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Biglino: “custodi della Terra” minacciati, come aiutarli
Un libro non può cambiare il mondo, ma può dare un contributo concreto a una piccola parte di umanità che ha grande rilievo per il mondo. Il libro è “La Bibbia Nuda”, nel quale Giorgio Cattaneo intervista lo scrittore e studioso esperto di religioni Mauro Biglino; la comunità è quella degli indios del villaggio Jenipapo-Kanindé in Brasile. Due mondi distanti, resi vicini dalla volontà di Biglino di donare il ricavato derivato dai diritti editoriali a un progetto di sostegno alla comunità indigena. Quello voluto da un gruppo di donne italiane: il medico Elisabetta Soro, l’imprenditrice alberghiera Emanuela Piazza, entrambe residenti in Italia, e Paola Panzeri, insegnante di yoga in Brasile e braccio operativo sul territorio dell’organizzazione. I popoli indigeni sono i migliori “custodi della Terra” perché da millenni vivono in armonia con la natura preservandone l’integrità. Un’umanità variegata costituita dal 5-6% della popolazione mondiale (circa 400 milioni di persone) capace di tutelare nel loro territorio l’80% della biodiversità mondiale.Nel Ceará (Nordest del Brasile) vivono 14 popoli, tra i quali gli indios del villaggio Jenipapo-Kanindé. Una realtà nata intorno alla Lagoa Encantada, la laguna incantata sacra ai nativi, dalla quale si dirama una foresta che si arrampica sulle dune fino ad approdare alle spiagge senza fine dell’Oceano Atlantico. Una sorta di paradiso terrestre, dove vivono 476 persone in armonia con la natura. A capeggiarle è stata fino a poco tempo fa Maria de Lourdes Conceição, meglio conosciuta come “Cacique Pequena”, capo di tutte le tribù indigene della regione e prima donna a ricoprire tale ruolo nell’intero Sud America. Una signora carismatica e piena di energia, capace di preservare le antiche tradizioni indigene sviluppatesi nel corso dei secoli e a trasmetterle alla comunità anche tramite l’insegnamento della lingua d’origine a scuola. Giunta a 75 anni, ha ceduto lo scettro di responsabile comunitaria a un’altra donna, “Cacique Irè”.Di recente sono arrivate la riduzione dei contributi governativi alla comunità e le politiche ostili di Jair Bolsonaro, il presidente del Brasile. Atteggiamento avverso agli indios, che ha accentuato i tentativi di “conquistare” le terre indigene da parte di speculatori, desiderosi di profittare della bellezza del luogo per farne un resort di lusso o per sfruttarne le risorse naturali. Azioni condotte per lo più con la seduzione del denaro e di promesse di vita felice in città, a volte con arroganza sfociata in alcuni casi in vere e proprie minacce di morte. Secondo l’Articolazione dei Popoli Indigeni del Brasile (Apib) la politica anti-indigena «ha incitato e facilitato le invasioni di terre indigene» da parte di gruppi interessati nell’estrazione di materie preziose e legname, «causando deforestazione e contaminazione da mercurio e minerali pesanti o Covid-19, colpendo così la vita, la salute, l’integrità e l’esistenza stessa delle popolazioni indigene in Brasile». Un obiettivo perpetrato anche cercando di smantellare enti destinati alla tutela degli indios, come il Funai (Dipartimento agli Affari Indigeni del Brasile) o il Sesai, il sistema sanitario indigeno.La situazione critica ha indotto Elisabetta, Emanuela e Paola a escogitare via alternative per supportare il villaggio nella vita quotidiana e a preservare il territorio. In particolare, nel 2020 è stata avviata una raccolta fondi a sostegno degli studenti della scuola elementare della comunità. Iniziativa sfociata nell’acquisto di materiale didattico, della divisa scolastica (obbligatoria in Brasile), delle mascherine e di borracce in fibra di cocco. Parte del ricavato della raccolta ha finanziato le iniziative per la tutela delle culture indigene. In particolare, ha contribuito al viaggio a Brasilia, distante oltre 2.000 chilometri, di 50 donne rappresentanti delle varie comunità indios del Ceará per protestare contro le leggi volute da Bolsonaro per togliere i diritti agli indigeni. Attivismo sfociato lo scorso agosto con la presentazione presso il Tribunale penale internazionale dell’Aja, nei Paesi Bassi, di una denuncia per genocidio e crimini contro l’umanità a carico del presidente brasiliano.Un dossier dove si evidenzia come il governo abbia agito per «sterminare in tutto o in parte» i popoli indigeni, «sia attraverso la morte delle persone per malattia o omicidio, sia attraverso l’annientamento della loro cultura, risultante da un processo di assimilazione». L’impegno delle tre italiane è proseguito nel tempo per fare fronte alle necessità della comunità, come l’appello per recuperare coperte e indumenti pesanti per la trasferta a Brasilia o la lotteria organizzata per raccogliere i soldi per comprare un cellulare a Cacique Irè per mantenere la rete sociale con le altre comunità indigene. A volte l’offerta è arrivata da privati, come la donazione di materiale scolastico da parte di una struttura ricreativa locale o di libri per l’infanzia forniti da amici e cittadini comuni. Ora si stanno riprogrammando le visite di scuole al piccolo museo locale e di piccoli gruppi per escursioni nella natura o le degustazioni di cibo locale.L’obiettivo è di raccogliere fondi per realizzare e consegnare tavoli e sedie per la mensa scolastica, sempre realizzate con il riciclo di materiali, in questo caso i pallet per il trasporto delle merci. Da fare c’è pure l’ampliamento del tetto della mensa utilizzando elementi naturali come legno e paglia. Le ambizioni, però, sono molte: creare un’area multifunzionale culturale con computer e proiettori, graduale ampliamento della scuola, miglioramento delle strutture igieniche, costruzione di un ambulatorio medico per controlli periodici dei bambini e degli adulti, attivazione di corsi di formazione volti alla consapevolezza ambientale, ecologia, alimentazione e salute. Un serie di finalità per il quale Mauro Biglino sta fornendo, come anticipato, il proprio apporto devolvendo alla causa i diritti d’autore del suo ultimo libro.(Estratti dall’articolo “A difesa dei custodi della Terra”, pubblicato da “Slow Revolution” il 25 ottobre 2021).Un libro non può cambiare il mondo, ma può dare un contributo concreto a una piccola parte di umanità che ha grande rilievo per il mondo. Il libro è “La Bibbia Nuda”, nel quale Giorgio Cattaneo intervista lo scrittore e studioso esperto di religioni Mauro Biglino; la comunità è quella degli indios del villaggio Jenipapo-Kanindé in Brasile. Due mondi distanti, resi vicini dalla volontà di Biglino di donare il ricavato derivato dai diritti editoriali a un progetto di sostegno alla comunità indigena. Quello voluto da un gruppo di donne italiane: il medico Elisabetta Soro, l’imprenditrice alberghiera Emanuela Piazza, entrambe residenti in Italia, e Paola Panzeri, insegnante di yoga in Brasile e braccio operativo sul territorio dell’organizzazione. I popoli indigeni sono i migliori “custodi della Terra” perché da millenni vivono in armonia con la natura preservandone l’integrità. Un’umanità variegata costituita dal 5-6% della popolazione mondiale (circa 400 milioni di persone) capace di tutelare nel loro territorio l’80% della biodiversità mondiale.
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Sumeri, fenici e romani in America: la nostra vera storia
Chi siamo? Da dove veniamo? Dobbiamo imparare dai bambini: loro si chiedono sempre il perché di tutto. Io amo Platone, il suo metodo dialogico. Maieutica, in greco, significa ostetricia: farti nascere, stimolarti a trovare le risposte dentro di te. Nessuno di noi ha la verità in tasca, ma ognuno ha la capacità di arrivare a individuare una verità possibile. Il termine “verità” probabilmente è troppo grande, da usare. Però possiamo parlare di menzogna, questo sì. Da storico, ho sempre voluto indagare nei retroscena, della storia e della realtà che viviamo. E mi sono reso conto che tutto ciò che ci è stato insegnato è stato sempre finalizzato ad un solo obiettivo: il mantenimento dello status quo, il potere di chi comanda. Triste realtà: la storia la scrivono sempre i vincitori. I vinti, chiunque siano – i Troiani sconfitti dagli Achei, i Greci sconfitti dai Persiani, gli abitanti dell’Amazzonia sconfitti dalla deforestazione – non riescono mai a scriverla, la verità: vengono ridotti al silenzio. Sbagliatissimo: perché la ricostruzione del nostro passato riguarda tutti noi, sia i vincitori che i vinti, quelli che non hanno avuto la parola. E l’insegnamento della storia è sempre stato finalizzato a salvaguardare il potere di chi ha vinto.Quante bugie ci hanno raccontato, a partire dalla preistoria? Come ci sono state raccontate, le origini dell’umanità? Quante mistificazioni sono state perpetrate? In materia di storia e archeologia, lo Smithsonian Institute è una delle principali istituzioni culturali degli Stati Uniti, dove gestisce decine di musei. Ebbene, di recente è stato condannato da un tribunale federale americano, dopo una serie di denunce, per aver deliberatamente distrutto – nel corso di svariati decenni – migliaia di reperti archeologici “scomodi”. Perché mai distruggere un reperto archeologico? Perché tutto quello che va a infrangere il paradigma dominante è tabù: è vietato. Quest’anno c’è stata una censura terribile, su Internet, che continua tuttora. Ora, abbiamo a che fare con una situazione particolare: e chi mi conosce sa bene che, da un anno, sto combattendo una battaglia per la verità. Perché ci stanno raccontando parecchie bugie, su tanti fronti. Bugie sempre finalizzate al potere, al controllo, al dominio sulle masse. E la censura, purtroppo, fa parte di questo gioco: come nei tempi antichi, e poi nel medioevo e oltre.Fino al Sei-Settecento è rimasta il vigore la cosiddetta Santa Inquisizione: se personaggi come Galileo se la sono cavata abiurando, altri – come Giordano Bruno – hanno pagato con la vita il loro impegno a sostenere delle verità che il potere pretendeva di negare, di nascondere. E’ bene studiare, quindi, la vera origine e il reale percorso delle grandi civiltà. Ma soprattutto, è importante capire perché ci hanno imposto dei dogmi. Come mai la storia è piena di dogmi? Vengono chiamati “paradigmi”, ma in realtà sono veri e propri dogmi di fede. Io mi sono poi laureato in storia, ma la mia grande passione è sempre stata l’archeologia. Eppure faticavo: già ai tempi dell’università io ragionavo con la mia testa, e mi scontravo con i docenti. Mi dicevano: guarda che queste cose non le puoi dire. Non mi hanno mai detto: le tue osservazioni sono sbagliate. Macché: implicitamente mi davano ragione; ma mi spiegavano che certe cose non le potevo dire, perché infrangevano il famoso paradigma. Si deve sempre diffidare di chi pretende di essere un dispensatore di verità, da accettare come dogmi di fede.Si deve poter parlare di tutto: anche di Atlantide, e di altri continenti perduti. Perché mai, specie nella nostra civiltà occidentale, ci è sempre stato negato di conoscere un certo passato? Ho partecipato sul campo a tanti scavi archeologici (in Turchia, in Iran, in vari altri paesi) e conosco bene l’ambiente dell’archeologia. In effetti, tutto quello che non è coerente con i paradigmi vigenti, viene deliberatamente nascosto. Ci sono migliaia di reperti “scomodi” che sono stati distrutti. Ci sono siti “scomodi” che sono stati ricoperti e nascosti, addirittura vietandone l’accesso. E ci sono migliaia di reperti archeologici che vengono tuttora nascosti negli scantinati dei musei. E c’è un perché: danno fastidio. Potrebbero portare le persone a riflettere su altre sfaccettature della verità. Attraverso le civiltà antiche, ad esempio, si può arrivare a capire come si sono imposte le grandi religioni monoteistiche. Non voglio urtare la suscettibilità di nessuno, il mio atteggiamento è di grande rispetto; faccio però notare che Ebraismo, Cristianesimo e Islam hanno un comportamento dogmatico, esclusivistico.Io parlo di tutto: anche di come un’antica civiltà, di impronta matriarcale (presente in Europa fino alla tarda Età del Bronzo), sia stata poi soppiantata da una nuova cultura, di tipo patriarcale, che ha stravolto completamente gli antichi schemi della società. Anche questo viene generalmente omesso, dalla storiografia: viene taciuto, perché “scomodo”. Ancora oggi, infatti, ci troviamo in una società patriarcale, e quindi è diventato scomodo (quasi eretico) parlare di quello che c’era prima, e spiegare perché l’antica società matriarcale sia stata sostituita con il modello patriarcale. La Guerra di Troia è stata una delle vicende più epocali della storia antica. Molti pensano che sia stata semplicemente una guerra commerciale, per il controllo del traffico marittimo tra l’Egeo e il Mar Nero. Niente di più falso: quella fu una guerra di religione, e di cultura. Fu veramente l’apice dello scontro fra matriarcato e patriarcato. La civiltà troiana era fondata sul matriarcato e sul culto delle antiche divinità, gli dèi Titani, mentre gli avversari incarnavano una società patriarcale e bellicosa. Gli Achei si scontrarono con Troia per eliminare una cultura avversa.Il paradigma dominante deforma la storiografia anche riguardo al lungo arco del medioevo, a partire da quelle che sono state considerate eresie. Come mai il Cristianesimo ha considerato eretiche tante altre dottrine? Come mai è stata perseguitata quella che è stata chiamata stregoneria? Alludo a decine di migliaia di donne: non particavano magia, non celebravano oscuri rituali; semplicemente, praticavano ancora un rapporto simbiotico con le forze della natura (come già le loro antenate, per millenni). Conoscevano le proprietà curative delle erbe, secondo una tradizione millenaria: perché sono state torturate e condannate al rogo come streghe? Bisogna riflettere, su tutti questi sconvolgenti aspetti del nostro passato: perché purtroppo non riusciremmo mai a comprenderlo a fondo, il presente che viviamo, e nemmeno il futuro che ci attende, se non conosciamo davvero il nostro passato, cioè tutti gli errori che abbiamo commesso, e soprattutto tutti gli inganni che ci hanno propinato.Vogliamo parlare di quella che è considerata la scoperta dell’America? Il mio ultimo libro si intitola “I Minoici in America e le memorie di una civiltà perduta”. A scuola ci hanno insegnato che l’America è stata scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492. Una data simbolica, con la quale si vuole chiudere il medioevo e far iniziare l’età moderna. Ma poi, prove alla mano (dati archeologici), ci accorgiamo che in America ci sono andati tutti, prima di Colombo. Nel Gran Canyon del Colorado hanno trovato addirittura delle tombe egizie. Ovunque, in Brasile, le rocce sono piene di incisioni in lingua fenicia. Un manoscritto custodito nella biblioteca di Rio de Janeiro documenta il ritrovamento di un’antica città greca. Se andiamo in Messico, nel sito di Comalcalco (nella regione del Chiapas), sembra di essere a Ostia antica: è l’unica città dell’area Maya non edificata con pietre, ma con mattoni, secondo le tecniche edilizie romane. Mattoni con impressi i marchi dei fabbricanti, come usavano i costruttori romani (ci sono pure i loro nomi, infatti).Sempre in Messico sono state trovate delle teste di terracotta prettamente romane. Monete romane sono state trovate ovunque, nel territorio americano. Addirittura, un capo indiano dell’importante tribù dei Nasi Forati, sconfitto nel 1878 dal neonato esercito degli Stati Uniti, prima di essere costretto a trasferirsi in una riserva insieme al suo popolo, volle donare un omaggio al generale che l’aveva battuto sul campo: era il ciondolo che portava al collo, con – incastonata – una tavoletta in terracotta di origine sumera, scritta in caratteri cuneiformi. La sua tribù se l’era tramandata, di generazione in generazione, da millenni. Questa tavoletta – oggi esposta in un museo, in America – è stata tradotta. E’ una banalissima tavoletta d’archivio, che contiene una transazione commerciale: è la ricevuta d’acquisto di alcune capre, comprate per compiere un sacrificio propiziatorio alla vigilia di un lungo viaggio. Quindi, qualcuno – in Mesopotamia – ha comprato delle capre e le ha sacrificate, forse per propiziare la fortuna in vista del lungo viaggio che stava per intraprendere; ma questo viaggio l’ha portato dall’altra parte dell’Oceano, insieme alla ricevuta d’acquisto delle capre: quella tavoletta è finita in America.In Bolivia, negli anni ‘80, è stato scoperto un grande vaso rituale in pietra, per libagioni e offerte votive, che al proprio interno ha iscrizioni in sumero: cuneiforme sumerico, come quello della tavoletta del navigatore. Gli esempi analoghi sono centinaia. In Canada, ad esempio, è pieno di iscrizioni celtiche. Poi sappiamo – perché è documentato – di una flotta salpata da Portovenere, vicino a La Spezia, nel 1442: una flotta di navi fiorentine, comandata da Amerigo Vespucci (non quello che conosciamo: era suo nonno, e anche lui si chiamava Amerigo). Il 4 luglio di quell’anno, questa flotta arrivò all’estuario del fiume San Lorenzo, sulla costa atlantica del Canada, cinquant’anni prima del viaggio di Colombo. Di queste cose non troverete notizia, nei libri di storia, perché l’America era uno dei massimi segreti di Stato della famiglia Medici, che a Firenze iniziarono a importare l’oro americano: erano bravi banchieri, sapevano il fatto loro. Io ho trovato le prove di quel viaggio, e anche i nomi delle navi (che erano sette) e dei loro comandanti. La data di arrivo è stata tramandata, dai padri costituenti degli Stati Uniti: la festività del 4 Luglio non l’hanno creata a caso, ma in ricordo dell’arrivo delle navi fiorentine in America.(Nicola Bizzi, dichiarazioni rilasciate nella video-conferenza “Ripensare la storia”, su YouTube il 1° aprile 2021, a cura della Libera Università di Nuova Pedagogia, presso cui lo stesso Bizzi, storico e editore di Aurora Boreale, terrà un corso on line di storia “divergente”, dal titolo “Ripensare la storia: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo”. Un ciclo di 15 incontri per riflettere e per comprendere le nostre origini e il nostro ruolo su questo pianeta, immaginando anche il futuro che ci attende. Per informazioni sulle modalità di partecipazione al corso, basta inviare un’mail a: nuovapedagogia@gmail.com).Chi siamo? Da dove veniamo? Dobbiamo imparare dai bambini: loro si chiedono sempre il perché di tutto. Io amo Platone, il suo metodo dialogico. Maieutica, in greco, significa ostetricia: farti nascere, stimolarti a trovare le risposte dentro di te. Nessuno di noi ha la verità in tasca, ma ognuno ha la capacità di arrivare a individuare una verità possibile. Il termine “verità” probabilmente è troppo grande, da usare. Però possiamo parlare di menzogna, questo sì. Da storico, ho sempre voluto indagare nei retroscena, della storia e della realtà che viviamo. E mi sono reso conto che tutto ciò che ci è stato insegnato è stato sempre finalizzato ad un solo obiettivo: il mantenimento dello status quo, il potere di chi comanda. Triste realtà: la storia la scrivono sempre i vincitori. I vinti, chiunque siano – i Troiani sconfitti dagli Achei, i Greci sconfitti dai Persiani, gli abitanti dell’Amazzonia sconfitti dalla deforestazione – non riescono mai a scriverla, la verità: vengono ridotti al silenzio. Sbagliatissimo: perché la ricostruzione del nostro passato riguarda tutti noi, sia i vincitori che i vinti, quelli che non hanno avuto la parola. E l’insegnamento della storia è sempre stato finalizzato a salvaguardare il potere di chi ha vinto.
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Trovato l’Eldorado, ma è in pericolo: un film per salvarlo
Che bello, se a salvare l’Eldorado fosse la città di Firenze. Magari con l’aiuto di Mick Jagger, leggendario frontman dei Rolling Stones, notoriamente vicino alla causa degli indios peruviani. Idea: creare un docu-film, per raccontare questa storia. Che bello, allora, poter coinvolgere un attore come Colin Firth (Premio Oscar). E magari il grande regista Werner Herzog, autore dell’indimenticabile “Fitzcarraldo”, girato proprio nella selva andina dove, dopo l’infame tradimento di Pizarro e l’omicidio di Atahualpa, i reduci indigeni nascosero l’Indio Dorado, cioè la statua del dio Viracocha. Da qui la leggenda dell’El Dorado, il mitico paese d’oro, cercato invano per mezzo millennio. A fine 2012, a segnare un punto preciso sulla mappa del Perù è stato un outsider come Riccardo Magnani, bocconiano ed esperto di finanza, da qualche anno alla ribalta per i suoi studi – da autodidatta, ma rivoluzionari – su Leonardo e il Rinascimento. Da Firenze all’impero andino, è un attimo: «La verità è sotto i nostri occhi: basta decidersi a guardarla». Così, puoi arrivare a scoprire persino l’Eldorado. Salvo vedere che è in pericolo: miniere e taglialegna potrebbero decretare la fine degli ultimi superstiti Inca della terribile Conquista.Tutto parte dalla prima, clamorosa scoperta di Magnani. Una notizia che l’ufficialità fatica ancora a digerire: l’America era nel cuore della signoria medicea mezzo prima della decanta “scoperta dell’America”, attribuita al presunto Cristoforo Colombo, che secondo Magnani non è mai nemmeno esistito. E’ vero, detta così sembra una favola: ma i libri del ricercatore italiano sono lì a smentirlo, a colpi di prove e documentazioni. Un vortice di rivelazioni: «Lorenzo il Magnifico era un meticcio, nelle sue vene scorreva sangue reale Inca». Era il frutto dell’unione tra fiorentini ed esponenti della famiglia imperiale incaica («qualcosa che lo avvicina a Ludovico il Moro, campione della famiglia milanese Sforza, alleata dei Medici»). Sul “desco da parto”, prezioso manufatto celebrativo per la nascita di Lorenzo – dipinto dal fratello di Masaccio – compare la “mascapaicha”, caratteristico copricapo con tre penne che rappresenta la massima dignità regale e sacerdotale dell’Inca.Più tardi, alla morte dell’imperatore Pachacutec, Piero il Gottoso (padre di Lorenzo) incaricò Benozzo Gozzoli di affrescare la Cappella dei Magi a Palazzo Medici Riccardi, residenza medicea prima di Palazzo Vecchio: il dipinto raffigura il capostipite Cosimo de’ Medici (”pater patriae” della discendenza fiorentina) con in testa la “mascapaicha” dell’Inca. Era il 1459: all’ipotetica spedizione dell’ipotetico Colombo mancava ancora mezzo secolo. Com’è che i simboli del potere Inca erano già a Firenze, a ornare il capo dei signori della città? «Dobbiamo tutti trovare il coraggio di fare un passo indietro, e ammettere che troppe volte abbiamo preso un abbaglio nell’interpretare la storia», dice Magnani, ben conscio dell’ostracismo che ostacola i suoi studi, per ora sdegnosamente ignorati da storici dell’arte, medievisti e archeologi. Come si permette, il Magnani, di intromettersi in faccende che devono restare appannaggio della casta accademica degli addetti ai lavori?Vecchia storia: una volta che sei “inciampato” in una verità inimmaginabile, non riesci più a tornare indietro. Ovvio che l’America fosse conosciuta da sempre, fin dall’antichità. Meno scontato, invece, scoprire quanto l’Italia (la città di Dante, in particolare) fosse coinvolta con il popolo dell’Eldorado. Vuoi vedere che quel connubio tra Firenze e Cuzco, transoceanico e clandestino, poteva gettare nel panico il potere vaticano? «Le piazze rinascimentali italiane riproducono fedelmente le piazze cerimoniali andine, progettate per il culto del sole». Qualcuno a Roma ha temuto che la religione cristiana potesse essere soppiantata? Ecco allora il possibile movente, per un’idea destinata a fare storia: “fabbricare” la fake news di Colombo per poter finalmente ufficializzare l’esistenza dell’America, onde conquistarla – e per inciso, sterminare gli alleati americani di Firenze e delle altre potenti signorie italiane, prima che potessero riportare in Europa il culto solare?Era un culto antichissimo e diffuso in tutto il pianeta, soppresso dal cristianesimo e poi reintrodotto di soppiatto proprio a Firenze dal sommo filosofo bizantino Giorgio Gemisto Pletone, di fede eleusina, “padrino” segreto dell’operazione rinascimentale medicea che avrebbe poi “allevato” il giovane, fenomenale Leonardo. Affascinante, d’accordo: ma l’Eldorado? In termini leggendari, la storia della mitica città rivestita d’oro risale ai racconti dei conquistadores spagnoli. Il giornalista tedesco Karl Brugger, misteriosamente assassinato negli anni ’80, lo reinterpretò sotto forma di città sotterranea. Riccardo Magnani invece l’Eldorado lo ha scovato meno di dieci anni fa, nella selva andina del Regno del Paititi: il suo cuore segreto sarebbe rappresentato dalla cittadella dove Inkarri – vessato dai coloni di Pizarro – si sarebbe rifugiato, insieme al suo popolo. Da allora, quella popolazione vive nel più completo isolamento.All’individuazione del favoloso Paititi, Riccardo Magnani è arrivato a fine 2012, seguendo in percorso meno convenzionale: le stelle. Per la precisione, «il triangolo estivo della costellazione del Cigno». E’ uno dei fenomeni astronomici che l’uomo ha seguito fin dall’antichità, perché lo si immagina correlato al benessere. «Ho pensato che questo asterismo potesse essere replicato in alcuni siti megalitici del Sudamerica», spiega Magnani, in un video con Eleonora Fani. Il triangolo del Cigno «lo tiene in mano lo stesso Salvator Mundi, in un dipinto di incerta paternità che alcuni attribuiscono allo stesso Leonardo, e compare anche in un’altra opera, sicuramente leonardesca, come il Cartone di Sant’Anna». E qui – per collegare l’Italia al Perù – entra in gioco Google Earth: se un primo vertice del Triangolo del Cigno lo si adagia sulle Linee di Nazca, e un secondo sulla grande città precolombiana di Tiahuanaco, il terzo vertice svela la posizione del virtuale Eldorado: la Huaca del Sol, struttura cerimoniale quadrata, per il culto solare, situata proprio al centro dell’impenetrabile Paititi.Vista dall’alto, sottolinea Magnani, la Huaca del Sol presenta al suo interno un cerchio, un rettangolo e una linea retta. «Il cerchio fa pensare all’orologio solare di Cuzco, all’interno dell’analoga Huaca del Sol presente nell’antica capitale Inca, che secondo la leggenda sarebbe stata creata – incluse le piramidi a gradoni – a immagine e somiglianza del Paititi». Le immagini dal satellite sono eloquenti: in una vasta area amazzonica attorno all’ipotetica Huaca del Sol, appena localizzata in mezzo alla selva, compaiono ben visibili anche le piramidi. Altra scoperta: la piazza cerimoniale amazzonica è «perfettamente allineata, sull’asse dell’eclittica solare», con analoghe strutture anche lontanissime: a ovest l’Isola di Pasqua, mentre a est il sito megalitico di Rego Grande in Brasile, i megaliti africani dei Dogon in Mali, il sito di Giza in Egitto, Göbekli Tepe in Turchia e infine Xian in Cina. «Tutti siti perfettamente allineati: quindi, Paititi rientra nella storia generale dell’umanità: non è certo limitato alla storia andina».Riccardo Magnani non indossa i panni del probabilissimo scopritore del mitico Eldorado: «Della scoperta non me ne importa niente: io voglio salvare loro, gli “indios incontattati”, che oggi sono in pericolo di vita». Dall’intuizione di Magnani, negli ultimi 8 anni la selva peruviana è stata battuta da esploratori e avventurieri a caccia di tesori: «Uno è stato arrestato, due sono tornati indietro con le pive nel sacco», racconta lo studioso. «Sono passibili del reato di omicidio colposo: mettono a rischio vite, per il miraggio di un effimero successo personale». Ma c’è di peggio: «L’area del Paititi è minacciata dalle nuovissime attività di estrazione mineraria. E a seguire i minatori c’è uno stuolo di taglialegna abusivi, attratti dai boschi di mogano rosso». Risultato: uno scempio. E una fuga degli indigeni verso il Brasile, come confermato dalle autorità carioca che preservano l’integrità delle popolazioni amazzoniche. Quello che si prefigua, in altre parole, è un genocidio silenzioso.Un dramma: le autorità peruviane sono restie a riconoscere lo status di “nativi” agli eredi degli Incas, perché a quel punto scatterebbe la protezione integrale del territorio (e addio concessioni mineriarie, addio deforestazione). «La situazione è drammatica», conferma Magnani, che già a fine 2012 ha contattato personalmente le autorità di Lima. «Sono stato convocato dall’ambasciatore peruviano, a Roma, e poi il suo governo ha tenuto una riunione ministeriale». Ma niente da fare: «Tutto è stato lasciato cadere, perché oggi dei “nativi incontattati” non importa niente a nessuno: il problema è che sono la nostra storia, la nostra memoria». Sono in pericolo: «A sterminarli basterebbe il dono innocente di una t-shirt, il semplice virus del raffreddore basterebbe a scatenare un’epidemia micidiale». Il rischio è altissimo: «Ormai, cantieri e boscaioli illegali sono a 10 chilometri dai villaggi». In Perù, c’è chi si batte per i nativi: «E l’altra cattiva notizia, infatti, è che – dall’inizio di quest’anno – già 9 attivisti peruviani sono stati assassinati».Da qui l’idea del film: un documentario, che racconti questa vicenda sbalorditiva. Stanno per essere annientati gli ultimi discendenti dell’Inca che strinse un patto con l’Italia, ben prima del 1492, quando dell’America non si poteva ancora parlare. Magnani ha lanciato un appello per raccogliere fondi. Causale: “Salviamo El Indio Dorado”. Incoraggiante, l’avvio dell’operazione: «Sono già arrivate tante sottoscrizioni, anche cospicue. Cosa di cui ringrazio tutti profondamente. Siamo circa al 20% del budget necessario. Gireremo qualcosa a Firenze, ma soprattutto faremo costose riprese in Perù. Riprese aeree, per mostrare dall’alto le rovine di Paititi, i villaggi attorno, gli ultimi indios e la pericolosità dei contatti a cui sono esposti, oggi: nel fiume è stata rilevata la presenza velenosa di mercurio». Magnani ha le idee chiare: «Prima di chiedere, bisogna dare. E’ tempo di coraggio, di etica: fare qualcosa per stare bene tutti insieme, non a scapito di qualcun altro». Lui ha già avuto molto, da questa storia: ha scoperto l’America a Firenze, fino ad arrivare all’Eldorado. E ora ha voglia di “restituire”, aiutando. Mettersi a scavare, nel Paititi, alla ricerca di chissà cosa? Follia: in fondo, il vero Eldorado sono loro. Gli “indios incontattati”, gli eredi dell’Inca amico dell’Italia.(A chi volesse concorrere alla realizzazione del documentario, Magnani offre due testi inediti, in Pdf, con l’intera ricostruzione della vicenda. Ecco gli estremi per la donazione: IBAN IT93 V036 4601 6005 2635 2030 294, BIC NTSBITM1XXX, Banca N26, c/c Intestato a: Riccardo Magnani, Causale: Salviamo El Indio Dorado. Si chiede gentilmente di inviare una e-mail a paititi2013@gmail.com, con allegata la ricevuta della donazione; così sarà possibile spedire una e-mail di ringraziamento con le istruzioni per scaricare i Pdf realizzati appositamente per tutti i partecipanti all’iniziativa. Per avere ulteriori info: paititi2013@gmail.com. Sito del progetto: www.paititi2013.com. Nel 2020, Magnani ha pubblicato “Ceci n’est pas Leonardo”, sottotitolo “Quello che non vi dicono su Leonardo da Vinci e il Rinascimento Italiano”).Che bello, se a salvare l’Eldorado fosse la città di Firenze. Magari con l’aiuto di Mick Jagger, leggendario frontman dei Rolling Stones, notoriamente vicino alla causa degli indios peruviani. Idea: creare un docu-film, per raccontare questa storia. Che bello, allora, poter coinvolgere un attore come Colin Firth (Premio Oscar). E magari il grande regista Werner Herzog, autore dell’indimenticabile “Fitzcarraldo”, girato proprio nella selva andina dove, dopo l’infame tradimento di Pizarro e l’omicidio di Atahualpa, i reduci indigeni nascosero l’Indio Dorado, cioè la statua del dio Viracocha. Da qui la leggenda dell’El Dorado, il mitico paese d’oro, cercato invano per mezzo millennio. A fine 2012, a segnare un punto preciso sulla mappa del Perù è stato un outsider come Riccardo Magnani, bocconiano ed esperto di finanza, da qualche anno alla ribalta per i suoi studi – da autodidatta, ma rivoluzionari – su Leonardo e il Rinascimento. Da Firenze all’impero andino, è un attimo: «La verità è sotto i nostri occhi: basta decidersi a guardarla». Così, puoi arrivare a scoprire persino l’Eldorado. Salvo vedere che è in pericolo: miniere e taglialegna potrebbero decretare la fine degli ultimi superstiti Inca della terribile Conquista.
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Altro che clima: Greta Thunberg vale 100 trilioni di dollari
Seriamente: Greta Thunberg vale 100 trilioni di dollari. Lo afferma William Engdahl, analista geopolitico e docente di rischio strategico. Laureatosi a Princeton, Engdahl è autore di bestseller su temi come le guerre del petrolio, e scrive in esclusiva “New Eastern Outlook”. Su “Global Research”, il newsmagazine dell’economista canadese Michel Chossudovsky, Engdahl aggiorna la mappa del mostruoso business planetario che sta dietro alla ragazzina svedese, usata per creare allarmismo attorno al surriscaldamento climatico, “venduto” come prodotto umano. Passo successivo: innescare il business del secolo, il cosiddetto Green New Deal, pilotato dal gotha finanza mondiale. Il piano: riversare trilioni di dollari «verso investimenti in società “climatiche” spesso senza valore». Nel 2013, dopo anni di attenta preparazione, una società immobiliare svedese, Vasakronan, ha emesso il primo “Green Bond” aziendale. Ne sono seguiti altri, promossi da Apple, Sncf e la principale banca francese, Crédit Agricole. Nel novembre 2013 la Tesla Energy ha emesso il primo sistema di sicurezza “solare”. «Oggi, secondo una cosa chiamata Climate Bonds Initiative, oltre 500 miliardi di dollari in quelle obbligazioni verdi sono eccezionali. I creatori dell’idea obbligazionaria – scrive Engdahl – affermano che il loro obiettivo è quello di conquistare una quota importante dei 45 trilioni di dollari di attività gestite a livello globale che hanno preso l’impegno nominale di investire in progetti “climatici”».Bonnie Prince Charles, futuro “monarca” del Regno Unito, insieme a Bank of England e City of London ha promosso “strumenti finanziari verdi”, guidati da Green Bonds, «per reindirizzare piani pensionistici e fondi comuni di investimento verso progetti verdi». Un attore chiave nel collegamento delle istituzioni finanziarie mondiali con l’agenda verde è Mark Carney, capo uscente della Banca d’Inghilterra. Nel dicembre 2015, il Financial Stability Board della Bank for International Settlements, presieduto poi da Carney, ha creato la task force sulla divulgazione finanziaria legata al clima (Tcfd), per consigliare «investitori, finanziatori e assicurazioni sui rischi legati al clima». Nel 2016, continua Engdahl, il Tcfd (insieme alla City of London Corporation e al governo del Regno Unito) ha avviato la Green Finance Initiative, con l’obiettivo di incanalare trilioni di dollari in investimenti “verdi”. I banchieri centrali dell’Fsb hanno nominato 31 persone per formare il Tcfd. Presieduta dal miliardario Michael Bloomberg, la cabina di regia include le persone chiave dei maggiori operatori finanziari del pianeta. Ci sono tutti: da Jp Morgan a BlackRock, uno dei più grandi gestori patrimoniali al mondo.Nell’elenco giganteggiano Barclays e Hsbc, la banca Londra-Hong Kong (multata ripetutamente per riciclaggio di droga e altri fondi neri), Swiss Re (la seconda assicurazione più grande al mondo), la banca cinese Icvc, Tata Steel, Eni, Dow Chemical, il gigante minerario Bhp Billington e David Blood di Al Gore’s Generation Investment. «In effetti sembra che le volpi stiano scrivendo le regole per il nuovo Green Hen House», annota Engdahl. «Carney, della Bank of England, è stato anche un attore chiave negli sforzi per rendere la City di Londra il centro finanziario della Green Finance globale». Philip Hammond, già cancelliere britannico, nel luglio 2019 ha pubblicato un Libro bianco, “Strategia di finanza verde: trasformare la finanza per un futuro più verde”. Il documento afferma: «Una delle iniziative più influenti da far emergere è il Financial Stability Board Task Force del settore privato sulle comunicazioni finanziarie legate al clima (Tcfd), supportato da Mark Carney e presieduto da Michael Bloomberg. Ciò è stato approvato dalle istituzioni che rappresentano 118 trilioni di attività a livello globale». Il piano, spiega Engdahl, consiste nella finanziarizzazione dell’intera economia mondiale «usando la paura di uno scenario da fine del mondo per raggiungere obiettivi arbitrari come “emissioni zero di gas serra”».L’onnipresente regina di Wall Street, Goldman Sachs, che ha generato tra gli altri Mario Draghi e lo stesso Carney, ha appena svelato il primo indice globale di titoli ambientali di alto livello, fatto insieme al Cdp con sede a Londra, finanziato insieme a investitori come Hsbc, Jp Morgan, Bank of America, Merrill Lynch, American International Group e il fondo State Street. Il nuovo indice borsistico, denominato Cdp Environment Ew e Cdp Eurozone Ew, «mira ad attirare fondi di investimento, sistemi pensionistici statali come Calpers (il sistema pensionistico dei dipendenti pubblici della California) e Calstrs (il sistema pensionistico degli insegnanti dello Stato della California) con un combinato di 600 miliardi di attività, da investire in obiettivi scelti con cura. Le società più votate nell’indice includono Alphabet, che possiede Google, Microsoft, Ing Group, Diageo, Philips, Danone e la stessa Goldman Sachs. «A questo punto – continua Engdahl – gli eventi assumono una svolta cinica quando ci troviamo di fronte ad attivisti climatici molto popolari e fortemente promossi come la svedese Greta Thunberg o la 29enne Alexandria Ocasio-Cortez di New York e il loro Green New Deal. Per quanto sinceri possano essere questi attivisti, c’è una macchina finanziaria ben oliata dietro la loro promozione a scopo di lucro».Greta Thunberg, continua Engdahl, «fa parte di una rete ben collegata legata all’organizzazione di Al Gore», che viene «commercializzata in modo cinico e professionale e utilizzata da agenzie come le Nazioni Unite, la Commissione Europea e gli interessi finanziari dietro l’attuale agenda sul clima». Ricercatrice e attivista climatica canadese, Cory Morningstar documenta come in azione «una rete ben collegata ad Al Gore», definito «investitore e profittatore del clima enormemente ricco», presidente del gruppo Generation Investment. Il partner di Gore, David Blood, ex funzionario di Goldman Sachs, è membro del Tcfd creato dalla Banca dei Regolamenti Internazionali. «Greta Thunberg, insieme alla sua amica diciassettenne americana Jamie Margolin, è stata elencata come “consulente speciale per giovani e fiduciario” della Ong svedese “We Don’t Have Time”, fondata dal suo Ceo Ingmar Rentzhog». Rentzhog è membro dei leader dell’Organizzazione per la Realtà Climatica di Al Gore, e fa parte della task force per la politica climatica europea. È stato “addestrato” nel marzo 2017 da Al Gore a Denver e di nuovo nel giugno 2018 a Berlino. Il Progetto per la Realtà Climatica di Al Gore è partner di “We Don’t Have Time”.«I legami tra i più grandi gruppi finanziari del mondo, le banche centrali e le società globali all’attuale spinta a una strategia climatica radicale per abbandonare l’economia dei combustibili fossili a favore di un’economia verde vaga e inspiegabile, a quanto pare, valgono assai più della genuina preoccupazione di rendere il nostro pianeta un ambiente pulito e sano in cui vivere». Piuttosto, scrive Engdahl, quello degli “amici” di Greta è un programma di business intimamente legato all’Agenda 2030 dell’Onu, vocata all’economia “sostenibile” («e allo sviluppo letteralmente di trilioni di dollari di nuova ricchezza per le banche globali e i giganti finanziari»). Nel febbraio 2019, Jean-Claude Juncker accolse Greta alla Commissione Europea, fingendo di impegnarsi per il clima sulla scorta della denuncia della ragazzina. In realtà, spiega Engdahl, le «centinaia di miliardi di euro per combattere i cambiamenti climatici nei prossimi 10 anni» erano già in cantiere: decisione presa in collaborazione con la Banca Mondiale un anno prima, il 26 settembre 2018, al vertice di One Planet con le fondazioni di Bloomberg. Greta serviva solo come paravento etico per il business finanziario che usa il “green” per rastrellare fondi e lanciare prodotti speculativi.Il 17 ottobre 2018, aggiunge Engdahl, Juncker ha firmato un memorandum d’intesa con Breakthrough Energy-Europe, in cui i partner «avranno accesso preferenziale a qualsiasi finanziamento». Nel club figurano Richard Branson di Virgin Air, Bill Gates, Jack Ma di Alibaba, Mark Zuckerberg di Facebook, Ray Dalio di Bridgewater. Ancora: Julian Robertson (Tiger Management) e poi David Rubenstein (Carlyle Group), nonché George Soros e il giapponese Masayoshi Son (Softbank). Avverte Engdahl: «Quando le multinazionali più influenti, i maggiori investitori istituzionali del mondo tra cui BlackRock e Goldman Sachs, le Nazioni Unite, la Banca Mondiale, la Banca d’Inghilterra e altre banche centrali della Bri si schierano dietro il finanziamento di una cosiddetta “agenda verde”, è tempo di guardare dietro la superficie delle campagne degli attivisti del clima». Quello che emerge è il tentativo di riorganizzare la finanza mondiale usando il clima come pretesto. Allarme: vogliono «cercare di convincere la gente comune a compiere sacrifici indicibili per “salvare il pianeta”». Già nel 2010, il capo dell’Ipcc, il gruppo intergovernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici, Otmar Edenhofer, ammetteva: «Bisogna dire chiaramente che ridistribuiamo di fatto la ricchezza del mondo in base alla politica climatica». Parole esplicite: «Bisogna liberarsi dall’illusione che la politica internazionale sul clima sia una politica ambientale. Questo non ha quasi più nulla a che fare con la politica ambientale, con problemi come la deforestazione o il buco dell’ozono». Soldi, prima di tutto. Capito, gretini?Seriamente: Greta Thunberg vale 100 trilioni di dollari. Lo afferma William Engdahl, analista geopolitico e docente di rischio strategico. Laureatosi a Princeton, Engdahl è autore di bestseller su temi come le guerre del petrolio, e scrive in esclusiva su “New Eastern Outlook”. Su “Global Research“, il newsmagazine dell’economista canadese Michel Chossudovsky, Engdahl aggiorna la mappa del mostruoso business planetario che sta dietro alla ragazzina svedese, usata per creare allarmismo attorno al surriscaldamento climatico, “venduto” come prodotto umano. Passo successivo: innescare il business del secolo, il cosiddetto Green New Deal, pilotato dal gotha finanza mondiale. Il piano: riversare trilioni di dollari «verso investimenti in società “climatiche” spesso senza valore». Nel 2013, dopo anni di attenta preparazione, una società immobiliare svedese, Vasakronan, ha emesso il primo “Green Bond” aziendale. Ne sono seguiti altri, promossi da Apple, Sncf e la principale banca francese, Crédit Agricole. Nel novembre 2013 la Tesla Energy ha emesso il primo sistema di sicurezza “solare”. «Oggi, secondo una cosa chiamata Climate Bonds Initiative, oltre 500 miliardi di dollari in quelle obbligazioni verdi sono eccezionali. I creatori dell’idea obbligazionaria – scrive Engdahl – affermano che il loro obiettivo è quello di conquistare una quota importante dei 45 trilioni di dollari di attività gestite a livello globale che hanno preso l’impegno nominale di investire in progetti “climatici”».
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Sì, l’Amazzonia brucia. Ma meno del cervello dei creduloni
Le decine di migliaia di incendi in corso in Amazzonia in questo momento hanno attirato l’attenzione di ambientalisti, politici e celebrità hollywoodiane. Sfortunatamente, molti di loro hanno diffuso cattive informazioni sotto forma di immagini vecchie di decenni e fatti errati, come l’affermazione per la quale l’Amazzonia è il “polmone del mondo”. Cristiano Ronaldo, Madonna, Greta Thunberg e Macron hanno postato immagini di foreste in fiamme che sono riferite ad altri luoghi del pianeta, e non all’Amazzonia, ma come al solito nessuno ha osato parlare di fake news pilotate per ottenere consensi. Tutti, da “Avvenire” a “Linkiesta”, sottolineano che la foresta sudamericana produce il 20% dell’ossigeno della Terra. Come ogni estate, per riempire i giornali e usare un po’ di frasi fatte, ribadiscono pure che «non si è mai visto nulla di tutto ciò». Balle! Solo pochi media, e sommessamente dopo averlo chiesto agli esperti, hanno osservato che la foresta amazzonica produce meno del 6% dell’ossigeno necessario al pianeta. Come osservato dallo scienziato Dan Nepstad, ad esempio, campi coltivati e pascoli producono la stessa quantità di ossigeno delle foreste.Inoltre, non è nemmeno vero che il mondo si stia deforestando; e il dato più tranquillizzante pare venire dall’Europa, complice la crisi industriale, perché a quanto pare nel Vecchio Continente c’è più vegetazione rispetto a cento anni or sono. Nepstad c’è andato giù pesante: «Sono stronzate», ha dichiarato. «Non c’è scienza dietro a ciò. L’Amazzonia produce molto ossigeno ma usa la stessa quantità di ossigeno attraverso la respirazione, quindi è un lavaggio». Secondo Nepstad, inoltre, il numero di incendi nel 2019 è solo del 7% superiore alla media degli ultimi 10 anni. Come se non bastasse, è uscita a dir poco in sordina la notizia che in Africa in queste ore ci sono più fiamme che in Amazzonia. Secondo i dati raccolti dalla Nasa, infatti, l’Angola e parte della repubblica del Congo starebbero bruciando più che nei dintorni di Manaus in Brasile. Ci sono prove a sostegno di questa affermazione? Indizi utili arrivano dalle applicazioni di allerta incendi come Global Forest Watch e Firms, installate sui satelliti della Nasa: «In base alle analisi condotte da Weather Source, negli ultimi giorni sono stati registrati quasi 7.000 roghi in Angola, 3.395 nella Repubblica Democratica del Congo e 2.217 in Brasile».Non è facile comprendere il motivo delle fake sull’Amazzonia e del silenzio sugli altri disastri, quelli africani in primis. Però si possono formulare alcune ipotesi. Com’è noto, infatti, il presidente Bolsonaro (che, beninteso, mi è simpatico come un paio di mutande sporche) ha prima rifiutato (e poi ritrattato) la profferta d’aiuto dalla Francia. Dopo Macron ci ha pensato anche Trudeau, il presidente del Canada, famoso per i suoi calzini. Il poeta Virgilio direbbe “timeo danaos et dona ferentes”, cioè “temo i greci anche quando portano regali”. E i doni di Marcon e Trudeau sembrano alquanto sospetti, visto che come dimostrato c’è chi è messo molto peggio (l’Africa) in tema d’incendi, mentre quelli brasiliani non sembrano affatto una novità. E dunque, perchè tutta questa attenzione? Forse l’Occidente che conta, riunitosi in pompa magna al G7 fancese, vuole mettere il cappello in casa d’altri, come al solito, oppure impedire la deforestazione per ostacolare le infrastruttre di paesi che potrebbero fungere da alternativa (Brics). Oppure, semplicemente, perchè i due fighetti del G7 sono buoni e aiutano chiunque sia in difficoltà. Scegliete voi.(Massimo Bordin, “L’Amazzonia brucia, ma mai come il cervello dei creduloni”, da “Micidial” del 28 agosto 2019. Il citato Dan Nepstad, dottore forestale e fondatore dell’Earth Innovation Institute, ha lavorato nell’Amazzonia brasiliana per oltre 30 anni, studiando l’impatto dell’uomo nella regione. Autorità mondiale in materia di sviluppo rurale a basse emissioni, ha lavorato nelle più prestigiose fondazioni scientifiche legate alle discipline ecologiche, insegnando anche all’Università di Yale. E’ stato co-fondatore dell’Amazon Environmental Research Institute (Ipam) e dell’Aliança da Terra. È stato inoltre il principale promotore del gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici Wg2).Le decine di migliaia di incendi in corso in Amazzonia in questo momento hanno attirato l’attenzione di ambientalisti, politici e celebrità hollywoodiane. Sfortunatamente, molti di loro hanno diffuso cattive informazioni sotto forma di immagini vecchie di decenni e fatti errati, come l’affermazione per la quale l’Amazzonia è il “polmone del mondo”. Cristiano Ronaldo, Madonna, Greta Thunberg e Macron hanno postato immagini di foreste in fiamme che sono riferite ad altri luoghi del pianeta, e non all’Amazzonia, ma come al solito nessuno ha osato parlare di fake news pilotate per ottenere consensi. Tutti, da “Avvenire” a “Linkiesta”, sottolineano che la foresta sudamericana produce il 20% dell’ossigeno della Terra. Come ogni estate, per riempire i giornali e usare un po’ di frasi fatte, ribadiscono pure che «non si è mai visto nulla di tutto ciò». Balle! Solo pochi media, e sommessamente dopo averlo chiesto agli esperti, hanno osservato che la foresta amazzonica produce meno del 6% dell’ossigeno necessario al pianeta. Come osservato dallo scienziato Dan Nepstad, ad esempio, campi coltivati e pascoli producono la stessa quantità di ossigeno delle foreste.
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Amazzonia in fiamme: il business di Carrefour, Nestlé e soci
L’incendio dell’Amazzonia e l’oscuramento dei cieli da San Paolo in Brasile e a Santa Cruz in Bolivia hanno catturato la coscienza del mondo. «Gran parte della colpa degli incendi è giustamente caduta sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro per aver incoraggiato direttamente l’incendio delle foreste e il sequestro delle terre delle popolazioni indigene». Ma l’incentivo alla distruzione proviene da grandi aziende internazionali di carne e soia come Jbs e Cargill, e dai marchi globali come Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart, Asda e Sysco, che acquistano da loro e vendono al pubblico. «Sono queste aziende che stanno creando la domanda internazionale che finanzia gli incendi e la deforestazione». Lo scrive “Shorthand”, piattaforma internazionale no-profit di giornalisti impegnati su temi etici, sociali ed ecologici. In pratica, sottolinea “Shorthand” in un post tradotto da “Coscienze in Rete”, siamo noi – indirettamente, al supermercato – ad alimentare la devastazione criminale delle foreste. E la distruzione non è limitata al Brasile: «Appena oltre il confine, nell’Amazzonia boliviana, in poche settimane sono bruciati un milione di ettari, in gran parte per liberare la terra per nuove piantagioni di bestiame e di soia. E il Paraguay sta vivendo una simile strage». Lo confermano i recenti rapporti di una Ong che sta monitorando il fenomeno, “Mighty Earth”: i peggiori in campo sono due colossi come Jbs e Cargill.«La domanda interna e internazionale di carne bovina e di cuoio ha alimentato la rapida espansione dell’industria del bestiame in Amazzonia», spiega “Shorthand”. Dal 1993 al 2013, il bestiame amazzonico si è espanso di quasi il 200% raggiungendo i 60 milioni di capi. «Mentre la deforestazione per il bestiame era stata ridotta sia grazie al settore privato che all’azione del governo, la nuova ondata di deforestazione quest’anno mostra che le grandi aziende internazionali di carne bovina e di cuoio, i loro clienti e finanziatori continuano a creare mercati per i bovini basati sulla deforestazione». La compagnia più coinvolta dalla deforestazione è Jbs: è il più grande confezionatore di carne del Brasile, nonchè la più grande azienda di carne del mondo. «Come altri importanti confezionatori di carne brasiliani, Jbs ha firmato la “moratoria del bestiame” del 2009, impegnandosi a non acquistare carne bovina da bestiame legata alla deforestazione». Ma c’è il trucco: «Le indagini del governo e delle Ong hanno ripetutamente riscontrato gravi violazioni da parte di Jbs, anche attraverso il riciclaggio di bestiame». Questi scandali hanno raggiunto la loro apoteosi con il caso Cold Meat (Carne Fria) nel 2017, in cui le forze dell’ordine brasiliane «hanno prodotto ampie prove che dimostrano che Jbs stava ricavando bestiame da aree protette».Questa e altre indagini hanno scoperto che Jbs ha violato sia le norme del governo sia le proprie politiche, acquistando bestiame riciclato che era stato allevato in aree collegate alla deforestazione e poi trasportato in “ranch puliti” per eludere i requisiti. I due fratelli che controllano la compagnia furono incarcerati per il loro ruolo negli scandali di corruzione in Brasile. Poi ci sono le catene di approvvigionamento della soia, che funzionano in modo diverso rispetto al bestiame. «I grandi coltivatori trasportano abitualmente la loro soia lungo l’autostrada Br-163 fino al porto principale di Cargill a Santarem, dove viene imbarcata e inviata in tutto il mondo per alimentare il bestiame in Europa, Cina e altrove». Cargill, Bunge e altri importanti commercianti hanno partecipato alla “moratoria della soia amazzonica” in Brasile negli ultimi dodici anni, in cui si sono impegnati a cessare l’approvvigionamento da fornitori che si sono impegnati nella deforestazione per la soia. Tuttavia, la “moratoria della soia” conteneva importanti lacune. Per esempio, «i grandi commercianti possono continuare ad acquistare soia dagli agricoltori che praticano la deforestazione su larga scala, purché la deforestazione sia per colture diverse dalla soia».L’ubicazione della deforestazione vicino alla Br-163 suggerisce che gli agricoltori stanno sfruttando questa scappatoia per continuare la deforestazione – aggiunge “Shorthand” – anche quando vendono soia a grandi commercianti come Cargill e Bunge. In secondo luogo, la “moratoria della soia” si applica solo all’Amazzonia brasiliana. E invece, i principali commercianti di soia hanno continuato a guidare la deforestazione anche nel bacino dell’Amazzonia boliviana, nel Cerrado brasiliano e nel Gran Chaco di Argentina e Paraguay. Due rapporti di “Mighty Earth”, precisamente “The Ultimate Mystery Meat” e “Still At It”, hanno mostrato gli estesi legami di Cargill con la deforestazione nel bacino dell’Amazzonia boliviana e il suo ripetuto rifiuto di agire contro i principali fornitori, anche di fronte a prove ripetute. E nonostante tutta l’attenzione che sta ricevendo l’Amazzonia, con le centinaia di milioni di ettari andati in fumo in Brasile, è stata ulteriormente disboscata anche la foresta vergine del Cerrado, famosa per la sua ricca biodiversità. «Mentre l’80% dell’Amazzonia è ancora intatto, gli interessi del bestiame, della soia e dell’agricoltura hanno distrutto più della metà del Cerrado, mettendo questo ecosistema a rischio ancora maggiore».“Mighty Earth” ha scoperto che nel Cerrado, dove è continuata la deforestazione, due erano le compagnie principali responsabili della deforestazione, Cargill e Bunge. «Cargill è il maggiore commerciante di soia proveniente dal Brasile e la più grande azienda alimentare e agricola del mondo». Un rapporto di Mighty Earth diffuso a luglio, “The Worst Company in the World”, ha profilato la vasta deforestazione di Cargill in Sud America e in altre parti del mondo, basandosi su precedenti indagini in Bolivia, nel Cerrado brasiliano, in Paraguay e in Argentina. «Sebbene Bunge abbia un ruolo di primo piano nel Cerrado, in tutto il Sud America – in Bolivia, Paraguay e Argentina – le precedenti analisi di deforestazione di “Mighty Earth” (legate alla soia destinata a diventare mangime per animali) hanno riscontrato che la Cargill era strettamente associata alla deforestazione». La compagnia ha rifiutato di interrompere i rapporti coi fornitori che “Mighty Earth” aveva scoperto essere coinvolti nella deforestazione, e in più «ha resistito agli sforzi per espandere il monitoraggio della deforestazione in Sud America al di fuori dell’Amazzonia brasiliana».C’è tanta Europa, insieme agli Usa, nella devastazione del Sudamerica. Sempre “Shorthand” fornisce una mappa estremamente precisa dei marchi coinvolti nel disastro, come acquirenti dei prodotti ottenuti dalla deforestazione. In primo piano ad esempio c’è l’Olanda con il colosso della grande distribuzione Ahold Delhaize, che possiede Stop & Shop, Giant, Food Lion e Hannaford negli Stati Uniti, e inoltre Albert Heijn, Delhaize, Etos, Albert, Alfa-Beta e altri ancora in Europa. «Pur sostenendo costantemente i propri impegni di sostenibilità, Ahold continua a vendere i suoi prodotti ai clienti da alcune delle peggiori aziende del mondo». Per quanto “grandiose” siano le azioni di Ahold Delhaize, non sono le sole: McDonald’s è probabilmente «il cliente più grande e più importante di Cargill», accusa “Shorthand”. «I ristoranti di McDonald’s sono essenzialmente vetrine di negozi per Cargill». L’azienda brasiliana «non solo fornisce pollo e manzo a McDonald’s, ma prepara e congela hamburger e McNugget, che McDonald’s semplicemente riscalda e serve». Poi c’è l’americana Sysco: con 55 miliardi di entrate annue, è il più grande distributore al mondo di prodotti alimentari a ristoranti, strutture sanitarie, università, hotel e locande. Anche Sysco si rifornisce nel Brasile in fiamme.Nonostante assicuri il contrario («proteggeranno il pianeta promuovendo pratiche agricole sostenibili, riducendo la nostra impronta di carbonio e deviando i rifiuti dalle discariche, al fine di proteggere e preservare l’ambiente per le generazioni future»), i manager di Sysco «hanno onorato Cargill come il fornitore più apprezzato di carne suina e manzo», facendo anche «affari per 525 milioni di dollari con Jbs, nel 2019, attraverso vendite e altre partnership». Da Sysco a Costco, sempre negli Usa: «Sia Jbs che Cargill elencano Costco come uno dei loro principali clienti», continua “Shorthand”. «Popolare tra le famiglie e i proprietari di piccole imprese, è il terzo più grande rivenditore al mondo». Anche Costco cerca di barare: dichiara di «procurarsi i propri prodotti in modo rispettoso per l’ambiente e per le persone». Sul loro web, un catalogo di ottime intenzioni: «Il nostro obiettivo – si legge – è contribuire a fornire un impatto positivo netto per le comunità in paesaggi che producono materie prime, facendo la nostra parte per aiutare a ridurre la perdita di foreste naturali e altri ecosistemi naturali, che includono praterie, torbiere, savane e zone umide autoctone e intatte». Peccato che, secondo “Bloomberg”, Costco abbia trattato affari, quest’anno, per un miliardo e mezzo di dollari proprio con Jbs.Tra gli “eroi” dell’Amazzonia figura anche la remota Australia, con la sua catena di fast food Burger King: ha detto al fornitore Cargill che cesserà di acquistare prodotti da aree deforestate, ma solo a partire dal 2030. Importante cliente anche di Jbs, l’altro “mostro” che sta devastando la foresta amazzonica, Burger King fa parte della catena Rbi (Restaurant Brands International) che comprende anche Tim Horton e Popeye. Tra tante eccellenze etiche, poteva mancare la Svizzera? Un nome, una garanzia: Nestlé. «E’ stata tra le prime aziende a prendere impegni su “zero deforestazione”, ma ha iniziato a monitorare effettivamente le sue catene di approvvigionamento nove anni dopo, nel 2019 – e solo per l’olio di palma, non per la soia o la cellulosa». Se il 77% della sua catena di approvvigionamento è certificato come “privo di deforestazione”, in compenso Nestlé «continua ad acquistare da Cargill per la sua sussidiaria per alimenti per animali domestici, Nestlé Purina Petcare». E i dati di “Bloomberg” mostrano anche Nestlé come uno dei principali clienti di Marfrig, uno dei devastatori dell’Amazzonia. Dalla Svizzera alla Francia, poi, il passo è breve: ed ecco Carrefour, colosso della grande distribuzione. Attenzione: «Carrefour è la maggior parte proprietaria delle più grandi catene di supermercati del Brasile», con carni che vengono direttamente dalla deforestazione.Carrefour ha collegamenti significativi con le catene di fornitura Cargill e Jbs, precisa “Shorthand”. Anche la mega-azienda francese si è impegnata ad eliminare la deforestazione dai suoi prodotti entro il 2020, «ma la politica non si applica ai prodotti di carne bovina trasformati o congelati». Il che significa che «solo circa metà della distribuzione di carni bovine Carrefour in Brasile è coperta dalla sua politica di “deforestazione zero”». Secondo la “Chain Reaction Research”, appena il 35% delle carni bovine del campione Carrefour esaminato «proveniva da macelli situati all’interno dell’Amazzonia legale». Parla francese anche il gruppo Casino, con marchi come Géant Casino, Casino Supermarchés, Hyper Casino, Le Petit Casino, Casino Shop, Monoprix, Naturalia, Franprix, Leader Price, Spar, Vival, Cdiscount, Sherpa e Easydis. Gigante transalpino del supermercato, Casino vede premiata la sua reputazione per la sostenibilità. «Ma in quanto seconda catena di supermercati in Brasile, continua ad acquistare da Cargill, Bunge e dai principali fornitori di bestiame brasiliano». Sempre in Francia è basata Leclerc, catena di negozi con oltre 600 sedi in patria e più di 120 negozi all’estero. La sua politica ecologica è un colabrodo, secondo “Sherpa”, “France Nature Environment” e “Mighty Earth”: «Leclerc ha fallito nelle misure di sostenibilità della soia a tutti i livelli».La società – aggiunge “Shorthand” – rifiuta di aderire alle chiamate del settore per proteggere il Cerrado in via di estinzione. In più, non ha adempiuto agli obblighi legali di tracciatura dei prodotti in origine, non menzionando neppure il fantasma della deforestazione. «L’ultimo rapporto sulla sostenibilità di Leclerc non cita alcun impegno in materia di approvvigionamento di carne o di altre materie prime, tranne l’olio di palma». Chiude la lista del disonore l’americana Walmart, con sede in Arkansas: è la più grande azienda al mondo per fatturato e anche il più grande datore di lavoro privato. Walmart ha anche una presenza importante nel Regno Unito, attraverso la sua controllata Asda. Politica dichiarata: «Come membro del Consumer Goods Forum, abbiamo supportato la risoluzione per raggiungere la “deforestazione zero” nella nostra catena di approvvigionamento entro il 2020». L’azienda acquista carne di manzo, soia e olio di palma. Dice di «incoraggiare i produttori a lavorare prodotti d’origine realizzati senza deforestazione», per proteggere le foreste vergini e tutelare l’ambiente sudamericano. «Tuttavia – precisa “Shorthand” – Walmart ha condotto affari con Jbs per un valore di 1,68 miliardi di dollari nel 2018 e rimane un cliente leader di carni Cargill».L’incendio dell’Amazzonia e l’oscuramento dei cieli da San Paolo in Brasile e a Santa Cruz in Bolivia hanno catturato la coscienza del mondo. «Gran parte della colpa degli incendi è giustamente caduta sul presidente brasiliano Jair Bolsonaro per aver incoraggiato direttamente l’incendio delle foreste e il sequestro delle terre delle popolazioni indigene». Ma l’incentivo alla distruzione proviene da grandi aziende internazionali di carne e soia come Jbs e Cargill, e dai marchi globali come Stop & Shop, Costco, McDonald’s, Walmart, Asda e Sysco, che acquistano da loro e vendono al pubblico. «Sono queste aziende che stanno creando la domanda internazionale che finanzia gli incendi e la deforestazione». Lo scrive “Shorthand”, piattaforma internazionale no-profit di giornalisti impegnati su temi etici, sociali ed ecologici. In pratica, sottolinea “Shorthand” in un post tradotto da “Coscienze in Rete”, siamo noi – indirettamente, al supermercato – ad alimentare la devastazione criminale delle foreste. E la distruzione non è limitata al Brasile: «Appena oltre il confine, nell’Amazzonia boliviana, in poche settimane sono bruciati un milione di ettari, in gran parte per liberare la terra per nuove piantagioni di bestiame e di soia. E il Paraguay sta vivendo una simile strage». Lo confermano i recenti rapporti di una Ong che sta monitorando il fenomeno, “Mighty Earth”: i peggiori in campo sono due colossi come Jbs e Cargill.
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Subdolo 5G: infame strage di alberi in tutte le città italiane
Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.Allora ho chiesto agli ascoltatori di “Border Nights” di segnalarmi se anche dalle loro parti si fossero registrati degli abbattimenti ingiustificati di alberi: e mi è arrivata, letteralmente, una caterva di segnalazioni. Nel frattempo, però, i “debunker” hanno già messo le mani avanti, cercando di smentire quest’idea che gli alberi vengano tagliati per fare strada al 5G. “Butac”, uno dei siti classici di “debunking”, ha pubblicato un articolo nel quale cerca di smentire questa ipotesi. A questo giro – scrive “Butac” – si parla di alberi abbattuti perché, secondo la tesi di “TerraRealTime” (il sito che per primo ha denunciato il taglio indiscriminato degli alberi) sarebbero un problema per la diffusione del segnale. «Ma si tratta dell’ennesima sciocchezza antiscientifica sostenuta solo e unicamente per spaventarvi, e magari convincervi a comperare un cappellino contro l’elettrosmog». Ora, “Butac”: a parte che qui nessuno vende cappellini (stiamo solo cercando di proteggere la nostra ricchezza naturale, casomai), ma il fatto che gli alberi rappresentino un ostacolo praticamente insormontabile, per il 5G, ormai è un dato accertato. Lo confermano, ad esempio, due documenti ufficiali del governo inglese: li ha pubblicati l’Ordnance Survey, l’ufficio che si occupa della mappatura del territorio. Uno si intitola “Pianificazione 5G, considerazioni geo-spaziali – una guida per i pianificatori e le autorità locali”. L’altro si intitola: “L’effetto delle costruzioni e dell’ambiente naturale sulle onde radio millimetriche”, ovvero il 5G.Da questi documenti leggiamo: «Vegetazione e edifici: i risultati presentati in questo rapporto dimostrano che gli oggetti della vegetazione, ovvero alberi e arbusti con un denso fogliame, provocano un disturbo nella propagazione del segnale oltre i 6 Ghz». Ci sono delle considerazioni generali: gli alberi di oltre 3 metri sono messi nel gruppo che “andrebbe” preso in considerazione (“should do”), mentre gli alberi oltre i 5 metri sono nel gruppo del “must do”, ovvero quelli che “bisogna” prendere in considerazione. Più sotto, c’è la spiegazione: “should do” sono «oggetti che vale la pena considerare durante le rilevazioni»; “must do” significa invece che questi oggetti «avranno un impatto significativo nella propagazione del segnale delle microonde millimetriche», e che quindi «vanno assolutamente presi in considerazione durante i rilevamenti». Il documento, poi, presenta diversi esempi pratici, illustrati con fotografie. Indicando uno stadio, dice: «Questa zona ha due aspetti interessanti, che dovrebbero essere presi in considerazione come ostacoli potenziali per le trasmissioni». Il primo: «Le torri di supporto all’esterno dello stadio, che sono fatte con una complessa struttura di acciaio». Il secondo: «La passeggiata sulla sinistra, che è adornata di alberi che possono bloccare i segnali in partenza dalla struttura dello stadio».Un altro esempio, sempre in foto, dice: «Qui viene mostrata una zona a intenso traffico pedonale, vicina ad un lampione candidato all’utilizzo del 5G». Due aspetti sono la prendere in considerazione: «Gli alberi caduchi, che possono causare un degrado limitato del segnale nei mesi invernali, mentre in estate – con le foglie – potrebbero avere un effetto significativo» (il secondo ostacolo è il viadotto che sovrasta l’area pedonale). Poi il rapporto mostra invece una situazione positiva, per loro: «La vista aerea del grande centro commerciale mostra grandi spazi aperti, con pochissimi elementi in grado di bloccare il segnale 5G: c’è soltanto un piccolo numero di alberi accanto al parcheggio». Quindi, evviva le zone con pochi alberi: per noi vanno molto meglio, dice il documento. Altro esempio, viale alberato: «In questa strada residenziale c’è una grande quantità di alberi, che bloccano chiaramente il percorso per le antenne che potrebbero venir collocate sui lampioni». Quindi, cosa si fa? Si buttano giù gli alberi, semplice.Guardate ora gli articoli che mi sono stati mandati dagli ascoltatori di “Border Nights”:poi decidete voi se c’entrano qualcosa, oppure no. Vi dico solo una cosa: sono quasi tutti articoli del 2018-2019, quindi molto recenti. E quasi sempre viene data una spiegazione risibile, per il taglio degli alberi. Ovvero: risultano di colpo tutti malati; oppure ti dicono che ne pianteranno degli altri, più bassi; oppure ti dicono che sono diventati, improvvisamente, tutti pericolosi. Cioè: alberi secolari, che sono lì da più di cento anni, di colpo diventano una minaccia per la popolazione. Di fatto, mi ha scritto una persona che si occupa di installazioni 5G. E mi ha detto che, in effetti, moltissimi sindaci e amministratori locali vengono spaventati, con l’idea di poter essere ritenuti responsabili per eventuali danni causati dalla caduta degli alberi, e quindi – non appena gli si suggerisce di tagliarli – accettano subito (spesso senza il nulla-osta delle autorità che dovrebbero salvaguardare il verde pubblico).Guardate quello che sta succedendo, in Italia. Palermo: “Il Comune si prepara ad abbattere 200 alberi di pino, decisione folle”. Montesilvano, provincia di Pescara: “Taglio indiscriminato degli alberi sani”. Pescara: “La guerra degli alberi tagliati in nome della sicurezza”. Poggibonsi, provincia di Siena: “Scempi chiamati riqualificazioni”. Prato, viale Montegrappa: “Polemiche sugli alberi tagliati”, Ravenna: “Pini abbattuti in via Maggiore”. Roma: “Dal 2016 abbattuti 9.111 alberi – mille spariti in centro, è polemica”. Rovereto: “Abbattuti gli alberi fra le proteste”. Ancora Roma: “Abbattuti 450 alberi malati, ma i nuovi saranno alti solo 3 metri”. Guarda che coincidenza: ricordate il “should do” e il “must do”? Salerno, Nocera Inferiore: “Cosa si cela dietro l’abbattimento dei pini?”. Ancora Salerno: “Abbattimento degli alberi in via Rebecca Guarna”. San Terenzo, provincia di La Spezia: “Piazza Brusacà saluta i suoi pini”. Provincia di Teramo: “Nuove proteste contro l’abbattimento degli alberi della strada provinciale 259”. Terni: “Repulisti di pini, scattata l’operazione per l’abbattimento di 44 alberi”. Trapani: “Taglio alberi a Paceco, il comitato Pro-Eritrine protesta col sindaco”. Trevignano, sul Lago di Bracciano: “Abbattuti pini sani di 70 anni per rifare le strade”. Treviso: “Tagliati altri 87 alberi perché sono malati”. Certo, perché gli alberi si ammalano tutti insieme, 87 per volta.Ancora Treviso: “Non tagliate gli alberi, i residenti insorgono”. Udine: “Via Pieri, iniziato l’abbattimento degli alberi”. Verona: “Centinaia di alberi da abbattere per realizzare il nuovo filobus”. Giustamente, dice il commento: «Il trasporto pubblico e la mobilità sono essenziali, ma non a qualsiasi prezzo, e non con questi metodi». Sempre a Verona: “Nuovo taglio di alberi a Verona Sud: a chi giova?”. Ancora Verona: “Lungoadige San Giorgio, tagliati 21 alberi”. Viareggio: “Abbattimento alberi, presidio al cavalcavia”. Regione Abruzzo, Parco Sirente: “Il pasticcio degli alberi tagliati”. Agrigento: “Taglio degli alberi alla Villa Bonfiglio, la Soprintendenza vuole chiarezza”. Sempre ad Agrigento: “Alberi capitozzati, l’assessore sospetta che sia stato iniettato veleno in alcuni pini”. Anagni: “Potatura fuori stagione, inervento drastico di capitozzatura in piena germogliazione, che lascia perplessi”. Ancona: “Abbattuti gli alberi sul viale, giù i frassini fra le proteste”. Avezzano, in Abruzzo: “Taglio degli alberi a piazza Torlonia, più della metà erano pericolosi”. Ovviamente, gli alberi sono diventati – di colpo – il pericolo pubblico numero uno, in Italia.Provincia di Bari: “Scempio sugli alberi a Pane e Pomodoro”, che è la famosa spiaggia barese. Benevento: “Taglio dei pini, piante a rischio caduta estremo”. Biella: “Alberi abbattuti, Legambiente contro le amministrazioni comunali”. Sempre in provincia di Biella: “Deturpata la strada dei pellegrini, è caos dopo il taglio di 200 alberi”. Marina di Carrara, Vittorio Sgarbi difende i pini: “Barbarie, denuncio tutto”. Catania: “Proteggere l’ambiente, scatta la protesta per gli alberi capitozzati”. A me, più che capitozzati, questi sembrano segati alla base. Marina di Cerveteri: “Gli alberi ostacolano il 5G”. Chiaravalle, nelle Marche: “Abbattono i pini storici, proteste e manifestazioni in largo Oberdan”. Crema: “Il caso degli alberi tagliati in via Bacchetta”. Si veda il prima e il dopo: che squallore. Provincia di Faenza: “Brisighella, 513 alberi abbattuti”. Sempre a Faenza: “Via all’abbattimento di 520 alberi in città”. Lido Scacchi, in provincia di Ferrara: “Forza Italia chiede spiegazioni sugli alberi tagliati”. Firenze: “Proseguono gli abbattimenti, alberi tagliati in piazza Indipendenza”. Sempre a Firenze: “Strage di alberi a Porta al Prato, ma erano tutti sani. Il Comune dice: una ditta ha danneggiato le radici”. Certo, ha danneggiato le radici non di uno, ma di tutti gli alberi in un colpo solo, come no…Ancora a Firenze: “Tagliati tutti i pini in viale Guidoni, idem in viale Morgagni: de profundis per gli alberi abbattuti”. Piana Fiorentina: “Il taglio dei tigli, una decisione del Comune”. Foggia: “In via Napoli uno scempio, presentato esposto contro il taglio di 101 pini”. Provincia di Grosseto: “Tagliati 30 ettari di bosco nella Riserva del Farma, l’esperto: è un disastro”. Sempre a Grosseto: “Taglio degli alberi in città, 1.640 cittadini protestano”. Ancora a Grosseto: “Stop al taglio degli alberi, è uno scempio”. Provincia dell’Aquila: “Tagliati gli storici alberi dell’Altopiano delle 5 Miglia”. Molfetta: “Quartiere San Domenico sotto shock: tagliato l’Albero della Vita, ancora ignote le motivazioni”. Napoli, quartiere del Virgiliano: “Strage di pini, oltre 100 saranno abbattuti”. Novara: “Via libera all’abbattimento di 32 aceri”. Como: “Faggi abbattuti al liceo Giovio, sale la protesta; la Provincia dice: ragioni di sicurezza”. Certo, come no: alberi che sono lì da cento anni e, adesso che arriva il 5G, diventano di colpo pericolosi.E’ sempre la stessa scusa, fra l’altro. Guardate: “Garbagnate, Natale senza pini: verranno abbattuti; potrebbero diventare pericolosi, col passare del tempo, per la cittadinanza”. Quindi siamo addirittura al taglio preventivo, precauzionale. Campoformido, provincia di Udine: “Proteste per il taglio dei pini marittimi in piazza a Basaldella; procede la riqualificazione del centro”. Certo, perché adesso “distruggere” si dice “riqualificare” (la neolingua imperversa). Lecco: “Alberi abbattuti sul lungolago, le piante possono rigenerarsi”. Certo, magari fra vent’anni ricrescono anche; nel frattempo tu hai piazzato le tue belle antennine 5G da tutte le parti. Este, in provincia di Padova: “Alberi tagliati senza motivo, delitto contro la natura”. Piacenza: “Alberi tagliati senza motivo, uno scempio”. Ancora a Roma, al Salario: “Alberi tagliati senza motivo”. Ferrara: “Continua il massacro degli alberi lungo la statale 16”.Ragazzi, è pazzesco quello che stanno facendo. Due o tre di questi casi potrebbero anche essere situazioni in cui davvero gli alberi vanno tagliati, ma qui stanno facendo una carneficina: qui siamo di fronte a un abbattimento sistematico degli alberi in tutto il paese. E il fatto è che sono molto furbi, perché lo fanno a livello locale, senza fare rumore. Lo fanno cittadina per cittadina, contando sul fatto che una comunità non sa quello che succede in quella accanto. Se non ci fosse stato questo contributo, da parte degli ascoltatori di “Border Nights”, ciascuno avrebbe continuato a pensare che magari era solo un problema loro. E nel frattempo, questa gente sta devastando le risorse naturali dell’intero paese. Io non so cosa dirvi, ragazzi. Mi auguro però che vogliate organizzarvi, sia a livello locale che regionale, perché qui vanno presi i sindaci, uno per uno, con nomi e cognomi, e vanno messi di fronte alle loro responsabilità. Non è possibile che il nostro paese venga devastato in questo modo, senza che nessuno faccia niente. E se aspettiamo che intervengano i nostri politici da Roma stiamo freschi: quelli son troppo impegnati a conservare il proprio stipendio, la loro poltroncina, per preoccuparsi dei problemi reali. E anche tu, “Butac”, e tutti gli altri “debunker”: invece di scrivere scemenze, datevi da fare. Qui non c’entrano le questioni ideologiche: la natura è di tutti, anche vostra.(Massimo Mazzucco, “G5, la strage degli alberi”, video pubblicato su “Luogo Comune” l’8 luglio 2019. L’autore, al termine del filmato, annuncia che a questa prima indagine sul taglio degli alberi seguirà uno studio per vedere più da vicino quelli che possono essere i rischi effettivi dell’impatto della rete 5G sulla nostra salute).Da quando ho iniziato a interessarmi del 5G, ho scoperto che vi sono non uno, ma due aspetti preoccupanti, di questa nuova tecnologia. Il primo è quello che riguarda la salute: mentre si sta procedendo con grande fretta alla commercializzazione della nuova “Rete dei miracoli”, infatti, nessun serio studio scientifico è stato fatto sulle conseguenze che potrebbe comportare quest’irradiazione, ormai onnipresente, sugli esseri umani. Fra poco ci troveremo letteralmente sommersi da un mare di microonde, con antenne piazzate ogni 500 metri nelle grandi città, e magari solo fra dieci o vent’anni potremo sapere quali saranno state le reali conseguenze sulla nostra salute. Ma di questo argomento ci occuperemo in un altro video, che sto preparando. Nel frattempo, vorrei portare alla vostra attenzione un secondo problema, che non è da meno: riguarda la distruzione selvaggia e sistematica dei nostri alberi. A quanto pare, infatti, gli alberi – soprattutto quelli più alti – impediscono una buona irradiazione del segnale 5G. E quindi li stanno togliendo di mezzo, in tutta Italia, con delle giustificazioni decisamente ridicole. Un paio di mesi fa mi ero accorto che, dalle mie parti, avevano tagliato in modo abominevole dei bellissimi viali alberati, e ho cominciato a chiedere in giro quale fosse il motivo. Ma nessuno mi sapeva dare una risposta, al punto che ho iniziato a sospettare che ci fosse di mezzo il 5G.
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Nessuno può sperare di fermare il cambiamento climatico
Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.Le cospirazioni esistono e so che anche i paranoici hanno nemici. Di conseguenza non posso escludere che anche in questo frangente ci sia un secondo fine con lo scopo di inchiappettare l’umanità per l’ennesima volta. Il mio stesso subconscio cospira costantemente contro di me, mi sabota, e io inciampo e non ho certezza alcuna. Questa è l’epoca in cui viviamo, la realtà si è frammentata in miriadi di cocci impalpabili, ma ancora ci sono cercatori di Verità che spesso hanno seguaci pugnaci. Terrapiattisti ed altri poveracci impauriti sono sintomo di un reale vanificarsi di ogni punto di riferimento per interpretare l’esistente. Si è costretti a dubitare di tutto. Insomma, non mi sorprenderei se scoprissi di essere di fronte ad un ulteriore frode planetaria. E questo sarebbe un atteggiamento tutto sommato salutare, se non si rischiasse di essere vittime di quegli stessi interessi che controllano i media di regime, ma che non possiamo essere sicuri che non siano anche dietro molte fonti alternative. In questo caso, però, la versione ufficiale, apparentemente sostenuta da una percentuale altissima di specialisti del settore, è parecchio sensata: l’attività dell’uomo sta sconvolgendo in tempi rapidissimi tutta la biosfera e di conseguenza anche il clima. Ciò sta avendo ed avrà sempre più conseguenze catastrofiche. Tutto qui, ed è incredibilmente ragionevole.Eppure lo scetticismo, giustificatissimo, nei confronti della narrazione del potere dominante ha fatto sì che questo fatto lapalissiano e preoccupante fosse annacquato da mille dubbi inconsistenti. L’aumento di CO₂ determina un aumento di temperatura? Non lo so, non sono uno scienziato. Ma so che la CO₂ fa crescere le piante. Non c’è nessun aumento della temperatura, quelli dell’Iccp si sono inventati tutto. L’aumento della temperatura c’è, ma è dovuto alle macchie solari e l’attività umana non c’entra niente… non sono uno scienziato, ma ne sono convinto. Basta un Trump infinocchiante qualsiasi, eroe proletario che si batte contro le menzogne dei potenti, per finire a fare il gioco proprio di quei poteri che la controcultura dovrebbe smascherare. Continuiamo così, il ciclo produzione-consumo è salvo e siamo tutti più sollevati. Ci siamo ben resi conto che smantellare il sistema è abbondantemente al di sopra delle nostre possibilità. In realtà, dare la colpa ad impalpabili poteri occulti, sedicenti illuminati e cupole segrete, fa molto comodo. È pieno di zombie di nome Giovanni e Giuseppe che non rinuncerebbero mai alla loro auto per raggiungere il tabacchino all’angolo. Ma anche questo è irrilevante.Ammettiamolo, per quante prove si trovino in favore di una tesi, su Internet se ne possono trovare alrettante in favore della tesi opposta. Comprensibile in politica, se parliamo di scienza un po’ meno. Eppure ci sono indizi che, pur non essendo forse scientificamente validi, in quanto basati su percezioni limitate e soggettive, mi inducono ad essere scettico piuttosto nei confronti di chi nega il cambiamento climatico di origine antropica. Per esempio, i miei genitori mi dicevano che decenni fa il clima era più stabile, nel senso che si sapeva che a fine agosto, dopo la festa del santo patrono arrivavano i temporali che segnavano la fine dell’afa. E accadeva ogni anno immancabilmente. Nelle rare eccezioni, bastava mettere una sarda salata in bocca a sant’Oronzo e quello per la sete faceva piovere. Semplice. Ora i nuvoloni arrivano, ma non è detto che piova. Del resto, la vita di quelle popolazioni contadine dipendeva da quelle piogge, noi ne possiamo fare tranquillamente a meno. Forse è per questo che cominciano a disertarci.Magari la pioggia si presenta con un bel po’ di ritardo e ne cade un ettolitro per centimetro quadrato. Si dice addirittura che uno scienziato pazzo in vena di conquistare il mondo stia usando una macchina di sua invenzione per controllare il tempo a dispetto di Occam e del suo rasoio. La neve era un’altra visitatrice abituale. Pare che ogni inverno ne cadesse tanta e gli anni senza erano piuttosto sporadici, ma già quando io ero piccolo era il contrario. L’inverno con la neve era un’eccezione. Me lo ricordo bene perché appena vedevamo qualche fiocco decidevamo che non si poteva andare a scuola, ma era perfettamente praticabile la strada per andare a scivolare dalle colline con le buste di plastica sotto il sedere. Inoltre, in tutti i miei viaggi ho notato effetti sull’ambiente, evidentemente frutto di manomissioni umane. In Tanzania, la mia prima volta fuori dall’Europa, scalai la vetta del Kilimangiaro insieme ad altre centinaia di turisti e vidi che il ghiacciaio rimane ormai solo sulla porzione più alta della cresta del vulcano. Pare che in cento anni sia regredito dell’85%. Uno scioglimento un po’ troppo veloce per essere dovuto ai normali cicli cosmici.Il fenomeno non è direttamente attribuibile all’aumento della temperatura globale o locale, ma piuttosto alla deforestazione alla base della montagna che ha causato una diminuzione della traspirazione e quindi del vapore acqueo che poi si trasformava in precipitazioni nevose. Quella volta capii che scalare montagne, soprattutto se in compagnia di una mandria di occidentali in cerca d’avventura Alpitur, non faceva per me, quindi non ho informazioni di prima mano su altri ghiacciai in altre zone del pianeta, ma pare che lo stesso stia accadendo un po’ ovunque. Qualche anno dopo mi trovavo ancora in Africa ma dall’altro lato e i locali mi raccontarono che il mare in pochi anni aveva mangiato una quindicina di metri di spiaggia. Non posso essere certo della causa, ma consiglio di non fare mai un bagno nell’Oceano Atlantico al largo delle coste dell’Africa Occidentale. Ci buttano di tutto. Per quanto riguarda il livello del mare, anche dalle mie parti qualche spiaggia si è ristretta misteriosamente negli ultimi anni, ufficialmente a causa di una non meglio specificata ‘erosione’. Ma io non sono uno scienziato.In Giappone visitai una spiaggia nei pressi di Suzuka, dove fanno il moto-Gp, un paio d’anni dopo lo tsunami e il disastro di Fukushima. Una vista apocalittica. Questo non c’entra niente col cambiamento climatico. Era giusto per dire. Quest’anno mi trovavo in Amazzonia e, per il secondo anno consecutivo, a quanto mi è stato riferito, il periodo delle piogge e la relativa piena dei fiumi stagionale, che per quelle popolazioni segna l’arrivo dell’inverno, è arrivata con due mesi di ritardo. Al momento mi trovo in Svizzera per la prima volta. Mi sono sentito un po’ come Totò e Peppino che arrivano a Milano incappottati aspettandosi un tempaccio artico, invece è stato un ottobre fenomenale che, a sentire chi vive qui da molti anni, non si era mai visto. Ma un ottobre eccezionale non sarà di certo la fine del mondo. Con tutto questo bighellonare in lungo e in largo per il pianeta avrò contribuito in maniera sostanziale al casino climatico-ambientale. Non lo nego. Merito la lapidazione. Chi non ha peccato inizi pure. Ma non c’è da avere sensi di colpa. Non è proprio colpa di nessuno. Non c’è colpa. Faccio un esempio: 49 milioni di anni fa, millennio più millennio meno, accadde ciò che gli scienziati chiamano The Azolla Event. Nel mezzo dell’eocene, l’oceano artico aveva temperature ed ecosistemi tropicali. Una serie di condizioni idriche e geologiche favorirono la crescita esplosiva di una felce chiamata appunto azolla. Per circa 800.000 anni questa pianta prosperò su 4 milioni di km² sequestrando l’80% della CO₂ dall’atmosfera sul fondo anaerobico del mare, dove si trova tuttora sedimentata in uno strato geologico esteso lungo tutto il bacino artico.La concentrazione di CO₂ nell’atmosfera passò da 3.500 ppm a 650 ppm. La temperatura si abbassò da 13°C agli attuali -9. Forse per la prima volta nella storia della Terra ci fu una calotta di ghiaccio al polo nord. Ehi, questa è l’ipotesi di un gruppo di scienziati olandesi dell’università di Utrecht che potrebbero benissimo far parte del complotto. Tra l’altro, tutto ciò ha implicazioni geopolitiche, perché proprio in questi depositi organici può essersi formato il gas e il petrolio che le superpotenze si contendono, ora che quei luoghi diventano accessibili. E quegli scienziati magari lavorano per la Shell. Che mondo… Prendo per vera l’ipotesi solo per esplicitare un concetto: l’azolla ha sconvolto il suo stesso habitat in accordo con la natura o contro la natura? Per inciso, l’azolla non si è estinta, continua a prosperare a latitudini più basse. Ovviamente, l’episodio fu un evento del ciclo della natura. Si crearono le condizioni per una crescita eccezionale dell’azolla, la quale scatenò un cambiamento climatico epocale. Niente di innaturale in tutto ciò. L’azolla ha solo svolto la sua parte. Perché invece quelle stesse dinamiche sono innaturali se protagonista è l’uomo?Dall’inizio dell’era industriale la CO₂ nell’atmosfera è aumentata di quasi il 40%. Questo ha prodotto cambiamenti a livello climatico? Non lo so, ma probabilmente sì, non me ne stupirei. L’era geologica in cui viviamo si chiama antropocene. Cioè, la nostra specie altera l’ambiente così profondamente da caratterizzarne l’epoca a livello geologico. Oltre a riprocessare l’atmosfera, abbiamo alterato il corso dei fiumi, spianato colline e sventrato montagne, stravolto gli ecosistemi di interi continenti, alterato la radioattività di fondo, saturato lo spazio di elettrosmog. E volete che tutto questo non abbia alterato il clima? E perché, di grazia? Perché quel signore onnipotente che abita in cielo ha detto che potevamo fare il cazzo che ci pareva in eterno, tanto il clima l’avrebbe tenuto costante lui, perché gli siamo simpatici e proteggerà sempre e comunque il divino ordine capitalista? Si dice che il battito di una farfalla in Cina possa far scoreggiare un alieno insettoide in una dimensione parallela, figuriamoci se la superloffa della specie umana non sia capace di modificare il clima del pianeta. Quindi abbiamo fatto una cazzata immane? Probabilmente sì, ma non avevamo scelta.Non siamo diversi dall’azolla, proprio perché non ci abbiamo pensato due volte a cacciarci in questo guaio e non abbiamo la più pallida idea di come uscirne. Perché non ne siamo responsabili. Agiamo secondo le direttive della natura di cui non siamo consci per permettere alla terra di iniziare un nuovo ciclo di vita. Giovanni che prende la macchina per andare a comprare le sigarette contribuisce a cuor leggero. È questa la nostra hubris: illuderci di essere al di fuori ed al di sopra dei cicli naturali ed addirittura capaci di alterarli. Non è così, noi facciamo parte di questo scorrevole tutto e non possiamo che recitare la nostra minuscola comparsata in uno spettacolo i cui atti durano milioni di anni. Non possiamo fare proprio nulla. Secondo gli scienziati più pessimisti, come per esempio Guy McPherson e i suoi “abrupt climate change” e “near term extinction”, anche se fermassimo tutte le attività umane domani, la temperatura schizzerebbe alle stelle; infatti, oltre ad immettere gas serra nell’atmosfera che inducono un riscaldamento nel lungo termine, immettiamo anche particolato (non so se si riferisca anche alle scie chimiche), che fermando i raggi solari ne blocca l’effetto nel breve periodo. Se ci fermassimo, questo particolato cadrebbe al suolo e la schermatura che fornisce verrebbe meno, facendo salire la temperatura oltremodo.Per altro, fermare tutto l’ambaradan dall’oggi al domani è irrealizzabile, non solo praticamente, ma perché il caos sociale che ne deriverebbe sarebbe assolutamente distruttivo e quindi controproducente. McPherson prevede il collasso entro dieci anni. Hai voglia a proporre soluzioni innovative e trabiccoli succhiacarbonio con scappellamento triplo carpiato. Ormai da anni non mi occupo più di iperborei, rettiliani e altri argomenti à la Martin Mystère, ma ricordo di aver letto su un loro testo che i Rosacroce credono che nella storia della Terra si siano succedute sei civiltà evolute con esseri intelligenti più o meno simili a noi, ognuna sviluppatasi dopo la catastrofe che segnò la fine della precedente. Secondo loro siamo vicini all’avvento della settima razza e di conseguenza alla fine della sesta, cioè noi. C’è qualcosa di simile nella scienza ufficiale che ci dice che ci sono state cinque estinzioni di massa sul pianeta, e stiamo avvicinandoci con estrema velocità alla sesta. Mio padre, classe ’24, diceva che rispetto a quando era piccolo lui c’era stato un crollo impressionante nel numero degli animali che abitavano il paese e le campagne.Non sappiamo cosa ci riserva il futuro. Del resto nemmeno di ciò che sia successo nel passato possiamo essere tanto certi e molti di noi vagano in un presente ovattato. Non si può sapere se gli allarmisti abbiano edificato un castello di falsità per poter un giorno lucrare sullo scambio di quote di emissioni o se invece dobbiamo credere a quell’amico del popolo di Trump, che non è amico dei petrolieri, ci mancherebbe, che ci assicura che tutto va a meraviglia. Una cosa però a me sembra certa. Se non fosse ormai troppo tardi, ci sarebbe un solo obbiettivo da perseguire: dovremmo smettere di ritenerci nel bene o nel male al di fuori della natura. Per secoli è stato il nostro sogno proibito, perché la natura ci dava sostentamento, ma allo stesso tempo portava carestie, epidemie e tutto doveva essere ottenuto col sudore della fronte. Come sarebbe stato bello finalmente dominarla, la natura, anzi meglio, semplicemente tirarsene fuori. Non dover sottostare alle stagioni, alle piogge e alle siccità, alla grandine che poteva distruggere un anno di lavoro in un pomeriggio, alle cavallette, alla peste bubbonica. Anche a costo poi di dover vivere col senso di colpa e la paura che la natura si vendicasse. Abbiamo creduto di riuscirci. Ma non è possibile. Ci siamo dentro, nel bene e nel male, e non c’è via d’uscita. Parafrasando l’esimio Bill Clinton: it’s nature, stupid!(“Il cambiamento climatico è del tutto naturale”, post pubblicato da “Amago” su “Come Don Chisciotte” il 9 dicembre 2018).Il dibattito sulla questione ambientale negli ultimi anni va sempre più focalizzandosi sui pericoli del cambiamento climatico e finalmente anche l’informazione alternativa comincia ad approfondire l’argomento. In questo contesto, però, c’è una sorta di pregiudizio che rende sterile la discussione. Siccome la controinformazione su Internet è nata e ha tratto la sua forza dal mettere in dubbio le versioni ufficiali di eventi storici come l’11 Settembre e lo sbarco sulla Luna, c’è la tendenza a diffidare a priori di qualsiasi notizia proveniente dai media di regime. Quello che viene definito complottismo ha il merito di mettere sulla graticola la narrazione ufficiale del potere, ma spesso scade in polemiche senza capo né coda; e non solo su argomenti che sfiorano la paranoia come scie chimiche, armi psicotroniche o maremoti artificiali. Io non posso essere matematicamente certo che sia in atto un cambiamento climatico con o senza aumento della temperatura, perché i dati scientifici a cui posso accedere provengono da istituzioni governative quali la Nasa, il Noaa o l’Iccp. Grandi istituzioni su cui io, povero diavolo qualunque, non ho alcun controllo. Mi devo fidare. Tuttavia, dopo che l’ente spaziale americano, molto probabilmente, ci ha rifilato uno finto sbarco sulla Luna, prendere per veritiere le sue dichiarazioni diventa problematico.
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Il Corriere: aerosol tra le nuvole, la geoingegneria è realtà
Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.Un tramonto rosso fuoco perenne e specchi giganti nello spazio per riflettere la luce solare? «Orizzonti alla Blade Runner, ma non è fantascienza», scrive Buzzi. «È il futuro (forse) del nostro pianeta: ipotesi di ingegneria climatica che sono già al vaglio degli esperti». Per Buzzi, sei anni fa, la geoingegneria era «una realtà complessa», che stava «mobilitando la comunità scientifica internazionale», facendola discutere. Obiettivo dichiarato: «Combattere il surriscaldamento globale», ma con interventi molto diversi tra loro: «C’è chi studia l’immagazzinamento e lo smaltimento di anidride carbonica e c’è un ramo più radicale che propone esperimenti “solari”, che mutino o catturino le radiazioni a livello della stratosfera». Molto prudente, allora, un tecnico come Antonello Provenzale, ricercatore del Cnr di Torino in forza all’Isac, Istituto di scienze dell’atmosfera e del clima: «A mio parere, mentre ha senso la rimozione di CO2, sono ancora inopportuni interventi di altro tipo». Ovvero: «Prima di agire ci sono dei fattori che vanno presi in considerazione: la sostenibilità nel tempo di azione del genere, la loro effettiva efficacia e la nascita di ampie alleanze geopolitiche in grado di sostenerle».Le teorie al vaglio degli scienziati, scrive Buzzi nel 2012, spaziano per cieli, terra, aria e mari: «Si va dalla “semina” di ferro negli oceani, per aumentare la presenza dei microrganismi che intercettino la CO2, all’adozione di specie di piante ad alto potere riflettente, alla messa in orbita di giganteschi parasole». Ma l’idea più discussa «riguarda l’uso di gas aerosol come l’anidride solforosa da immettere con costanza nella stratosfera per riflettere la luce solare». Controindicazioni del caso: «Secondo alcuni studiosi (e detrattori della teoria), le emissioni assottiglierebbero lo strato di ozono». In realtà, sottolinea il “Corriere”, i gas aerosol sono già presenti nell’atmosfera. E non solo: «Negli ultimi anni», annota lo stesso Provenzale, «sono state individuate altre due cause oltre all’effetto serra che hanno provocato l’innalzamento delle temperature: la massiccia deforestazione e l’uso di gas aerosol di origine antropica, specie in Cina e nel Sudest Asiatico». Una differenza però c’è: «Rispetto all’anidride carbonica, questi gas stanno meno tempo nell’atmosfera, circa 10-15 giorni».Intanto, segnala il “Corriere” sempre nel 2012, l’idea di manipolare il clima «ha già catturato l’attenzione di plurimiliardari come Bill Gates, Richard Branson e il fondatore di Skype, Niklas Zennstrom». Anche Buzzi cita il Bpc, Bipartisan Policy Center di Washington, indicato dal reporter Gianni Lannes come think-tank neocon, punta di lancia della lobby che spingerebbe per la manipolazione climatica tramite l’irrorazione sistematica dei cieli. Il “Corriere” la definisce «un’organizzazione non profit fondata da quattro ex senatori Usa, due repubblicani e due democratici», che nel 2011 ha invitato la Casa Bianca a creare «un programma di ricerca federale». Scienziati delle università inglesi, aggiunge Buzzi, hanno organizzato «un test per pompare nella stratosfera particelle chimiche». Esperimento che però è «abortito», anzi «rimandato». Anche perché è stata proprio la Royal Society britannica, alla conferenza sul clima di Durban nel 2011, a presentare un rapporto sugli scenari della geoingegneria: «Giocare con la natura in questo modo deve essere solo una soluzione estrema», scrivevano sette anni fa gli scienziati inglesi, «ed è comunque una soluzione pericolosa».Sulla stessa linea anche un report commissionato dal ministero dell’educazione e della ricerca tedesco, che all’epoca auspicava «ulteriori ricerche» e sosteneva che «le conseguenze dell’utilizzo di queste tecniche non possono essere stimate con la precisione necessaria». Nessun allarmismo in Cina, invece, dove si ipotizzano nuove frontiere, chiosa Buzzi sul “Corriere”: a Pechino, «gli effetti della geoingegneria sono già tangibili», da molti anni. Nel 2012 la Cina ammise di stipendiare non meno di 36.000 “rainmaker”, equipaggiati con razzi, cannoni e arei per intervenire sulle nubi e scatenare precipitazioni nelle zone aride. «Mentre in altri paesi sono state sperimentate solo occasionalmente, a Pechino e nella regione di Jilin le piogge artificiali – grazie a nuvole “gonfiate” con ioduro d’argento – sono una realtà», scriveva Buzzi, sei anni fa. «E il governo – aggiungeva – sta pianificando di estendere l’esperimento ad altre cinque zone». Oltre alla Cina, l’altro paese che ammette di condurre test di manipolazione meteo è Israele, mentre analoghe notizie filtrano da Messico e Sudafrica. Nel frattempo, i nostri cieli si sono riempiti di strisce bianche rilasciate dagli aerei: semplici scie di condensazione, secondo le autorità, che però non spiegano come mai l’ipotetico vapore acqueo non si dissolva, ma anzi permanga in atmosfera per ore, estendendosi fino a velare interamente il cielo.Nuvole gonfiate e aerosol salveranno la Terra? Lo scrive, già nel 2012, il “Corriere della Sera”, presentando la geoingegneria come «la (buona) scienza che manipola il clima». Tempi non sospetti: sei anni fa era ancora scarso il “gossip” sulle cosiddette scie chimiche, e forse i cieli non erano ancora così intasati di “strisce” rilasciate dagli aerei, fino a stendere quello strano, persistente velo nuvoloso al quale siamo ormai abituati anche nelle giornate serene. Soprattutto, non era ancora accaduto che un paese come l’Italia venisse colpito da tempeste violentissime, con venti furiosi (190 chilometri orari) in grado di sradicare centinaia di migliaia di alberi proprio il 4 novembre, anniversario della Grande Guerra, e proprio nella geografia del Nord-Est – le Dolomiti, il Piave – che nel 1918 salutò l’affermazione “patriottica” della giovane nazione italiana. Complottisti scatenati e dubbiosi in aumento, vista la perdurante riluttanza delle autorità nel rilasciare dichiarazioni chiarificatrici, una volta per tutte, riguardo all’ipotetica correlazione tra scie bianche, innalzamento climatico ed eventi catastrofici generati dal meteo “impazzito”. Nulla che peraltro non fosse paventato, come pericoloso effetto collaterale, dagli esperti sondati nel 2012 da Emanuele Buzzi, autore di una ricognizione giornalistica per il “Corriere”.
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Italia, clima sabotato? Magaldi: possibile, ma improbabile
Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.I paesi del Mediterraneo sono quelli più a rischio, dicono recenti studi universitari: ci siamo surriscaldati più del resto del mondo (+1,4 gradi centrigradi) e siamo stati bersagliati da un maggior numero di eventi estremi. Peggio: nei prossimi anni, per la nostra area si prevede un riscaldamento del 25% in più rispetto alla media mondiale. I dati emergono da una ricerca internazionale condotta da svariati atenei dell’area (Marsiglia e Barcellona, Salento e Nicosia, Haifa e Rabat), pubblicata sulla “Nature Climate Change”. Il riscaldamento nel Mediterraneo è più elevato che nel resto del mondo per una serie di motivi combinati tra loro: «La regione si trova in una zona di transizione fra i regimi di circolazione atmosferica delle medie latitudini e della fascia subtropicale. È caratterizzata da una complessa morfologia di catene montuose e forti contrasti terra-mare, una popolazione umana densa e in crescita, e varie pressioni ambientali». Secondo 13 agenzie Usa, è colpa dell’uomo se si registrano temperature da record. Quelle degli Stati Uniti sono aumentate drammaticamente negli ultimi decenni, toccando il loro livello più alto da 1.500 anni. A dirlo è un rapporto federale: per gli scienziati, dal 1880 al 2015 le temperature sono aumentate di 1,6 gradi Fahrenheit (0,9 gradi centigradi) e le cause sono da considerarsi legate al comportamento degli esseri umani.Dal 1980 la situazione è addirittura precipitata, secondo il rapporto Usa, con un drammatico aumento delle temperature che ha portato al clima più caldo degli ultimi 1.500 anni: «Ci sono evidenze che dimostrano come le attività umane, specialmente le emissioni di gas serra, sono le principali responsabili dei cambiamenti climatici rilevati nell’era industriale. Non ci sono altre spiegazioni alternative, non si tratta di cicli naturali che possano spiegare questi cambiamenti climatici». Secondo un rapporto dell’istituto europeo Climate Analytics, non sarà possibile contenere l’aumento della temperatura globale sotto i 2 gradi centigradi se l’Unione Europea non avvierà da subito la chiusura di oltre 300 centrali a carbone. In Italia, l’impatto delle violentissime perturbazioni “tropicali” è reso ancora peggiore a causa dello stato di abbandono e di degrado di troppe aree: deforestazione e cementificazione selvaggia. Non è il caso però delle Dolomiti, dove sono stati rasi al suolo – in modo inaudito – migliaia di ettari di bosco in perfetta salute. A chi si interroga sull’anomalo infittirsi di scie rilasciate dagli aerei (paesi come Israele e la Cina ammettono di utilizzare l’aviodispersione per modificare il clima) si risponde che mancano riscontri certi sulle vere cause del disastro che sta mettendo in ginocchio l’Italia. Certo è la Terra a presentarci il conto dei troppi abusi subiti, mentre il rialzo termico non accenna ad arrestarsi e le temperature restano pericolosamente molto al di sopra delle medie stagionali.A un quadro già così fosco è possibile aggiungere l’impatto di un’ipotetica modifica climatica segreta? Nel suo bestseller “Massoni”, Magaldi ha svelato i peggiori retroscena del potere mondiale. Sabotatori del clima a scopo anti-italiano? «Se qualcuno suppone che vi siano degli interventi proditori, questi sono tecnicamente possibili, in certi casi», ammette Magaldi: «Siamo nell’ambito del possibile, non sono tesi assurde o strampalate. Poi però – aggiunge – bisogna verificare i fatti, in termini scientifici, avendo la capacità di ricostruire una narrativa coerente e congruente». Innanzitutto: cui prodest? «A chi giova mettere in atto, da apprendista stregone, delle dinamiche tragiche e che possono diventare incontrollabili?». Si tratterebbe di «strumentazioni potentissime e pericolosissime», alla portata del Deep State e del back-office del potere? Se ad allarmarsi sono i comuni cittadini, che magari «seguono siti o pubblicazioni più o meno complottarde», figuriamoci se la situazione potrebbe mai cogliere di sorpresa «tutti i segmenti delle agenzie di intelligence». In altre parole: «Non è facile, fare delle cose del genere», ribadisce Magaldi. «Tenderei a ritenere poco plausibile, anche se possibile, che qualcuno voglia operare in questi termini, cioè scatenare proditoriamente e consapevolmente delle situazioni di questo tipo. Però – ripete – siamo nel campo delle ipotesi: in termini scientifici, se qualcuno ha gli strumenti (e le fonti) per approfondire in modo adeguato, lo faccia e lo racconti».Qualcuno ha deciso di “bombardare” l’Italia scatenando tempeste e alluvioni? Le tecnologie di manipolazione del clima esistono, ammette Gioele Magaldi, che però aggiunge: chi mai potrebbe essere così irresponsabile da utilizzare deliberatamente, e in modo doloso, strumenti così pericolosi? La storia degli ultimi decenni, dice Magaldi in diretta web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, dimostra che finora, anche nei momenti peggiori, è sempre prevalsa una sorta di saggezza di fondo: la stessa che, durante la Guerra Fredda, ha impedito a Usa e Urss di impiegare i rispettivi, devastanti arsenali nucleari. Certo, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, la catastrofe meteorologica che sta flagellando l’Italia impone un drastico ripensamento del nostro rapporto con l’ambiente. Abusi e devastazioni possono presentare un conto salatissimo, anche se stavolta l’apocalisse delle Dolomiti – valli sventrate e intere foreste secolari cancellate – disegna un orizzonte inedito. Il panorama è più inquietante del consueto, drammatico bollettino di guerra stagionale fatto di strade interrotte, ponti crollati e paesi isolati, acquedotti lesionati e infrastrutture distrutte. La minaccia si chiama surriscaldamento climatico, e sembra inarrestabile. Gli alberi crollano, seminando morti e feriti, sotto trombe d’aria mai viste a queste latitudini. E potrebbe essere solo l’inizio.
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.
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Siamo lo 0,01% della vita sulla Terra, e la stiamo uccidendo
E’ ufficiale: siamo la peste della Terra. Lo si sapeva già, ma ad aggravare il quadro provvede una sconvolgente ricerca statistica: i 7,6 miliardi di umani rappresentano solo lo 0,01% di tutti gli esseri viventi. Eppure, dagli albori della civiltà, l’umanità ha provocato la scomparsa dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e della metà delle piante viventi. Su tutto domina il bestiame destinato alle nostre tavole: il 60% dei mammiferi terrestri è ormai costituito da bovini e suini d’allevamento, mentre il pollame rappresenta il 70% degli uccelli viventi sul pianeta. Lo afferma il professor Ron Milo, del Weizmann Institute of Science di Israele, che ha diretto il lavoro, pubblicato negli atti del National Academy of Sciences. Questa ricerca, scrive Damian Carrington sul “Guardian”, è la prima stima completa sul peso percentuale esercitato da ciascuna classe di creature viventi. Lo studio ribalta i presupposti che finora ci avevano sempre accompagnato. In sintesi: dopo i batteri (il 13% del totale) la forma di vita più importante sono le piante: la vetegazione costituisce l’82% di tutta la materia vivente. Tutto il resto – insetti, funghi, pesci, specie terrestri – arriva appena al 5% della biomassa mondiale. Altra sorpresa: gli oceani ospitano solo 1% della vita sulla Terra. Il problema? L’uomo: stiamo divorando tutto, alla velocità della luce.«Non avrei mai creduto che non esistesse ancora una valutazione completa e ufficiale di tutte le diverse componenti della biomassa», ammette il professor Milo. «Spero che questo studio permetta alla gente di prendere coscienza della vera prospettiva del ruolo tanto vessatorio che l’umanità sta giocando sulla Terra». Impressionante, ad esempio, l’impatto ambientale che ha il semplice consumo quotidiano di carne. La trasformazione del pianeta per effetto delle attività umane, ricorda il “Telegraph” in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”, ha portato gli scienziati ad essere vicini a dichiarare una nuova era geologica: l’Antropocene. «Un segnale di questo cambiamento lo possiamo vedere nei resti delle ossa di pollo domestico, che ormai sono sparse per tutto il mondo». Un quadro desolante: gli uccelli in libertà sono appena il 30%, mentre la quota di mammiferi selvatici si riduce ad appena il 4% (al 60% rappresentato dal bestiame, infatti, bisogna aggiungere i “mammiferi umani”, che sono il 36% del totale). Attenzione: «La distruzione dell’habitat selvaggio prodotta dall’agricoltura, dal disboscamento e dallo sviluppo (industriale) ha portato all’inizio di quella che molti scienziati considerano la sesta estinzione di massa della vita che si sta producendo nella storia della Terra da quattro miliardi di anni».Si è valutato che circa la metà degli animali esistenti sulla Terra si sia estinta negli ultimi 50 anni, aggiunge il “Telegraph”, citando lo studio israeliano. Ma solo il confronto del risultato di queste nuove stime con quello che esisteva prima che gli umani diventassero contadini stanziali, e che poi cominciasse la rivoluzione industriale, rivela la vera portata di questo enorme declino. «E’ stata una sorpresa anche per gli scienziati rendersi conto che solo un sesto dei mammiferi selvatici sono sopravvissuti, dai topi agli elefanti. E dopo tre secoli di caccia alle balene sono rimasti, negli oceani, solo un quinto dei mammiferi marini». Da quando è cominciata la civiltà umana, si è estinto l’83% dei mammiferi selvatici, l’80% dei cetacei, il 50% delle piante e il 15% dei pesci. «È qualcosa di veramente sorprendente, la sproporzione del posto che occupa l’uomo sulla Terra», dice Milo. «Quando faccio un puzzle con le mie figlie, di solito trovo un elefante accanto a una giraffa e accanto un rinoceronte. Ma se provo a rendere più realistico il modo di guardare il mondo, dovrei trovare una mucca accanto a una mucca accanto a una mucca e poi accanto a un pollo».Nonostante la supremazia assunta dall’umanità, in termini di peso, l’Homo Sapiens sulla Terra è ben piccola cosa. I virus, da soli, messi insieme hanno un peso percentuale combinato di tre volte superiore a quello degli esseri umani e così pure i vermi. I pesci sono 12 volte più delle persone e i funghi sono 200 volte di più. Le piante rappresentano l’82% di tutte le biomasse del pianeta – 7.500 volte di più degli esseri umani. Comparando il totale della massa degli umani – aggiunge il “Telegraph” – troviamo che i virus sono tre volte di più, i vermi sono tre volte di più, i pesci 12 volte di più e insetti, ragni e crostacei 17 volte di più. Ma l’impatto dell’uomo sul mondo della natura rimane immenso – insiste Milo – soprattutto per le nostre scelte alimentari, «che hanno un enorme effetto sull’habitat di animali, piante e altri organismi». Lo scienziato si augura che il pubblico prenda coscienza delle dimensioni, sconcertanti, del fenomeno: per esempio, cominciando a mangiare meno carne. Oggi non possiamo più fingere di non sapere. Paul Falkowski, della Rutgers University statunitense, conferma: quella di Milo «è la prima analisi completa sulla distribuzione della biomassa di tutti gli organismi viventi sulla terra, inclusi i virus». La sorpresa? Il virus di gran lunga più pericoloso, sulla Terra, siamo proprio noi.E’ ufficiale: siamo la peste della Terra. Lo si sapeva già, ma ad aggravare il quadro provvede una sconvolgente ricerca statistica: i 7,6 miliardi di umani rappresentano solo lo 0,01% di tutti gli esseri viventi. Eppure, dagli albori della civiltà, l’umanità ha provocato la scomparsa dell’83% di tutti i mammiferi selvatici e della metà delle piante viventi. Su tutto domina il bestiame destinato alle nostre tavole: il 60% dei mammiferi terrestri è ormai costituito da bovini e suini d’allevamento, mentre il pollame rappresenta il 70% degli uccelli viventi sul pianeta. Lo afferma il professor Ron Milo, del Weizmann Institute of Science di Israele, che ha diretto il lavoro, pubblicato negli atti del National Academy of Sciences. Questa ricerca, scrive Damian Carrington sul “Guardian”, è la prima stima completa sul peso percentuale esercitato da ciascuna classe di creature viventi. Lo studio ribalta i presupposti che finora ci avevano sempre accompagnato. In sintesi: dopo i batteri (il 13% del totale) la forma di vita più importante sono le piante: la vegetazione costituisce l’82% di tutta la materia vivente. Tutto il resto – insetti, funghi, pesci, specie terrestri – arriva appena al 5% della biomassa mondiale. Altra sorpresa: gli oceani ospitano solo 1% della vita sulla Terra. Il problema? L’uomo: stiamo divorando tutto, alla velocità della luce.