva ancora servire, specie in Cisgiordania, oggi la nuova struttura socio-economica dello Stato sionista ne fa volentieri a meno, data l’evoluzione della fisionomia produttiva israeliana nel sistema mondiale globalizzato, in settori chiave come quello degli armamenti. Questo spiega il sistematico fallimento di tutti i negoziati di pace e la drammatica accelerazione terroristica nei confronti della popolazione di Gaza, che solo nell’estate scorsa ha provocato 2.000 morti, 11.000 feriti e centomila senzatetto. I palestinesi non “servono” più, nemmeno come schiavi. Possono solo scegliere se andarsene o restare a farsi massacrare.
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German Act, agonia europea imposta dalle banche tedesche
Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.Negli ultimi mesi ad esser cambiata è la Cgil. In diversi frangenti non ha contrastato i nefasti provvedimenti avanzati dai governi, come nel caso della riforma pensionistica. Ha accettato supinamente leggi micidiali e lo smantellamento del nostro welfare. Sul Jobs Act è stata incisiva mettendo in piedi una dura resistenza. E le divergenze tra Cgil e Fiom – che invece ha sempre mantenuto la barra dritta – ora sono minori, questo va salutato positivamente. Dagli anni ’90 i socialisti europei e le differenti branche della socialdemocrazia hanno abdicato e sono stati contagiati dall’ideologia neoliberale, abbracciando così l’idea dei mercati da anteporre alla democrazia, alla finanza che disciplina i governi. In questo quadro, le affermazioni del premier sono vuote, alle invettive non corrispondono i fatti: il Jobs Act e la Legge di Stabilità ne sono la palese prova. Persiste l’ortodossa ubbidienza ai diktat dell’Europa, Renzi non è altro che un fedele esecutore della Troika. Siamo lontani dal contrastare le politiche imposte da Bruxelles.La sinistra italiana come espressione di massa di fatto non esiste più. Sono rimaste delle schegge, anche interessanti, ma politicamente ininfluenti soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione e un’opposizione solida in Parlamento. In Europa, “Podemos” e Syriza rappresentano segnali importanti, iniziano ad avere una valenza di massa. In generale, le recenti elezioni hanno confermato quasi ovunque governi di destra o, ad essere gentili, di centrodestra. Ciò significa che la maggioranza degli elettori dell’Eurozona preferisce lo status quo, purtroppo. La Germania ha rivotato in massa la cancelliera Angela Merkel e il ministro Wolfgang Schäuble malgrado le politiche restrittive e del rigore.La sinistra in Italia? Il futuro non è prevedibile, bisogna costruirlo. E di certo nel paese esistono milioni di persone mosse da ideali e sensibilità di sinistra, alla ricerca di una nuova modalità di aggregazione. Le varie schegge esistenti dovrebbero riformularsi, diventare un’unica forza per poter così rappresentare una reale alternativa. Ma c’è molta strada da percorrere, molta. Nell’euro ci siamo, consci che ci sono gravissimi problemi che andrebbero analizzati e discussi, mentre Bruxelles e in primis la Germania lo vietano in maniera categorica. Il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles forse è andato oltre anche a quel che era previsto a Maastricht. Viviamo in un’Europa delle diseguaglianze, che necessita di alcuni urgenti interventi. Al momento non sembra ci siano le condizioni: la Commissione non vuole modificare la propria linea economica, con Juncker sostenuto convintamente dalla Germania. L’euro sarà destinato a propagare guai ancora per molto tempo e l’emissione in Italia di Certificati di Credito Fiscale (Ccf) potrebbe mitigare i disastri della moneta unica.Pablo Iglesias, leader di Podemos, parla esplicitamente di una Spagna “colonia della Germania”? Il termine colonia è un po’ forte. Però di fatto le politiche che stanno strangolando i paesi con tagli alla spesa pubblica, con l’ossessione dell’avanzo primario – quindi tartassare sempre maggiormente i cittadini e nello stesso momento diminuire servizi – sono procedimenti suicidi e insensati. E molte di queste imposizioni sono volute dalla Germania. Dietro alla durezza del governo tedesco ci sono le banche tedesche che si erano esposte con l’acquisto di titoli internazionali. La Germania ha pensato di salvare le proprie banche. Forse non siamo una colonia, di certo soggetti ad una forma di imposizione esterna. Come noi anche gli altri paesi dell’Europa del Sud, e anche la Francia: è sempre la seconda economia dell’Eurozona e ha legami storici con la Germania dai tempi di Mitterrand, ma ha subito forti pressioni ed è stata costretta a tagliare salari, pensioni e sanità. Lo stesso governo tedesco ha introdotto nel proprio paese le misure d’austerity, a partire dall’agenda 2010 del 2003, arrivando alla creazione del settore dei lavoratori poveri più ampio d’Europa: 15 milioni di persone che guadagnano meno di 6 euro l’ora oppure occupati 15 ore alla settimana per 450 euro al mese. E 15 milioni è circa un quarto della forza lavoro tedesca.(Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Il Jobs Act, una pericolosa riforma di destra”, pubblicata da “Micromega” il 2 dicembre 2014).Nel Jobs Act non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. E’ una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse della metà anni ’90. Inoltre si tratta di una legge delega, un grosso contenitore semivuoto che sarà riempito nei prossimi mesi o chissà quando. Non mi sembra un provvedimento che arginerà la piaga della precarietà né che rilancerà l’occupazione nel paese. Il Jobs Act potrebbe tranquillamente esser stato scritto da un ministro di un passato governo Berlusconi. Non a caso Maurizio Sacconi è uno dei politici più entusiasti. Renzi continua nel solco di politiche di destra impostate sul taglio ai diritti sul lavoro, sulla compressione salariale e sulla possibilità di un maggiore controllo delle imprese sui dipendenti, vedi l’uso delle telecamere.
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Da soldati del capitale a uomini liberi, malgrado la Boldrini
L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.Come una veggente di stampo neoliberista, infatti, la Boldrini fa riferimento ad un futuro dove si «dovranno muovere i capitali, le merci, gli esseri umani», vale a dire un mondo senza coesione sociale, valori condivisi e stabilità, in cui a comandare, sempre di più, saranno i marchi multinazionali e gli investitori privati. Non un futuro roseo, insomma, per chi è portatore di tradizioni millenarie e combatte contro i disagi della post-modernità da tutta la propria vita. La posizione “boldriniana”, inoltre, ha la presunzione di considerare la vita dell’immigrato come positiva e fiorente, senza interrogarsi su quanto l’esistenza di una persona, costretta ad abbandonare il proprio paese, la propria famiglia e le proprie consuetudini possa essere considerata un bene e dirsi veramente felice. Quest’atteggiamento denota un forte etnocentrismo che forse sarebbe ora di considerare come il razzismo del XXI secolo. Se è vero, infatti, che gran parte della storia coloniale ha visto nella presunta superiorità di una razza sull’altra la giustificazione del dominio e delle ingiustizie, oggi è l’imposizione di modelli propri di una determinata cultura, liberale e occidentale, ad altre, a svolgere la stessa funzione soggiogatrice.È così che le diverse popolazioni perdono la propria identità e il rispetto di se stesse, nella falsa speranza di divenire altro. Del resto, come osserva Jean Baudrillard, «la cultura occidentale si mantiene soltanto sul desiderio del resto del mondo di accedervi». In quanto tristemente reale, questo concetto si collega direttamente all’altra posizione accennata in precedenza, spesso popolare, che vede nell’immigrato il nemico numero uno, l’artefice del male. Questa visione confonde il vero problema in questione, individuandolo non nel fenomeno sistemico e manipolato dai poteri forti, ma nei suoi attori individuali e disperati. Erroneamente, sposta il bersaglio della critica dall’immigrazione agli immigrati. Questi ultimi, più che ad un esercito invasore, assomigliano a quello che Karl Marx, nel primo libro del “Capitale”, definisce «l’esercito industriale di riserva», ovvero quella massa di disoccupati particolarmente comoda ai capitalisti perché, a seguito della grande concorrenza, determina bassi salari e scarse rivendicazioni sociali.Ecco allora come l’immigrazione, difesa non a caso dai liberisti più accaniti, assomiglia più che ad un’invasione, ad una tratta di schiavi. L’immigrato è, allo stesso tempo, agente inconsapevole e vittima reale di un sistema planetario capace di minare la sicurezza e la dignità di tutti. Continuare a sostenere questo tipo di immigrazione, che di scambio tra culture non ha veramente nulla, significa semplicemente legittimare le logiche neoliberiste. Le stesse logiche che hanno ridotto i paesi del “Nord” alla crisi (culturale, sociale, economica) e, più o meno indirettamente, quelli del “Sud” alla miseria. Questo significherebbe volersi chiudere su se stessi ignorando i problemi, tra l’altro da noi creati, nelle parti più povere del mondo? Niente affatto. In realtà, questa presa di coscienza rappresenterebbe il primo passo concreto per agire veramente a difesa delle popolazioni ridotte oggi alla fame, perché intaccherebbe la struttura stessa del sistema liberal-capitalista, prendendo le distanze sia da slogan distanti dalla realtà di cose, sia da un moralismo molto politically correct che non ha davvero ragione di esistere.Questa critica, costruttiva e non distruttiva, dovrà partire dalla rivalutazione dei paesi, delle culture e della dignità stessa degli abitanti del “Sud” del mondo. Nel suo “Breve trattato sulla decrescita serena”, Serge Latouche parla di una «sfida della decrescita per il Sud», sostenendo come la sua popolazione è ancora in tempo per non ficcarsi in quel vicolo cieco, che è la società progressista, in cui l’altra parte del mondo è condannata da tempo. Oggi la società occidentale attira migliaia di persone con l’illusione della tecnica e di un marcio benessere, costruito proprio sulle spalle altrui; per questo, come osserva Latouche, «finché l’Etiopia e la Somalia saranno costrette, mentre infuria la carestia, a esportare alimenti per i nostri animali domestici, finché noi ingrasseremo il nostro bestiame con la pasta di soia prodotta sulle cenere delle foreste amazzoniche, noi soffocheremo qualsiasi tentativo di reale autonomia nel Sud». La “reale autonomia” di tutti i popoli, alimentata dal confronto e dalla scambio tra le diverse realtà presenti nel mondo, rappresenta l’obiettivo per cui lottare oggi. Una presa di posizione netta sul tema dell’immigrazione, al di là di posizioni stereotipate, è necessaria per far finire il circolo vizioso e conseguire questo fine.(Lorenzo Pennacchi, “Da soldati del capitale a uomini liberi”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 24 ottobre 2014).L’immigrazione è uno dei temi più caldi del dibattito pubblico attuale. Del resto, in un mondo sempre più globale e insicuro, non potrebbe essere altrimenti. Come spesso capita, però, la discussione si è distanziata precocemente dalla ricerca della verità e di soluzioni concrete, fossilizzandosi in due macro-schieramenti: da un lato, c’è chi vede nell’immigrato un invasore, colpevole di rubare il posto di lavoro altrui; dall’altro, la difesa spasmodica di tale fenomeno ha portato ad affermazioni che farebbero rabbrividire qualsiasi appassionato di distopie. È questo il caso, relativamente recente, del presidente della Camera Laura Boldrini, la quale ha esplicitamente dichiarato in diretta nazionale che «il migrante è l’avanguardia dello stile di vita che presto sarà lo stile di vita di moltissimi di noi». Considerata da alcuni come massimo esempio di tolleranza e libertà, quest’idea se fosse del tutto realizzata sancirebbe la vittoria assoluta del sistema liberal-capitalista, già oggi dominante.