Archivio del Tag ‘deforestazione’
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Nessuno può sperare di fermare il cambiamento climatico
Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.Le cospirazioni esistono e so che anche i paranoici hanno nemici. Di conseguenza non posso escludere che anche in questo frangente ci sia un secondo fine con lo scopo di inchiappettare l’umanità per l’ennesima volta. Il mio stesso subconscio cospira costantemente contro di me, mi sabota, e io inciampo e non ho certezza alcuna. Questa è l’epoca in cui viviamo, la realtà si è frammentata in miriadi di cocci impalpabili, ma ancora ci sono cercatori di Verità che spesso hanno seguaci pugnaci. Terrapiattisti ed altri poveracci impauriti sono sintomo di un reale vanificarsi di ogni punto di riferimento per interpretare l’esistente. Si è costretti a dubitare di tutto. Insomma, non mi sorprenderei se scoprissi di essere di fronte ad un ulteriore frode planetaria. E questo sarebbe un atteggiamento tutto sommato salutare, se non si rischiasse di essere vittime di quegli stessi interessi che controllano i media di regime, ma che non possiamo essere sicuri che non siano anche dietro molte fonti alternative. In questo caso, però, la versione ufficiale, apparentemente sostenuta da una percentuale altissima di specialisti del settore, è parecchio sensata: l’attività dell’uomo sta sconvolgendo in tempi rapidissimi tutta la biosfera e di conseguenza anche il clima. Ciò sta avendo ed avrà sempre più conseguenze catastrofiche. Tutto qui, ed è incredibilmente ragionevole.Eppure lo scetticismo, giustificatissimo, nei confronti della narrazione del potere dominante ha fatto sì che questo fatto lapalissiano e preoccupante fosse annacquato da mille dubbi inconsistenti. L’aumento di CO₂ determina un aumento di temperatura? Non lo so, non sono uno scienziato. Ma so che la CO₂ fa crescere le piante. Non c’è nessun aumento della temperatura, quelli dell’Iccp si sono inventati tutto. L’aumento della temperatura c’è, ma è dovuto alle macchie solari e l’attività umana non c’entra niente… non sono uno scienziato, ma ne sono convinto. Basta un Trump infinocchiante qualsiasi, eroe proletario che si batte contro le menzogne dei potenti, per finire a fare il gioco proprio di quei poteri che la controcultura dovrebbe smascherare. Continuiamo così, il ciclo produzione-consumo è salvo e siamo tutti più sollevati. Ci siamo ben resi conto che smantellare il sistema è abbondantemente al di sopra delle nostre possibilità. In realtà, dare la colpa ad impalpabili poteri occulti, sedicenti illuminati e cupole segrete, fa molto comodo. È pieno di zombie di nome Giovanni e Giuseppe che non rinuncerebbero mai alla loro auto per raggiungere il tabacchino all’angolo. Ma anche questo è irrilevante.Ammettiamolo, per quante prove si trovino in favore di una tesi, su Internet se ne possono trovare alrettante in favore della tesi opposta. Comprensibile in politica, se parliamo di scienza un po’ meno. Eppure ci sono indizi che, pur non essendo forse scientificamente validi, in quanto basati su percezioni limitate e soggettive, mi inducono ad essere scettico piuttosto nei confronti di chi nega il cambiamento climatico di origine antropica. Per esempio, i miei genitori mi dicevano che decenni fa il clima era più stabile, nel senso che si sapeva che a fine agosto, dopo la festa del santo patrono arrivavano i temporali che segnavano la fine dell’afa. E accadeva ogni anno immancabilmente. Nelle rare eccezioni, bastava mettere una sarda salata in bocca a sant’Oronzo e quello per la sete faceva piovere. Semplice. Ora i nuvoloni arrivano, ma non è detto che piova. Del resto, la vita di quelle popolazioni contadine dipendeva da quelle piogge, noi ne possiamo fare tranquillamente a meno. Forse è per questo che cominciano a disertarci.Magari la pioggia si presenta con un bel po’ di ritardo e ne cade un ettolitro per centimetro quadrato. Si dice addirittura che uno scienziato pazzo in vena di conquistare il mondo stia usando una macchina di sua invenzione per controllare il tempo a dispetto di Occam e del suo rasoio. La neve era un’altra visitatrice abituale. Pare che ogni inverno ne cadesse tanta e gli anni senza erano piuttosto sporadici, ma già quando io ero piccolo era il contrario. L’inverno con la neve era un’eccezione. Me lo ricordo bene perché appena vedevamo qualche fiocco decidevamo che non si poteva andare a scuola, ma era perfettamente praticabile la strada per andare a scivolare dalle colline con le buste di plastica sotto il sedere. Inoltre, in tutti i miei viaggi ho notato effetti sull’ambiente, evidentemente frutto di manomissioni umane. In Tanzania, la mia prima volta fuori dall’Europa, scalai la vetta del Kilimangiaro insieme ad altre centinaia di turisti e vidi che il ghiacciaio rimane ormai solo sulla porzione più alta della cresta del vulcano. Pare che in cento anni sia regredito dell’85%. Uno scioglimento un po’ troppo veloce per essere dovuto ai normali cicli cosmici.Il fenomeno non è direttamente attribuibile all’aumento della temperatura globale o locale, ma piuttosto alla deforestazione alla base della montagna che ha causato una diminuzione della traspirazione e quindi del vapore acqueo che poi si trasformava in precipitazioni nevose. Quella volta capii che scalare montagne, soprattutto se in compagnia di una mandria di occidentali in cerca d’avventura Alpitur, non faceva per me, quindi non ho informazioni di prima mano su altri ghiacciai in altre zone del pianeta, ma pare che lo stesso stia accadendo un po’ ovunque. Qualche anno dopo mi trovavo ancora in Africa ma dall’altro lato e i locali mi raccontarono che il mare in pochi anni aveva mangiato una quindicina di metri di spiaggia. Non posso essere certo della causa, ma consiglio di non fare mai un bagno nell’Oceano Atlantico al largo delle coste dell’Africa Occidentale. Ci buttano di tutto. Per quanto riguarda il livello del mare, anche dalle mie parti qualche spiaggia si è ristretta misteriosamente negli ultimi anni, ufficialmente a causa di una non meglio specificata ‘erosione’. Ma io non sono uno scienziato.In Giappone visitai una spiaggia nei pressi di Suzuka, dove fanno il moto-Gp, un paio d’anni dopo lo tsunami e il disastro di Fukushima. Una vista apocalittica. Questo non c’entra niente col cambiamento climatico. Era giusto per dire. Quest’anno mi trovavo in Amazzonia e, per il secondo anno consecutivo, a quanto mi è stato riferito, il periodo delle piogge e la relativa piena dei fiumi stagionale, che per quelle popolazioni segna l’arrivo dell’inverno, è arrivata con due mesi di ritardo. Al momento mi trovo in Svizzera per la prima volta. Mi sono sentito un po’ come Totò e Peppino che arrivano a Milano incappottati aspettandosi un tempaccio artico, invece è stato un ottobre fenomenale che, a sentire chi vive qui da molti anni, non si era mai visto. Ma un ottobre eccezionale non sarà di certo la fine del mondo. Con tutto questo bighellonare in lungo e in largo per il pianeta avrò contribuito in maniera sostanziale al casino climatico-ambientale. Non lo nego. Merito la lapidazione. Chi non ha peccato inizi pure. Ma non c’è da avere sensi di colpa. Non è proprio colpa di nessuno. Non c’è colpa. Faccio un esempio: 49 milioni di anni fa, millennio più millennio meno, accadde ciò che gli scienziati chiamano The Azolla Event. Nel mezzo dell’eocene, l’oceano artico aveva temperature ed ecosistemi tropicali. Una serie di condizioni idriche e geologiche favorirono la crescita esplosiva di una felce chiamata appunto azolla. Per circa 800.000 anni questa pianta prosperò su 4 milioni di km² sequestrando l’80% della CO₂ dall’atmosfera sul fondo anaerobico del mare, dove si trova tuttora sedimentata in uno strato geologico esteso lungo tutto il bacino artico.La concentrazione di CO₂ nell’atmosfera passò da 3.500 ppm a 650 ppm. La temperatura si abbassò da 13°C agli attuali -9. Forse per la prima volta nella storia della Terra ci fu una calotta di ghiaccio al polo nord. Ehi, questa è l’ipotesi di un gruppo di scienziati olandesi dell’università di Utrecht che potrebbero benissimo far parte del complotto. Tra l’altro, tutto ciò ha implicazioni geopolitiche, perché proprio in questi depositi organici può essersi formato il gas e il petrolio che le superpotenze si contendono, ora che quei luoghi diventano accessibili. E quegli scienziati magari lavorano per la Shell. Che mondo… Prendo per vera l’ipotesi solo per esplicitare un concetto: l’azolla ha sconvolto il suo stesso habitat in accordo con la natura o contro la natura? Per inciso, l’azolla non si è estinta, continua a prosperare a latitudini più basse. Ovviamente, l’episodio fu un evento del ciclo della natura. Si crearono le condizioni per una crescita eccezionale dell’azolla, la quale scatenò un cambiamento climatico epocale. Niente di innaturale in tutto ciò. L’azolla ha solo svolto la sua parte. Perché invece quelle stesse dinamiche sono innaturali se protagonista è l’uomo?Dall’inizio dell’era industriale la CO₂ nell’atmosfera è aumentata di quasi il 40%. Questo ha prodotto cambiamenti a livello climatico? Non lo so, ma probabilmente sì, non me ne stupirei. L’era geologica in cui viviamo si chiama antropocene. Cioè, la nostra specie altera l’ambiente così profondamente da caratterizzarne l’epoca a livello geologico. Oltre a riprocessare l’atmosfera, abbiamo alterato il corso dei fiumi, spianato colline e sventrato montagne, stravolto gli ecosistemi di interi continenti, alterato la radioattività di fondo, saturato lo spazio di elettrosmog. E volete che tutto questo non abbia alterato il clima? E perché, di grazia? Perché quel signore onnipotente che abita in cielo ha detto che potevamo fare il cazzo che ci pareva in eterno, tanto il clima l’avrebbe tenuto costante lui, perché gli siamo simpatici e proteggerà sempre e comunque il divino ordine capitalista? Si dice che il battito di una farfalla in Cina possa far scoreggiare un alieno insettoide in una dimensione parallela, figuriamoci se la superloffa della specie umana non sia capace di modificare il clima del pianeta. Quindi abbiamo fatto una cazzata immane? Probabilmente sì, ma non avevamo scelta.Non siamo diversi dall’azolla, proprio perché non ci abbiamo pensato due volte a cacciarci in questo guaio e non abbiamo la più pallida idea di come uscirne. Perché non ne siamo responsabili. Agiamo secondo le direttive della natura di cui non siamo consci per permettere alla terra di iniziare un nuovo ciclo di vita. Giovanni che prende la macchina per andare a comprare le sigarette contribuisce a cuor leggero. È questa la nostra hubris: illuderci di essere al di fuori ed al di sopra dei cicli naturali ed addirittura capaci di alterarli. Non è così, noi facciamo parte di questo scorrevole tutto e non possiamo che recitare la nostra minuscola comparsata in uno spettacolo i cui atti durano milioni di anni. Non possiamo fare proprio nulla. Secondo gli scienziati più pessimisti, come per esempio Guy McPherson e i suoi “abrupt climate change” e “near term extinction”, anche se fermassimo tutte le attività umane domani, la temperatura schizzerebbe alle stelle; infatti, oltre ad immettere gas serra nell’atmosfera che inducono un riscaldamento nel lungo termine, immettiamo anche particolato (non so se si riferisca anche alle scie chimiche), che fermando i raggi solari ne blocca l’effetto nel breve periodo. Se ci fermassimo, questo particolato cadrebbe al suolo e la schermatura che fornisce verrebbe meno, facendo salire la temperatura oltremodo.Per altro, fermare tutto l’ambaradan dall’oggi al domani è irrealizzabile, non solo praticamente, ma perché il caos sociale che ne deriverebbe sarebbe assolutamente distruttivo e quindi controproducente. McPherson prevede il collasso entro dieci anni. Hai voglia a proporre soluzioni innovative e trabiccoli succhiacarbonio con scappellamento triplo carpiato. Ormai da anni non mi occupo più di iperborei, rettiliani e altri argomenti à la Martin Mystère, ma ricordo di aver letto su un loro testo che i Rosacroce credono che nella storia della Terra si siano succedute sei civiltà evolute con esseri intelligenti più o meno simili a noi, ognuna sviluppatasi dopo la catastrofe che segnò la fine della precedente. Secondo loro siamo vicini all’avvento della settima razza e di conseguenza alla fine della sesta, cioè noi. C’è qualcosa di simile nella scienza ufficiale che ci dice che ci sono state cinque estinzioni di massa sul pianeta, e stiamo avvicinandoci con estrema velocità alla sesta. Mio padre, classe ’24, diceva che rispetto a quando era piccolo lui c’era stato un crollo impressionante nel numero degli animali che abitavano il paese e le campagne.Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Del resto nemmeno di ciò che sia successo nel passato possiamo essere tanto certi e molti di noi vagano in un presente ovattato. Non si può sapere se gli allarmisti abbiano edificato un castello di falsità per poter un giorno lucrare sullo scambio di quote di emissioni o se invece dobbiamo credere a quell’amico del popolo di Trump, che non è amico dei petrolieri, ci mancherebbe, che ci assicura che tutto va a meraviglia. Una cosa però a me sembra certa. Se non fosse ormai troppo tardi, ci sarebbe un solo obbiettivo da perseguire: dovremmo smettere di ritenerci nel bene o nel male al di fuori della natura. Per secoli è stato il nostro sogno proibito, perché la natura ci dava sostentamento, ma allo stesso tempo portava carestie, epidemie e tutto doveva essere ottenuto col sudore della fronte. Come sarebbe stato bello finalmente dominarla, la natura, anzi meglio, semplicemente tirarsene fuori. Non dover sottostare alle stagioni, alle piogge e alle siccità, alla grandine che poteva distruggere un anno di lavoro in un pomeriggio, alle cavallette, alla peste bubbonica. Anche a costo poi di dover vivere col senso di colpa e la paura che la natura si vendicasse. Abbiamo creduto di riuscirci. Ma non è possibile. Ci siamo dentro, nel bene e nel male, e non c’è via d’uscita. Parafrasando l’esimio Bill Clinton: it’s nature, stupid!(“Il cambiamento climatico è del tutto naturale”, post pubblicato da “Amago” su “Come Don Chisciotte” il 9 dicembre 2018).Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.
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Il Corriere: aerosol tra le nuvole, la geoingegneria è realtà
Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.Un tramonto rosso fuoco perenne e specchi giganti nello spazio per riflettere la luce solare? «Orizzonti alla Blade Runner, ma non è fantascienza», scrive Buzzi. «È il futuro (forse) del nostro pianeta: ipotesi di ingegneria climatica che sono già al vaglio degli esperti». Per Buzzi, sei anni fa, la geoingegneria era «una realtà complessa», che stava «mobilitando la comunità scientifica internazionale», facendola discutere. Obiettivo dichiarato: «Combattere il surriscaldamento globale», ma con interventi molto diversi tra loro: «C’è chi studia l’immagazzinamento e lo smaltimento di anidride carbonica e c’è un ramo più radicale che propone esperimenti “solari”, che mutino o catturino le radiazioni a livello della stratosfera». Molto prudente, allora, un tecnico come Antonello Provenzale, ricercatore del Cnr di Torino in forza all’Isac, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima: «A mio parere, mentre ha senso la rimozione di CO2, sono ancora inopportuni interventi di altro tipo». Ovvero: «Prima di agire ci sono dei fattori che vanno presi in considerazione: la sostenibilità nel tempo di azione del genere, la loro effettiva efficacia e la nascita di ampie alleanze geopolitiche in grado di sostenerle».Le teorie al vaglio degli scienziati, scrive Buzzi nel 2012, spaziano per cieli, terra, aria e mari: «Si va dalla “semina” di ferro negli oceani, per aumentare la presenza dei microrganismi che intercettino la CO2, all’adozione di specie di piante ad alto potere riflettente, alla messa in orbita di giganteschi parasole». Ma l’idea più discussa «riguarda l’uso di gas aerosol come l’anidride solforosa da immettere con costanza nella stratosfera per riflettere la luce solare». Controindicazioni del caso: «Secondo alcuni studiosi (e detrattori della teoria), le emissioni assottiglierebbero lo strato di ozono». In realtà, sottolinea il “Corriere”, i gas aerosol sono già presenti nell’atmosfera. E non solo: «Negli ultimi anni», annota lo stesso Provenzale, «sono state individuate altre due cause oltre all’effetto serra che hanno provocato l’innalzamento delle temperature: la massiccia deforestazione e l’uso di gas aerosol di origine antropica, specie in Cina e nel Sudest Asiatico». Una differenza però c’è: «Rispetto all’anidride carbonica, questi gas stanno meno tempo nell’atmosfera, circa 10-15 giorni».Intanto, segnala il “Corriere” sempre nel 2012, l’idea di manipolare il clima «ha già catturato l’attenzione di plurimiliardari come Bill Gates, Richard Branson e il fondatore di Skype, Niklas Zennstrom». Anche Buzzi cita il Bpc, Bipartisan Policy Center di Washington, indicato dal reporter Gianni Lannes come think-tank neocon, punta di lancia della lobby che spingerebbe per la manipolazione climatica tramite l’irrorazione sistematica dei cieli. Il “Corriere” la definisce «un’organizzazione non profit fondata da quattro ex senatori Usa, due repubblicani e due democratici», che nel 2011 ha invitato la Casa Bianca a creare «un programma di ricerca federale». Scienziati delle università inglesi, aggiunge Buzzi, hanno organizzato «un test per pompare nella stratosfera particelle chimiche». Esperimento che però è «abortito», anzi «rimandato». Anche perché è stata proprio la Royal Society britannica, alla conferenza sul clima di Durban nel 2011, a presentare un rapporto sugli scenari della geoingegneria: «Giocare con la natura in questo modo deve essere solo una soluzione estrema», scrivevano sette anni fa gli scienziati inglesi, «ed è comunque una soluzione pericolosa».Sulla stessa linea anche un report commissionato dal ministero dell’educazione e della ricerca tedesco, che all’epoca auspicava «ulteriori ricerche» e sosteneva che «le conseguenze dell’utilizzo di queste tecniche non possono essere stimate con la precisione necessaria». Nessun allarmismo in Cina, invece, dove si ipotizzano nuove frontiere, chiosa Buzzi sul “Corriere”: a Pechino, «gli effetti della geoingegneria sono già tangibili», da molti anni. Nel 2012 la Cina ammise di stipendiare non meno di 36.000 “rainmaker”, equipaggiati con razzi, cannoni e arei per intervenire sulle nubi e scatenare precipitazioni nelle zone aride. «Mentre in altri paesi sono state sperimentate solo occasionalmente, a Pechino e nella regione di Jilin le piogge artificiali – grazie a nuvole “gonfiate” con ioduro d’argento – sono una realtà», scriveva Buzzi, sei anni fa. «E il governo – aggiungeva – sta pianificando di estendere l’esperimento ad altre cinque zone». Oltre alla Cina, l’altro paese che ammette di condurre test di manipolazione meteo è Israele, mentre analoghe notizie filtrano da Messico e Sudafrica. Nel frattempo, i nostri cieli si sono riempiti di strisce bianche rilasciate dagli aerei: semplici scie di condensazione, secondo le autorità, che però non spiegano come mai l’ipotetico vapore acqueo non si dissolva, ma anzi permanga in atmosfera per ore, estendendosi fino a velare interamente il cielo.Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.
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Italia, clima sabotato? Magaldi: possibile, ma improbabile
Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.I paesi del Mediterraneo sono quelli più a rischio, dicono recenti studi universitari: ci siamo surriscaldati più del resto del mondo (+1,4 gradi centrigradi) e siamo stati bersagliati da un maggior numero di eventi estremi. Peggio: nei prossimi anni, per la nostra area si prevede un riscaldamento del 25% in più rispetto alla media mondiale. I dati emergono da una ricerca internazionale condotta da svariati atenei dell’area (Marsiglia e Barcellona, Salento e Nicosia, Haifa e Rabat), pubblicata sulla “Nature Climate Change”. Il riscaldamento nel Mediterraneo è più elevato che nel resto del mondo per una serie di motivi combinati tra loro: «La regione si trova in una zona di transizione fra i regimi di circolazione atmosferica delle medie latitudini e della fascia subtropicale. È caratterizzata da una complessa morfologia di catene montuose e forti contrasti terra-mare, una popolazione umana densa e in crescita, e varie pressioni ambientali». Secondo 13 agenzie Usa, è colpa dell’uomo se si registrano temperature da record. Quelle degli Stati Uniti sono aumentate drammaticamente negli ultimi decenni, toccando il loro livello più alto da 1.500 anni. A dirlo è un rapporto federale: per gli scienziati, dal 1880 al 2015 le temperature sono aumentate di 1,6 gradi Fahrenheit (0,9 gradi centigradi) e le cause sono da considerarsi legate al comportamento degli esseri umani.Dal 1980 la situazione è addirittura precipitata, secondo il rapporto Usa, con un drammatico aumento delle temperature che ha portato al clima più caldo degli ultimi 1.500 anni: «Ci sono evidenze che dimostrano come le attività umane, specialmente le emissioni di gas serra, sono le principali responsabili dei cambiamenti climatici rilevati nell’era industriale. Non ci sono altre spiegazioni alternative, non si tratta di cicli naturali che possano spiegare questi cambiamenti climatici». Secondo un rapporto dell’istituto europeo Climate Analytics, non sarà possibile contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi se l’Unione Europea non avvierà da subito la chiusura di oltre 300 centrali a carbone. In Italia, l’impatto delle violentissime perturbazioni “tropicali” è reso ancora peggiore a causa dello stato di abbandono e di degrado di troppe aree: deforestazione e cementificazione selvaggia. Non è il caso però delle Dolomiti, dove sono stati rasi al suolo – in modo inaudito – migliaia di ettari di bosco in perfetta salute. A chi si interroga sull’anomalo infittirsi di scie rilasciate dagli aerei (paesi come Israele e la Cina ammettono di utilizzare l’aviodispersione per modificare il clima) si risponde che mancano riscontri certi sulle vere cause del disastro che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Certo è la Terra a presentarci il conto dei troppi abusi subiti, mentre il rialzo termico non accenna ad arrestarsi e le temperature restano pericolosamente molto al di sopra delle medie stagionali.A un quadro già così fosco è possibile aggiungere l’impatto di un’ipotetica modifica climatica segreta? Nel suo bestseller “Massoni”, Magaldi ha svelato i peggiori retroscena del potere mondiale. Sabotatori del clima a scopo anti-italiano? «Se qualcuno suppone che vi siano degli interventi proditori, questi sono tecnicamente possibili, in certi casi», ammette Magaldi: «Siamo nell’ambito del possibile, non sono tesi assurde o strampalate. Poi però – aggiunge – bisogna verificare i fatti, in termini scientifici, avendo la capacità di ricostruire una narrativa coerente e congruente». Innanzitutto: cui prodest? «A chi giova mettere in atto, da apprendista stregone, delle dinamiche tragiche e che possono diventare incontrollabili?». Si tratterebbe di «strumentazioni potentissime e pericolosissime», alla portata del Deep State e del back-office del potere? Se ad allarmarsi sono i comuni cittadini, che magari «seguono siti o pubblicazioni più o meno complottarde», figuriamoci se la situazione potrebbe mai cogliere di sorpresa «tutti i segmenti delle agenzie di intelligence». In altre parole: «Non è facile, fare delle cose del genere», ribadisce Magaldi. «Tenderei a ritenere poco plausibile, anche se possibile, che qualcuno voglia operare in questi termini, cioè scatenare proditoriamente e consapevolmente delle situazioni di questo tipo. Però – ripete – siamo nel campo delle ipotesi: in termini scientifici, se qualcuno ha gli strumenti (e le fonti) per approfondire in modo adeguato, lo faccia e lo racconti».Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.
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Siamo lo 0,01% della vita sulla Terra, e la stiamo uccidendo
E’ ufficiale: siamo la peste della Terra. Lo si sapeva già, ma ad aggravare il quadro provvede una sconvolgente ricerca statistica: i 7,6 miliardi di umani rappresentano solo lo 0,01% di tutti gli esseri viventi. Eppure, dagli albori della civiltà, l’umanità ha provocato la scomparsa dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e della metà delle piante viventi. Su tutto domina il bestiame destinato alle nostre tavole: il 60% dei mammiferi terrestri è ormai costituito da bovini e suini d’allevamento, mentre il pollame rappresenta il 70% degli uccelli viventi sul pianeta. Lo afferma il professor Ron Milo, del Weizmann Institute of Science di Israele, che ha diretto il lavoro, pubblicato negli atti del National Academy of Sciences. Questa ricerca, scrive Damian Carrington sul “Guardian”, è la prima stima completa sul peso percentuale esercitato da ciascuna classe di creature viventi. Lo studio ribalta i presupposti che finora ci avevano sempre accompagnato. In sintesi: dopo i batteri (il 13% del totale) la forma di vita più importante sono le piante: la vetegazione costituisce l’82% di tutta la materia vivente. Tutto il resto – insetti, funghi, pesci, specie terrestri – arriva appena al 5% della biomassa mondiale. Altra sorpresa: gli oceani ospitano solo 1% della vita sulla Terra. Il problema? L’uomo: stiamo divorando tutto, alla velocità della luce.«Non avrei mai creduto che non esistesse ancora una valutazione completa e ufficiale di tutte le diverse componenti della biomassa», ammette il professor Milo. «Spero che questo studio permetta alla gente di prendere coscienza della vera prospettiva del ruolo tanto vessatorio che l’umanità sta giocando sulla Terra». Impressionante, ad esempio, l’impatto ambientale che ha il semplice consumo quotidiano di carne. La trasformazione del pianeta per effetto delle attività umane, ricorda il “Telegraph” in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”, ha portato gli scienziati ad essere vicini a dichiarare una nuova era geologica: l’Antropocene. «Un segnale di questo cambiamento lo possiamo vedere nei resti delle ossa di pollo domestico, che ormai sono sparse per tutto il mondo». Un quadro desolante: gli uccelli in libertà sono appena il 30%, mentre la quota di mammiferi selvatici si riduce ad appena il 4% (al 60% rappresentato dal bestiame, infatti, bisogna aggiungere i “mammiferi umani”, che sono il 36% del totale). Attenzione: «La distruzione dell’habitat selvaggio prodotta dall’agricoltura, dal disboscamento e dallo sviluppo (industriale) ha portato all’inizio di quella che molti scienziati considerano la sesta estinzione di massa della vita che si sta producendo nella storia della Terra da quattro miliardi di anni».Si è valutato che circa la metà degli animali esistenti sulla Terra si sia estinta negli ultimi 50 anni, aggiunge il “Telegraph”, citando lo studio israeliano. Ma solo il confronto del risultato di queste nuove stime con quello che esisteva prima che gli umani diventassero contadini stanziali, e che poi cominciasse la rivoluzione industriale, rivela la vera portata di questo enorme declino. «E’ stata una sorpresa anche per gli scienziati rendersi conto che solo un sesto dei mammiferi selvatici sono sopravvissuti, dai topi agli elefanti. E dopo tre secoli di caccia alle balene sono rimasti, negli oceani, solo un quinto dei mammiferi marini». Da quando è cominciata la civiltà umana, si è estinto l’83% dei mammiferi selvatici, l’80% dei cetacei, il 50% delle piante e il 15% dei pesci. «È qualcosa di veramente sorprendente, la sproporzione del posto che occupa l’uomo sulla Terra», dice Milo. «Quando faccio un puzzle con le mie figlie, di solito trovo un elefante accanto a una giraffa e accanto un rinoceronte. Ma se provo a rendere più realistico il modo di guardare il mondo, dovrei trovare una mucca accanto a una mucca accanto a una mucca e poi accanto a un pollo».Nonostante la supremazia assunta dall’umanità, in termini di peso, l’Homo Sapiens sulla Terra è ben piccola cosa. I virus, da soli, messi insieme hanno un peso percentuale combinato di tre volte superiore a quello degli esseri umani e così pure i vermi. I pesci sono 12 volte più delle persone e i funghi sono 200 volte di più. Le piante rappresentano l’82% di tutte le biomasse del pianeta – 7.500 volte di più degli esseri umani. Comparando il totale della massa degli umani – aggiunge il “Telegraph” – troviamo che i virus sono tre volte di più, i vermi sono tre volte di più, i pesci 12 volte di più e insetti, ragni e crostacei 17 volte di più. Ma l’impatto dell’uomo sul mondo della natura rimane immenso – insiste Milo – soprattutto per le nostre scelte alimentari, «che hanno un enorme effetto sull’habitat di animali, piante e altri organismi». Lo scienziato si augura che il pubblico prenda coscienza delle dimensioni, sconcertanti, del fenomeno: per esempio, cominciando a mangiare meno carne. Oggi non possiamo più fingere di non sapere. Paul Falkowski, della Rutgers University statunitense, conferma: quella di Milo «è la prima analisi completa sulla distribuzione della biomassa di tutti gli organismi viventi sulla terra, inclusi i virus». La sorpresa? Il virus di gran lunga più pericoloso, sulla Terra, siamo proprio noi.E’ ufficiale: siamo la peste della Terra. Lo si sapeva già, ma ad aggravare il quadro provvede una sconvolgente ricerca statistica: i 7,6 miliardi di umani rappresentano solo lo 0,01% di tutti gli esseri viventi. Eppure, dagli albori della civiltà, l’umanità ha provocato la scomparsa dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e della metà delle piante viventi. Su tutto domina il bestiame destinato alle nostre tavole: il 60% dei mammiferi terrestri è ormai costituito da bovini e suini d’allevamento, mentre il pollame rappresenta il 70% degli uccelli viventi sul pianeta. Lo afferma il professor Ron Milo, del Weizmann Institute of Science di Israele, che ha diretto il lavoro, pubblicato negli atti del National Academy of Sciences. Questa ricerca, scrive Damian Carrington sul “Guardian”, è la prima stima completa sul peso percentuale esercitato da ciascuna classe di creature viventi. Lo studio ribalta i presupposti che finora ci avevano sempre accompagnato. In sintesi: dopo i batteri (il 13% del totale) la forma di vita più importante sono le piante: la vegetazione costituisce l’82% di tutta la materia vivente. Tutto il resto – insetti, funghi, pesci, specie terrestri – arriva appena al 5% della biomassa mondiale. Altra sorpresa: gli oceani ospitano solo 1% della vita sulla Terra. Il problema? L’uomo: stiamo divorando tutto, alla velocità della luce.
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Osservate questi 16 animali, a Natale 2018 saranno estinti
Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, osserva l’Ansa, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.Nella mappa c’è anche una specie di corallo, la madrepora oculata, scelta come simbolo della distruzione dei fondali del Mediterraneo: è una specie di profondità (250-800 metri) e la pesca a strascico e il cambiamento climatico sono i suoi nemici. In Italia per l’orso marsicano oggi si parla di poche decine di esemplari, come per la rarissima aquila del Bonelli, appena 40 coppie sulle scogliere mediterranee. Sarebbero poi appena una decina le coppie stabili di gipeto, il grande “avvoltoio degli agnelli” già estinto all’inizio del ‘900 e poi faticosamente reintrodotto. Una specie che resta a rischio, contando su meno di 10.000 esemplari tra Asia, Africa ed Europa. Se il Wwf lancia l’Sos anche per una specie arborea come l’abete dei Nebrodi, presente solo sulle montagne della Sicilia settentrionale, rischia di scomparire – tra i vari rettili – anche la lucertola delle Eolie. Il lupo della Tasmania, lo stambecco dei Pirenei, la tigre caucasica, il rinoceronte nero dell’Africa occidentale, il leopardo di Zanzibar, sono già stati spazzati via da bracconaggio, prelievo intensivo o distruzione del loro habitat, rileva l’associazione ambientalista.«Abbiamo il dovere di accendere i riflettori sul rischio di estinzione di alcune specie preziose e chiamare tutti a raccolta per combattere le minacce che rischiano di cancellare tesori di biodiversità in Italia e nel mondo», avverte la presidente del Wwf Italia, Donatella Bianchi. «Ormai sappiamo che la scomparsa anche di una sola specie determina una perdita immensa di informazioni biologiche, di caratteristiche genetiche e di servizi ecologici per tutta l’umanità: se, con l’impegno di tutti, anche attraverso piccoli gesti quotidiani, contribuiremo a mantenere il nostro pianeta ricco di animali, sarà a beneficio di tutti, soprattutto delle generazioni che ancora devono nascere». La piaga dell’estinzione rende più labili i sistemi naturali che consentono alle foreste di regolare le temperature del pianeta, ai fiumi di alimentare le biomasse marine, alle terre e agli oceani di produrre cibo e sicurezza, aggiunge Isabella Pratesi, direttore conservazione di Wwf Italia: «Trascuriamo inoltre che molte specie prima di noi hanno trovato, attraverso l’evoluzione, soluzioni a condizioni difficili ed estreme. Ogni insetto scomparso, ogni pianta estinta, ogni barriera corallina sbiancata potrebbe custodire le soluzioni e i rimedi ai nostri mali incurabili o ai drammatici cambiamenti che abbiamo generato».A pesare, in molti casi, sono le foreste abbattute per far spazio alle coltivazioni. Il lupo rosso statunitense sopravvive in meno di 150 individui, del bradipo pigmeo resistono alcune centinaia di esemplari su un’isola panamense. Il pangolino cinese? «E’ perseguitato per le sue scaglie ritenute “miracolose” nella medicina tradizionale». Quanto al chiurlottello, è un uccello «ritenuto una vera e propria chimera dagli ornitologi, data la sua estrema rarità in tutta Europa». Pappagalli ricercati per la loro bellezza, come l’ara golablu, hanno «la sfortuna di nidificare proprio nei palmeti pressati dalla deforestazione». Un animale leggendario come il cavallo selvaggio di Przewalski è ridotto, in Mongolia, ad appena 200 esemplari. Le specie su cui si concentra l’attenzione del Wwf sono gli “ambasciatori” di un percorso di estinzione che è arrivato, purtroppo, quasi al capolinea, insiste Donatella Bianchi: «Se, giustamente, mettiamo tanta cura nel custodire le opere dell’ingegno e della creatività umana, perché non impegnarsi per proteggere anche le meraviglie create dalla natura e che rischiano di scomparire per sempre?».Dalla vaquita, mini-cetaceo ridotto ad appena 30 esemplari nel Golfo di California, al favoloso leopardo dell’Amur, un agilissimo felino che sopravvive ancora nelle foreste temperate tra Cina, Mongolia e Russia, regno della tigre siberiana: oggi, i leopardi dell’Amur sono meno di 70. A Sumatra sono a rischio-scomparsa il rinoceronte e la tigre, in Asia è in pericolo l’orango, nella Carolina del Sud sta scomparendo il lupo rosso. In Centramerica è al lumicino il bradipo pigmeo. Stessa sorte per il rarissimo pangolino cinese e per il chiurlottello, piccolo uccello trampoliere. Sono 16 le specie che rischiano di non vedere il Natale 2018 per il numero esiguo a cui sono ridotte le loro popolazioni. Nella mappa presentata per la campagna “Wwf is calling” vengono indicate le specie ridotte «sul baratro dell’estinzione» a causa di attività umane invasive. Secondo l’associazione ambientalista, solo dal 1970 al 2012 l’uomo ha determinato il calo del 58% dell’abbondanza delle popolazioni di vertebrati terrestri e marini. Su questa “Arca di Natale”, il Wwf fa salire anche il pappagallo amazzonico ara golablu, il cavallo di Przewalski delle steppe mongole e il kouprey, un grosso bovide dell’Asia sud-orientale.
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Morire di carne: stiamo letteralmente suicidando la Terra
Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».Attualmente, negli Stati Uniti, 157 milioni di tonnellate di cereali, legumi e proteine vegetali potenzialmente utilizzabili dall’uomo sono destinate alla zootecnia: è una produzione di 28 milioni di tonnellate di proteine animali che l’americano medio consuma in un anno, riassume Sabbadini su “Disinformazione.it”. «In tutto il mondo la domanda di cereali per la zootecnia continua a crescere perché le multinazionali cercano di capitalizzare sulla richiesta di carne proveniente dai paesi ricchi». Fra il 1950 e il 1985, gli anni boom dell’agricoltura, negli Stati Uniti e in Europa, due terzi dell’aumento di produzione di grano sono stati destinati alla fornitura di cereali d’allevamento, per lo più bovino. «E’ stata la decisione più iniqua della storia quella di usare la terra per creare una catena alimentare artificiale che ha portato alla miseria centinaia di milioni di esseri umani nel mondo», sostiene Sabbadini. «È importante tenere a mente che un acro di terra coltivato a cereali produce proteine in misura cinque volte maggiore rispetto ad un acro di terra destinato all’allevamento di carni; i legumi e le verdure possono produrne rispettivamente 10 e 15 volte tanto». Le grandi multinazionali producono semi e prodotti chimici per l’agricoltura, allevano bestiame e controllano mattatoi, canali di marketing e distribuzione della carne: «Hanno tutto l’interesse di pubblicizzare i vantaggi del bestiame allevato a cereali».Purtroppo, la carne fa ancora tendenza: «La pubblicità e le campagne di vendita destinate ai paesi in via di sviluppo equiparano e associano all’allevamento di bovini nutriti a foraggio il prestigio di quel dato paese. Salire la “scala delle proteine” è diventato un simbolo di successo che assicura l’entrata in un club elitario di produttori che sono in cima alla catena alimentare mondiale». Il periodico americano “Farm Journal” riflette con queste parole i pregiudizi della comunità agro-industriale: «Incrementare e diversificare le forniture di carne sembra essere il primo passo di ogni paese in via di sviluppo». Iniziano tutti con l’allevamento di polli e con l’installazione di attrezzature per la produzione delle uova: è il modo più veloce ed economico che permette di produrre proteine non vegetali. «Poi, quando le loro economie lo permettono, salgono “la scala delle proteine” e spostano la loro produzione verso carne suina, latte, latticini, manzo nutrito al pascolo. Per poi arrivare, in alcuni casi, al manzo allevato con grano raffinato». Ma incoraggiare altri paesi a salire la “scala delle proteine”, avverte Sabbadini, promuove solo gli interessi degli agricoltori occidentali (americani soprattutto) e delle società agro-industriali.Molti paesi in via di sviluppo hanno iniziato a salire la “scala delle proteine” all’apice del boom agricolo, con molto grano in eccesso. Nel 1971 la Fao suggerì di passare al grano grezzo, che poteva essere consumato più facilmente dal bestiame. Il governo americano, prosegue “Disinformazione.it”, incoraggiò ulteriormente i suoi programmi di aiuti all’estero, collegando gli aiuti alimentari allo sviluppo sul mercato dei cereali foraggieri. «Società come la Ralston Purina e la Cargill hanno ricevuto finanziamenti governativi a basso tasso di interesse per la gestione di aziende avicole e l’uso di cereali foraggeri nei paesi in via di sviluppo, iniziando queste nazioni al viaggio che le avrebbe condotte verso la scala delle proteine. Molte nazioni hanno seguito il consiglio della Fao e si sono sforzate di rimanere in cima a questa scala». Risultato: «Negli ultimi 50 anni la produzione mondiale di carne si è quintuplicata». E il passaggio dal cibo al mangime «continua velocemente in molti paesi in modo irreversibile, nonostante il crescente numero di persone che muoiono di fame». Un caso emblematico? La crisi in Etiopia nel 1984, con migliaia di vittime denutrite. «L’opinione pubblica non era al corrente del fatto che in quel momento l’Etiopia stesse utilizzando parte dei suoi terreni agricoli per la produzione di panelli di lino, di semi di cotone e semi di ravizzone da esportare nel Regno Unito e in altri paesi europei come cereali foraggieri destinati alla zootecnia».Le statistiche sono sconcertanti: l’80% dei bambini che nel mondo soffrono la fame vive in paesi che di fatto generano un surplus alimentare prodotto sotto forma di mangime animale, di conseguenza utilizzato solo da consumatori benestanti. La corsa alla carne sta travolgendo i paesi in fase di sviluppo come la Cina, dove la quota di grano destinato alla zootecnia è triplicata. Nel solo Messico, dal 1960 ad oggi, la percentuale di grano da allevamento è cresciuta dal 5 al 45% per cento, mentre in Egitto è passata dal 3 al 31% e in Thailandia dall’uno al 30%. Ironia della sorte: «Milioni di ricchi consumatori dei paesi industrializzati muoiono a causa di malattie legate all’abbondanza di cibo (attacchi di cuore, infarti, cancro, diabete – malattie provocate da un’eccessiva e sregolata assunzione di grassi animali), mentre i poveri del Terzo Mondo muoiono di malattie poiché viene loro negato l’accesso alla terra per la coltivazione di grano e cereali destinati all’uomo». Le statistiche parlano chiaro, sottolinea Sabbadini: sarebbero 300.000 gli americani che ogni anno muoiono prematuramente a causa di problemi di sovrappeso, ed è un numero destinato ad aumentare. «Secondo gli esperti, nel giro di qualche anno, se continuano le attuali tendenze, sempre più americani moriranno prematuramente più per cause di obesità che per il fumo delle sigarette».Attualmente è sovrappeso il 61% degli americani, insieme a oltre la metà degli europei. La colpa, accusa l’Oms, è dell’hamburger. Gli obesi nel mondo sono il 18%, più o meno quanto gli individui denutriti. «Mentre i consumatori dei paesi ricchi letteralmente fagocitano se stessi fino alla morte, seguendo regimi alimentari carichi di grassi animali, nel resto del mondo circa 20 milioni di persone l’anno muoiono di fame e di malattie collegate». Secondo le stime, la fame cronica contribuisce al 60% delle morti infantili. Ma i consumatori di carne non sanno, né vogliono sapere. «I consumatori di carne dei paesi più ricchi – scrive Sabbadini – sono così lontani dal lato oscuro del circuito grano-carne che non sanno, né gli interessa sapere, in che modo le loro abitudini alimentari influiscano sulle vite di altri esseri umani e sulle scelte politiche di intere nazioni». Obiettivamente: «Chi mangia carne consuma le risorse della terra quattro volte di più di chi non lo fa». Ogni volta che si mangia una bistecca, aggiunge il blogger, «bisognerebbe essere consapevoli dei liquami che filtrano nelle falde acquifere, delle foreste disboscate, del deserto conseguente, dell’anidride carbonica e del metano che intrappolano il globo in una cappa calda. Ogni bistecca equivale a 6 metri quadrati di alberi abbattuti e a 75 chili di gas responsabili dell’effetto serra».Bisognerebbe essere consapevoli anche delle tonnellate di grano e soia usate per dar da mangiare alla fonte delle bistecche, non dimenticandosi «degli 840 milioni di persone che nel mondo hanno fame e dei 9 milioni che ne hanno tanta da morirne». Mangiare meno carne, o magari non mangiarne più? «Una scelta sociale, solidale con chi ha fame e con il futuro del pianeta». E non è tutto: «Ogni volta che addentiamo un hamburger si perdono venti o trenta specie vegetali, una dozzina di specie di uccelli, mammiferi e rettili. Dal 1960 a oggi, oltre un quarto delle foreste del Centro America è stato abbattuto per far posto a pascoli; in Costa Rica i latifondisti hanno abbattuto l’80% della foresta tropicale e in Brasile c’è voluto l’omicidio di Chico Mendes, il raccoglitore di gomma assassinato dagli allevatori per una disputa sull’uso della foresta pluviale, per accorgersi dell’esistenza di una “bovino connection”». E ancora: «In Amazzonia la foresta pluviale è stata divorata da 15 milioni di ettari di pascolo, eppure è in questo habitat che dimora il 50% delle specie viventi e da qui deriva un quarto di tutti i farmaci che usiamo». Dove prima c’erano migliaia di varietà viventi ora ci sono solo mandrie.«Vacche ovunque», scrive Rifkin nel suo “Ecocidio”: «Attualmente il nostro pianeta è popolato da ben oltre un miliardo di bovini. Quest’immensa mandria occupa, direttamente o indirettamente, il 24% della superficie terrestre e consuma una quantità di cereali sufficiente a sfamare centinaia di milioni di persone». Per farvi posto occorre terreno da pascolo. E deforestazione per creare pascoli significa desertificazione: dopo tre o quattro, il suolo calpestato e divorato da milioni di bovini (ogni capo libero ingurgita 400 chili di vegetazione al mese) finisce esposto a sole, piogge e vento, quindi diventa sterile. E i ruminanti si devono spostare dissacrando altri ettari di foresta. «Ci vorranno da 200 a mille anni perché quei terreno ritorni fertile». E che dire dell’acqua? «Quasi la metà dell’acqua dolce consumata negli States è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame: è stato calcolato che un chilo di manzo si beve 3.200 litri d’acqua». Risultato: le falde acquifere del Midwest e delle Grandi Pianure statunitensi si stanno esaurendo. Non solo: l’allevamento richiede ingenti quantità di sostanze chimiche tra fertilizzanti, diserbanti, ormoni, antibiotici: «Tutti prodotti dalle stesse, poche multinazionali che detengono il monopolio dei semi usati per coltivare cereali e legumi destinati ad alimentare il bestiame», fa notare Enrico Moriconi, veterinario e ambientalista, nelle pagine del suo “Le fabbriche degli animali” (Edizioni Cosmopolis).«Ogni anno in Europa gli animali da allevamento consumano 5.000 tonnellate di antibiotici, di cui 1.500 per favorirne la crescita, e tutti vanno a finire nelle falde acquifere», incalza Marinella Correggia, attivista della Global Hunger Alliance e autrice di “Addio alle carni” (Lav). Roberto Marchesini, docente di bioetica e zoo-antropologia, autore di “Post-human” (Bollati Boringhieri) svela che nel bacino del Po, ogni anno, «vengono riversate 190.000 tonnellate di deiezioni animali: contengono metalli pesanti, antibiotici e ormoni». Con quali conseguenze? Per esempio, le alghe abnormi nell’Adriatico. Marchesini parla di «fecalizzazione ambientale». E Rifkin ci illumina sulla portata del problema: un allevamento medio produce 200 tonnellate di sterco al giorno. «C’è dell’altro: i bovini sono responsabili dell’effetto serra tanto quanto il traffico veicolare del mondo intero a causa dell’uso di petrolio (22 grammi per produrre un chilo di farina contro 193 per uno di carne), delle emissioni di metano dovute ai processi digestivi (60 milioni di tonnellate ogni anno) e dell’anidride carbonica scatenata dal disboscamento».E’ la stessa Fao a fornire un elenco agghiacciante dei problemi causati dagli allevamenti intensivi: riduzione della bio-diversità, erosione del terreno, effetto serra, contaminazione delle acque e dei terreni, piogge acide a causa delle emissioni di ammoniaca. E tutto questo per cosa? Per quelle che Frances Moore Lappé, autrice di “Diet for a small planet”, definisce «fabbriche di proteine alla rovescia». Occorre un chilo di proteine vegetali per avere 60 grammi di proteine animali. «Per produrre una bistecca che fornisce 500 calorie», spiegano gli autori di “Assalto al pianeta” (Bollati Boringhieri), «il manzo deve ricavare 5.000 calorie, il che vuoi dire mangiare una quantità d’erba che ne contenga 50.000». Attenzione: «Solo un centesimo di quest’energia arriva al nostro organismo: il 99% viene dissipata, usata per il processo di conversione e per il mantenimento delle funzioni vitali, espulsa o assorbita da parti che non si mangiano, come ossa o peli». Il bestiame? E’ una fonte di alimentazione altamente idrovora ed energivora, una massa bovina che ingurgita tonnellate di acqua ed energia. E lo fa per nutrire solo il 20% della popolazione globale del pianeta: quel 20% che sfrutta l’80% delle risorse mondiali, per non rinunciare alla sua bistecca quotidiana. «Nel mondo c’è abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’ingordigia di alcuni», diceva Gandhi.Ingordigia che ha raggiunto livelli esorbitanti: dal dopoguerra a oggi, in Europa, siamo passati da circa 7-15 chili di consumo pro capite all’anno a 85-90 (110-120 negli States), riferisce Marchesini. Secondo Moore Lappé, le tonnellate di cereali e soia che nutrono gli animali da carne basterebbero per dare una ciotola di cibo al giorno a tutti gli esseri umani per un anno. E la Fao conferma: una dieta vegetariana mondiale potrebbe dar da mangiare a 6,2 miliardi di persone, mentre un’alimentazione che limiti la carne al 25% può sfamarne solo 3,2 miliardi. La spiacevole sorpresa? La domanda di carne sta crescendo. «Paesi come la Cina stanno abbandonando riso e soia a favore di abitudini occidentali», scrive Sabbadini: «Stiamo esportando il nostro modello alimentare (e che modello!)». Secondo l’Ifpri, entro il 2020 la domanda di carne nei paesi in via di sviluppo aumenterà del 40%: questo significherà oltre 300 milioni di tonnellate di bistecche. E raddoppierà, sempre nei paesi in via di sviluppo, la domanda di cereali zootecnici: fino a raggiungere 445 milioni di tonnellate di carne. «Richieste incompatibili con la salute del pianeta e con un equo sfruttamento delle risorse». Una slavina inarrestabile, globalizzata. Si chiama: rivoluzione zootecnica. «Significa spostare nel Sud del mondo la produzione di carne».La Banca Mondiale sovvenziona, in Cina, l’industria dell’allevamento e della macellazione. «Ma sbaglia: suolo e acqua non bastano per sfamare il mondo a suon di bistecche e hamburger», scrive “Disinformazione.it”. «Con un terzo della produzione di cereali destinata agli animali e la popolazione mondiale in crescita deI 20% ogni dieci anni», prevede Rifkin, «si sta preparando una crisi alimentare planetaria». Rincara la dose Correggia: «E’ stato calcolato che l’impronta ecologica di una persona che mangia carne, cioè suo il consumo di risorse, di 4.000 metri quadrati di terreno, contro i mille sufficienti a un vegetariano». Allo stato attuale, «la disponibilità di terra coltivabile per ogni abitante della terra è di 2.700 metri quadrati». Ancora: un ettaro di terra a cereali per il bestiame dà 66 chili di proteine, che diventano 1.848 (28 volte di più!) se lo stesso terreno viene coltivato a soia. Ancora Rifkin: «Ogni chilo di carne è prodotto a spese di una foresta bruciata, di un territorio eroso, di un campo isterilito, di un fiume disseccato, di milioni di tonnellate dì anidride carbonica e metano rilasciate nell’atmosfera».La nuova dimensione del male, ragiona Sabbadini, è intimamente connessa con il complesso bovino moderno, che ha acquisito i caratteri di un male occulto, inflitto a distanza: è un male camuffato da strati sovrapposti di veli tecnologici e istituzionali. «Un male cosi lontano, nel tempo e nel luogo, da chi lo commette e da chi lo subisce, da non lasciar sospettare o avvertire alcuna relazione causale». E’ un male che non può essere avvertito, data la sua natura impersonale. «E’ probabile che i proprietari dei negozi in cui si vende carne di bovini nutriti a cereali non avvertano mai, personalmente, la disperazione delle vittime della povertà, di quei milioni di famiglie allontanate dalla propria terra per fare spazio a coltivazioni di prodotti destinati esclusivamente all’esportazione. E che i ragazzi che divorano cheeseburger in un fast-food non siano consapevoli di quanta superficie di foresta pluviale sia stata abbattuta e bruciata per mettere a loro disposizione quel pasto». Il consumatore che acquista una bistecca al supermercato non si sente responsabile dell’immensità del dolore che il suo gesto provoca. «Abbiamo appiattito la ricchezza organica dell’esistenza, trasformando il mondo che ci circonda in astratte equazioni algebriche, statistiche e standard di performance economica».Il male occulto? Viene perpetuato da istituzioni e individui: il mercato, la globalizzazione del profitto. In un mondo di questo genere, conclude Sabbadini, ci sono ben poche occasioni per essere in sintonia con l’ambiente e proteggere i diritti delle future generazioni. «L’effetto sull’uomo e sull’ambiente del modo moderno di pensare e di strutturare le relazioni è stato quasi catastrofico: ha indebolito gli ecosistemi e minato alla base la stabilità e la sostenibilità delle comunità umane. La grande sfida che dobbiamo affrontare è rappresentata dal lato oscuro della moderna visione del mondo: dobbiamo reagire al male occulto che sta trasformando la natura e la vita in risorse economiche che possono essere mediate, manipolate e ricostruite tecnologicamente, per adeguarle ai ristretti obiettivi dell’utilitarismo e dell’efficienza economica». Primo passo necessario: «Diventare consapevoli dei meccanismi di sfruttamento del pianeta di cui siamo complici». Il secondo passo «non è fare la rivoluzione, e non è neanche aderire a questa o quest’altra organizzazione alternativa (per quanto possa essere positivo), ma è far seguire conseguenti e coerenti azioni personali in armonia con una vita etica e rispettosa dell’ambiente e del prossimo. Se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo iniziare da noi stessi».Secondo l’economista Jeremy Rifkin, uno dei più famosi teorici no-global, il consumo di carne è direttamente responsabile del rischio-fame per due miliardi di persone: il “racket dell’hamburger” assorbe il 36% della produzione mondiale di grano, destinato a mangimi. «Centinaia di milioni di persone nel mondo lottano ogni giorno contro la fame perché gran parte del terreno arabile viene oggi utilizzato per la coltivazione di cereali ad uso zootecnico piuttosto che per cereali destinati all’alimentazione umana», scrive Maurizio Sabbadini. «I ricchi del pianeta consumano carne bovina e suina, pollame e altri di tipi di bestiame, tutti nutriti con foraggio, mentre i poveri muoiono di fame». Europa, Nord America e Giappone stanno letteralmente divorando il patrimonio alimentare dell’intero pianeta. Oggi, oltre il 70% per cento del grano prodotto negli Usa è destinato all’allevamento del bestiame, in gran parte bovino. «Sfortunatamente, di tutti gli animali domestici, i bovini sono fra i convertitori di alimenti meno efficienti: sperperano energia e sono da molti considerati “le Cadillac delle fattorie”». Per far ingrassare di mezzo chilo un manzo, occorrono oltre 4 chili di foraggio, di cui oltre 2 chili e mezzo sono cereali e sottoprodotti di mangimi, e il restante chilo e mezzo è paglia tritata. «Questo significa che solo l’11% del foraggio assunto dal manzo diventa effettivamente parte del suo corpo».
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Tav occulto: val Susa, attentato al “chakra sacro” europeo
«Nessuno ne parla, ma questa aggressione è in corso da anni». Non si tratta di missili, veleni e cemento. «Vengono colpiti luoghi sacri naturali». In altre parole, è in pieno svolgimento una crociata – segreta – contro la geografia “invisibile” dei cosiddetti luoghi santi. E la prima linea del fronte sarebbe proprio la valle di Susa, investita dal progetto Tav. Che non sarebbe solo il consueto maxi-affare all’italiana. Molto peggio: un sortilegio malefico, per colpire a morte quello che è forse il più importante “chakra” terrestre europeo, il maggiore nodo energetico del continente. Per giunta situato sulla rotta che unisce, in linea retta, l’abbazia francese di Mont Saint-Michel al santuario di Monte Sant’Angelo, sul Gargano. Ombelico del “canale energetico”, l’abbazia medievale valsusina della Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte. Gli architetti occulti dell’operazione-Tav? «Sono innanzitutto esoteristi». A fare una simile affermazione, decisamente fuori ordinanza, è Fausto Carotenuto: non esattamente un visionario, ma un veterano dei servizi segreti italiani, per i quali ha lavorato come analista internazionale. Non ha dubbi: quella che è cominciata in valle di Susa è un’operazione “magica”, destinata a farci del male. Un atto di guerra, deliberato, contro il “drago” di uranio e amianto che dorme nel sottosuolo alpino. Un lavoro da stregoni, più che da gangster della politica.Parole che richiamano il coro di sgomento suscitato dall’imbarazzante cerimonia di inaugurazione del traforo del Gottardo, in Svizzera, celebrata il 1° giugno 2016 con uno strano rito di sapore tribale e sacrificale, in onore di un misterioso dio-caprone – forse simbolo dell’ancestrale paura della selva, “domata” oggi dalla tecnologia che perfora le Alpi? No, dice Carotenuto: quei tunnel sono un attentato contro le forze “spirituali” della Terra, per compromettere volontariamente la nostra possibilità di felicità. Ma l’intervento sulla valle di Susa, pubblicato su “Controinformazione”, risale a 5 anni prima della sinistra carnevalata del Gottardo. Quelle cose, Carotenuto – oggi apprezzato autore di saggi sulla spiritualità contemporanea – le scriveva nel 2011, quando sulla lotta contro il Tav Torino-Lione si stava affacciando anche il fantasma della violenza, «una trappola appositamente congegnata proprio dai fautori del progetto». Forze spirituali invisibili? Soprannaturale? «Il soprannaturale non esiste, è solo il “naturale” che non conosciamo ancora», sostiene un iniziato come il massone Gianfranco Carpeoro, esperto di simbologia. Quanto all’esoterismo, “che c’azzecca” col Tav? Se uno legge Gioele Magaldi, scopre che il vertice del potere mondiale è interamente massonico, iniziato al sapere esoterico (anche se ovviamente non lo ammetterebbe mai). E il Tav è classica operazione di potere. Anche “magica”?Carotenuto non ha incertezze: al di là del fatto che «i valligiani hanno ragioni da vendere», perché la maxi-ferrovia «non porterà “progresso” ma distruzione, devastazione e malattie», sostiene che «ad una indagine attenta dei valori spirituali in gioco emerge tuttavia un quadro ancora più fosco, di grande emergenza: non sono in gioco solamente i soldi degli ingordi, e l’ambiente e la salute degli abitanti della val di Susa». La posta, quella vera, è un’altra ancora: «Qualcuno sta cercando di portare avanti una operazione tendente a colpire direttamente le forze interiori di una grande fetta della popolazione europea: non solo quelle dei cari e simpatici valligiani, ma quelle di tutti i piemontesi, degli abitanti di un vasto arco delle Alpi, e delle regioni che si protendono attraverso tutta la Francia verso Nord, e tutta l’Italia verso Sud». Una operazione «che parte da molto in alto nelle gerarchie delle piramidi che portano avanti le strategie oscure». All’esistenza reale di “piramidi oscure”, in cui opererebbero “Maghi Neri”, Carotenuto ha dedicato il saggio “Il mistero della situazione internazionale” (Uno Editori), che offre una spiegazione in chiave “spirituale” del malessere che sta colpendo il pianeta.Non si parla solo di generiche “energie”, di stampo new age: l’ex stratega dell’intelligence italiana allude specificamente a vere e proprie ritualità di tipo magico, innominabili e inconfessabili, che sarebbero praticate in segreto da esponenti del massimo potere. Obiettivo: sabotare il “risveglio” della coscienza dell’umanità. A questo, dice, servirebbe anche la sgangherata progettazione della linea Torino-Lione, l’infrastruttura più incoerente e ridicola del pianeta. Ma in realtà c’è ben poco da ridere, visto che si tratta di «un qualcosa di così importante che il fronte del potere politico, finanziario, economico, dei mass media – largamente influenzato e diretto dai vertici “oscuri” – sostiene in modo insolitamente compatto e granitico, senza apprezzabili sbavature». Il che è verissimo. A nulla è valsa, finora, la sacrosanta protesta dei valsusini contro «menti oscure, schiere di mercenari del potere e del denaro, centurie di coscienze spente e freddamente calcolatrici». Anni di appelli, firmati da centinaia di tecnici universitari, per svelare che l’opera sarebbe devastante, costosissima e soprattutto inutile; e mai nessuna risposta, né da Palazzo Chigi né dal Quirinale. Come se quella futuribile infrastruttura fosse, semplicemente, un tabù. Un dogma intoccabile. Un mistero, appunto: forse per noi, ma non per “loro”, sostiene Carotenuto.Da alcuni anni, scrive l’autore, una enorme “operazione risvegli” è in corso sulla Terra, sulla quale ovviamente i “poteri oscuri” hanno fatto calare una vera e propria congiura del silenzio. «Le forze del Male, o per meglio dire dell’Ostacolo, sono quelle – sia spirituali che terrene – che fanno di tutto per bloccare i risvegli appena iniziati», cioè l’esplosione di consapevolezza che conduce alla riscoperta dei valori umani, la solidarietà, l’amore (non come “buonismo”, ma come necessità vitale razionale). «Questo è lo sfondo della grande battaglia in corso sulla Terra: guerre, distruzioni, genocidi, terrorismo, operazioni finanziarie, aggressioni farmacologiche e alimentari, tecnologie antiumane. Sono alcune delle manifestazioni di questa lotta». E uno dei tanti scenari sui quali si svolge sarebbe quello dei “luoghi santi”, sorti – non a caso – proprio sui “nodi vitali” del pianeta, che secondo Carotenuto “funziona” come il corpo umano, che «è attraversato da una rete di invisibili centri vitali uniti da infiniti canali di energie: quelli che le medicine orientali usano da millenni». Canali che la medicina occidentale aveva dimenticato, «ma è ora costretta a riscoprire un po’ alla volta, se vuole smetterla di combinare disastri».Nelle tradizioni orientali, questi centri si chiamano “chakra” e sono i vortici vitali, mentre i “nadi” sono i canali energetici che li uniscono. La Terra funziona allo stesso modo, scrive Carotenuto: «La crosta terrestre è costellata di importantissimi “chakra” e “nadi”». E aggiunge: «Gli spiriti più avanzati dell’umanità, gli “iniziati” di tutti i tempi, hanno sempre avuto la conoscenza, e spesso la visione, di questa geografia sottile, ma fondamentale, della Terra. Grotte sacre, montagne sacre, foreste sacre, laghi e fiumi sacri. E poi vari tipi di energie: positive, negative, ambivalenti». Non a caso, «lungo i canali e sui centri vitali sono sorti dolmen, menhir, cerchi di pietre, piramidi, templi, cattedrali: erano e sono luoghi speciali, che favoriscono il contatto tra gli uomini e le dimensioni superiori». Questa rete, «in gran parte dimenticata negli ultimi secoli di materialismo», si starebbe ora “riattivando”, man mano che gli uomini, “risvegliandosi”, riscoprono le particolarità di certi luoghi. «Sta già avvenendo in embrione, ma ben di più avverrà in futuro, quando sempre più uomini capiranno di avere a disposizione delle importanti reti di luoghi energetici di cui avvalersi per supportare la propria crescita spirituale».E allora le “forze oscure”, quelle che «vogliono ostacolare l’evoluzione interiore dell’umanità», cosa hanno deciso di fare? «Sono partite per tempo a cercare in tutti i modi di “spegnere”, di devitalizzare i chakra, di sclerotizzare le arterie delle energie vitali per lo spirito». Anche così Carotenuto spiega gli «interventi di tutti i tipi» a cui stiamo assistendo, «con tonnellate di metallo, colate di cemento, prodotti sintetici “morti” e ostili, gallerie, deforestazioni, selve di antenne, viadotti, perforazioni petrolifere, spesso appositamente indirizzate per depotenziare e deformare la geografia sacra». E aggiunge: «Vengono effettuati interventi per “spegnere” cattedrali, come Chartres o Santa Maria di Collemaggio, per annullare antichi luoghi di iniziazione. Vengono colpiti luoghi sacri naturali o costruiti dagli antichi iniziati. Viene persino usato il “martello” del turismo di massa per abbattere con folle inconsce e disattente il livello vibrazionale di certi luoghi, come le piramidi, le cattedrali gotiche, o i grandi templi». Si tratterebbe di «una strategia composita e ben studiata». E la valle di Susa? Nella “geografia sacra del mondo”, rappresenterebbe «un punto fondamentale degli equilibri energetici europei».Un “chakra” importantissimo, scrive l’autore, è situato all’ingresso della valle, da cui si dipartono diversi “nadi”, canali energetici che vanno a creare un asse importantissimo verso nord-ovest e verso sud-est. «Quali sono i punti “noti” di questo asse? I tre meravigliosi santuari dedicati a San Michele. In un allineamento pressoché perfetto, la Sacra di San Michele – lo splendido edificio sacro medioevale all’imboccatura della val di Susa – è al centro di una precisa direttrice che va dal santuario dedicato a Michele di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, fino a quello sull’isola incantata di Mont Saint Michel, nel nordest della Francia». Sono tutti «luoghi sacri, luoghi di energie fortissime, che gli antichi conoscevano e usavano, e che gli uomini del “risveglio” torneranno ad usare». Non è casuale la ricorrenza del nome Michele, personificato in “arcangelo” con la cristianizzazione: il Michele della tradizione ebraico-cristiana, spiega Carotenuto, prima si chiamva Mercurio nell’antica Roma, Hermes in Grecia, Toth in Egitto. «E’ lo spirito guida dell’operazione “risvegli”», sostiene Carotenuto. Ed è ultra-presente nella fatidica valle di Susa, già bucherellata da mille infrastrutture e ora terrorizzata dallo spettro-Tav.«La crosta terrestre ha nelle sue profondità delle forze enormi, concentrate in certi luoghi, che gli antichi conoscevano bene e chiamavano forze della Dea Madre, della Madre Terra», argomenta l’analista. «Statue femminili nere, adorate in caverne o cripte, la rappresentavano: raffigurazioni sacre di tante divinità tra cui l’egizia Iside, e poi le madonne nere cristiane, a sancire l’alleanza positiva tra uomini e queste forze». Ma gli antichi, continua lo studioso, le chiamavano anche forze del “drago”, facendo riferimento al fatto che erano forze enormi, ma “selvagge”, utilizzabili sia per il bene che per il male, a seconda delle intenzioni umane. «In epoche antiche, gruppi di iniziati ispirati dal mondo spirituale decisero che per un lungo tratto dell’evoluzione umana bisognava che certe “forze del drago” di un importante asse energetico europeo fossero equilibrate, tenute sotto controllo e rivolte al bene. E che di questo equilibrio positivo si giovassero le popolazioni europee. Questo il motivo per cui degli edifici speciali, costruiti e “attivati” in modo del tutto particolare, furono eretti sopra montagne sacre piene di “forze del drago”, talvolta oscure. Santuari di Michele, che nella sua funzione tipica “tiene a bada le forze del drago”, per usarle in positivo e per lasciare liberi gli uomini di evolversi. Questo illustrano i quadri e le statue di San Michele».Il chakra centrale della valle di Susa, prosegue Carotenuto, non è fatto solamente del monte Pirchiriano su cui svetta la Sacra, ma di una serie di altri rilievi «carichi di forze importanti», e tra questi «uno in particolare assume un ruolo centrale nella geografia sacra: il monte Musinè», che è «un luogo dalle energie fortissime, uno dei principali in Europa». Lassù, le “forze spirituali del drago” hanno originato «un sottosuolo pieno di energie enormi, selvagge, che si manifestano in conformazioni rocciose insolite e piene di materiali “forti”, nocivi se liberati», che per l’analista «sono la manifestazione di forze spirituali altrettanto nocive su altri piani». Ma il Musinè, aggiunge, «è anche un’antenna volta verso incredibili energie positive cosmiche». Da sempre il monte è teatro di apparizioni continue di «luminescenze colorate, globi luminosi», custodisce «leggende di maghi e di draghi d’oro, di riti e di graffiti misteriosi fin dall’antichità più remota». Ed è un notissimo luogo di avvistamenti “Ufo” tra i più citati, fin dai tempi pionieristici di Peter Kolosimo. Persino la vegetazione che vi cresce è differente. «E’ il punto focale che probabilmente più di ogni altro ha creato quella base energetico-spirituale che ha fatto di Torino la città esoterica per eccellenza, nel bene e nel male. Come è tipico delle “forze del drago”».Per Carotenuto, la valle di Susa è dunque «una zona fortissima, al centro di un asse europeo spirituale fondamentale, forse il principale». Ed è stata «tenuta in equilibrio per secoli dalla spiritualità rappresentata da Michele, con le “forze del drago” domate e sepolte nel sottosuolo, in attesa della grande epoca dei “risvegli”». Da qui, secondo questa particolarissima visione, l’offensiva occulta delle “piramidi del Male”, attivate «dai livelli locali fino a quelli centrali europei». Una operazione strategica, «mirante ad alterare antichi equilibri per renderli inutilizzabili a fini positivi: scavare una enorme galleria nelle viscere della montagna sacra, per sconvolgere il “chakra” Musinè, portando alla luce forze oscure e potenti dalle profondità della Terra». Obiettivo segreto: «Liberarle dall’influsso positivo delle correnti cosmiche e della vicina presenza benefica della Sacra di San Michele. E poi affondare ulteriormente il bisturi di morte scavando un percorso di distruzione sul “nadi” che punta a Mont Saint Michel». In altre parole, in valle di Susa sarebbe in corso «il tentativo di portare un colpo al cuore della geografia sacra europea».Un vero e proprio attentato, stando a Carotenuto, «tale da appesantire le atmosfere psichiche, creare una cappa di piombo in una vasta zona del nostro continente: il tentativo di creare un vero e proprio “infarto” nella circolazione delle energie a disposizione di tutti noi per i nostri risvegli». Questo, conclude lo studioso, spiega la volontà granitica di «tutti i terminali politici, economici, finanziari e mediatici dei “poteri oscuri”, compatti nel sostenere l’operazione anche se la popolazione locale è solidale nel respingerla». I valsusini lo fanno «per la propria salute, messa a rischio dall’uranio e dall’amianto che verranno portati in superficie, e per salvare una natura già tanto colpita nel passato». Ma forse anche perché «il cuore dei valligiani, che è inconsciamente in contatto con la realtà spirituale delle cose, sa molto meglio della mente che bisogna resistere, opporsi con fermezza ed energia all’aggressione spirituale. E che bisogna farlo in modo consono alla nuova coscienza che si risveglia e si sviluppa: con la verità e la nonviolenza. Rispondere con la verità e la nonviolenza alla menzogna manipolatoria e alla violenza del fronte compatto che vuole sacrificarli: un fronte di poveri schiavi dei “poteri oscuri”, che hanno venduto pezzi della propria coscienza in cambio di tanti o pochi spiccioli; di grandi, ma anche di piccolissime poltrone».«Nessuno ne parla, ma questa aggressione è in corso da anni». Non si tratta di missili, veleni e cemento. «Vengono colpiti luoghi sacri naturali». In altre parole, è in pieno svolgimento una crociata – segreta – contro la geografia “invisibile” dei cosiddetti luoghi santi. E la prima linea del fronte sarebbe proprio la valle di Susa, investita dal progetto Tav. Che non sarebbe solo il consueto maxi-affare all’italiana. Molto peggio: un sortilegio malefico, per colpire a morte quello che è forse il più importante “chakra” terrestre europeo, il maggiore nodo energetico del continente. Per giunta situato sulla rotta che unisce, in linea retta, l’abbazia francese di Mont Saint-Michel al santuario di Monte Sant’Angelo, sul Gargano. Ombelico del “canale energetico”, l’abbazia medievale valsusina della Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte. Gli architetti occulti dell’operazione-Tav? «Sono innanzitutto esoteristi». A fare una simile affermazione, decisamente fuori ordinanza, è Fausto Carotenuto: non esattamente un visionario, ma un veterano dei servizi segreti italiani, per i quali ha lavorato come analista internazionale. Non ha dubbi: quella che è cominciata in valle di Susa è un’operazione “magica”, destinata a farci del male. Un atto di guerra, deliberato, contro il “drago” di uranio e amianto che dorme nel sottosuolo alpino. Un lavoro da stregoni, più che da gangster della politica.
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Ebola, i Marines si installano tra petrolio, oro e diamanti
Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».Anche se la possibilità che l’ebola si propaghi negli Stati Uniti è estremamente bassa, scrive Manlio Dinucci sul “Manifesto”, in un articolo ripreso da “Contropiano”, in Africa occidentale l’epidemia avrebbe già provocato la morte di «oltre 2.400 uomini, donne e bambini». Evento certamente tragico ma comunque limitato, osserva Dinucci, se lo si rapporta al fatto che l’Africa occidentale ha circa 350 milioni di abitanti e l’intera regione subsahariana quasi 950 milioni. «Ogni anno muore per l’Aids nella regione oltre un milione di adulti e bambini», senza contare che «la malaria provoca ogni anno oltre 600.000 morti, per la maggior parte tra i bambini africani», e inoltre «nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale la diarrea uccide ogni anno circa 600.000 bambini, oltre 1.600 al giorno, di età inferiore ai 5 anni». Sono “malattie della povertà”, dovute alla sottoalimentazione e alla malnutrizione, alla mancanza di acqua potabile, alle cattive condizioni igienico-sanitarie in cui vive la popolazione povera, che (secondo i dati della stessa Banca Mondiale) costituisce il 70% di quella totale, di cui il 49% si trova in condizioni di povertà estrema.«La campagna di Obama contro l’Ebola appare quindi strumentale», scrive Dinucci. «L’Africa occidentale, dove il Pentagono installa un proprio quartier generale con la motivazione ufficiale della lotta all’Ebola, è ricchissima di materie prime: petrolio in Nigeria e Benin, diamanti in Sierra Leone e Costa d’Avorio, fosfati in Senegal e Togo, caucciù, oro e diamanti in Liberia, oro e diamanti in Guinea e Ghana, bauxite in Guinea». Inoltre, «le terre più fertili sono riservate alle monocolture di cacao, ananas, arachidi e cotone, destinate all’esportazione», mentre «la Costa d’Avorio è il maggiore produttore mondiale di cacao». Beninteso: «Dallo sfruttamento di queste grandi risorse poco o nulla arriva alla popolazione, dato che i proventi vengono spartiti tra multinazionali ed élite locali, che si arricchiscono anche con l’esportazione di legname pregiato con gravi conseguenze ambientali dovute alla deforestazione».Gli interessi delle multinazionali statunitensi ed europee, continua Dinucci, sono però messi in pericolo dalle ribellioni popolari come quella nel delta del Niger, provocata dalle conseguenze ambientali e sociali dello sfruttamento petrolifero. Soprattutto, sul business euro-atlantico incombe la crescente concorrenza della Cina, «i cui investimenti sono per i paesi africani molto più utili e vantaggiosi». Così, proprio «per mantenere la propria influenza nel continente», gli Usa hanno costituito nel 2007 l’Africom: «Dietro il paravento delle operazioni umanitarie», l’African Command «recluta e forma nei paesi africani ufficiali e forze speciali locali, attraverso centinaia di attività militari». Importante base per queste operazioni è Sigonella, «dove è stata dispiegata una task force del corpo dei Marines». Dotata di convertiplani “Osprey”, la forza speciale «invia a rotazione squadre in Africa, in particolare in quella occidentale». Proprio dove inizia ora la campagna di Obama “contro l’Ebola”.Si scrive Ebola, ma si legge Business. Metalli preziosi, materie prime, terre rare. Grazie allo stato d’emergenza proclamato per la temutissima epidemia – in realtà assai meno letale delle altre patologie di massa che straziano l’Africa – gli Stati Uniti installano in Liberia, al crocevia delle maggiori ricchezze del continente nero, la nuova task force di Africom, il comando speciale delle forze armate statunitensi creato per contendere alla Cina il controllo sulle grandi risorse africane. Nulla di ciò, ovviamente, traspare dalla retorica di Obama, secondo cui i 3.000 soldati agli ordini del generale Darryl Williams, collegati con un centro logistico in Senegal e pronti a vigilare con funzioni di «comando e controllo» sugli ospedali da campo, dimostrano che solo l’America ha «la capacità e volontà di mobilitare il mondo contro i terroristi dell’Isis», di «chiamare a raccolta il mondo contro l’aggressione russa», oltre che di «contenere e debellare l’epidemia di Ebola», definita «senza precedenti», visto che «si sta diffondendo in maniera esponenziale in Africa occidentale».
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Moby: reggereste allo sguardo del vitellino al macello?
Quando avevo dieci anni stavo camminando vicino alla discarica della città e sentii alcuni “miagolii” che provenivano da una scatola. Aprii la scatola e dentro trovai tre gattini morti e uno che viveva a malapena (era cosi piccolo che aveva gli occhietti ancora chiusi). Presi il gattino e corsi immediatamente a casa. Io e mia madre saltammo subito in macchina (beh, non proprio letteralmente) e volammo dal veterinario. Il veterinario fu comprensivo ma per niente incoraggiante. «E’ raro che un gattino riesca a vivere senza la propria mamma quando è cosi piccolo», mi disse, «quindi cerca di non affezionarti troppo a lui». Portammo Tucker a casa (gli diedi il nome mentre eravamo in macchina) consapevoli che sarebbe morto subito, e inaspettatamente il nostro bassotto George lo adottò. George divenne la mamma sostituta di Tucker, pulendolo e mantenendolo al caldo, e Tucker visse per ben 18 anni.Un giorno, quando Tucker aveva 9 anni e io 19, ero seduto con lui sotto al sole sulle scale dell’appartamento suburbano di mia madre nel Connecticut, ed ebbi una visione. Gran parte delle illuminazioni sono evidenti, quindi forse troverai questa visione chiara. Ma comunque ecco l’illuminazione: seduto sui gradini pensai: «Io amo questo gatto. Farei qualsiasi cosa per proteggerlo e renderlo felice e allontanarlo dai pericoli. Lui ha quattro zampe, due occhi, un cervello eccezionale ed è pieno di sentimenti. Nemmeno tra mille miliardi di anni penserei di poter far male a questo gatto. E quindi perché mangio altri animali che hanno quattro (o due) zampe, due occhi, un cervello straordinario e sono ricchi di emozioni?». E mentre ero seduto con Tucker sulle scale del sobborgo urbano nel Connecticut diventai vegetariano. Questo avveniva nel 1985, 29 anni fa.Il motivo per cui divenni vegetariano è facile: amavo (e amo) gli animali e non voglio essere coinvolto in niente che li faccia soffrire. Come prima cosa dissi addio al pollo e al manzo. Poi al pesce (se hai mai passato del tempo con i pesci ti renderai conto abbastanza velocemente che loro soffrono molto quando vengono pescati, trafitti e intrappolati). Poi pensai: «Io non voglio contribuire alla sofferenza degli animali. Ma le condizioni delle mucche e dei polli nelle aziende, così come le condizioni dei produttori di uova, sono miserabili. Quindi perché dovrei ancora continuare a mangiare e bere latte e uova?». Così nel 1987 ho chiuso con tutti gli animali e sono diventato vegano. Semplicemente perché così posso vivere in armonia con le mie credenze che gli animali hanno la propria vita, che hanno tutto il diritto di viverla, e non sarò di certo io a dare il contributo alla sofferenza degli animali.Con il passare del tempo, il mio essere vegano è stato rinforzato dall’aver studiato nozioni sulla salute, il cambiamento climatico e sull’ambiente. Ho scoperto che le diete a base di carne, latticini e uova sono i più grandi responsabili dello sviluppo di diabete, problemi cardiaci e cancro nelle persone. Ho scoperto che la produzione di carne animale era responsabile del 18% del cambiamento climatico (più di qualsiasi macchina, autobus, camion, nave e aeroplano messi insieme). Ho scoperto che produrre una libbra di fagioli di soia richiede 200 galloni di acqua, ma che produrre una libbra di carne di manzo ne richiede 1.800. Ho scoperto che la causa principale della deforestazione tropicale è l’abbattimento degli alberi per creare terreni da pascolo per il bestiame. E ho scoperto che gran parte delle malattie di origine animale (la Sars, la mucca pazza, l’aviaria) sono un risultato dell’allevamento di animali. Ma come fattore decisivo ho scoperto che il mangiare alimenti ricchi di grassi, una dieta a base di carne animale, potrebbe portarti a una forma di impotenza (per questo non vedo ulteriori motivi per non essere vegano).Quindi, più studiavo l’ambiente e la salute e più mi convincevo di essere vegano. E mi vergogno a dirlo solo adesso, ma ho avuto l’inevitabile periodo vegano in cui ero l’insofferente vegano che rimproverava i suoi amici ogni volta che mangiavano carne. Ma con il tempo mi sono reso conto che quando rimproveravo i miei amici loro di certo non mangiavano meno carne, si innervosivano con me e non mi invitavano più alle loro feste. E forse, sarò anche egoista, ma io amo essere invitato alle feste dei miei amici. Ho imparato che urlare alle persone non è il modo migliore per farsi ascoltare. Quando urlo contro qualcuno poi loro si mettono sulla difensiva e diventano contrari a qualsiasi cosa tu stia cercando di dirgli. Però ho scoperto che parlare con rispetto alle persone e condividere con loro informazioni e fatti mi permette di farmi ascoltare e addirittura considerano i motivi per cui io sono diventato un vegano.Giusto per essere chiari: solo perché io sono vegano non ti sto dicendo che devi esserlo anche tu. Sarebbe paradossale se io rifiutassi di imporre la mia volontà agli animali però fossi contento di imporre la mia volontà agli umani. Ti dovresti informare nel modo migliore che puoi e dovresti vivere e mangiare nel modo che per te è il migliore. Però, dal punto di vista empirico ed epidemiologico, logicamente tu (e noi tutti, in realtà) hai maggiori possibilità di vivere una vita lunga, felice e sana se eviti di mangiare carne, maiale, pollo, latte e uova. E in ultimo ti esorto fermamente a evitare di mangiare prodotti di animali fatti nelle aziende agricole, perché le aziende agricole trattano i loro animali in maniera orribile, e la carne e i latticini che derivano dalle aziende agricole sono riempiti di antibiotici, ormoni sintetici, batteri minacciosi per la vita. A parte la salute, i cambiamenti climatici, l’impotenza, le malattie di origine animale, il degrado ambientale, la resistenza ormonale, vi faccio questa semplice domanda: riuscireste a guardare negli occhi un vitellino dicendogli: «Il mio appetito è più importante della tua sofferenza?».(Moby, sintesi dell’intervento “Ecco perché sono vegano”, pubblicato da “Rolling Stone” del 28 marzo 2014 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Quando avevo dieci anni stavo camminando vicino alla discarica della città e sentii alcuni “miagolii” che provenivano da una scatola. Aprii la scatola e dentro trovai tre gattini morti e uno che viveva a malapena (era cosi piccolo che aveva gli occhietti ancora chiusi). Presi il gattino e corsi immediatamente a casa. Io e mia madre saltammo subito in macchina (beh, non proprio letteralmente) e volammo dal veterinario. Il veterinario fu comprensivo ma per niente incoraggiante. «E’ raro che un gattino riesca a vivere senza la propria mamma quando è cosi piccolo», mi disse, «quindi cerca di non affezionarti troppo a lui». Portammo Tucker a casa (gli diedi il nome mentre eravamo in macchina) consapevoli che sarebbe morto subito, e inaspettatamente il nostro bassotto George lo adottò. George divenne la mamma sostituta di Tucker, pulendolo e mantenendolo al caldo, e Tucker visse per ben 18 anni.
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Il mondo fino a ieri: se governa la saggezza, non il potere
Recentemente è stato tradotto e pubblicato per Einaudi il libro dell’antropologo premio Pulitzer Jared Diamond che già dal titolo, “Il mondo fino a ieri. Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali”, si pone a confronto con la modernità. Nelle isole del Pacifico e dalle testimonianze sugli Inuit, sugli Indios dell’Amazzonia, sui San del Kalahari, sui Nuer o sugli Andamani e molti altri popoli, emerge il mondo di ieri e qui, fuori da una scontata nostalgia, torna per confrontarsi con la verità stessa della vita, che – ereticamente, per i contemporanei – non è fatta di desideri individuali da trasformare in diritti. Dai viaggi in aereo ai telefoni cellulari, dall’alfabetizzazione all’obesità, la maggior parte di noi dà per scontate le caratteristiche della modernità, ma la società umana, per la quasi interezza dei suoi svariati milioni di anni di vita, non ha conosciuto nulla di tutto ciò. E se il baratro che ci divide dai nostri antenati primitivi può apparirci incolmabile, osservando le società tradizionali ancora esistenti, o esistenti fino a poco tempo fa, possiamo farci un’idea di com’era il nostro antico stile di vita.
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Europa cannibale: prima divoratrice mondiale di foreste
In meno di vent’anni, tra il 1990 e il 2008, i consumi europei hanno causato l’abbattimento di foreste in varie parti del mondo per un’estensione pari ad almeno 9 milioni di ettari, una superficie paragonabile a quella dell’Irlanda. Peggio ancora di Usa e Canada: siamo noi europei i primi consumatori di foreste al mondo. Un triste primato, registrato il 2 luglio dalla stessa Unione Europea nel rapporto “The impact of Ee consumption on deforestation”. Secondo il Wwf, «emergono prove inquietanti su come l’Unione importi prodotti derivanti dalla deforestazione in quantità superiore a quella prevista, nonostante il suo impegno a ridurre la deforestazione tropicale del 50% entro il 2020». E dire che Bruxelles aveva promosso lo studio nel 2011 per contribuire a contrastare i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità a livello mondiale. Obiettivo: valutare l’impatto del consumo europeo sulla perdita delle foreste nel mondo. A quanto pare, i migliori boschi del pianeta li divoriamo alla velocità della luce: più che il legname, ci interessa il pascolo che si ottiene radendo al suolo gli alberi.