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Nel segno di Olof Palme: le sue idee salverebbero l’Italia
Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca, o almeno le loro caricature firmate Crozza. Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.Dunque chi era Olof Palme? Bisognerebbe chiederlo a Gianfranco Carpeoro (Pecoraro, in una vita precedente), avvocato e autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che accusa un’élite occulta, super-massonica, di pilotare settori dell’intelligence Nato per costruire il terrore dell’Isis, dietro il paravento dell’alibi islamista. Obiettivo: manipolare l’opinione pubblica, spaventarla, imporle leggi speciali e distrarla, impedendole di individuare i veri responsabili del disastro economico e sociale in corso, accuratamente progettato da un’oligarchia paramassonica internazionale. Gioele Magaldi, amico di Carpeoro e suo sodale nel Movimento Roosevelt, nel quale milita lo stesso Bellisario, ricorda che il catastrofico 11 settembre del 2001 fu soltanto la seconda fase di un piano di svuotamento della democrazia avviato all’alba di un altro 11 settembre, quello del 1973, quando fu abbattuto il governo cileno di Salvador Allende per instaurare la dittatura di Pinochet. Troppa democrazia rischiava di frenare il grande business? Nel suo libro, Carpeoro ricorda il telegramma con cui Licio Gelli, proprio dal Sudamerica, informava un parlamentare statunitense, Philip Guarino, che anche “la palma svedese” stava per essere abbattuta.La “palma svedese” sarebbe caduta il 28 febbraio 1986, in un agguato a colpi di pistola all’uscita di un cinema nel centro di Stoccolma. «Probabilmente l’assassino di Olof Palme è ancora in vita, e nel delitto potrebbero essere coinvolti la polizia o qualche esponente dell’esercito», afferma il criminologo svedese Leif Gustav Willy Persson, che ha sempre dubitato della colpevolezza di Christer Pettersson, il criminale di strada inizialmente fermato, e poi a sua volta deceduto all’improvviso dopo aver contattato per telefono il figlio di Palme, annunciandogli di avere notizie sulla fine del padre. Si sospetta anche di un altro anomalo decesso, quello del romanziere Stieg Larsson, morto esattamente come il protagonista della sua triologia, “Millennium”, dopo aver condotto indagini riservate sul caso Palme e aver consegnato alla polizia, inutilmente, svariati scatoloni pieni di documenti. Ma chi era, quindi, Olof Palme? Un socialista, un democratico. Il massimo interprete del welfare europeo: pari opportunità per tutti, nessuno deve essere lasciato idietro. Chi paga? Lo Stato: per il bene di tutti, ricchi e poveri. Pur di evitare licenziamenti, Palme arrivò a far rilevare quote di aziende traballanti. Messaggio: il salario dei cittadini-lavoratori viene prima del profitto d’impresa, perché ne va della coesione sociale del sistema-paese.Era pericoloso, Palme? Eccome. Mai e poi mai avrebbe dato il via libera alla nascita di un mostro giuridico come l’Unione Europea, di fatto governata da poche famiglie di oligarchi, proprietari dalle grandi banche cui appartiene la stessa Bce. Olof Palme era convinto di dover «tagliare le unghie al capitalismo», frenandone gli eccessi e gli abusi partendo dal ruolo democratico dello Stato come fattore di equilibrio: proprio quello Stato che l’Ue ha letteralmente demolito e svuotato. Era famoso, Palme: denunciava l’apartheid del Sudafrica e quello di Israele, le malefatte degli Usa nell’America Latina e la dittatura “rossa” dell’Unione Sovietica. Una figura prestigiosa, scomoda. Stava addirittura per essere eletto segretario generale delle Nazioni Unite: una volta all’Onu, sarebbe stato più difficile abbatterla, la “palma svedese”. Andava tolta di mezzo prima. E non è un caso, probabilmente, che tuttora non si sappia nulla di preciso né del killer né dei mandanti, anche se Carpeoro – nel rievocare il famoso telegramma di Gelli rivolto a Guarino – fa il nome di un eminente politologo Usa, Michael Ledeen, all’epoca legato a Guarino. Secondo Carpeoro, l’onnipresente Ledeen («consigliere occulto di Craxi e Di Pietro, Renzi e Grillo») è un tipico esponente dell’élite supermassonica “reazionaria”, protagonista della storica svolta antidemocratica che ha ridotto l’Occidente al deserto attuale, quello della privatizzazione globalizzata e universale, imposta a mano armata, anche con guerre e attentati.«L’Italia è ormai arrivata ad uno stato di coma profondo ed ovviamente irreversibile per almeno una persona su due», scrive Vincenzo Bellisario nell’introduzione al suo volume su Olof Palme, di prossima uscita per le Edizioni Sì (140 pagine, 11 euro). «E se continua su questa strada non c’è alcuna speranza: non c’è un modo per venirne fuori, al momento, considerando gli attuali trattati Ue e l’euro». Ragiona Bellisario: «Le persone ancora “salve” in questo paese sono coloro che hanno avuto la fortuna di essere nati e cresciuti all’interno di famiglie benestanti che gli hanno permesso di studiare con “calma”», magari per poi ottenere “la spinta giusta”. Gli altri che si sono “salvati”? Sono quelli «che hanno avuto la “fortuna” di essere stati assunti anni fa con i cosiddetti “contratti vecchi”», e quelli che sono andati in pensione «ad un’età giusta e con una pensione dignitosa». Per tutti gli altri, oggi, non c’è più storia: «Sono spacciati». Parole che ricordano quelle rievocate dallo stesso Carpeoro, autore di una prefazione al volume: «Oggi è morta la speranza», disse l’avvocato, all’indomani dell’assassinio di Palme in un’assise culturale di area liberal-socialista. Lo corressero: non è vero, possono morire i grandi uomini ma non le loro idee. E’ per questo che all’inizio del 2018, a Milano, Carpeoro sarà tra i promotori di un singolare convegno internazionale del Movimento Roosevelt sulla figura del compianto statista svedese. Se da qualche parte bisogna pur ripartire, per rimettere in piedi la nostra disastrata democrazia, sarebbe un onore ricominciare proprio da Olof Palme: una bandiera da tenere alta, nell’Europa degli oligarchi e degli orchi che ammazzano i paladini della giustizia sociale.Olof Palme, chi era costui? Il pubblico televisivo conosce Renzi e Grillo, Berlusconi e D’Alema, la Merkel e Draghi. Al massimo Ettore Rosato e Angelino Alfano, il senatore Razzi e il governatore De Luca (o almeno le loro caricature firmate Crozza). Chi ha meno di quarant’anni fatica a mettere a fuoco il museo delle cere: Andreotti e Craxi, Moro, Pertini, Cossiga, Berlinguer. E Olof Palme? Un signore elegante e lontano: svedese, e quindi “strano”, figlio di un’antropologia ormai remota, aliena. Visse prima di Internet, del G8 di Genova e dell’11 Settembre; prima di Facebook, dell’Isis e dell’iPhone. Che c’azzecca, con noi, quel gentleman ante-web che governò il paese dell’Ikea? Bisognerebbe chiederlo a Vincenzo Bellisario, che sta per dare alle stampe “Nel segno di Olof Palme?”, libro che rievoca il testamento democratico di un socialista d’altri tempi, assassinato a Stoccolma – mentre era premier – proprio per evitare che i suoi tempi potessero diventare anche i nostri, cioè diversissimi da quelli di oggi, in cui non si capisce più niente, né si conosce il nome di chi comanda il mondo: si vede solo il sangue che lascia a terra tra un attentato e l’altro, in una guerra permanente fatta anche di profughi e migranti, disoccupazione, crisi finanziarie e disinformazione planetaria.
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Scappare da Madrid? Ovvio: la storia della Spagna è feroce
Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?«Certo il caso catalano è molto più definito, e il popolo catalano è una entità decisamente più omogenea e storicamente fondata del popolo padano, che non esiste», premette Giannuli. Ma questo “distinguo” potrebbe valere anche per i baschi, per gli andalusi o per i galiziani, «che hanno una identificabilità più o meno netta», a cominciare proprio dai baschi. E allora, si domanda lo storico dell’ateneo milanese, dov’è la soglia oltre la quale possiamo identificare un popolo-nazione demarcato rispetto agli altri? Ad applicare la formula di Pasquale Stanislao Mancini (comunità di lingua, di religione, di cultura, di storia) nessuno degli Stati nazionali oggi esistenti risulterebbe conforme ad essa, «e tantomeno nel tempo della globalizzazione, basato su un intenso nomadismo». Peraltro, aggiunge Giannuli, la costruzione dell’Unione Europea «ha indebolito fortemente sia i poteri che la legittimazione degli Stati nazionali, risvegliando antichi separatismi più o meno dormienti», anche se «quello catalano non è stato mai davvero dormiente». Di fatto, l’Ue «ha messo a nudo tutte le debolezze della costruzione dei vari Stati nazionali». In particolare, sottolinea Giannuli, «la Spagna non è mai esistita se non come dominio brutale della Castiglia su tutte le altre parti del paese».Brutta, l’architettura statuale iberica: «Una costruzione priva di ogni reale consenso e giustificata solo da un disegno imperiale, peraltro naufragato da secoli e sopravvissuto solo nell’immaginario legato ad una delle monarchie più squalificate d’Europa», sostiene Giannuli. «E’ sintomatico che le spinte indipendentiste si siano attenuate durante le due brevi parentesi repubblicane (1873-74 e 1931-39) quando si posero le basi di un ordinamento di tipo para-federalista». Al contrario, «il centralismo monarchico ha sempre ravvivato le spinte alla separazione». Anche lo Stato italiano è nato come prodotto dell’espansionismo sabaudo? Vero, ma con enormi differenze: il Risorgimento ebbe anche una componente democratica e repubblicana, poi battuta dal “partito moderato” di cui parla Gramsci. Blocco moderato che comunque «ebbe un ruolo che ha caratterizzato in parte lo Stato italiano». Nel caso spagnolo, invece non c’è traccia di questa spinta dal basso: nel XV secolo «tutto è stato deciso solo come conquista castigliana». Da noi, Torino cedette il ruolo di capitale: Firenze, poi Roma. Quello italiano «fu sempre un centralismo imperfetto», in equilibrio coi vari regionalismi.In Italia, continua Giannuli, hanno giocato un ruolo i mutevoli equilibri fra i diversi “partiti regionali”. «Ne è conseguito che il “partito moderato” ha sempre avuto caratteristiche più sociali (blocco delle classi possidenti, monarchia, esercito, burocrazia) che territoriali: l’esercito restava a lungo a preminenza piemontese ma la burocrazia divenne ben presto interregionale ed a centralismo romano, mentre le classi possidenti avevano la loro capitale nel sud (quelle agrarie) e in Lombardia, Toscana e Piemonte (quelle industriali e finanziarie)». Al contrario, in Spagna esiste un unico blocco sociale dominante, quello della Castiglia: e questo attizza i risentimenti regionali. Se quella dell’Italia è «una storia di tipo inclusivo», fondata sulla mediazione, la Spagna «viene da una storia terribile» basata sullo sterminio ricorrente: i Moriscos andalusi, i Marrani ebrei, il bagno di sangue della guerra civile. Ben raramente Madrid ha incluso e mediato, osserva Giannuli, denunciando il franchismo: «Contro l’immagine corrente, fu un fascismo non più moderato ma più feroce del nazismo». Hitler colpì i socialdemocratici e i comunisti, «ma cercò (e in buona parte riuscì) a riassorbire la base socialdemocratica e comunista nel suo sistema di consenso: nei campi di sterminio finirono ebrei, omosessuali, zingari, ma solo in minima parte comunisti e socialisti». Viceversa, il franchismo «procedette all’insegna della “limpieza”, pulizia non etnica ma politica e ideologica».La ferocia delle esecuzioni disgustò persino Galeazzo Ciano, ricorda Giannuli. E ancora dopo la fine della guerra civile, il regime del “caduillo” continuò per quasi 10 anni con la repressione, il cui conto finale è ignoto, ma si parla di 400.000 vittime. Cifra forse esagerata? Non importa: anche se le vittime sono state la metà o un quarto, bastano e avanzano a definire la guerra civile spagnola come «la più feroce della storia moderna d’Europa». E questo, conclude Giannuli, ha un peso anche sul presente: perché la storia, anche quella più lontana, non è mai priva di conseguenze, «a maggior ragione nel caso di un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato dittatoriale». In questa situazione oggi «arriva la globalizzazione, che dice che gli Stati nazionali non hanno più senso». E in Europa «questo si accompagna a uno sconclusionato disegno di unità continentale che, in realtà, è l’alleanza dei sistemi nazionali di potere nella loro staticità e trasferisce poteri ad un centro tecnocratico». E’ ovvio, annota lo storico, che questo «si traduce in una delegittimazione degli Stati nazionali, in una messa a nudo delle illegittimità dei loro sistemi di potere». Risultato: «Si producono irrefrenabili spinte centrifughe», come dimostra il caso di Barcellona.Barcellona vorrebbe smarcarsi da Madrid ma non da Bruxelles, che deprime le autonomie nazionali, ma bisogna capire la rivolta contro il centralismo iberico, imposto sempre e solo con brutalità della peggior monarchia europea e poi dal franchismo, una dittatura persino più feroce di quella nazista. Lo afferma il politologo Aldo Giannuli, osservando la crisi catalana in precaria evoluzione, fra richieste di dialogo e minacce di repressione. «La questione catalana sembra essersi impantanata, ma emergono i primi segni di cedimento del fronte indipendentista», scrive Giannuli nel suo blog. «Non sappiamo come andrà a finire, ma l’episodio ha comunque una sua gravità». Giusta la pretesa di autodeterminazione e la rivendicazione di indipendenza, ma resta un problema non sciolto alla base, ovvero: chi è il soggetto titolare di questo diritto? E come delimitarlo? Se era puro delirio quello di Bossi sul “popolo padano”, in un Nord Italia rappresentato da piemontesi, liguri, emiliani e lombardo-veneti più milioni di meridionali e importanti minoranze anche linguistiche (valdostani, altoatesini, ladini, friulani e occitani), perché invece uno spagnolo dovrebbe pensarla diversamente, a proposito della Catalogna?
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Richard Sorge, la geniale spia di Stalin tra i nazisti a Tokyo
Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.Il governo tratta con gli insorti per due giorni, ma intanto fa circondare tutti gli edifici occupati, usando unità della Marina, che è in pessimi rapporti con l’Esercito. Dopo tre giorni i ribelli si arrendono; la maggior parte saranno condannati a morte e giustiziati. I governi occidentali fanno una gran fatica a capire cosa sta succedendo in Giappone: quella è una società lontana, complicata e impenetrabile. Anche i pochi giornalisti europei a Tokyo brancolano nel buio. C’è un solo giornalista che è capace di spiegare cosa succede. È un tedesco, membro del Partito nazista, molto ben introdotto alla sua ambasciata, e che ha una conoscenza stranamente approfondita della politica giapponese. Dopo l’insurrezione dei giovani militari il giornalista scrive un lungo articolo, che viene pubblicato in Germania ed è commentato in tutto il mondo, al punto che la “Pravda”, a Mosca, lo ripubblica in russo. All’ambasciata tedesca si complimentano col giornalista: ormai è diventato una stella internazionale.Il giornalista ride, ma in cuor suo è fuori di sé; quella sera va a trovare un altro tedesco, un industriale, che abita in un lontano sobborgo di Tokyo. In casa, l’industriale tiene nascosta una radiotrasmittente capace di trasmettere fino in Russia. Il giornalista chiama Mosca e chiede se sono matti a pubblicare sulla “Pravda” i suoi articoli: per favore, che non capiti più in futuro, perché nessuno deve intravvedere anche il minimo collegamento tra lui e l’Unione Sovietica. Il giornalista si chiamava Richard Sorge, era iscritto al Partito comunista dal 1918, ed era a capo di una rete di spie piazzata a Tokyo dall’Armata Rossa, una rete di spie che ha influenzato il corso della Seconda guerra mondiale. L’iscrizione al Partito nazista faceva parte della sua copertura; aveva chiesto la tessera a Berlino nel 1933, mentre aspettava il rilascio del passaporto per il Giappone. A quell’epoca l’organizzazione nazista era tutt’altro che impeccabile: negli archivi di Berlino è stata ritrovata la scheda del dottor Richard Sorge, iscritto al partito nella sezione dei residenti all’estero, e come indirizzo c’è scritto soltanto: “Tokyo, Cina”. Poi qualcuno ha cancellato “Cina” a matita e ha corretto: “Giappone”.L’ambasciata tedesca a Tokyo era stata felicissima dell’arrivo di questo compatriota, giornalista esperto di Estremo Oriente, allegro compagnone e grande bevitore. La capitale nipponica negli Anni Trenta era una strana città, governata da una polizia segreta paranoica che teneva sotto sorveglianza tutti gli stranieri, ma piena di ristoranti cinesi ed europei, birrerie tedesche con nomi come «L’Oro del Reno», dove le cameriere giapponesi si tingevano i capelli di biondo, finché la polizia non decise di vietare quest’usanza antipatriottica. Lì il dottor Sorge poteva essere visto fino a tarda notte a trincare con i suoi amici dell’ambasciata tedesca, che gli confidavano tutti i segreti e si facevano aiutare da lui a cifrare i dispacci in codice da mandare a Berlino. Si fidavano a tal punto che quando la Gestapo fece sapere all’ambasciatore Ott che nell’ambasciata forse c’era una talpa, l’ambasciatore non si confidò con nessuno, tranne una persona: il suo carissimo amico, il dottor Sorge.Ma la superspia non era sola. Con lui c’erano tecnici europei addestrati a Mosca, come l’industriale che abitava nei sobborghi, che si chiamava Max Klausen e in realtà era un mago della radio, capace di costruirsi dal nulla una radioricevente portatile con pezzi comprati nei negozi di Tokyo, e di montarla e smontarla in dieci minuti. E c’erano i tanti giapponesi che avevano accettato di lavorare per Sorge e per il comunismo, tutti, senza eccezione, per convinzione ideale, nessuno per soldi, che erano pochi e incerti. Uomini piazzati a tutti i livelli della società giapponese, come il giornalista Hotsumi Ozaki, esperto di cose cinesi, consulente del governo e della potentissima Armata del Kwantung che occupava la Manciuria, ai confini con l’Unione Sovietica. Per otto anni Sorge, Ozaki e gli altri, muovendosi alla luce del sole nei circoli governativi e diplomatici, accumularono informazioni segrete e le spedirono a Mosca, che seppe in anticipo tutto quello che bolliva in pentola a Tokyo e a Berlino: dal patto anti-Comintern tra Germania e Giappone, all’aggressione hitleriana contro l’Unione Sovietica, all’attacco di Pearl Harbor.Quando, alla fine, vennero arrestati, dopo che la Gestapo giapponese, la Tokko, aveva seguito le loro tracce per due anni, Sorge e Ozaki avevano influenzato concretamente l’esito della guerra. Eppure, incredibilmente, non avevano violato quasi nessuna legge: tutte le informazioni trasmesse a Mosca le avevano raccolte grazie ai loro contatti nel governo e nell’ambasciata nazista. Ne avevano violata una sola, una legge nuova che puniva con la morte chi avesse trasmesso informazioni di qualunque genere a un paese comunista, e su quella base vennero condannati e impiccati, dopo un processo durato tre anni. Il procuratore Yoshikawa, che interrogò Sorge, disse poi: «In tutta la mia vita non ho mai incontrato un uomo di tale levatura».(Alessandro Barbero, “Nella rete di Sorge, nazista a Tokyo per conto dell’Urss”, da “La Stampa” del 31 agosto 2017. Sorge fu giustiziato il 7 novembre 1944. Mosca lo riconobbe come propria spia solo nel 1964, dichiarandolo “eroe dell’Unione Sovietica”, massima onorificenza del paese).Giappone, luglio 1935. Un certo tenente colonnello Aizawa arriva a Tokyo, in treno, dalla sua città di guarnigione. Va al ministero della Guerra, entra nell’ufficio del viceministro, generale Nagata, sguaina la sciabola e lo ammazza. Al processo dirà che si vergogna di una cosa sola: di non essere riuscito a ucciderlo con un solo colpo di spada. L’omicidio non è una questione privata: è dovuto a un conflitto politico. L’esercito giapponese è spaccato tra i vecchi generali moderati, legati ai grandi trust industriali, e i giovani ufficiali estremisti, spesso di umili origini, e con forti simpatie fasciste. In Giappone c’è una tradizione di conflitti simili: c’è anche un termine che risale addirittura al XV secolo, gekokujo, che vuol dire rovesciamento degli anziani da parte dei giovani. Il 26 febbraio 1936, durante il processo del tenente colonnello Aizawa, un gruppo di giovani ufficiali fa uscire i soldati dalle caserme, occupa il ministero della Guerra, il Parlamento e la Centrale di polizia e attacca le case del primo ministro e di parecchi ministri. Due ministri vengono uccisi, il premier si salva solo perché gli insorti uccidono suo cognato, scambiandolo per lui. I ribelli dichiarano che hanno agito per dovere nei confronti dell’imperatore, e non fanno nient’altro, come se si aspettassero che l’imperatore Hirohito interverrà dalla loro parte.
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Suicidio demografico: l’Europa perderà 1/3 dei suoi abitanti
Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niail Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».Un segnale sintomatico del nuovo trend socioculturale, per esempio, secondo Spadini sta nel fatto che gli esponenti europei del grande esclusivo club globale, il G7, sono privi di figli: Angela Merkel, Theresa May, Paolo Gentiloni e Emmanuel Macron, cui aggiungiamo il primo ministro olandese Mark Rutte e il primo ministro gay del Lussemburgo, Xavier Bettel. I musulmani europei sembrano sognare di colmare questo vuoto? L’arcivescovo di Strasburgo, Luc Ravel, nominato da Papa Francesco lo scorso febbraio, ha di recente dichiarato che i fedeli musulmani sono ben consapevoli del fatto che la loro fertilità è tale che oggi chiamano “Grand Remplacement” il loro inserimento nella società europea. Quanto all’Italia, il Centro Machiavelli rileva che, se l’attuale tendenza dovesse continuare, «entro il 2065 la quota di immigrati di prima e seconda generazione supererà i 22 milioni di persone, ossia sarà più del 40% della popolazione totale». Il tasso di fertilità dell’Italia è inferiore della metà di quello che era nel 1964, spiega il centro studi, attraverso un dossier firmato da Daniele Scalea (“Come l’immigrazione sta cambiando la demografia italiana”).L’Europa (e l’Italia in particolare) stanno affrontando un periodo di flussi migratori in entrata senza precedenti, osserva Rosanna Spadini. «Ciò dipende in primis dalla concomitanza tra declino demografico europeo (dal 22% della popolazione mondiale nel 1950 al 7% nel 2050) ed esplosione demografica africana (dal 9% al 25% della popolazione mondiale in cento anni). Il tasso di natalità è sceso da 2,7 bambini per donna a appena 1,5 bambini per donna, un tasso ben al di sotto del minimo consentito per una rigenerazione sana della popolazione». Inoltre, aggiunge l’analista di “Come Don Chisciotte” citando una recente relazione di “Zerohedge”, si assiste a una maggiore omogeneità dell’immigrazione: le prime dieci nazionalità rappresentano oggi il 64% degli immigrati totali, mentre negli anni ‘70 erano appena il 13%. Tutto ciò non si discosta da quanto sta accadendo in diversi paesi dell’Europa occidentale. «Intorno al 2065 in Gran Bretagna l’etnia britannica dovrebbe perdere la maggioranza assoluta nel proprio paese. Oggi in Germania i minori di 5 anni sono al 36% figli di immigrati, lasciando presagire un grande mutamento nella composizione etnica della prossima generazione».A partire dal 2017, l’Italia ha registrato oltre 5 milioni di stranieri che vivono come residenti: «Una crescita del 25% rispetto al 2012 e un enorme 270% rispetto al 2002. All’epoca, gli stranieri costituivano solo il 2,38% della popolazione. Quindici anni dopo la percentuale è quasi triplicata fino all’8,33% della popolazione». Inoltre, la natalità degli immigrati è notevolmente superiore a quella degli italiani nativi: «Non è quindi sorprendente che le regioni italiane con i tassi di fertilità più alti non siano più nel sud, come è sempre accaduto, ma nel nord italiano e nella regione del Lazio, dove c’è una concentrazione maggiore di immigrati». In confronto, solo nel 2001 la percentuale degli stranieri che vivevano in Italia aveva attraversato la soglia dell’1%, cosa che rivela la velocità e l’entità delle trasformazioni demografiche che si stanno verificando in Italia, un fenomeno senza precedenti. Un’ulteriore preoccupazione avanzata dalla relazione di Scalea è «l’elevata concentrazione delle popolazioni immigrate da pochi paesi d’origine, che spesso produce fenomeni di ghettizzazione».Lo scorso anno, in 13 dei 28 paesi membri dell’Unione Europea, il saldo tra nascite e decessi è stato negativo: senza i flussi migratori, le popolazioni di Germania e Italia dovrebbero diminuire rispettivamente del 18% e del 16%. «L’impatto della situazione demografica in caduta libera è più visibile nei paesi dell’ex blocco sovietico, come Polonia, Ungheria e Slovacchia, per distinguerli da quelli della cosiddetta “vecchia Europa”, come Francia e Germania». Questi paesi dell’Est, continua Spadini, sono ora quelli più esposti al fenomeno dello spopolamento e al «devastante crollo del tasso di natalità» che il giornalista e scrittore Mark Steym ha definito «il principale problema del nostro tempo». Alla fine del secolo, «l’Europa potrebbe ritrovarsi come colpita da una bomba al neutrone: gli edifici in piedi, ma senza bambini», si legge in “America Alone”, un pamphlet su crollo demografico, islamismo, sindrome di Stoccolma, solitudine americana e disastri del multiculturalismo. «Se gli occidentali vogliono godere delle benedizioni della vita in una società libera devono capire che la vita che abbiamo vissuto dal 1945 è stato un momento rarissimo nella storia dell’umanità».La distanza fra Usa ed Europa sta crescendo: «L’America è l’ultima nazione a sostenere un tasso di crescita riproduttivo, l’ultima grande società religiosa in Occidente, l’ultima a mantenere un esercito in grado di difenderla in qualunque parte del mondo e l’ultima a conservare una tradizione attiva di libertà individuale, incluso il diritto di portare armi». Per una popolazione stabile, si calcola che serva un tasso di crescita del 2,1%, cioè il tasso dell’America, contro l’1,38 dell’Europa, l’1,32 del Giappone e l’1,14 del Canada. A preoccupare sono, ancora, i giapponesi: «Non c’è precedente nella storia per questa crescita economica e crollo del capitale umano: per la prima volta, nel 2005 in Giappone ci sono state più morti che nascite». E’ un paese «di geriatri, senza immigrazione, né minoranze e senza desiderio di niente: solo invecchiare e affievolirsi». Per Steym, anche l’Europa alla fine del secolo sarà come un continente dopo lo scoppio di una bomba al neutrone: «Ci saranno ancora edifici in piedi, ma la popolazione sarà scomparsa. Il tedesco sarà parlato giusto da Hitler, Himmler e Göring durante la seratina di poker all’inferno».«Una parte del pianeta sta optando per il suicidio di fronte al surriscaldamento», aggiunge Steym. «L’Europa sarà semi-islamica nel carattere politico e culturale entro due generazioni, forse una. Nel XV secolo la Morte Nera fece fuori un terzo della popolazione. Nel XXI scomparirà per scelta. Stiamo assistendo alla lenta estinzione della civiltà in cui viviamo». Il “New York Times” si è chiesto perché «nonostante la popolazione diminuisca, i paesi dell’Europa orientale non vogliono accettare i migranti». Inoltre, gran parte dell’Europa orientale ha già vissuto l’esperienza dell’occupazione musulmana per centinaia di anni sotto l’Impero Ottomano, «e questi paesi sono tutti consapevoli che ciò potrebbe accadere di nuovo». Ma anche l’Africa sta esercitando pressioni sull’Europa, «come una bomba demografica a tempo». Per il nazionalista olandese Geert Wilders, «nei prossimi trent’anni l’Africa avrà un miliardo di persone in più, cioè il doppio della popolazione dell’intera Unione Europea». Al che, la pressione demografica sarà enorme: «Un terzo degli africani vuole spostarsi all’estero e molti vogliono venire in Europa. Lo scorso anno più di 180.000 persone sono partite dalla Libia a bordo di imbarcazioni fatiscenti. E questo è solo l’inizio».Secondo l’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, solo al 2,65% dei migranti arrivati in Italia (4.808) è stato riconosciuto il diritto di asilo, «mentre 90.334 migranti non hanno chiesto l’asilo ma sono scomparsi nell’economia del mercato nero». Secondo il greco Dimitris Avramopoulos, responsabile per le migrazioni in seno alla Commissione Europea, «in questo periodo tre milioni di africani pianificano di entrare in Europa». Michael Moller, direttore dell’ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra, avverte che il processo di migrazione «sta accelerando». I giovani hanno tutti i cellulari e possono vedere sul web che cosa sta succedendo in altre parti del mondo. «Infatti – annota Rosanna Spadini – possono vedere sui loro telefoni che, mentre meno del 3% degli immigrati dello scorso anno erano legittimi richiedenti asilo, quasi nessuno viene rispedito indietro», dal momento che i migranti «sono accolti con generosi benefici sociali, alloggi sovvenzionati e sistemi sanitari pubblici».Anche l’Europa orientale si sta assottigliando sempre più, e la demografia è diventata un problema per la sicurezza, aggiunge “Come Don Chisciotte”. «Diminuisce il numero delle persone che prestano servizio nell’esercito e operano nell’assistenza sociale: un tempo i paesi dell’Europa orientale temevano i carri armati sovietici, ora temono le culle vuote». Le Nazioni Unite stimano che nel 2016 l’Est Europa fosse abitata da circa 292 milioni di persone, 18 milioni in meno rispetto agli inizi degli anni Novanta. «Questa cifra equivale alla scomparsa dell’intera popolazione dei Paesi Bassi». Il “Financial Times” definisce la situazione est-europea come «la perdita più importante di popolazione della storia moderna». Neppure la Seconda Guerra Mondiale, con i suoi massacri, le deportazioni e i suoi esodi di massa, era giunta a tanto. Entro il 2050, la Romania perderà il 22% della sua popolazione, seguita da Moldavia (20%), Lettonia (19%), Lituania (17%), Croazia (16%) e Ungheria (16%). «Romania, Bulgaria e Ucraina sono i paesi in cui il calo demografico sarà più drastico. Si stima che nel 2050 la popolazione della Polonia conterà 32 milioni di abitanti rispetto ai 38 milioni attuali. Circa 200 scuole sono state chiuse».In Europa centrale, la proporzione della popolazione “over 65” è aumentata di un terzo tra il 1990 e il 2010, continua Spadini. La popolazione ungherese ha toccato il punto più basso degli ultimi cinquant’anni. Il numero degli abitanti è sceso dai 10 milioni e 709.000 del 1980 agli attuali 9 milioni e 986.000. «Nel 2050, in Ungheria, ci saranno 8 milioni di abitanti e uno su tre avrà più di 65 anni. L’Ungheria oggi ha un tasso di fecondità di 1,5 figli per donna. Se si esclude la popolazione Rom, questa cifra scende a 0,8, la più bassa del mondo, il motivo per il quale il premier Orbán ha annunciato nuove misure per risolvere la crisi demografica». In Bulgaria, addirittura, «tra il 2015 e il 2050 si registrerà il più veloce calo demografico del mondo». La popolazione bulgara è tra quelle che dovrebbero diminuire di oltre il 15%, insieme a Bosnia Erzegovina, Croazia, Ungheria, Giappone, Lettonia e Lituania, imsieme a Moldavia, Romania, Serbia e Ucraina. «Si stima che la popolazione bulgara, che ammonta a circa 7,15 milioni di abitanti, scenderà a 5,15 milioni entro 30 anni – un calo del 27,9% per cento».Secondo dati ufficiali, in Romania sono nati 178.000 bambini. «A titolo di confronto, nel 1990, il primo anno dopo la caduta del regime comunista, ci furono 315.000 nascite. Lo scorso anno in Croazia si sono registrate 32.000 nascite, un calo del 20% rispetto al 2015. Lo spopolamento della Croazia potrebbe portare alla perdita di 50.000 abitanti l’anno». Quando la Repubblica Ceca faceva ancora parte del blocco sovietico (come Cecoslovacchia), il suo tasso di fecondità era opportunamente prossimo al tasso di sostituzione (2,1%). «Oggi è il quinto paese più sterile del mondo». Analoga la situazione della Slovenia: ha il Pil pro capite più alto dell’Europa orientale, ma un tasso di fecondità molto basso. «Alla fine – conclude Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte” – l’immigrazione di massa probabilmente riempirà le culle vuote, ma poi anche l’Europa diventerà una “civiltà fantasma”». Sembra sia solo questione di tempo: «Uno strano tipo di suicidio programmato».Civiltà fantasma globalizzata. In Giappone le scuole elementari chiudono, dato che il numero dei bambini è sceso a meno del 10% della popolazione. Il governo sta convertendo queste strutture in ospizi: il 40% della popolazione è di età superiore ai 65 anni. In Giappone, «la nazione più vecchia e più sterile del mondo», l’espressione “civiltà fantasma” è diventata ormai di uso comune, scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Secondo stime ufficiali, entro il 2040 la maggior parte delle città più piccole del paese vedrà un drammatico calo della popolazione, dal 30 al 50%. I consigli dei villaggi spariscono, insieme ai ristoranti: nel ‘90 erano 850.000, ora si sono ridotti a 350.000. «Le previsioni suggeriscono che in 15 anni il Giappone avrà 20 milioni di case vuote. È forse anche questo il futuro dell’Europa? Probabile, perché tra gli esperti di demografia c’è una tendenza a definire l’Europa il nuovo Giappone». Da parte sua, il paese del Sol Levante sta affrontando questa catastrofe demografica con le proprie risorse e vietando l’immigrazione musulmana. Ma «anche l’Europa sta subendo una sorta di suicidio demografico», che lo storico britannico Niall Ferguson definisce «la più grande riduzione sostenuta della popolazione europea dopo la peste nera del XIV secolo».
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Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia
Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.I tanti dotti commenti che in questi giorni, anche sulla stampa nostrana, si limitano a sottolineare come il referendum per l’indipendenza della Catalogna fosse illegale perché non previsto dalla Costituzione, sono miopi e ridicoli. È vero infatti che da sempre nelle democrazie l’uso legittimo della violenza è demandato allo Stato anche per mantenere l’ordine costituito. Ma è evidente che nella società contemporanea la forza deve essere l’extrema ratio, che le sue conseguenze vanno ponderate con cura e che prima di farvi ricorso va battuta ogni strada. La domanda da porsi è dunque una sola: c’erano altre vie? Le cronache che in questi mesi sono giunte dalla Spagna sono unanimi nel rispondere di sì. Basti pensare che Rajoy nel 2010 portò davanti alla Corte costituzionale (che in Spagna è di nomina solo politica) e fece cassare il nuovo statuto per l’autonomia della Catalogna siglato nel 2006 tra il suo predecessore José Zapatero e l’allora amatissimo ex sindaco di Barcellona, Pasqual Maragall.Così, oggi, le centinaia di migliaia di persone che scendono in piazza per protestare contro la violenza di Stato, fanno diventare un gigante politico l’alcadesa Ada Colau. Lei, che da subito aveva annunciato il suo no alla secessione nel referendum poi soffocato nel sangue, si era battuta perché i catalani si potessero comunque esprimere. Il perché è evidente. In un territorio in cui si parla una lingua diversa da quella dello Stato centrale e dove i partiti indipendentisti – ma quasi sempre europeisti – raccolgono il 48 per cento dei consensi, impedire ai cittadini di votare è impossibile (come ci ha insegnato il Regno Unito con la Scozia). Compito della politica è invece quello di prendere atto della situazione e trovare le vie per una mediazione. Anche perché, spesso, come ripeteva Leo Longanesi in uno dei suoi fulminanti aforismi, «un’idea che non trova spazio a tavola è capace di fare la rivoluzione».Il refrain “ma la Costituzione non lo prevede” in questo caso è solo l’ultimo rifugio di chi teme che quanto sta accadendo in Catalogna (per ragioni diverse dall’indipendenza) possa ripetersi altrove. Di chi alla realtà sa solo opporre incapacità e arroganza. Seguendo questa logica, se domani in Spagna un partito repubblicano raccogliesse il 50% e più dei consensi, il referendum per decidere se uscire dalla monarchia dovrebbe essere comunque vietato. E pure l’Europa, che spesso a vanvera si dichiara dei popoli, dovrebbe schierarsi con le truppe del Re contro i cittadini. Dimostrando che oggi il pericolo più grande corso dalle nostre democrazie non è la dittatura o il populismo, ma la sorda e cieca oligarchia.(Peter Gomez, “Mariano Rajoy, il pericoloso idiota che serve all’oligarchia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 4 ottobre 2017).Mariano Rajoy è un pericoloso idiota. E sarebbe il caso che i suoi amici del Partito popolare europeo se ne rendessero conto in fretta. Se davvero i democristiani del Vecchio continente, assieme ai socialisti un po’ ovunque loro alleati, vogliono essere il baluardo contro quello che definiscono la minaccia del vento populista dovrebbero affermare un principio chiaro, precedente a ogni legge e Costituzione: nessun governo può ordinare di picchiare, malmenare, manganellare decine di migliaia di manifestanti inermi e non violenti. Le immagini della Guardia Civil travestita da Dart Fener, che si contrappone alle divise pacifiche e colorate dei pompieri, colpendo a sangue donne anziane e ragazzi con le mani alzate sono la propaganda migliore per chi denuncia (a volte non a torto) gli abusi di un establishment apparentemente interessato solo a conservare il proprio potere.
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Goya: precisa e coerente, così la Russia ha vinto in Siria
Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».E quanto è costato, a Mosca, questo successo? «Risorse piuttosto limitate», sintetizza il colonnello Goya, in un post ripreso da Maurizio Blondet. Si parla di 4-5 mila uomini sul campo e 50-70 aerei, pari a un costo di circa 3 milioni di euro al giorno, ovvero «un quarto o un quinto dello sforzo americano nella regione». Visti i risultati strategici ottenuti, «i russi hanno una “produttività” operativa molto superiore agli americani o ai francesi». Come mai? Anzitutto perché «il dispositivo russo, impegnato massicciamente e di sorpresa, è stato completo fin da subito», senza clamori propagandistici. Insiste Goya: «La Russia ha dispiegato un dispositivo completo e coerente rispetto al raggiungimento di un obiettivo chiaro, ciò che non ha fatto la coalizione pro-ribelli in Siria». Un intervento «pienamente assunto, al contrario della “impronta leggera” americana». E’ diplomatico, il colonnello: non può dire che gli Usa e i loro alleati – turchi e arabi – hanno coordinato e supportato i terroristi Isis schierati contro Assad. I russi invece sono scesi in campo a viso aperto, non limitandosi al ruolo di addestratori dell’esercito siriano. Ed è questo, dice Goya, ad aver «cambiato il dato operativo», in una guerra “a mosaico” come quella siriana.Attorno a Damasco lottano svariate forze, ciascuna con i suoi sponsor e i propri obiettivi. Il che «rende il conflitto insieme complesso e stabile, in quanto le riconfigurazioni politiche spesso annullano i successi militari di una parte». I due sponsor rivali, Stati Uniti e Russia, non hanno alcuna intenzione di affrontarsi direttamente, ed evitano dunque di “incontrarsi”. Di conseguenza, l’occupazione-lampo di un territorio da parte dell’uno impedisce meccanicamente all’altro, davanti al fatto computo, di penetrarvi. «E la strategia del “pedone imprudente” che attraversa una camionabile e obbliga gli automobilisti a fermarsi: una strategia che i sovietici come i russi hanno adottato regolarmente», continua Goya. «Ciò comporta l’assunzione di un rischio. E in Siria, le esitazioni americane hanno ridotto il rischio». Sicché, ha vinto Mosca: «Dal momento in cui i russi hanno piantato apertamente la loro bandiera e occupato lo spazio – specie aereo – in Siria, per gli altri tutto è diventato più complicato. Il dispiegamento di missili S-300 e poi di S-400 ha imposto una zona di esclusione aerea agli Stati Uniti, ostacolati in tal modo su un teatro operativo per la prima volta dalla guerra fredda».Una interdizione dello spazio aereo che non è stata ermetica, riconosce Goya: i turchi hanno abbattuto un bombardiere russo Su-25 a fine novembre 2015, e gli americani hanno attaccato (a tradimento, dal cielo) i soldati regolari siriani assediati a Der Ezzor, violando un accordo coi russi di poche ore prima: hanno ucciso 62 militari, «in pratica facendo da appoggio aereo al coordinato attacco dello Stato Islamico a terra», ricorda Blondet, mentre la marina Usa su ordine del neo-eletto Trump ha lanciato missili da crociera contro la vecchia base di Shayrat (ma, prudentemente, dal mare). E infine l’armata israeliana ha attaccato il 7 settembre il sito di Mesayf (anche qui con cautela, dal cielo libanese). Poi a giugno un caccia americano ha abbattuto un Su-22 siriano «nel primo duello aereo sostenuto dagli americani dal 1999». Per Goya, se questo dimostra «l’incapacità russa di interdire totalmente, politicamente o tatticamente, il cielo», la rarità e la prudenza di questi attacchi «testimoniano che lo spazio aereo è stato comunque dominato dai russi».Da parte loro, nonostante le ripetute minacce, gli americani «hanno esitato a fornire materiale sofisticato alle forze ribelli, come missili anticarro e terra-aria, e ancor meno a impegnare apertamente loro proprie unità di combattimento». Insomma, non hanno “osato”. Commenta Goya: «La cosiddetta “impronta leggera” è spesso prova della leggerezza degli obbiettivi politici e della motivazione». Il colonello dettaglia l’impiego della brigata aerea mista russa, con una settantina di velivoli (sui 2.000 dell’aviazione di Mosca) e almeno una unità di artiglieria con lanciarazzi multipli, droni, un aereo di ricognizione elettronica, più diverse compagnie di forze speciali, «la cui missione è l’operazione in profondità e l’intelligence». La brigata aerea ha condotto decine di operazioni combinate, ad un ritmo molto elevato: mille uscite mensili. «Una tecnologia piuttosto antica, con grande uso di bombe non guidate», ha portato ad una bassa percentuale di colpi a bersaglio, rispetto agli standard occidentali, e perdite civili sensibilmente più importanti all’inizio ma poi nettamente diminuite».Nell’insieme, il sito americano “Airwars” stima le vittime civili dei russi «tra le 4.000 e 5.400 in totale», ma «da 5.300 a 8.200 quelle da imputare alla coalizione statunitense, che pure usa una percentuale molto maggiore di munizioni guidate». Le perdite russe sono valutate da 11 a 17, ufficialmente, «ma in realtà tra 36 e 48», secondo Goya; perdite «comunque molto basse rispetto alla portata delle operazioni». In più, Mosca non ha impegnato direttamente forze terrestri: si è limitata a un battaglione della fanteria di marina rafforzato da una piccola compagnia di tank T-90, una batteria di artiglieria con 15 lanciagranate multipli e 40 veicoli da combattimento», tra cui i nuovissimi tank Bmpt-72 “Terminator”, coordinati con sistemi satellitari per sincronizzare l’azione di uomini e mezzi. Una forza, quella russa, utilizzata però principalmente «per la protezione delle basi navali di Tartus e Hmeimim». Gli aspetti tecnico-militari, osserva Blondet, non devono far dimenticare il profilo politico intelligentemente adottato dai russi, come sottolinea il colonnello Goya: «La principale novità del dispositivo russo è stata, nel febbraio 2016, la creazione di un Centro di Riconciliazione volto alla diplomazia di guerra, la protezione del trasporto dei combattenti [nemici che si dichiarano sconfitti] e con le autorità civili, Ong e Nazioni Unite, l’aiuto alla popolazione».Questo Centro di Riconciliazione è anche, chiaramente, un organo di raccolta d’intelligence per le forze russe, «ma implica l’ammissione che la fine più ovvia di un conflitto è il negoziato e non la distruzione totale del nemico», osserva Goya, secondo il quale «con mezzi limitati, la Russia ha almeno per ora ottenuto risultati strategici importanti, e comunque molto superiori a quelli delle potenze occidentali, innanzitutto gli Stati Uniti ma anche la Francia, i cui effetti strategici in Siria non sono nemmeno misurabili». Questo, per il colonnello, è dovuto principalmente «a una visione politica evidentemente più chiara e ad un’azione più coerente, con una presa di rischio operativa e tattica che gli Stati Uniti o la Francia non hanno osato». La stessa presenza dei russi in prima linea, se ha causato perdite di vite umane, col suo effetto deterrente sugli attori locali, ne ha anche risparmiate, permettendo lo sblocco rapido delle situazioni tattiche congelate. «E con l’accettazione dei negoziati, gli sviluppi sono stati più rapidi a favore del regime di Damasco rispetto ai quattro anni precedenti, dimostrando ancora una volta che si ottengono più risultati attraverso azioni coerenti sul terreno che azioni da lunga distanza e senza obiettivi chiari».Lezioni operative di due anni di impegno russo in Siria: suona così il titolo della valutazione del colonnello francese Michel Goya, 63 anni, in forza alla fanteria di marina, docente e storico, diplomatosi alla scuola di guerra di Parigi. Piaccia o no, esordisce Goya, l’intervento russo «è stato un successo, perché ha conseguito il suo obiettivo politico primo, che era quello di salvare il regime siriano». Prima lezione: non si entra in un conflitto senza un obiettivo politico ben delineato e delimitato. Anche se la guerra non è ancora finita, «non può più essere perduta da Assad». Non restano che due poli territoriali ostili, in Siria: l’oltre-Eufrate ancora in mano a Daesh, e poi Idlib, tenuto da Al-Nusra. «Tutte le altre forze ribelli sono frammentate e spesso servono da suppletivi ad altri attori concorrenti», cioè Turchia, curdi, Giordania, Israele e Stati Uniti. La Russia «agisce come intermediario con tutti questi attori, locali o esterni», che le sono nemici. «Il che – conclude l’ufficiale francese – le attribuisce un peso diplomatico speciale sullo stesso teatro d’operazioni. Mosca tratta con gli alleati e con gli avversari. Non si ripropone l’annichilimento del nemico ma il negoziato politico. E appare di nuovo come una potenza di peso sugli affari del mondo, di cui bisogna tener conto».
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Germania, la sinistra: basta guerra alla Russia, via la Nato
Le prossime elezioni tedesche, e i sondaggi di opinione che danno la Merkel in grande vantaggio in vista del 24 settembre, stanno spingendo le altre forze politiche, specie quelle di sinistra e di centrosinistra, ad accendere la miccia su contenziosi rimasti a lungo spenti nel dibattito interno tedesco. La candidata della Linke, Sahra Wagenknecht, in una intervista al sito “Ostexperte”, ha gettato il guanto di sfida ponendo tre questioni cruciali per il futuro della Germania e per il suo ruolo-guida della disastrata Unione Europea. Nell’ordine: fine delle sanzioni contro la Russia; scioglimento della Nato e soluzione diplomatica della crisi ucraina. «Una tale piattaforma – rileva Giulietto Chiesa su “Sputnik News” – non era mai stata formulata neppure dalla forza di opposizione più radicale del Parlamento di Berlino». La battagliera deputata ha precisato in dettaglio le misure da prendere con urgenza: non solo cancellazione delle sanzioni contro la Russia, ma «ritiro della Bundeswher dal confine russo», dove l’esercito tedesco è stato dispiegato nell’ambito di grandi manovre anti-russe, e addirittura «scioglimento della Nato e sua sostituzione con un sistema di sicurezza collettiva insieme alla Russia». La sicurezza europea, ha aggiunto la Wagenknecht, non può esistere «contro, ma solo con la Russia».Posizioni come queste, continua Chiesa, non hanno alcuna possibilità di scalfire le tetragone posizioni della Cancelliera, che procede a vele spiegate verso un rinnovo del suo mandato. «Ma va tenuto in conto il fatto che posizioni analoghe, sebbene assai più sfumate, emergono dall’interno della socialdemocrazia». E questa, aggiunge il direttore di “Pandora Tv”, è una novità che deve trovare una spiegazione. «Infatti per esempio Martin Schulz, candidato socialdemocratico, ex presidente del Parlamento Europeo, che si era caratterizzato come campione di tutte le scelte Nato più aggressive degli ultimi tempi, post-golpe di Kiev, ha cambiato rotta sollevando serie critiche nei confronti dell’Alleanza Atlantica a proposito della presenza in Germania di armi atomiche». Trump vuole le armi nucleari, ma noi le respingiamo, ha detto Schulz, a cui ha fatto eco, prontamente, il ministro degli esteri Sigmar Gabriel (presidente della Spd fino al marzo scorso), definendo «giusta» la richiesta di «toglierle dal nostro paese». Appare evidente che l’Spd cerca di guadagnare spazio elettorale, ammette Chiesa, «ma è significativo che lo faccia accentuando la sua distanza dagli Stati Uniti d’America e sottolineando anch’essa la necessità di migliorare i rapporti con la Russia».Di recente, in una intervista esclusiva al canale russo “Rt”, lo stesso Gabriel si è spinto al punto da lodare la politica russa di «pacificazione e ricostruzione della Siria» come un esempio, anzi un «impulso», per la soluzione diplomatica della crisi in Ucraina, osserva Giulietto Chiesa. «Un invito clamoroso agli europei a interrompere l’ostilità nei confronti di Mosca». Ripercussioni? «Come una tale posizione sia accolta in capitali europee come Varsavia, Vilnius, Riga o Tallinn è facilmente prevedibile», data l’ostilità verso Mosca che risale ai tempi della dominazione sovietica. «Ma è comunque evidente che la Spd ritiene che l’attuale linea europea non sia affatto popolare e che contrapporvisi pubblicamente può portare voti nelle asfittiche riserve politiche della sinistra». Il clamoroso “contrordine, compagni” nella Spd forse non è così inatteso negli ambienti vicini alla massoneria progressista: qualche mese fa il saggista Gianfranco Carpeoro, esponente del Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, aveva avvertito: d’ora in poi ne vedremo delle belle, dato il risveglio della supermassoneria internazionale democratica, contraria alla svolta oligarchica degli ultimi anni. Carpeoro segnalava la fiammata di Corbyn in Gran Bretagna e l’attivismo del gruppo di Sanders negli Usa, annunciando anche l’imminente “resurrezione” dei socialisti francesi nell’opposizione a Macron. Un quadro di generale risveglio della sinistra, cui ora sembra aggiungersi la GermaniaLe prossime elezioni tedesche, e i sondaggi di opinione che danno la Merkel in grande vantaggio in vista del 24 settembre, stanno spingendo le altre forze politiche, specie quelle di sinistra e di centrosinistra, ad accendere la miccia su contenziosi rimasti a lungo spenti nel dibattito interno tedesco. La candidata della Linke, Sahra Wagenknecht, in una intervista al sito “Ostexperte”, ha gettato il guanto di sfida ponendo tre questioni cruciali per il futuro della Germania e per il suo ruolo-guida della disastrata Unione Europea. Nell’ordine: fine delle sanzioni contro la Russia; scioglimento della Nato e soluzione diplomatica della crisi ucraina. «Una tale piattaforma – rileva Giulietto Chiesa su “Sputnik News” – non era mai stata formulata neppure dalla forza di opposizione più radicale del Parlamento di Berlino». La battagliera deputata ha precisato in dettaglio le misure da prendere con urgenza: non solo cancellazione delle sanzioni contro la Russia, ma «ritiro della Bundeswher dal confine russo», dove l’esercito tedesco è stato dispiegato nell’ambito di grandi manovre anti-russe, e addirittura «scioglimento della Nato e sua sostituzione con un sistema di sicurezza collettiva insieme alla Russia». La sicurezza europea, ha aggiunto la Wagenknecht, non può esistere «contro, ma solo con la Russia».
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Se il popolo di Vasco marciasse contro il governo zootecnico
Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».Bisognerebbe «gridare che le mitiche speranze dell’europeismo sono state tradite», e che «nel mondo reale, il liberismo di mercato non ha gli effetti promessi dal modello ideale, ossia che il mercato non è “libero” ma gestito da cartelli: non tende a evitare o assorbire le crisi, ma le genera e amplifica», onde «non a distribuire le risorse, ma concentrarle in mano a pochi monopolisti». E’ un sistema che «dissolve la società invece di renderla più efficiente», anzi «dissolve l’idea stessa dell’uomo», scrive Della Luna. «Se i giovani per una volta dormissero all’addiaccio, pagassero i trasporti verso Roma, si comportassero per qualche giorno da soldati politici – dice Blondet nel suo blog – farebbero paura al governo che ci è stato imposto dalla Banca Centrale e da Bruxelles, ai parlamentari che dipendono dalle lobbies e comitati d’affari, e che hanno svenduto l’Italia, le sue industrie e la sua sovranità agli interessi stranieri». Della Luna, annota Blondet, è stato «il primo in Italia ad avvertirci che il capitalismo terminale globale fa soldi non più producendo merci ma bolle finanziarie per poi farle scoppiare: non ha più bisogno di lavoratori, produttori, operai, eserciti di massa – né quindi di mantenere sani, efficienti, istruiti, men che meno prosperi e soddisfatti i popoli». Non servono più, i popoli, e neppure i consumatori (risale infatti al 2010 il suo saggio “Oligarchie per popoli superflui”).In questo nuovo saggio, Della Luna ci avverte che il sistema è entrato in una fase ulteriore e più letale, anti-umana. Ormai persino il profitto finanziario «ha perso importanza, sia come scopo che come mezzo». Basta ricordare «le migliaia di miliardi che le banche centrali (appartenenti alla finanza privata) creano dal nulla per mantenere a galla il sistema, mettendoli a disposizione di chi comanda in misura illimitata». E il denaro creato dal nulla «genera un flusso di cassa positivo, ossia un reddito, che la banca incassa, ma su cui non paga le tasse», perché a pagare sono i contribuenti. Della Luna giunge a preconizzare perfino «il tramonto della finanza», inteso come «sistema di dominio della società». Un tramonto che però non coinciderà con la nostra liberazione: è già in arrivo «il dominio diretto e materiale sulla società», attraverso la «gestione coercitiva del demos, potente e unilaterale, e insieme non responsabile delle scelte verso i suoi amministrati». Questo nuovo potere, «non diversamente dalla zootecnia», non è responsabile verso gli animali che “alleva”, cioè noi. Governo zootecnico: «L’allevamento-condizionamento di masse umane per l’utilità degli allevatori». Già lo fanno per via mediatica, «restringendo e omogeneizzando le rappresentazioni che gli umani hanno della realtà».Di fatto, continua Della Luna, stanno già «tabuizzando e psichiatrizzando il dissenso e la contro-informazione», fino a renderla penalmente perseguibile. Lo fanno con “la Buona Scuola”, l’attuale sistema educativo congegnato in modo da non sviluppare facoltà cognitive, né l’attenzione sostenuta, né la capacità di auto-dominio: è il metodo perfetto per «produrre persone deboli, dipendenti, condizionabili, incapaci di opporsi». Non si tratta di risultati fallimentari e ideologie erronee. Al contrario, dice Della Luna: sono effetti perseguiti deliberatamente per «semplificare» l’uomo, standardizzandolo in vista dell’allevamento zootecnico. «Impressionante – aggiunge Blondet – è l’esempio che fa della scomparsa della borghesia produttiva, culturalmente vivace e reattiva, rovinata dalle crisi deflattive continue e dal fisco rapacissimo». Non è un caso malaugurato. E’ che «la piramide sociale va interrotta lasciando uno spazio vuoto sotto il suo apice», il famigerato 1% che concentra l’80% delle ricchezze, «così che l’apice sia al sicuro dalle scalate (mobilità verticale) e dagli attacchi delle classi intermedie erudite».L’obiettivo del vertice è «realizzare tra l’oligarchia e i popoli la medesima distanza e differenziazione qualitativa che c’è tra l’allevatore e gli animali allevati», secondo il modello zootecnico. «Nella chiave del governo zootecnico – scrive Blondet – diventano perfettamente spiegabili la plurivaccinazione obbligatoria dei cuccioli», cioè bambini. Se fossimo cittadini, e non polli d’allevamento, dovremmo rifiutare «la potestà giuridica di immettere nel corpo della gente sostanze attive», fra cui quelle basate su nanotecnologie e biotecnologie, «e molte di esse coperte da segreto militare o commerciale», rileva Della Luna. Sempre nella prospettiva dell’allevamento zootecnico acquista senso anche «il dogma dell’accoglienza e della mescolanza dei popoli», imposto come «evidente, dimostrato», presentando chi li contraddice come «irragionevole, malintenzionato, pericoloso, immorale». La verità è che, oltre ad essere in Italia un business, il «circuito dell’affarismo parassitario» che succhia denaro pubblico, il “dogma” pro-migranti «ha perfettamente senso dal punto di vista dell’allevatore: la trasformazione dall’alto del popolo, il popolo-bestiame, imponendo l’immigrazione sostitutiva delle popolazioni nazionali» nello stesso modo in cui l’allevatore inserisce nella stalla nuovi tori e nuove fattrici, per “migliorare la razza”.L’immigrazione caotica è anti-economica, diminuisce l’efficienza della società e costa moltissimo? Infatti, conferma l’autore: ciò dimostra che «la comprensione economicistica del divenire attuale è palesemente scavalcata». Quando la casta politica-amministrativa «lascia senza tetto e senza cibo i cittadini italiani mentre alloggia gli immigrati in alberghi a tre e quattro stelle», scrive Della Luna, quel che attua è «l’annullamento programmatico del concetto di cittadino come titolare di diritti specifici verso la sua polis», cioè «l’annullamento del “demos”, ossia del “popolo” come entità politica, padrona collettivamente delle proprie scelte». Un modello che «non implica affatto pace, sicurezza, efficienza per le popolazioni, esattamente come non le implica il modello zootecnico». Per gli allevatori, gli animali allevati «sono solo fonte di utilità; non hanno diritti né dignità riconosciuta». Dalla robotizzazione dell’industria all’elemosina elettorale degli 80 euro di Renzi: «La mancanza di redditi e servizi sicuri, la dipendenza da interventi anno per anno, rende queste masse sempre più passive, remissive», dunque «politicamente inattive». Ecco lo scopo.Se infatti il “capitalismo finanziario terminale” tende a «togliere alla gente tutto il reddito e tutti i risparmi disponibili», facendo passare a tutti la voglia di pagare le tasse, “lorsignori” sanno come scongiurare la possibile rivolta: «Contrariamente a quel che fa credere la narrativa hollywoodiana – scrive Blondet – le rivoluzioni non le fanno gli affamati», in coda alle mense della Caritas, ma «le classi emergenti nella prosperità», pronte a reclamare diritti politici. «Quelli con la pancia vuota sono passivi e remissivi, aspettano il bonus da 80 euro; i giovani passano da un precariato all’altro e non avranno mai una pensione sufficiente a farli sopravvivere: dunque pietiranno dallo Stato interventi, che saranno anno per anno, incerti, caritativi». Siamo ormai al “precariato ontologico”, lo stato nel quale puntano a ridurci come condizione naturale. La precarietà «assunta a paradigma normativo» ormai è la condizione standard dei giovani: uno “stipendio” da 450 euro al mese o, in alternativa, l’emigrazione in Nord Europa. «Siete già precari ontologici?», conclude Blondet, rivolgendosi ai giovani. «Per Vasco l’avete fatta, la marcia su Modena. Ne rifarete un’altra per rifiutare il governo zootecnico?».Accorrono in 220.000 al concerto oceanico di Vasco, ma nessuno che muova un dito contro il “governo zootecnico mondiale”, ovvero «la riduzione del cittadino a pollame». Maurizio Blondet commenta così l’ultimo lavoro editoriale dell’avvocato Marco Della Luna, “Oltre l’agonia”, ovvero “Come fallirà il dominio tecnocratico dei poteri finanziari” (Arianna Editrice). I giovani ipnotizzati dal Blasco? «Dico: pensate se fossero capaci di farlo per uno scopo politico. Se arrivassero in 220.000 a Roma, una volta, per protestare contro la sottrazione di diritti come cittadini, lavoratori, elettori. Che so, contro le vaccinazioni come inaudita “pretesa dello Stato, giuridicamente obbligatoria, di metterci dentro sostanze di cui non sappiamo la composizione”, manco fossimo animali», oppure «contro l’immigrazione senza limiti al costo di 4,5 miliardi l’anno, mentre “in Italia gli indigenti sono passati in 5 anni da 1,5 e 4 milioni”». Si potrebbe protestare, «per un insieme di scelte politico-economiche “assurde”, ostinatamente imposte dalle oligarchie nonostante i “risultati rovinosi”, il che “non può essere accidentale ma il prodotto di un sistema progettato, implementato e difeso”».
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Carpeoro: un massone tradì Mussolini, che voleva arrendersi
Mussolini organizzò personalmente l’auto-golpe del 25 luglio, per evitare all’Italia di essere invasa dai nazisti? Archivi massonici finora rimasti top secret potrebbero gettare luce su un clamoroso retroscena della storia italiana. Figura chiave, un esponente di vertice della “libera muratoria” dell’epoca, vicino al Duce, che all’ultimo minuto avrebbe svelato al Vaticano le vere intenzioni del dittatore: simulare la sua deposizione e assegnare a Galeazzo Ciano la guida della futura Rsi, Repubblica Sociale Italiana, con l’incarico di sfilarsi dalla guerra ormai perduta e cercare di far dimenticare il fascismo, abbracciando elementi di socialismo. Una prospettiva allarmante per la Santa Sede, che avrebbe fatto fallire il piano, provocando il precipitare degli eventi – fino alla fucilazione di Ciano – dopo aver tempestivamente riferito ai tedeschi le reali intenzioni dell’entourage mussoliniano. E’ l’ipotesi alla quale sta lavorando Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzioni), già a capo della massoneria italiana di rito scozzese, quella di Piazza del Gesù, custode di archivi riservati come quello del duca-conte Carlo Alberto Di Tullio, dirigente fascista lombardo.Capo dell’Ovra di Pavia sotto la Rsi, Di Tullio fu poi “graziato” dal tribunale partigiano presiediuto da Oscar Luigi Scalfaro: con l’aiuto della Croce Rossa – utilizzando la sua carica – il futuro “gran maestro” Di Tullio aveva messo in salvo decine di ebrei, dopo l’8 settembre 1943. Lo studio di Carpeoro, probabilmente destinato a essere condensato in un volume di prossima pubblicazione, potrebbe comprovare – documenti alla mano (nomi, date, eventi circostanziati) – quella che suona come la possibile “vera storia” del 25 luglio, con il Gran Consiglio del Fascismo al quale, a quel punto, non restò che deporre – davvero – Mussolini, il quale poi sarà confinato sul Gran Sasso e, di lì e poco, “liberato” (suo malgrado?) dai paracadutisti del Führer guidati da Otto Skorzeny. Ammesso che l’ipotetico piano di Mussolini per tentare di passare al post-fascismo fosse autentico e realistico, quanto sarebbe cambiata la storia italiana se fosse andato in porto? Il futuro governo Ciano sarebbe stato protetto dalla longa manus degli inglesi, dai quali il giovane Mussolini era stato a lungo stipendiato come loro agente?Domande che restano nel mondo delle ipotesi, di fronte alla drammatica realtà dell’8 settembre 1943, con l’Italia in balia degli eventi dopo il proclama Badoglio, che lasciava l’esercito allo sbando, senza ordini precisi, e quindi nelle mani degli ex alleati tedeschi, prontamente trasformatisi in invasori. Sullo choc dell’8 Settembre l’Italia ha prodotto un vastissimo patrimonio di testimonianze. Tra le meno note quella di Nuto Revelli, lo scrittore del “Mondo dei vinti”. Militare di carriera (tenente degli alpini) era un fascista convinto, fino alla tragedia della ritirata di Russia, che concluderà a modo suo: spedendo a casa, a Cuneo, tre fucili mitragliatori, in vista della resa dei conti con fascisti e nazisti. Nel memorabile “La guerra dei poveri” (Einaudi), il giovane Nuto – a cui la guerra fascista ha aperto gli occhi, mostrandogli la brutalità e la corruzione del regime – descrive con sgomento, in pagine memorabili, il disfascimento della Quarta Armata, tornata precipiosamente in Italia, attraverso le Alpi, dopo aver abbandonato il Sud della Francia.Anche la “Guerra dei poveri” rivela come, in fondo, la realtà storica è fatta anche di chiaroscuri: lo stato maggiore della Quarta Armata, pur fascista, aveva al seguito centinaia di ebrei, sottratti alla Gestapo. La loro storia, sempre Nuto Revelli la racconterà in una delle sue ultime opere, “Il prete giusto”, che dà la parola a un umile e coraggioso sacerdote, don Raimondo Viale (poi “sospeso a divinis” dalle autorità vaticane), che riuscì a mettere in salvo le famiglie ebree giunte in Italia insieme ai soldati in fuga dalla Provenza. Regione francese che poi lo stesso Revelli contribuì a liberare – altra pagina di storia poco nota – esportando oltralpe la guerra partigiana dopo aver contrastato duramente le colonne corazzate tedesche in valle Stura, sulle montagne cuneesi. La liberazione mise fine a 20 mesi di spaventosa violenza, inaugurati dall’eroico sacrificio della Divisione Aqui che, sull’isola greca di Cefalonia, rifiutò di arrendersi ai tedeschi. Un bilancio di sangue, quello della Resistenza, che secondo gli storici ammonta a decine di migliaia di vittime. Davvero le si sarebbe potute risparmiare, se non fosse stato sabotato (come ipotizza Carpoero) il piano mussoliniano per uscire in sordina dal conflitto mondiale, abbandonando la Germania ed evitando gli orrori della guerra civile?Mussolini organizzò personalmente l’auto-golpe del 25 luglio, per evitare all’Italia di essere invasa dai nazisti? Archivi massonici finora rimasti top secret potrebbero gettare luce su un clamoroso retroscena della storia italiana. Figura chiave, un esponente di vertice della “libera muratoria” dell’epoca, vicino al Duce, che all’ultimo minuto avrebbe svelato al Vaticano le vere intenzioni del dittatore: simulare la sua deposizione e assegnare a Galeazzo Ciano la guida della futura Rsi, Repubblica Sociale Italiana, con l’incarico di sfilarsi dalla guerra ormai perduta e cercare di far dimenticare il fascismo, abbracciando elementi di socialismo. Una prospettiva allarmante per la Santa Sede, che avrebbe fatto fallire il piano, provocando il precipitare degli eventi – fino alla fucilazione di Ciano – dopo aver tempestivamente riferito ai tedeschi le reali intenzioni dell’entourage mussoliniano. E’ l’ipotesi alla quale sta lavorando Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” (Revoluzioni), già a capo della massoneria italiana di rito scozzese, quella di Piazza del Gesù, custode di archivi riservati come quello del duca-conte Carlo Alberto Di Tullio, dirigente fascista lombardo.
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La Truffa dei Sei Giorni: così Israele eliminò l’Ataturk arabo
La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Filkenstein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Filkenstein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.A partire dal 5 giugno del 1967, ricorda Filkenstein, Israele «ha catturato il Sinai egiziano, le alture del Golan siriano, la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Con l’eccezione del Sinai, Israele controlla ancora tutti questi territori. Di fatto l’occupazione militare israeliana della Cisgiordania e di Gaza è la più lunga dei tempi moderni». La versione ufficiale del mainstream è quella ancora oggi rilanciata dal “New York Times”, che scrive: «Quest’anno segna mezzo secolo dalla guerra arabo-israeliana del 1967, nella quale Israele ha resistito vittoriosamente a una minaccia di annientamento da parte dei suoi vicini arabi». Tutto falso, replica lo storico: «E’ un grosso problema, è ciò che noi chiamiamo “falsificare la storia”». E spiega: sia la Cia che il Mossad – è documentato – sapevano perfettamente che gli eserciti arabi non avrebbero potuto resistere all’attacco di Israele, la cui unica preoccupazione era: come avrebbe reagito il presidente americano Lyndon Jonhson? «Nel 1957, dieci anni prima, gli Usa avevano agito con molta severità. Dwight Eisenhower aveva dato a Israele un ultimatum: uscite dal Sinai, o dovrete affrontare una forte reazione del governo degli Stati Uniti. Nel 1967 gli israeliani avevano paura che si ripetesse la situazione del 1957».Sicché, Tel Aviv mandò emissari a tastare il polso di Washington. Come il generale Meir Amit, capo del Mossad. La risposta degli Usa: nessun indizio che il presidente egiziano Abdel Gamal Nasser stesse per attaccare Israele. Nasser, disse Johnson, sa benissimo che, «se vi attacca, voi israeliani gli darete una batosta». Una valutazione Cia, identica a quella del Mossad. Tel Aviv sapeva perfettamente che non aveva nulla da temere, dall’Egitto. Il segretario alla difesa, Robert McNamara, fu ancora più preciso: disse a Israele che, in caso di guerra, avrebbe vinto in 7 giorni, 10 al massimo. Era vero: la guerra sarebbe terminata «non solo in 6 giorni, ma letteralmente in 6 minuti circa», afferma Filkenstein. «Nel momento in cui Israele ha lanciato il suo attacco-lampo e distrutto la flotta aerea egiziana, che era ancora al suolo, ha tolto tutti gli appoggi aerei alle truppe al suolo. Era finita. L’unica ragione per la quale questa guerra è durata sei giorni, è perché volevano impadronirsi dei territori. Era un’occupazione violenta delle terre». Come sono riusciti a coinvolegere l’Egitto, sapendo che mai Nasser – di sua iniziativa – avrebbe aperto le ostilità? Semplice: attaccando la Siria, alleata dell’Egitto. Fu lo stesso Moshe Dayan ad ammettere che, nell’aprile del 1967, Israele abbattè 6 aerei siriani, uno dei quali nel cielo sopra Damasco.Ammise Dayan, poi uomo-chiave del governo Begin a partire dal 1977: «Vi dirò perché noi avevamo tutti questi conflitti con la Siria. C’era una zona smilitarizzata tracciata dopo la guerra del 1948 tra la Siria e Israele. Almeno l’80% del tempo noi mandavamo dei bulldozer in questa zona smilitarizzata perché Israele era impegnata a occupare territori con la forza». Israele, quindi, cercava di impadronirsi di terre nella zona smilitarizzata. Racconta Filkenstein: «Mandava dei bulldozer, i siriani reagivano, e questo aumentava la tensione. Nel aprile 1967 questo è sfociato in un combattimento aereo tra siriani e israeliani. Dopodiché Israele ha cominciato a minacciare, verbalmente, di lanciare un attacco contro la Siria. La dichiarazione più celebre in quel momento la fece Yitzhak Rabin, ma numerosi responsabili israeliani minacciavano la Siria». Lo storico israeliano Ami Gluska, nel suo libro “L’esercito israeliano e le origini della guerra del 1967”, scrive: «La valutazione sovietica della metà di maggio 1967, che Israele stava per colpire la Siria, era giusta e ben fondata». C’erano voci attendibili, dunque, secondo le quali Israele avrebbe aggredito gli arabi. Gluska «conferma che gli israeliani avevano preso la decisione di attaccare».L’Egitto aveva un patto di difesa con la Siria: sapendo che era imminente un attacco israeliano aveva l’obbligo di andare in aiuto di Damasco. Per questo, Nasser ha schierato – a scopo dissuasivo – delle truppe egiziane nel Sinai, zona allora presidiata da una forza di pace dell’Onu, l’Unef. La United National Emergency Force divideva l’Egitto da Israele. Nasser ha chiesto a U Thant, segretario generale dell’Onu, di ritirarla. In forza della legge, U Thant era obbligato a ritirare quelle truppe. «Ma c’era una risposta molto semplice alla richiesta di Nasser: spostate le truppe dell’Onu sul versante israeliano», ricorda Filkenstein. «Nel 1957, quando era stata schierata l’Unef, si erano accordati per disporla sia sul lato egiziano della frontiera, sia sul lato israeliano. Così, nel 1967, quando Nasser ha detto: “Ritirate l’Unef dalla nostra parte”, tutto quello che Israele doveva dire era: “Bene, noi la riposizioniamo dalla nostra parte della frontiera”, sul versante israeliano. Ma non lo hanno fatto». Ragiona lo storico: «Se l’Unef avrebbe veramente potuto evitare un attacco egiziano, come suggerisce Israele quando dice che U Thant ha commesso un errore monumentale ritirando la forza dell’Onu, perché gli israeliani non l’hanno semplicemente schierata dall’altra parte della frontiera?». Ovvio: perché erano loro a volere la guerra.Altro piccolo casus belli: c’erano degli attacchi di guerriglia contro la frontiera israeliana lanciati dalla Giordania e dalla Siria, descritti nella storia ufficiale come una grande minaccia per la sicurezza di Israele. Si trattava di incursioni di commandos palestinesi, sostenuti principalmente dal regime siriano. «Ma come hanno riconosciuto anche gli ufficiali superiori israeliani – obietta Filkenstein – la ragione per la quale la Siria incoraggiava questi raid di commandos era l’occupazione delle terre nelle zone smilitarizzate da parte di Israele». Inoltre si trattava di «azioni coraggiose ma estremamente inefficaci», peraltro «compiute da persone che erano state private della loro patria nel 1948». In alre parole, quei palestinesi «erano dei rifugiati». Avverte lo storico: «Ricordatevi che era passato poco tempo tra il 1948 e il 1967, meno di una generazione». Ma, appunto, quegli attacchi erano poco più che simbolici. A confermarlo è uno dei capi dello spionaggio israeliano, Yehosafat Harkabi, che dopo il 1967 li ha descritto come «ben poco significativi, secondo tutti i metri di giudizio».L’altro incidente storico importante che viene citato er giustificare la guerra-lampo di Israele è la chiusura, da parte dell’Egitto, dello Stretto di Tiran, all’imbocco del Mar Rosso, strategico per accedere al porto israeliano di Eilat. Passaggio marittimo chiuso effettivamente da Nasser a metà maggio. «Israele adesso respira con un solo polmone», protestò il diplomatico Abba Eban, allora rappresentante israeliano all’Onu, poi ministro degli esteri. Era vero? Non proprio, osserva Filkenstein: intanto, Israele disponeva di riserve di petrolio che garantivano allo Stato ebraico un’autonomia di mesi. «Ma la cosa più importante è che non c’è stato un blocco. Nasser era un fanfarone: ha annunciato il blocco, lo ha applicato per ciò che si stima abitualmente essere due o tre giorni, poi ha cominciato a lasciar passare tranquillamente le navi israeliane. Non c’era blocco, il problema non era un blocco fisico effettivo, il problema era politico. E cioè che Nasser aveva sfidato pubblicamente Israele. La chiusura di un canale navigabile non è un attacco armato. Comunque la si guardi, Israele non aveva alcuna valida ragione».L’Egitto aveva reagito in modo prevedibile – con il blocco (solo simbolico) del Mar Rosso – per “difendere a distanza” la Siria attaccata un mese prima dall’aviazione israeliana, agevolando così la “regia occulta” della guerra, progettata unilateralmente da Tel Aviv, travestitasi da vittima. Domanda Aaron Mate: perché Israele ha preso delle misure così straordinarie per iniziare quella guerra e impadronirsi di così tanti territori? Risponde Norman Finkelstein: perché il vero incubo di Israele era il presidente egiziano Nasser. Un politico arabo laico, indipendente, autorevole. Fin dalla sua fondazione nel 1948, il leader fondatore di Israele, David Ben Gurion, «si è sempre preoccupato che potesse arrivare al potere nel mondo arabo quello che lui chiamava un Ataturk arabo. Cioè qualcuno come il personaggio turco Kemal Ataturk, che ha modernizzato la Turchia, ha introdotto la Turchia nel mondo moderno; Ben Gurion ha sempre avuto paura che una figura come Ataturk potesse emergere nel mondo arabo, e quindi il mondo arabo si sottraesse allo Stato di arretratezza e di dipendenza dall’Occidente e potesse diventare una potenza con la quale bisognava fare i conti nel mondo e nella regione». La paura del regime sionista si impersonificò nel 1952, quando emerse Nasser come leader della rivoluzione attraverso cui l’Egitto si liberò del dominio europeo post-coloniale.Nasser, continua Filkenstein, era una figura emblematica di quell’epoca «molto inebriante», chiamata “decolonizzazione”: «L’epoca del dopoguerra, dei non-allineati, del terzomondismo». Anti-imperialismo e decolonizzazione: leader come Nehru in India, Tito in Jugoslavia. E Nasser. «Non erano ufficialmente compresi nel blocco sovietico. Erano una terza forza. Non allineata». Più incline a rivolgersi al blocco sovietico perché «ufficialmente antimperialista», ma solo a scopo difensivo: nel 1956, quando Nasser aveva sbarrato il Canale di Suez per protestare contro la mancata concessione del maxi-prestito della Banca Mondiale (Usa) per costruire sul Nilo la Diga di Assuan che averebbe dato respiro all’agricoltura egiziana, francesi e inglesi sbarcarono in armi a Port Said minacciando di deporre Nasser. Intervenne direttamente l’Urss, rivolgendo un ultimatum agli eserciti europei, tacitamente avallato dagli Stati Uniti: se le truppe anglo-francesi non avessero lasciato il litorale egiziano, Mosca le avrebbe colpite con la bomba atomica. Questo consacrò Nasser come grande leader arabo, senza farne – per forza – un satellite dei russi. Inutile aggiungere che il crescente prestigio internazionale del carismatico leader egiziano faceva paura soprattutto a Israele: sembrava davvero arrivato “l’Atarurk arabo”, il modernizzatore paventato da Ben Gurion.«Israele era considerato non senza ragione, come una postazione occidentale nel mondo arabo, e veniva ugualmente interpretato come il tentativo di mantenere nell’arretratezza il mondo arabo», osserva Filkenstein. C’era dunque una sorta di conflitto e di contrapposizione tra Nasser e Israele. E questo ha dato il via, come viene documentato anche stavolta assai scrupolosamente non da Finkelstein ma da uno storico importante molto considerato, cioè Benny Morris. Nel libro “Le guerre di frontiera di Israele”, che parla del periodo tra il 1949 ed il 1956, Morris dimostra che «intorno al 1952-53 Ben Gurion e Moshe Dayan erano veramente determinati a provocare Nasser, a continuare a stuzzicarlo fino a che avessero un pretesto per distruggerlo: volevano sbarazzarsi di lui». Insistettero, in modo che a un certo punto il leader egiziano non potesse fare a meno di rispondere: «Sostanzialmente Nasser è stato preso in trappola». Per Morris, la stessa crisi di Suez del 1956 era nata da «un complotto ordito dagli israeliani per rovesciarlo, con il concorso degli inglesi e dei francesi», con i quali Israele collaborò invadendo il Sinai.Gli americani non si opposero alla ferma difesa di Nasser da parte dell’Urss. «Eisenhower pensava che non fosse ancora il momento adatto», per abbattere il “raiss” egiziano. «Ma anche gli americani sicuramente volevano sbarazzarsi di Nasser», aggiunge Filkenstein: «Lo vedevano tutti come una spina nel fianco». Sicché, la guerra-lampo del 1967 non sarebbe altro che «una ripetizione del 1956, con una differenza fondamentale: il sostegno americano». Alla Guerra dei Sei Giorni, infatti, «gli Stati Uniti non si sono opposti», restando «molto prudenti e cauti nelle loro dichiarazioni». Non hanno sostenuto apertamente la guerra di Israele, «perché era illegale». E gli Usa erano già impantanati nella tragedia del Vietnam, estremamente impopolare: «Non volevano impegnarsi anche nel sostegno a Israele, che sarebbe stato visto allo stesso modo come il colonialismo occidentale che tenta di prevalere sul Terzo Mondo, sul mondo non-allineato». Ma c’era un comune interesse strategico: eliminare Nasser. «Era un obiettivo a lungo termine, mantenere il mondo arabo nell’arretratezza. Mantenerlo in uno stato subordinato, primitivo».Perfettamente funzionali, in questo, il “falchi” israeliani come Ariel Sharon: «Dobbiamo attaccare adesso, perché altrimenti perdiamo la nostra capacità di dissuasione». Frase storica, rimasta – da allora – a fondamento della “dottrina” politico-militare di Israele, la propaganda vittimistica che ha giustificato massacri come quello della popolazione della Striscia di Gaza. «La “capacità di dissuasione” – traduce Filkenstein – significa: “la paura che di noi ha il mondo arabo”». La “colpa” di Nasser? «Risollevava il morale degli arabi, i quali non avevano più paura». E per gli israeliani la paura «è una carta molto forte, per tenere gli arabi al loro posto». A questo, ovviamente, si aggiunge la “necessità”, per Israele, di incrementare i propri territori a spese degli arabi. E in tutto questo, chiarisce lo storico, la religione non c’entra: «Bisogna ricordare che il movimento sionista era per la maggior parte secolare, per la grandissima parte ateo. Una larga parte si considerava socialista e comunista e non aveva nessun aggancio con la religione. Ma consideravano lo stesso di avere un titolo legale di proprietà sulla terra perché nel loro pensiero la Bibbia non era solo un documento religioso, era un documento storico». Una mentalità “secolare”, «profondamente radicata e fanatica». Al punto da falsificare la storia, inventare un’aggressione araba mai avvenuta e organizzare la Truffa dei Sei Giorni per metter fine alla carriera di Nasser, il temutissimo Ataturk arabo.La Truffa dei Sei Giorni: «In realtà la guerra-lampo del 1967 durò appena 6 minuti, il tempo che impiegò l’aviazione israeliana per annientare quella egiziana, ancora a terra», senza che un solo aereo del Cairo avesse potuto decollare. E i famosi Sei Giorni? «Servirono solo a occupare e annettere territori non-israeliani, che da allora – con la sola eccezione del Sinai – fanno parte di Israele». Parola dello storico statunitense Norman Finkestein, intervistato da Aaron Mate per l’emittente “The Real News” nel cinquantesimo anniversario della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967, evento fondante del mito vittimistico dell’autodifesa di Israele, paese “attaccato dagli arabi”. Un falso storico, accusa l’autore del bestseller “Palestine: Peace Not, Apartheid”, tradotto in 50 paesi. Fu Israele a provocare il conflitto, afferma Finkestein: abbattè deliberatamente alcuni aerei siriani, ben sapendo che l’Egitto sarebbe stato costretto a schierarsi con la Siria, cui era legato da un patto di mutua assistenza. Obiettivo segreto di Tel Aviv: conquistare falcilmente territori, sapendo (da Cia e Mossad) che gli arabi non avrebbero potuto resistere. E soprattutto: demolire il leader politico egiziano Nasser, temutissimo come possibile “Ataturk arabo”, capace di guidare lo sviluppo laico del Medio Oriente, superando la storica arretratezza della regione.
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Carpeoro: la massoneria italiana è la peggiore al mondo
Io sono profondamente convinto della bontà della dottrina massonica. Parlo male della massoneria che in questo momento è dominante. Sono convinto che esista una massoneria progressista di valore, e Gioele Magaldi ne è un esempio: era candidato a diventare il gran maestro del Goi, era certo che lo sarebbe diventato, perché era il delfino di Gustavo Raffi; quando si è messo di traverso, Magaldi la causa per essere riammesso poi l’ha vinta, però non è rientrato. Magaldi è un personaggio che magari non sarà simpatico a tanti perché è bello ruvido, però la sua coerenza è il fatto che lui rappresenti una vocazione massonica piena, nel senso progressista del termine. Su questo non ci sono dubbi, tant’è vero che (nel Movimento Roosevelt, da lui fondato) ha aggregato le migliori energie progressiste del paese, come Nino Galloni. Questo tipo di aggregazione è la sua vocazione massonica portata nella politica. Lui è un massone progressista che vorrebbe che si facesse una politica progressista: non perché vuole coinvolgere la massoneria nella politica, ma perché un vero massone non può non votare progressista.La massoneria è progressista per auto-definizione, dottrinalmente non esiste una massoneria conservatrice; che poi, in pratica, ci siano tanti massoni spurii, in giro, che fanno altre cose, questo è il nostro problema. Ed è il motivo per cui io me ne sono chiamato fuori, perché sarei costretto ad avere a che fare con gente con cui non voglio avere a che fare. Mi guardo bene dal criticare la massoneria come ente indeterminato: io critico certi massoni – che purtroppo sono la maggioranza, in questo momento. Sono la gran parte: un po’ per ignoranza, un po’ perché si sono persi certi valori, un po’ perché si sono de-ideologizzati pure loro. Siccome “l’ideologia è un crimine”, anche quella massonica è un crimine. Purtroppo la situazione è questa. E la situazione massonica italiana è la peggiore al mondo. Perché l’Italia è stata gestita in termini conflittuali da forze esterne. C’è stato un progetto di de-massonizzazione che il Vaticano ha cominciato a operare fin dalla Breccia di Porta Pia, c’è stato un progetto di scissione nella massoneria anche tramite il fascismo nell’intervallo tra le due guerre, e c’è stato un ulteriore progetto di de-massonizzazione dottrinale dello Stato.Lo Stato italiano nasce massonico: l’Italia l’ha fatta la massoneria, è nata su valori massonici. E ancora: nella Costituente, per l’attuale Costituzione, c’era un numero di massoni che era del 50%, a cominciare da Calamandrei. Poi, gradualmente, cosa è successo? C’è stata una graduale de-massonificazione. La Dc ha preso i soldi dall’America per sbarrare la strada al comunismo, ma poi li ha utilizzati anche per disastrare la massoneria. La stessa Tangentopoli è stata uno strumento per de-massonificare, perché ha eliminato le ragioni politico-sociali massoniche dell’Italia, che erano tre: Partito Repubblicano, Partito Socialista, Partito Liberale. Poi quei partiti ci hanno anche messo del loro, per carità. Però in realtà sono stati anche esauriti i filoni culturali dottrinali, cioè si è gettato il bambino insieme all’acqua sporca. Sotto questo profilo c’è stata un’attività di decenni. All’estero, la massoneria è comunque una risorsa importante dello Stato. In America ci sono quelli che, in termini scandalistici, criticano gli elicotteri della protezione civile con sopra i simboli massonici, ma c’è un motivo molto pragmatico: la massoneria, in America, finanzia anche l’esercito – non per motivi loschi, perché finanzia anche gli ospedali, anche quelli effigiati con squadra e compasso, alla luce del sole.In Inghilterra, la massoneria è presiduta dal Duca di Kent, che è la seconda carica istituzionale del paese – generalmente è il fratello del Re, quando non è il fratello è il secondogenito (quello che non è erede al trono). La realtà italiana non è questa: i libri di storia non parlano di massoneria. Da noi, la massoneria è una cosa da non spiegare, da infrattare, da frequentare in privato disconoscendola in pubblico, è un vizio privato da contrapporre alle pubbliche virtù. E quindi la massoneria italiana, ovviamente, non ha neanche quella veste istituzionale trasparente, di legittimazione, che ha negli altri paesi. Macron è uno che può permettersi di ricevere, pubblicamente, il gran maestro del Grande Oriente di Francia. Pensate un po’ voi se, domani, Gentiloni ricevesse pubblicamente il gran maestro del Grande Oriente d’Italia: mamma mia, cosa verrebbe fuori… E quindi la massoneria italiana è debole. Divisa, debole, percorsa da infiltrazioni che non vi voglio neanche descrivere – perché, se la rendi clandestina, è destinata ad essere infiltrata.Se la rendi trasparente e ci metti un controllo pubblico, imponi delle regole associative, cambia tutto. I partiti: perché sono diventati delle associazioni a delinquere? Perché non sono legalmente riconosciuti, come i sindacati – si sono scoperti i sindacalisti con la piscina, no? Da noi è tutto così. Invece in Italia andrebbe tutto ordinato e riconosciuto, ma lasciato poi libero, nel suo svolgimento, nei confini della legge. Invece in Italia non viene riconsciuto e lasciato libero niente perché viene infiltrato e controllato in materia surrettizia, e non viene nemmeno regolamentato perché così lo possono controllare. Vale anche per l’Opus Dei: dove sono gli elenchi di quelli che fanno parte dell’Opus Dei? Non sono cittadini italiani? Non li chiede nessuno, gli elenchi dell’Opus Dei. Vi interessa conoscerli? Non li avrete. “L’Unità” pubblica gli elenchi dei massoni, ma non quelli dell’Opus Dei. Vi siete mai chiesti perché?(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della diretta web-radio “Border Nights” del 23 luglio 2017, condotta da Fabio Frabetti e ripresa su YouTube. Carpeoro, massone e simbologo, nel 2016 ha pubblicato il saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina i retroscena che collegano massoneria internazionale reazionaria, servizi segreti Usa e manovalanza islamista, nell’ambito della “sovragestione” del terrorismo internazionale, ieri targato Al-Qaeda e oggi Isis. Carpeoro è anche impegnato nel Movimento Roosevelt, fondato da Gioele Magaldi per tentare di rigenerare in senso progressista la politica italiana).Io sono profondamente convinto della bontà della dottrina massonica. Parlo male della massoneria che in questo momento è dominante. Sono convinto che esista una massoneria progressista di valore, e Gioele Magaldi ne è un esempio: era candidato a diventare il gran maestro del Goi, era certo che lo sarebbe diventato, perché era il delfino di Gustavo Raffi; quando si è messo di traverso, Magaldi la causa per essere riammesso poi l’ha vinta, però non è rientrato. Magaldi è un personaggio che magari non sarà simpatico a tanti perché è bello ruvido, però la sua coerenza è il fatto che lui rappresenti una vocazione massonica piena, nel senso progressista del termine. Su questo non ci sono dubbi, tant’è vero che (nel Movimento Roosevelt, da lui fondato) ha aggregato le migliori energie progressiste del paese, come Nino Galloni. Questo tipo di aggregazione è la sua vocazione massonica portata nella politica. Lui è un massone progressista che vorrebbe che si facesse una politica progressista: non perché vuole coinvolgere la massoneria nella politica, ma perché un vero massone non può non votare progressista.
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Smith: verso la legge marziale in Inghilterra, usando l’Isis
«Temo che il Regno Unito finirà sotto legge marziale entro un anno: a meno che la gente non faccia qualcosa adesso, cadranno in un regime totalitario». Lo sostiene un analista indipendente come Brandon Smith, secondo cui «a lungo termine, aiuteranno solo quei globalisti che il movimento Brexit in particolare ha cercato di combattere: lo faranno calpestando l’immagine del nazionalismo e della sovranità usando la filosofia della sicurezza fornita dal governo», in modo da rendere il globalismo «piacevole e tollerabile». Questo, secondo Smith, il possibile esito degli attentati targati Isis che stanno martellando la Gran Bretagna, tutti messi a segno grazie ad anomale distrazioni delle forze di sicurezza e – dopo l’iniziale emozione – archiviati in fretta. «La ripetizione di tali attacchi sta assuefacendo il pubblico, quello europeo in particolare: non è raro ora che gli attacchi vengano dimenticati in una settimana». La grande paura tra gli europei “liberali”, scrive Smith, è un ritorno al fervore nazionalista, che loro credono abbia generato l’ascesa del Terzo Reich: ignorano «il coinvolgimento dell’élite “corporate” e bancaria nel finanziamento e nella fornitura di tecnologia vitale ai nazisti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale».Questa manipolazione sui veri retroscena del nazismo ha reso l’Europa vulnerabile, permettendo ai globalisti di portare a forza milioni di immigrati musulmani in Ue, attraverso politiche di frontiera aperta, senza adeguate procedure di verifica. E nessuno ha fiatato, temendo di essere tacciato di “fascismo”, scrive Smith in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «La più grande minaccia non è solo il condizionamento della popolazione ad accettare l’invasione culturale, bensì ciò che inevitabilmente accadrà tra poco: l’apatia di una nazione sulla scia della prossima legge marziale». In risposta agli attentati-kamikaze dell’Isis, Theresa May ha dichiarato di “averne abbastanza”, e ha chiesto una revisione della strategia antiterroristica: la polizia di Londra è stata invitata ad adattarsi alle nuove condizioni, pattugliando le strade fortemente armata e usando elicotteri di sorveglianza con l’aiuto di unità speciali. «Dovremmo fare ancor di più per limitare la libertà e i movimenti dei sospetti terroristi». Noto teorema: meno libertà, più sicurezza. E cioè: esattamente quello che vorrebbe l’Isis, se fosse un soggetto autonomo, anziché una semplice pedina della strategia della tensione.Lo spiegamento di oltre 5.000 soldati britannici in posizioni strategiche, aggiunge Smith, fa parte di un piano del 2015 chiamato “Operation Temperer”: prevede la diffusione di truppe in risposta a “forti minacce terroristiche”. «In sostanza, è un programma di legge marziale che agisce in modo incrementale, piuttosto che apertamente. Una volta implementata, “Temperer” sarà difficile da invertire. Come i capi militari britannici hanno avvisato quando l’operazione è stata esposta pubblicamente, le truppe non verrebbero messe a riposo fino a che la minaccia terroristica non verrà “ridotta”, lasciando la definizione del “livello di minaccia” aperta ad un’interpretazione piuttosto ampia». L’operazione “Temperer” è oggi in pieno svolgimento, dato che i servizi di polizia richiedono aiuto militare. E’ già legge marziale? «Non proprio, ma ci va molto vicino», dice Smith. «Questo è il modo in cui la tirannia viene comunemente implementata; non tutta in una volta, ma un mattoncino alla volta». La May ha introdotto queste misure dopo l’attentato di Manchester, senza però riuscire a impedire l’ultimo attacco a Londra. Elezioni ed equivoco Brexit: al posto dello slancio sovranista subentra un esperimento ultraliberista, reazionario e securitario?«E’ tutto parte del piano», scrive Smith, secondo cui «stiamo forse assistendo alla più grande “psy-op” di quarta generazione nella storia». Ovvero: «I globalisti hanno deliberatamente modificato le condizioni: le nazioni, quelle europee in particolare, o verranno travolte da un’ideologia straniera, senza essere protette dai propri governi, o dovranno rispondere con difficili contromisure. Vale a dire, gli europei dovranno fare una falsa scelta tra il multiculturalismo o vivere sotto legge marziale». La Brexit e Trump sono stati “concessi”. Ma, «nonostante le illusioni di alcuni nel movimento libertario, il “Deep State” è perfettamente posizionato per approfittare di entrambi gli eventi. Non si sono opposti affatto. Perché? Perché vogliono distruggere il nazionalismo, pensano a lungo termine. E il Regno Unito sembra essere in prima fila». Gli attacchi terroristici stanno aumentando, la soluzione che presenteranno sarà «ancor più esercito, non meno», fino alla legge marziale permanente: «Il governo potrebbe non definirla apertamente così, ma è quello che sarà». Avverte Smith: «Guardate le scelte concesse al popolo britannico: accettare il multiculturalismo senza domande o avere una Stato di polizia sacrificando la libertà personale».«Temo che il Regno Unito finirà sotto legge marziale entro un anno: a meno che la gente non faccia qualcosa adesso, cadranno in un regime totalitario». Lo sostiene un analista indipendente come Brandon Smith, secondo cui «a lungo termine, aiuteranno solo quei globalisti che il movimento Brexit in particolare ha cercato di combattere: lo faranno calpestando l’immagine del nazionalismo e della sovranità usando la filosofia della sicurezza fornita dal governo», in modo da rendere il globalismo «piacevole e tollerabile». Questo, secondo Smith, il possibile esito degli attentati targati Isis che stanno martellando la Gran Bretagna, tutti messi a segno grazie ad anomale distrazioni delle forze di sicurezza e – dopo l’iniziale emozione – archiviati in fretta. «La ripetizione di tali attacchi sta assuefacendo il pubblico, quello europeo in particolare: non è raro ora che gli attacchi vengano dimenticati in una settimana». La grande paura tra gli europei “liberali”, scrive Smith, è un ritorno al fervore nazionalista, che loro credono abbia generato l’ascesa del Terzo Reich: ignorano «il coinvolgimento dell’élite “corporate” e bancaria nel finanziamento e nella fornitura di tecnologia vitale ai nazisti prima e durante la Seconda Guerra Mondiale».