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L’Italia che difende i marò non aprì bocca dopo il Cermis
Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».Basta osservare le foto del Saint Antony, il battello da pesca colpito dai fucilieri: «Accettereste un passaggio – anche gratis! – su una simile bagnarola?». Nei luoghi “classici” della pirateria, come lo Stretto di Malacca, le imbarcazioni usate dai pirati sono potenti e veloci, si dispongono in tandem a prua della preda, tendendo una cima fra le due imbarcazioni pirata: così è la prua stessa della vittima, incocciando nella cima, a tirarsele sottobordo. Non è il caso del Saint Antony, che nel frattempo è affondato («Non c’è da meravigliarsi!»). Il peschereccio, continua Bertani, poteva raggiungere al massimo gli 8-9 nodi, contro i 12 della Enrica Lexie. «Le due imbarcazioni procedevano quasi su rotta di collisione», prua contro prua. «Una delle vittime – il timoniere – fu trovato morto “appeso” al timone: s’ipotizzò addirittura che dormisse, all’atto dei luttuosi eventi». Domanda: perché il comandante del mercantile, Umberto Vitelli, se era in dubbio riguardo alle intenzioni del peschereccio, non ha fatto bloccare il timone e aumentare la velocità? E perché non ha richiamato il personale dalla plancia? E’ è tutta a vetri, e se si spara si può essere colpiti.«Qualora il peschereccio avesse messo il “turbo” (cosa risultata a posteriori impossibile, perché era solo una vecchia carretta da pesca), a quel punto si poteva prendere in esame la risposta armata», scrive Bertani. «Quando ho parlato di “grilletto facile” non ho blaterato a vanvera». I due morti sul Saint Antony furono colpiti da munizionamento Nato (presenti i carabinieri italiani all’autopsia). E la barca «era ridotta a un colabrodo, mentre nessun colpo aveva raggiunto la Enrica Lexie, anche perché gli indiani erano disarmati». Dove avvenne lo scontro? Secondo la perizia del “collegio capitani”, a circa 20,5 miglia nautiche dalla costa, all’esterno delle acque territoriali ma all’interno della “zona contigua”, che l’India ha ratificato con la convenzione di Montago Bay, che recita: «La zona contigua si estende dal mare territoriale non oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base. In quest’area lo Stato costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio territorio o mare territoriale, sia prevenire le violazioni alle proprie leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione». L’India, conclude Bertani, aveva dunque pieno diritto di effettuare l’arresto.«Si è fatto molto chiasso su questa vicenda, cercando d’aggrovigliare le miglia marine come fossero capelli – aggiunge Bertani – ma ci si dimentica che gli israeliani assalirono la Mavi Marmara (mercantile della Freedom Flotilla) a 40 miglia dalle loro coste, in piene acque internazionali, e nessuno mosse un baffo. Quello fu, a tutti gli effetti, un vero atto di pirateria». La vicenda dei marò è intricatissima, perché in India vige la pena di morte: più volte, però, magistrati e politici indiani hanno precisato che “per quel tipo di reato non è prevista la pena di morte”. Le autorità indiane, inoltre, hanno spiegato che ai militari italiani potranno infliggere ogni sentenza «eccetto la pena di morte, l’ergastolo e l’imprigionamento per un periodo eccedente 7 anni». Insomma, il massimo (per due omicidi, secondo gli indiani) sono 7 anni di reclusione: quasi come in Italia. «C’è da dire – continua Bertani – che la pazienza indiana è stata più volte messa a dura prova dalle intemperanze dell’allora presidente Napolitano – che ricevette i due marines come se fossero stati due eroi – e dalle “scommesse” dell’allora ministro degli esteri Terzi, il quale dichiarò che i due militari non sarebbero più tornati in India, dopo uno dei molti “permessi” che l’India concesse, senza esser tenuta a farlo».Tutt’altra storia quella del Cermis, la catastrofe innescata dai “Prowler” dei marines, impegnati in manovre spericolate per “passare sotto i cavi della funivia”. La faccenda fu spiegata con le confessioni dell’equipaggio e di altri membri dello staff americano e italiano: era stata una scommessa. L’aereo, già in fase di cabrata, “tagliò” la cima d’acciaio della funivia come la lama di un coltello. «Eppure, in quella vicenda, non ci fu un solo giorno di prigione per i militari americani, che si appellarono alla famosa convenzione che regola le missioni Usa all’estero: giudicati in patria, dove diedero loro un buffetto». Tutto il personale tornò a volare in breve tempo, appena le acque si furono chetate. «Chi chiede il giudizio in Italia per i due marò, dimentica un piccolo particolare: l’India non è un paese Nato! Quella sentenza, quel modo di trattare degli statunitensi, ci sta bene? Ne siamo soddisfatti?». A ben vedere, continua Bertani, «l’India non ha fatto altro che chiedere un’equanimità di giudizio (pur in presenza di sistemi giuridici diversi), comprendendo che fu un tragico incidente dovuto alla paura e alla carenza di comando e controllo del personale militare imbarcato: l’ufficiale più vicino alla Enrica Lexie era a Gibuti!».Piuttosto, insiste Bertani, «gli italiani dovrebbero indagare e punire chi lasciò soli nelle loro mortale decisione i due fucilieri: il sergente che comandava la squadra? Il comandante Vitelli? Un ufficiale distante tremila miglia marine?». Niente da dire: «Siamo dei veri specialisti nel creare procedure fumose, le quali finiscono per lasciare il cerino in mano all’ultima ruota del carro». E non si può pretendere che un simile pasticcio sia compreso e “perdonato” in India, «paese dal solido impianto giuridico, mutuato dal sistema britannico». In fondo, cos’ha fatto l’India? «Ha chiesto quello che dovevamo chiedere, noi italiani, all’indomani della tragedia del Cermis: si è comportata da paese sovrano. Siamo noi che ci comportiamo da paese subalterno agli Usa». Peraltro, resta completamente irrisolto il problema della pirateria, da quando i mercantili rifiutano di essere equipaggiati con armamento a disposizione del personale di bordo.Secondo Bertani, basterebbe dotare le navi di un cannoncino a tiro rapido, «che consentirebbe di avvertire il bersaglio con una raffica davanti alla prua, come si faceva un tempo». Armi precise, automatiche, facili da usare. Ma i marinai, i comandanti e gli armatori non ne vogliono sapere. Così, nei guai ci finiscono i marò, lasciati senza ordini e costretti a prendere decisioni, da soli, in pochi secondi. «L’unica cosa da non fare è trasformare un evento luttuoso, uno sbaglio, in una questione internazionale d’orgoglio patriottico, peraltro incomprensibile in simili frangenti», conclude Bertani. «Lasciamo che i due marò trascorrano la loro pena in ambasciata, in India (ciò che resterà da scontare dei 7 anni), e faremo una figura onorevole. Siamo ancora in tempo per rimediare, ricordando che l’India poteva comportarsi in ben altra maniera: altro che 7 anni!».Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».
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Germania, il boia che fa la vittima (e mente ai tedeschi)
Uno dei più frequenti e stupefacenti fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: «Vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell’insicurezza, vittime dell’ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell’invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere». Vittime, scrive Marco d’Eramo, si sentono i tedeschi delle “sanguisughe greche” che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. «Perché non c’è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l’alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell’Europa del nord».E’ quasi surreale la rabbia che traspira dai media tedeschi nei confronti di Atene, scrive d’Eramo su “Micromega”: «In un paese che è costretto a vendersi tutto, persino le isole, leggere che sono i greci che stanno derubando i tedeschi sembra di sognare a occhi aperti». Il vittimismo tedesco? «E’ forse l’aspetto più preoccupante nell’attuale vicenda europea». Dopo 70 anni si ripropone in Europa una questione che sembrava essere stata risolta per sempre: «Forse gli storici ricorderanno il luglio 2015 non solo come il mese in cui fu affossato il progetto europeo, ma soprattutto come il momento in cui riemerse con forza la questione tedesca, dove l’aggettivo “tedesco” non riguarda i singoli cittadini della Germania, ma designa lo Stato e il governo politico ed economico tedesco, la classe dominante tedesca». Grazie alle loro dimensioni schiaccianti, gli Stati Uniti «avevano costretto sia le élites francesi, sia quelle tedesche a rendersi conto di “non fare il peso”, di essere gattini in un mondo di elefanti, e avevano così liberato noi europei dall’insopportabile prospettiva di altri tre secoli di guerre franco-tedesche».D’Eramo ricorda che la Germania unita è una costruzione statale recentissima nel panorama europeo, persino più giovane della stessa Italia unita. E fin dalla sua riunificazione, nel 1866, la Germania ha posto all’Europa un “problema tedesco”: in 79 anni, prima di essere ridivisa di nuovo, aveva scatenato due guerre europee (con l’Austria nel 1866 e con la Francia nel 1870) e due guerre mondiali (nel 1914 e nel 1939): una media di una guerra ogni 19 anni; solo lo Stato d’Israele (anch’esso una creazione recentissima) si sta dando da fare per battere questo record, con cinque guerre e varie guerricciole in 66 anni: a confronto, gli Usa stanno a 11-12 guerre in 241 anni, un conflitto ogni ventennio. Che la Germania rappresentasse ben altro problema, lo riassume la battuta attribuita allo scrittore francese François Mauriac: «Amo talmente tanto la Germania che sono felice che ce ne siano due».Quasi a confermare le parole di Mauriac, aggiunge d’Eramo, appena dopo la riunificazione nel 1989, alcuni segnali avevano suscitato inquietudine: il ruolo della nuova Germania unita nel favorire la dissoluzione della Jugoslavia e quindi nel suscitare il susseguente conflitto e la fretta nell’annettere all’Unione Europea i paesi dell’Est. «Una fretta che ha provocato non pochi scompensi e problemi di dissonanza politica», nonché «una certa megalomania imperiale nei piani di ricostruzione di Berlino capitale», segnali spesso scambiati per «prodotti da un’euforia che si sperava transitoria». Inutile sperare nella memoria collettiva, continua d’Eramo: nonostante Hiroshima e Nagasaki, più della metà dei giovani nipponici ignora che vi sia mai stato un conflitto tra Giappone e Stati Uniti. E il modo in cui gli stessi italiani trattano gli immigrati «è totalmente immemore delle umiliazioni, discriminazioni, persino dei linciaggi subiti dagli immigrati italiani nell’ultimo secolo e mezzo (e sono stati complessivamente decine di milioni)». Per non parlare del modo in cui «gli israeliani abusano del proprio potere militare», un fatto letteralmente «incompatibile con la memoria delle angherie subite per millenni dal popolo ebraico».Perciò quando si parla di questione tedesca, «non è in gioco un ipotetico, improbabile carattere etnico collettivo di supposta “teutonica” arroganza autoritaria, bensì di un atteggiamento proprio della classe dominante che sembra discendere in linea diretta dagli Junker prussiani perché, come loro, accompagna con una violenta svolta conservatrice ogni sua spinta espansionistica». Tralasciando il paragone con il Terzo Reich, «perché proprio l’enormità delle devastazioni prodotte dal nazismo, e dunque proprio l’improponibilità del confronto, in un certo senso “assolve” la Germania attuale da ogni responsabilità», è più utile ricordare la Germania bismarkiana e guglielmina, «innanzitutto perché proprio quell’esperienza ha plasmato la nascita dell’euro». Una moneta unica europea (prima lo Sme, poi l’Ecu, infine l’euro) «fu la condizione che il presidente francese François Mitterrand impose per acconsentire alla riunificazione tedesca, come strumento per imbrigliare lo strapotere prevedibile di una Germania unita».L’euro, continua d’Eramo, fu quindi vissuto dalla classe dominante tedesca come l’ultimo diktat esercitato dalle potenze vincitrici mezzo secolo dopo la disfatta della Seconda Guerra Mondiale. Ancora tre anni fa, l’ex socialdemocratico ed ex membro del direttorio della Deutsche Bundesbank, Thilo Sarrazin, scriveva un libro dal titolo significativo: “L’Europa non ha bisogno dell’euro: come i nostri pii desideri politici ci hanno condotto alla crisi”. Sarrazin scriveva esplicitamente che la Germania si è lasciata trascinare «nell’euro e nell’unità europea a causa del senso di colpa per la seconda guerra mondiale» (in tedesco, “colpa” e “debito” sono espressi dallo stesso vocabolo: “die Schuld”). «I fautori (dell’euro e degli eurobonds) sono spinti dal riflesso squisitamente tedesco per cui la penitenza per l’Olocausto e la guerra mondiale è davvero conclusa solo quando noi affidiamo tutti i nostri averi e il nostro denaro in mani europee», scriveva Sarrazin. Quindi, osserva d’Eramo, «viene descritto come strumento dell’oppressione e umiliazione subite dai tedeschi quell’euro che in realtà si è rivelato per la Germania il suo più importante strumento di dominio, controllo e sopraffazione».È l’euro, infatti, che ha permesso la metamorfosi del progetto europeo «dal perseguimento di una Germania europea all’instaurazione (destinata al fallimento) di un’Europa tedesca». Intanto, perché «nel XX secolo il progetto di unificazione europea ha preso a ricalcare in modo sempre più pedissequo il processo di unificazione tedesca nel XIX secolo: primo passo un’unione doganale col mercato comune europeo, sulle orme dello Zollverein del 1834 tra 38 stati della Confederazione tedesca, ognuno con diritto di veto». Poi, una nuova unione doganale come quella stabilita nel 1866 (dopo la guerra austro-prussiana), ma in cui i singoli Stati membri non avevano più diritto di veto, e con un nucleo forte costituito dai 22 paesi della Confederazione tedesca del nord che si erano dotati di un Parlamento comune con però poteri limitatissimi rispetto al Consiglio federale che rappresentava gli Stati. «Per continuare il paragone, il Consiglio federale era l’equivalente della Commissione Europea, mentre il Reichstag corrispondeva all’Europarlamento e la distinzione tra Confederazione tedesca del nord e area-Zollverein corrispondeva all’Europa a due velocità, con l’Eurozona dei 17 rispetto all’Unione europea dei 27 membri».La similitudine finisce qui perché, dopo soli cinque anni, nel 1871 la Confederazione tedesca fu assorbita dalla Prussia e inglobata nell’impero tedesco. «Ma in realtà non finisce qui – sottolinea d’Eramo – perché in Europa la Germania vede se stessa sempre più nella funzione e nello status che aveva avuto la Prussia nell’unificazione della Germania». Naturalmente la deriva antidemocratica e autoritaria del progetto euro non può essere ascritta alla sola Germania: «La sua data d’inizio va cercata nel referendum sulla Costituzione europea bocciato nel 2005 dai francesi e dagli olandesi. Fu a partire da allora che si allontanò la prospettiva di un’unione politica e quindi di un possibile controllo democratico sulle scelte di Bruxelles». Ovvio, poi, che ciascuno cerchi di sfruttare a proprio vantaggio le circostanze: così, la crisi economica è stata vista «come un’opportunità (e usata come tale) per perseguire i propri scopi politici e finanziari». I poteri finanziari di tutto il pianeta «hanno sfruttato (con successo) la crisi per sottrarre ai lavoratori conquiste che avevano richiesto secoli di lotta per essere ottenute».La stessa Cina ha sfruttato la recessione atlantica per affermare definitivamente il proprio status di officina del mondo. E la Germania «ha usato la crisi per sottrarre alla Francia una bella fetta di sovranità nazionale, con l’ironico risultato che l’euro pensato per imbrigliare Berlino ha finito per imprigionare Parigi», al punto che «in questo scontro, la Grecia è solo un birillo sul tavolo da biliardo». Dalla riunificazione in poi, «la classe dominante tedesca ha pensato sempre meno in termini di Europa e sempre più in termini di Germania». Tanto che, a tutt’oggi, come scrive sul “Financial Times” Wolfgang Münchau, l’euro ha funzionato bene praticamente per la sola Germania (in misura minore per l’Austria e l’Olanda, anche se adesso l’Olanda è in crisi). Ma l’euro è stato disastroso per l’Italia e sta rivelandosi letale per la stessa Francia; intanto la Finlandia è in piena recessione, Spagna e Portogallo sono più poveri di sette anni fa, mentre della Grecia non è nemmeno il caso di parlare. Eppure, «ancora una volta la narrazione prevalente in Germania è il contrario della realtà: l’euro viene visto come un regime di cui Berlino deve sopportare tutti i costi, da buona formica nordica che paga per tutte le cicale meridionali».La verità è opposta: è proprio l’euro ad aver garantito «la possibilità di esportate i prodotti tedeschi nell’Eurozona: un ritorno al marco, e la sua conseguente rivalutazione, farebbero immediatamente crollare le esportazioni tedesche nel mondo». Ed è questa, insiste d’Eramo, la maggiore responsabilità storica delle élites tedesche: «Quella di aver consentito, incoraggiato e infine imposto alla stragrande maggioranza della popolazione tedesca una visione della storia che niente ha a che vedere con la realtà e che favorisce tutti gli stereotipi più nazionalisti, xenofobi e persino razzisti». Per cui «assistiamo a una commedia del potere, al gioco delle parti di una classe dominante che si dice costretta a esigere dalla Grecia insane misure di austerità, perché altrimenti perderebbe i favori di un’opinione pubblica che questa stessa classe dominante ha plasmato nello stampo più reazionario; che è costretta a esercitare una dittatura del capitalismo per ragioni democratiche, perché altrimenti perderebbe il consenso popolare». Il risultato è «l’evoluzione della Spd tedesca che, dopo aver cacciato Sarrazin, adotta oggi con il socialdemocratico vicepremier Sigmar Gabriel tutta la visione del mondo di Sarrazin, con tutte le sue conseguenze politiche».Quanto sia distante la narrazione che la Germania racconta a se stessa della crisi greca e della gestione da parte della Troika, secondo d’Eramo risulta lampante dalla folle vicenda dei panettieri greci, costretti a cambiare il sistema di vendita del pane. «A prima vista può sembrare ridicolo che in un disastro economico come quello greco, i paesi creditori si ostinino a esigere misure urgenti come la liberalizzazione della vendita del pane non solo presso i fornai ma perché no anche nei saloni di bellezza, e che considerino l’equiparazione dell’Iva sul pane nelle panetterie e nei supermercati (che finora pagavano di più per salvaguardare il piccolo commercio). Ma il ridicolo si trasforma in grottesco quando la Troika impone in modo ultimativo il diktat sul peso delle pagnotte: finora nei negozi greci si vendevano forme o da un chilo o da mezzo. Ora sarà obbligatorio venderne in pezzature diverse e graduali». Ma che gliene può fregare ai creditori del peso della pagnotta greca? Quattro anni fa, d’Eramo aveva iniziato un editoriale del “Manifesto” con una frase che gli provocò indignate reazioni da parte dei suoi amici tedeschi: “Dove non era giunta la Wehrmacht, è arrivata la Bundesbank” (si riferiva per esempio a Lisbona e a Madrid). «Rispetto ad allora, c’è da aggiungere che neanche i generali prussiani si sarebbero mai sognati di legiferare sulla pezzatura delle pagnotte in terra d’occupazione».Uno dei più frequenti e stupefacenti fenomeni della storia umana è la prevaricazione esercitata sentendosi vittime: «Vittime si sentono gli israeliani che rinchiudono i palestinesi in una prigione a cielo aperto, vittime del terrorismo palestinese, vittime dell’insicurezza, vittime dell’ostilità araba. Vittime si sentono i razzisti italiani che rinchiudono i richiedenti asilo in lager inumani: vittime dell’invasione di immigrati clandestini, di rifugiati che minaccerebbero la loro sicurezza, le loro vite, il loro benessere». Vittime, scrive Marco d’Eramo, si sentono i tedeschi delle “sanguisughe greche” che stanno succhiando il benessere così duramente conquistato. «Perché non c’è dubbio che a leggere gli economisti tedeschi, la crisi greca sembra una truffa fraudolenta attuata da fannulloni, incapaci, disonesti meridionali che vanificano l’alacre, parca, industriosa morigeratezza dei paesi dell’Europa del nord».
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Con il Ttip, l’Europa succursale degli Usa (e la Bce della Fed)
Il 20 aprile ha preso il via a New York la nona tornata di trattative tra Stati Uniti e rappresentanti dell’Unione Europea per la Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). I funzionari di entrambe le parti convengono sulla cifra di 100 miliardi di dollari. Pare che sarà questa la cifra di cui saranno aumentati il Pil statunitense e quelli di tutti i membri dell’Ue messi insieme. Finora, nessuno ha dato una spiegazione chiara sull’origine di questa previsione economica. Anche se fosse vero, 100 miliardi di dollari in rapporto ai Pil di Usa e Ue nel 2014 (17,4 + 18,5 trilioni di dollari) è meno dello 0,3%. In altre parole, l’entità degli effetti attesi è a livello di errore tecnico. Sembra che per qualche motivo si tenti di arginare l’orto Transatlantico. Tradizionalmente, l’Europa vanta un notevole surplus commerciale stabile con gli Stati Uniti (86,5 miliardi di dollari nel 2012 e 92,3 miliardi nel 2013). Probabilmente Washington spera di mettere le mani su quei 100 miliardi di dollari virtuali, o che per lo meno ci sarà una parziale riduzione nel deficit commerciale tra Stati Uniti ed Europa.Washington è la forza trainante dietro il procedimento negoziale della Ttip. Un europeo non molto ferrato in politica non è in grado di capire cosa debba aspettarsi dalla partnership. Tuttavia, ci sono già abbastanza preoccupazioni per una riduzione negli standard di qualità e di sicurezza dei prodotti, per via dei prodotti Ogm che inevitabilmente invaderanno il mercato europeo. Ma anche questo non è tutto, purtroppo. Il punto è che verrà inferto il colpo di grazia a quel che resta della sovranità nazionale europea. In primo luogo, l’accordo in questione copre il commercio e gli investimenti. Le società multinazionali (Tncs) potranno citare in giudizio i governi nel caso in cui questi le ostacolassero nel loro intento di massimizzare i profitti. Ad esempio, alle Tncs verrà riconosciuto il diritto di impugnare la legalità delle decisioni adottate dai paesi europei, come ad esempio le restrizioni ambientali, i regolamenti per tutelare i diritti sociali dei lavoratori, gli aumenti fiscali e così via. Le dispute non rientreranno nell’ambito delle legislazioni nazionali ma in quello del diritto internazionale.In secondo luogo, una volta firmato l’accordo della Ttp, l’Europa perderà una volta per tutte la sovranità finanziaria e monetaria. Ciò perché Washington avrà il diritto di impugnare molte delle decisioni adottate dagli organismi monetari Europei, in base al presupposto che tali decisioni hanno come scopo quello di manipolare il tasso di cambio dell’euro, violando quindi norme di diritto internazionale. Gli esperti europei sono comprensibilmente preoccupati perché la Bce e la Commissione Europea finiranno con il doversi coordinare per ogni cosa con Washington, o semplicemente eseguire ordini che gli giungeranno da oltre oceano. Il tasso di cambio delle valute nazionali è un potenziale strumento di concorrenza, ed è nelle mani delle banche centrali. Detto questo, è stato utilizzato relativamente poco nel XIX e XX secolo. In un modo o nell’altro c’era lo standard aureo, che serviva a contenere, o anche a rendere impossibili, le manipolazioni valutarie. Inoltre, i principali mezzi di concorrenza erano le tariffe doganali, le sovvenzioni alle esportazioni, il dumping e, più recentemente, le restrizioni commerciali non tariffarie (quotas, standard tecnici, ecc.); in altre parole, gli strumenti convenzionali delle guerre commerciali ed economiche.Le possibilità di manipolazione valutaria giunsero solo negli anni ’70, dopo la fine del sistema monetario e finanziario Bretton Woods (lo standard del dollaro aureo), e dopo l’abolizione dei tassi di cambio fissi delle banche centrali. Furono poi conclusi in ambito Gatt/Wto degli accordi che limitarono ulteriormente l’uso di questi tradizionali strumenti di concorrenza economica e commerciale. Un tasso di cambio tenuto basso in modo artificiale allo stesso tempo dà maggiori vantaggi agli esportatori e rende le importazioni più costose (il valore delle importazioni è determinato in valuta nazionale). In ultimo, la bilancia commerciale nazionale verrà livellata, o per lo meno diminuirà il bilancio negativo del commercio estero. Se un gran numero di paesi fa ricorso alla manipolazione valutaria (con alcuni che tentano di penetrare i mercati globali ed altri di proteggersi dai dumping valutari), allora è “guerra valutaria”. Secondo gli esperti, durante la crisi finanziaria del 2007/2009 c’e’ stata di fatto una guerra di valute su vasta scala. Nel settembre del 2010, il ministro delle finanze del Brasile, Guido Mantega, dichiarò che tra il 2009 e il 2010 il Real brasiliano si era rafforzato del 30% rispetto alle maggiori valute mondiali, e che questo non era il risultato di naturali dinamiche di mercato, ma una deliberata politica dei paesi più avanzati che emettevano valute mondiali.Il ministro brasiliano definì questa politica “guerra valutaria”. Nell’ottobre del 2010, il capo del Fmi Dominique Strauss-Kahn confermò che era in corso una “guerra valutaria globale”. E’ ovvio che i capi delle banche centrali e dei governi dei paesi più avanzati dell’Occidente non fanno mai alcun accenno al fatto che le decisioni adottate riguardo alle questioni monetarie hanno come scopi principali l’espansione del commercio estero, il livellamento delle bilance commerciali e la protezione delle società nazionali. Esiste una regola non scritta di astenersi da qualunque recriminazione durante una guerra valutaria. I funzionari parlano di guerre valutarie solo in modo marginale, mentre i giornalisti le definiscono con l’espressione “guerre dell’impoverisci-il-tuo-vicino”. Questa politica di impoverimento dei paesi vicini, spesso, si cela dietro un formale obbiettivo di politica monetaria, come ad esempio la “lotta alla deflazione”. Mentre con l’inflazione il denaro si deprezza, con la deflazione invece cresce il suo potere d’acquisto. Le banche temono la deflazione (le manda nel panico), poiché con essa scompaiono gli incentivi ai prestiti e crolla così tutto il castello millenario usuraio del sistema bancario.La lotta alla deflazione e la politica di svalutazione del tasso di cambio di una valuta prevedono gli stessi metodi – pompaggio di liquidità aggiuntiva nell’economia del paese e riduzione dei tassi d’interesse, anche arrivando ad applicare in alcuni casi tassi di valore negativo. Queste misure a volte sono corredate anche da interventi valutari. Tuttavia, le guerre valutarie vanno discusse anche a livello ufficiale. Altrimenti il mondo potrebbe crollare nel caos valutario totale. Il Giappone, ad esempio, per diversi anni ha contrastato la deflazione facendo ricorso alla propria zecca e ai tassi d’interesse zero della sua banca centrale. E lo ha fatto, e lo fa, in modo ancora più aggressivo di altri paesi. Di conseguenza, nel periodo da ottobre 2012 a febbraio 2013, il Giappone è riuscito a ridurre il tasso di cambio Yen/paniere Sdr di quasi il 20%. Questo ha fatto molto alterare diversi suoi partner commerciali. Al summit del G20 tenutosi a Mosca nel febbraio del 2013 (presieduto dalla Russia quell’anno), i ministri delle finanze e i capi delle banche centrali giurarono solennemente di non fare mai ricorso alle tattiche di guerra valutaria.In poco tempo, tuttavia, tutto è tornato alla normalità. Washington ha proseguito nel suo programma di allentamento monetario (Quantitative Easing – Qe), che però non ha avuto tutto questo effetto stimolante sull’economia statunitense, ma ha contribuito a far svalutare il dollaro. In questo modo, gli Stati Uniti sono stati di cattivo esempio per altri, compresi i loro partner europei. In ultimo, nel 2015, gli Stati Uniti hanno deciso di dare un freno al programma di Qe. Tuttavia, nello stesso preciso momento la Bce ha dato inizio al suo programma di Qe. Oltre a questo, ha iniziato ad introdurre tassi di interesse di segno negativo sui conti di deposito e a concedere prestiti senza interessi. L’altalena valutaria pende verso l’euro, il cui tasso di cambio rispetto al dollaro era iniziato a scendere. Nonostante questo, l’Europa ha registrato un notevole surplus di bilancia commerciale con gli Stati Uniti, che potrebbe raggiungere il suo record proprio nel 2015. Cinque o sei anni fa ci sono stati tuttavia dei momenti in cui il tasso di cambio euro/dollaro era più del 1,50. A fine 2014, era poco più del 1,20 e ad aprile 2015 era sceso a 1,06. Gli esperti ritengono che entro il 2016 si raggiungerà la parità tra le due valute.Washington la sta prendendo molto seriamente. Nel 2014, il deficit della bilancia commerciale statunitense era di 505 miliardi di dollari, ovvero maggiore del 6% di quello dell’anno precedente. In anni recenti, i paesi dell’ Unione Europea hanno rappresentato il 20% del totale deficit di bilancia commerciale degli Stati Uniti. Nel 2015, tale deficit potrebbe raggiungere il suo record assoluto. Washington non può impedire alla Bce di dare il via al suo programma di Qe, ma se si concluderà l’Accordo della Partnership Transatlantica, gli Stati Uniti saranno in grado di interferire nella politica monetaria europea su basi giuridiche. E’ mia opinione che questa è una delle ragioni principali per cui si è resa necessaria una nona tornata di trattative per la Ttip: il procedimento si sta rivelando molto più complesso di quanto si credeva all’inizio.In realtà l’abolizione delle barriere doganali nei rapporti commerciali non è un grave problema, poiché queste barriere erano già basse anche prima che iniziassero le trattative per l’accordo. Ma se Washington acquisirà il controllo della politica monetaria e valutaria dei paesi dell’Unione Europea, significherà la totale e definitiva perdita della sovranità da parte di questi ultimi. Questo lo sanno molto bene i politici e le maggiori personalità dei paesi europei. Molti sono sorpresi del fatto che uno dei principali fautori del raggiungimento dell’accordo Ttip sia proprio il presidente della Bce Mario Draghi: dopo tutto, se l’accordo sarà firmato, la Bce diventerà una filiale della Fed. Ma forse è proprio questo a cui mira Mario Draghi, che non ha mai nascosto la sua propensione verso gli Stati Uniti. Non per niente è stato per diversi anni direttore esecutivo e vicepresidente della banca americana Goldman Sachs.(Valentin Katasonov, “Trattato Transatlantico e sovranità monetaria in Europa”, da “Strategic Culture” del 27 aprile 2015, tradotto e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Il 20 aprile ha preso il via a New York la nona tornata di trattative tra Stati Uniti e rappresentanti dell’Unione Europea per la Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership). I funzionari di entrambe le parti convengono sulla cifra di 100 miliardi di dollari. Pare che sarà questa la cifra di cui saranno aumentati il Pil statunitense e quelli di tutti i membri dell’Ue messi insieme. Finora, nessuno ha dato una spiegazione chiara sull’origine di questa previsione economica. Anche se fosse vero, 100 miliardi di dollari in rapporto ai Pil di Usa e Ue nel 2014 (17,4 + 18,5 trilioni di dollari) è meno dello 0,3%. In altre parole, l’entità degli effetti attesi è a livello di errore tecnico. Sembra che per qualche motivo si tenti di arginare l’orto Transatlantico. Tradizionalmente, l’Europa vanta un notevole surplus commerciale stabile con gli Stati Uniti (86,5 miliardi di dollari nel 2012 e 92,3 miliardi nel 2013). Probabilmente Washington spera di mettere le mani su quei 100 miliardi di dollari virtuali, o che per lo meno ci sarà una parziale riduzione nel deficit commerciale tra Stati Uniti ed Europa.
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Boicottare Wall Street, il piano di Putin per un mondo libero
Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. Unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. Indebolire dall’interno la “nuova Roma”; 3. Privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perchè ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.Tuttavia gli Usa non mancano di problemi interni, che ultimamente peggiorano e si espandono, vedasi l’affare Ferguson. In tal maniera, il mezzo più efficace di opporsi agli Usa è il privarli di risorse, rifiutando tutti i prodotti-chiave americani. Ciò andrebbe a scapito del dollaro, che è il mezzo con cui Washington opera la ridistribuzione delle risorse. Per trattare questo argomento bisogna allontanarsi dagli assalti dell’isteria mass-mediatica. Innanzitutto, bisogna smettere di comprare le obbligazioni Usa ed europee, che succhiano le riserve dei fondi russi. Dal primo gennaio, i fondi che erano utilizzati per l’acquisto di queste obbligazioni dei “partner occidentali” saranno utilizzati per i bisogni del Tesoro. In seguito, nelle strutture profonde del partito “Russia Unita” si prepara una rivoluzione economica a partire dai piani alti. In terzo luogo si persegue l’approccio con la Cina, sulla quale è utile soffermarsi in modo più preciso. Oltre che la messa in moto del memorabile progetto dell’oleodotto “Forza siberiana” si persegue un lavoro comune, determinato e coordinato, del rafforzamento dei mezzi militari, oltre che lo stabilizzare i partner dell’Asia centrale.Per esempio, la Cina appare essere uno degli investitori principali nel Tagikistan. Tutta una serie di progetti comuni tra Russia e Cina sono stati intrapresi, come l’inaugurazione d’un infrastruttura aeronautica comprende anche gli elicotteri. In relazione a ciò, sta venendo fatto pure un lavoro fondamentale di distacco dal dollaro americano negli scambi commerciali. È utile sottolineare che gli Usa, con le loro azioni ad Hong Kong, hanno decisamente irritato Pechino: il livello di sostegno della popolazione cinese è passato dal 47% al 66% in un solo anno, in seguito al suo confronto con l’Occidente. Durante la diciottesima sessione della commissione russo-cinese per la preparazione degli incontri governativi, il vicepremier ministro Wang Yang ha dichiarato come «sbagliate» le sanzioni occidentali contro la Russia e ha esortato sia la Russia che la Cina a dare una risposta appropriata ai paesi occidentali. Durante il forum economico russo-cinese, il presidente della banca centrale cinese, quinto istituto finanziario al mondo, ha dichiarato che «è indispensabile rafforzare la cooperazione in materia di tali operazioni e mettere fine al monopolio del dollaro». I meccanismi per disgregare l’egemonia del dollaro sono stati oramai concepiti.L’11 ottobre la stampa ha confermato che la Russia e la Cina hanno concluso un accordo sulle operazioni “swap” (ossia le operazioni di scambi) per le esportazioni in rubli e yen. Senza dubbio, dopo aver firmato quest’accordo “swap”, il numero dei candidati che intendono astenersi dal dollaro dovrebbe aumentare, perchè anche la Turchia ne é interessata. Intanto si rafforza l’approccio con l’Iran. Teheran e Mosca studiano una transazione nota come “petrolio in cambio di centrali elettriche”. Dato che l’Iran resta vincolato dalle sanzioni, le banche commerciali russe stanno inaugurando una serie di collaborazioni con la Persia, e sta venendo anche effettuato uno studio per stabilire una banca comune per il mutuo finanziamento dei progetti economici e commerciali. E tutto ciò senza parlare delle attività ininterrotte per l’inaugurazione dello spazio economico eurasiatico, al quale s’aggiunge anche l’Armenia e a cui prenderà parte anche il Kirghizistan prima della fine dell’anno. Insomma, il piano strategico di Putin, il cui fulcro è la cooperazione con coloro che sono stanchi dell’egemonia degli Usa, mira a privare gli Stati Uniti delle loro risorse e a rinforzare la propria economia evitando di ricorrere al dollaro per le transazioni. E tutto ciò senza che la Russia e la Cina rischino di incappare nei tranelli che sono tesi loro, sotto forma di “paracaduti gialli” o di prese di posizioni radicali nella guerra civile ucraina. La nuova Roma, senza dubbio, crollerà.(Ivan Lizin, estratti dall’intervento “Il diabolico manuale di Putin, piccolo manuale di combattimento contro l’impero mondiale”, pubblicato da “Reseau International” il 17 ottobre 2014 e tradotto da “Come Don Chisciotte”).Nessuna delle tribù barbare alle frontiere dell’Impero Romano avrebbe potuto, individualmente, annientare la macchina da guerra rappresentata da quest’impero ed entrare vittoriosa a Roma. L’impero s’era fornito di più risorse e più cavalieri in vista della distruzione del suo nemico. I barbari erano divisi e si muovevano in modo scoordinato. Roma, infatti, cadde solamente quando le sue strutture di governo si decomposero e l’esercito cessò di esistere. L’impero, poco a poco, perse le sue province; privato delle sue risorse, si indebolì e perse i mezzi con cui opporsi agli invasori. Ciò significa che per vincere gli Usa, che si considerano come gli eredi dell’impero romano, bisogna: 1. unirsi a coloro che si vogliono liberare del potere di Washington; 2. indebolire dall’interno la “nuova Roma”; 3. privarla di quante più risorse possibili. I paesi stanchi dell’egemonia degli Usa si sono uniti nel quadro dei Brics, dello Sco e dell’Unione Doganale Eurasiatica. Indebolire gli Usa dall’interno è molto complicato, perché ciò richiede delle azioni specifiche: una preparazione di alto livello delle Ong e di specialisti delle “rivoluzioni colorate”, le quali non sono possedute né dalla Russia né dalla Cina.
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Vaticanomics, l’Opus Dei a lezione dalla Goldman Sachs
Il diavolo e l’acqua santa. Il denaro sterco del demonio. Gli pseudo-opposti che si incontrano e si suggeriscono regole di comportamento. Con tanti saluti alla nuova linea della Chiesa attenta alla povertà, con la quale Francesco I ha voluto caratterizzare il suo pontificato. La Pontificia Università Santa Croce, che dipende dall’Opus Dei, ha deciso che i suoi studenti, futuri sacerdoti, debbano conoscere l’economia e la finanza, per comprendere meglio il senso del proprio apostolato e dove esso debba indirizzarsi nel sociale. Fino a qui, niente di trascendentale. Non si vive di solo spirito e poi, come si dice in certi ambienti, il cibo materiale deve poter trasformarsi in cibo spirituale. Non sarà più sufficiente quindi agli studenti dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer essere in grado di maneggiare la teologia, la filosofia, il diritto canonico e la comunicazione. Da qui l’idea di creare un corso denominato “Economics for Ecclesiastic” grazie al quale, questo è l’intendimento, i futuri sacerdoti non si troveranno troppo isolati dal mondo reale.Il problema sta nella personalità del professore che erudirà le future tonache sul significato etico dell’economia e della finanza nel mondo contemporaneo. Sarà infatti Brian Griffiths of Fforestafch, un cognome impronunciabile che è tutto un programma, ad intrattenere gli studenti su “Le sfide etiche e culturali per la finanza contemporanea”. Il punto è che il signore in questione è stato vicepresidente esecutivo di Goldman Sachs International, ossia della banca di affari che nell’immaginario del cittadino medio Usa rappresenta il simbolo stesso della più schifosa speculazione che strozza i piccoli risparmiatori e crea le condizioni per portargli via la casa. In Italia, come in Europa, la Goldman Sachs è la banca che ha speculato a man bassa contro i titoli di Stato, i Bonos spagnoli e i Btp italiani, con l’intento di affossare l’euro. Insomma, Brian Griffiths of Fforestafch è un banchiere che vanta non poche responsabilità nell’aver contribuito ad aggravare una situazione interna, come quella italiana, già di per sé grave per l’altissimo debito pubblico.È quasi superfluo aggiungere che Griffiths è membro della Camera dei Lords (appartiene quindi alla nomenklatura inglese) ed è stato consigliere di Margareth Thatcher per le privatizzazioni e per deregolamentare il mercato interno. Si tratta di uno di quei tecnocrati che sostengono la creazione di un grande mercato globale senza vincoli di frontiere e di dazi doganali. Un mercato globale che implica la cancellazione degli Stati nazionali e la loro sottomissione ad un complesso di strutture sovranazionali, di fatto in mano all’Alta Finanza. Una strategia che il mondo cattolico dovrebbe teoricamente vedere con ostilità. Questo in teoria perché ci sono, e non sono pochi, banchieri cattolici che sognano lo stesso traguardo, sia pure con una attenzione paternalista verso i poveri e gli emarginati. E in Italia i banchieri legati all’Opus Dei sono molti e potenti, anche se spesso quasi sconosciuti al grande pubblico. Tra i più noti svetta Antonio Fazio, ex governatore della Banca d’Italia. In Spagna, fa parte dell’Opus Dei il presidente del Banco di Santander, Emilio Botin.Questo per dire che non esiste una finanza “laica” e una finanza “cattolica”, ma esiste soltanto una finanza che realizza affari e profitti e intende continuare a farli. Come dimostra l’enorme patrimonio mobiliare e immobiliare della chiesa cattolica e delle sue tante diramazioni. Ma nemmeno i protestanti scherzano, visto che Griffiths ha presieduto in passato il Lambeth Fund, controllato dall’arcivescovo di Canterbury. E allora questo connubio tra Opus Dei e Goldman Sachs trova la sua ragione di essere nel medesimo approccio universalista. Del resto il capitalismo liberista si è sempre fatto forte, basti vedere Max Weber, di una profonda impronta evangelica e biblica. Ma l’Opus Dei non è l’unica struttura in ambito cattolico a tenere buoni rapporti con certi ambienti e ad allevare futuri banchieri. Mario Draghi, anche lui un ex Goldman Sachs, ha studiato dai gesuiti. E questo non gli ha impedito di caratterizzare la sua attività nella direzione di rafforzare il potere delle banche e della finanza e al tempo stesso di impoverire i cittadini italiani ed europei, come sappiamo ormai a menadito.(Irene Sabeni, “L’etica di Opus Goldman Sachs Dei”, da “Il Nodo Gordiano” del 4 agosto 2014).Il diavolo e l’acqua santa. Il denaro sterco del demonio. Gli pseudo-opposti che si incontrano e si suggeriscono regole di comportamento. Con tanti saluti alla nuova linea della Chiesa attenta alla povertà, con la quale Francesco I ha voluto caratterizzare il suo pontificato. La Pontificia Università Santa Croce, che dipende dall’Opus Dei, ha deciso che i suoi studenti, futuri sacerdoti, debbano conoscere l’economia e la finanza, per comprendere meglio il senso del proprio apostolato e dove esso debba indirizzarsi nel sociale. Fino a qui, niente di trascendentale. Non si vive di solo spirito e poi, come si dice in certi ambienti, il cibo materiale deve poter trasformarsi in cibo spirituale. Non sarà più sufficiente quindi agli studenti dell’Opera fondata da Escrivà de Balaguer essere in grado di maneggiare la teologia, la filosofia, il diritto canonico e la comunicazione. Da qui l’idea di creare un corso denominato “Economics for Ecclesiastic” grazie al quale, questo è l’intendimento, i futuri sacerdoti non si troveranno troppo isolati dal mondo reale.