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Archivio del Tag ‘giovani’

  • Konrad Lorenz: solo la bellezza può fermare il nostro declino

    Scritto il 15/4/18 • nella Categoria: Recensioni • (1)

    Quando nel 1973 venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Konrad Lorenz, “padre” dell’etologia, vi fu una sorta di sollevazione negli ambienti scientifici che non mancò di contagiare anche quelli politici. Il ricercatore austriaco, noto per le sue indagini del comportamento umano attraverso lo studio dell’istinto animale e dell’adattamento ambientale, era ritenuto un fautore dell’antiegualitarismo. Non gli vennero risparmiate accuse anche infamanti, ma nel contempo i suoi saggi di carattere antropologico oltre che quelli strettamente connessi alla sua materia venivano sempre più studiati al fine di comprendere la decadenza che Lorenz denunciava tanto nella sfera intima dell’uomo quanto nel mondo circostante. Al di là della “demonizzazione”, le opere di Lorenz s’imposero anche in ambito a lui non proprio favorevole soprattutto per merito di editori liberi come Adelphi, in Italia, che l’anno successivo pubblicò il libro di Lorenz di maggior successo, “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”, seguito da “L’altra faccia dello specchio”. In entrambi lo scienziato metteva l’umanità davanti dal suo non proprio luminoso destino determinato dagli squilibri demografici, dall’inquinamento atmosferico, dal depauperamento delle risorse naturali, dalla massificazione del consumi, dall’invadenza della tecnologia, fino a criticare appunto l’egualitarismo pervasivo del quale la struttura stessa delle megalopoli era lo specchio più evidente…
    Lorenz, dopo i primi “affondi” critici che arrivarono a colpirlo come “nemico della democrazia”, ha conosciuto una lenta ma inarrestabile rivalutazione, al punto che quando di recente qualcuno (com’è costume di questi tempi) ha provato ha scavare nel suo lontanissimo passato, scoprendo che aveva simpatizzato in gioventù, come molti altri intellettuali e non solo, per la parte sbagliata (operazione non dissimile da quella che è stata messa in atto contro Martin Heidegger), non è sembrato opportuno neppure ai più critici di affondare eccessivamente il bisturi in una materia controversa e sostanzialmente poco interessante. Il suo pensiero è certamente più “lungo” delle polemiche postume, soprattutto se effettuate contro uno scienziato che non può replicare, essendo scomparso nel 1989. L’etologia, soprattutto grazie a Lorenz, ha dimostrato che le derivazioni della cultura freudo-marxista nel campo dell’antropologia sono state a dir poco fallaci e menzognere. Studiosi come Robert Ardrey, Eibl-Eibsfeldt, Eric von Holst, Karl von Frisch hanno applicato, come lo scienziato austriaco, il metodo naturalistico desunto dall’osservazione del comportamento animale e dei gruppi sociali primitivi o organizzati, per asseverare che le comunità tendono a conservarsi secondo schemi certo non collimanti con la visione del “buon selvaggio” di Rousseau.
    Il realismo dovrebbe far riconoscere che il principio di conservazione è strettamente legato a quello di aggressività, e tenendo conto di questo dato naturalistico è possibile costruire aggregati tendenzialmente solidi e ordinati da un principio politico fondato sull’autorità. Una sintesi di queste idee è racchiusa nella penetrante e brillante “Intervista sull’etologia” realizzata da Alain de Benoist con Konrad Lorenz alla fine degli anni Settanta e pubblicata per la prima volta in Italia nel 1980, che oggi rivede la luce preceduta da una prefazione di Mario Bozzi Sentieri, che situa il pensiero del grande etologo nell’ambito di una concezione organicistica della società. Il libro è qualcosa di più di un’intervista pura e semplice. Esso consta di tre parti: la prima è un saggio di de Benoist sull’etologia dalle origini ai giorni nostri, incentrato soprattutto sulla polemica tra gli ambientalisti e gli innatisti; la seconda parte è il colloquio vero e proprio tra l’allora giovane intellettuale francese e lo scienziato; l’ultima è uno scritto di Lorenz significativamente intitolato “Patologia della civiltà e libertà della cultura”.
    Molto opportunamente, riassumendo il pensiero di Lorenz, de Benoist rileva che mentre i fautori del materialismo pratico vedono nell’uomo soltanto la dimensione biologica e gli spiritualisti lo riducono alla sua dimensione spirituale, per gli etologi egli non è assolutamente unidimensionale, ma è il prodotto di tutte le dimensioni possibili e quindi la creatura più complessa che esista. Da qui alla polemica antiegualitaria il passo è breve. Posto che esistono indubbie differenziazioni nell’uomo e tra gli uomini, Lorenz così si esprime: «L’ineguaglianza dell’uomo è uno dei fondamenti ed una delle condizioni di ogni cultura, perché è essa che introduce la diversità nella cultura. Nella società umana, la divisione del lavoro è fondata su una differenza, un’ineguaglianza dei membri della società. Alla base di questa ineguaglianza vi è una differenza di capacità… Il fatto che siamo diversi è capitale, dal punto di vista dei valori. Sebbene si sia diversi, abbiamo gli stessi diritti fondamentali. Oggi uomo ha il diritto di sviluppare le facoltà che sono in lui… Il punto di vista egualitario è completamente antibiologico: gli uomini sono diversi dal momento del loro concepimento».
    È naturale che questa visione si scontri con gli apologeti del pensiero tecnomorfico e pseudo-democratico, che ripongono le loro aspettative nel salvifico avvento della tecnocrazia e della massificazione, i pilastri del “pensiero unico”. Lorenz invita a riscoprire il principio della selettività e della meritocrazia contro il riduzionismo egualitario, l’appiattimento delle personalità, il depotenziamento delle energie vitali. Le civiltà muoiono, dice Lorenz, quando i processo di parassitismo e di degenerescenza impoveriscono la forza di conservazione e di aggressività insite nell’uomo. Restare fedeli alla propria natura è la sola possibilità che l’uomo ha di sottrarsi all’imbarbarimento e alla soggezione alla costruzione di destini che contrastano con la sua natura. Ancora più esplicito Lorenz è nel saggio “Il declino dell’uomo”, opportunamente edito da Piano B, nel quale sostiene che la tecnocrazia crea una società iperorganizzata allo scopo di deresponsabilizzare la persona. Sul piano culturale, sostiene, viene a mancare la pluralità di opinioni e scambi reciproci che sono i fondamenti di qualsiasi processo creativo.
    Sicché la nostra epoca è assolutamente povera di creatività, se non vogliamo considerare questa nelle espressioni culturali, letterarie e artistiche dominanti, le cui scialbe prove – a parte qualcuna, ovviamente – sono destinate a individui che recepiscono la semplicità e l’ovvietà rifiutando ciò che è intrinsecamente complesso. È la civiltà che è minacciata, dice Lorenz, che approfondisce questa sua affermazione formulando una diagnosi assolutamente pertinente, avendo di vista la minaccia delle forme che minano le qualità e lo doti che «fanno dell’uomo un essere umano». Pochi, aggiunge, considerano come una malattia il declino del quale parla nel libro, e non si propongono di individuarne le cause. Accontentandosi dello sviluppo tecnico ed economico, l’uomo accetta passivamente di essere dominato da forze incontrollabili. E ciò è ancor più pernicioso per le generazioni future. «La gioventù di oggi – scrive – si trova in una situazione particolarmente critica. Se vogliamo stornare l’apocalisse che ci minaccia, dobbiamo risvegliare, soprattutto nei giovani, la sensibilità per i valori, per la bontà, per la bellezza: una sensibilità che è stata calpestata dalla mentalità scientista e dal pensiero tecnomorfo».
    Come se ne esce? Riprendendo il contatto più stretto con la natura, ricoprendo l’armonia del creato, praticando il culto delle differenze che solo può metterci al riparo dall’omologazione e dalla tirannia – diremmo oggi – del “pensiero unico”. Konrad Lorenz nella citata “Intervista” offre un esempio che può sembrare banale, ma non lo è, per recuperare una dimensione davvero umana: «Bisogna imitare i contadini, presso i quali tutto avviene in modo naturale: il bambino gioca ad imitare i suoi genitori e in questo modo si forma. Ho un amico contadino che è notevolmente rispettato dai suoi figli. Per una semplice ragione: fa le cose meglio di loro, e i figli cercano di farle bene quanto lui». Saggezza antica, saggezza di sempre. Il fondamento dell’autorità è nell’esempio. L’educazione a seguirlo è il metodo. L’oca Martina non seguiva Lorenz nello stagno di Altenberg insieme con la sua prole in fila ordinata? Il principio e il senso dell’umanità in un quadro idilliaco, fiabesco, che l’etologo ha proposto con la semplicità di un contadino austriaco a un’umanità frastornata da disumani meccanismi che la stanno risucchiando nel nulla.
    (“Il declino dell’uomo secondo il Premio Nobel Konrad Lorenz”, dal blog “La Crepa nel Muro” del 5 aprile 2018. I libri: Alain de Benoist, “Intervista sull’etologia”, Oaks editrice, 156 pagine, 14 euro; Konrad Lorenz, “Il declino dell’uomo”, Piano B, 232 pagine, 16 euro).

    Quando nel 1973 venne attribuito il Premio Nobel per la medicina e la fisiologia a Konrad Lorenz, “padre” dell’etologia, vi fu una sorta di sollevazione negli ambienti scientifici che non mancò di contagiare anche quelli politici. Il ricercatore austriaco, noto per le sue indagini del comportamento umano attraverso lo studio dell’istinto animale e dell’adattamento ambientale, era ritenuto un fautore dell’antiegualitarismo. Non gli vennero risparmiate accuse anche infamanti, ma nel contempo i suoi saggi di carattere antropologico oltre che quelli strettamente connessi alla sua materia venivano sempre più studiati al fine di comprendere la decadenza che Lorenz denunciava tanto nella sfera intima dell’uomo quanto nel mondo circostante. Al di là della “demonizzazione”, le opere di Lorenz s’imposero anche in ambito a lui non proprio favorevole soprattutto per merito di editori liberi come Adelphi, in Italia, che l’anno successivo pubblicò il libro di Lorenz di maggior successo, “Gli otto peccati capitali della nostra civiltà”, seguito da “L’altra faccia dello specchio”. In entrambi lo scienziato metteva l’umanità davanti dal suo non proprio luminoso destino determinato dagli squilibri demografici, dall’inquinamento atmosferico, dal depauperamento delle risorse naturali, dalla massificazione del consumi, dall’invadenza della tecnologia, fino a criticare appunto l’egualitarismo pervasivo del quale la struttura stessa delle megalopoli era lo specchio più evidente…

  • Grimaldi: droga, terrore e migranti, ecco il piano del potere

    Scritto il 11/4/18 • nella Categoria: idee • (9)

    Tre sono le grandi operazioni con cui la cupola finanzcapitalista persegue nel terzo millennio il dominio totalitario politico, militare, economico e culturale sull’umanità. Lo Stato unico della sorveglianza e del controllo senza spiragli o crepe. Hanno tutte origine nel cosiddetto riflusso degli anni ’80 del Novecento, risposta all’onda insurrezionale del decennio precedente e prodromo dell’offensiva scatenata vent’anni dopo, a partire dalla “normalizzazione-passivizzazione” delle coscienze e dei saperi con gli strumenti hi-tech degli apprendisti stregoni di Silicon Valley. La diffusione della droga per la guerra alla droga; la diffusione del terrorismo per la guerra al terrorismo; la migrazione di massa finalizzata a un unico superstato che persegue la distruzione di ogni statualità attraverso la creazione di masse, estratte dal proprio contesto storico, omologate dall’abbandono, dalla disperazione, dalla perdita di anima e nome collettivi e da un destino di subalternità irrimediabile. Strategia di distruzione dei diritti umani (intesi come libertà, riservatezza, lavoro, autonomia, rapporti sociali), se va bene sostituiti da diritti detti civili (per lo più intesi come superamento di quelli biologici) e dal diritto di muovere guerra e distruzione a chi si pretende di accusare di violazione dei diritti umani.

  • Pallante: come salvarci dalla catastrofe globale della crescita

    Scritto il 06/4/18 • nella Categoria: Recensioni • (17)

    Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.
    L’unica terapia? Fermare la crescita tumorale delle merci. Serve qualcosa di enorme, paragonabile alla Rivoluzione Industriale, ma di segno opposto. Valori da capovolgere: il “tanto-avere” è il grande nemico del “ben-essere”. Nel suo ultimo saggio, che definisce “un manifesto politico e culturale”, Pallante denuncia il capitalismo industriale degli ultimi 250 anni. Una forza tellurica eversiva, segnalata da Marx come pericolo: se prima il denaro era solo un mezzo per scambiare merci, è diventato l’unico fine dell’intero ciclo economico. E’ Keynes, nel 1931, il primo a parlare di “disoccupazione tecnologica”: scopriamo sempre nuovi sistemi per «risparmiare forza lavoro», senza riuscire a ricollocarla. Succede perché siamo avidi, dice Pallante: riducendo l’orario di lavoro, l’innovazione di processo non comprometterebbe l’occupazione. Al contrario: sarebbero le macchine a lavorare per noi. Il guaio? Il nostro obiettivo non è vivere bene, in armonia con gli altri e con il pianeta. Vogliamo solo avere tanti soldi, costi quel che costi. Alle conseguenze, semplicemente, non pensiamo: la guerra sociale, la predazione globale delle risorse, il collasso della biosfera. Il paziente è grave: consuma più di quanto la Terra possa dargli. Ogni anno la “deadline” si accorcia: prima del Duemila la linea rossa veniva superata a ottobre, poi a settembre. Ora siamo “in riserva”, ogni anno, già dal mese di luglio.
    Non ci vuole un indovino per intuire che di questo passo andremo a sbattere. L’emissione di anidride carbonica non smaltibile dalla fotosintesi vegetale è quasi raddoppiata, sugli oceani galleggiano “continenti” di plastica, il pesce s’è dimezzato, il clima terrestre sta per raggiungere i 2 gradi sopra la soglia di sicurezza. E non abbiamo ancora visto niente: si calcola che interi paesi, come il Bangladesh, saranno sommersi. Noi che facciamo? Niente. Anzi, peggio: acceleriamo la corsa verso lo schianto. La globalizzazione violenta del mercato, dice Pallante, riproduce su scala mondiale quanto avvenne con la Rivoluzione Industriale: masse ingenti di contadini e artigiani sradicate dai loro territori e trasformate in folle di profughi economici. Obiettivo: accrescere la platea dei consumatori di merci superflue. Esaurite le capacità dell’Occidente, si punta al resto del mondo. Interi continenti da depredare di materie prime a basso costo, attraverso guerre coloniali permanenti. Decine di paesi devastati, dai quali non resta che scappare. Il sistema li accoglie a braccia aperte, i migranti che ha messo in fuga: diventeranno nuovi consumatori e contribuenti, in termini di tasse e versamenti pensionistici, senza contare il loro sfruttamento schiavistico e il business criminale che specula sull’accoglienza, mortificando la solidarietà di migliaia di volontari.
    Proprio la mano tesa, offerta ai rifugiati, rivela che la vittoria del mostro (da noi stessi alimentato ogni giorno) non è ancora definitiva. Sopravvivono religioni, cresce a vista d’occhio la fame di spiritualità. In modo spesso confuso, si va in cerca di valori. «Nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci e appiattito gli esseri umani sulla dimensione materialistica – scrive Pallante – la valorizzazione della dimensione spirituale è un atto di disobbedienza civile». Consente di recuperare la solidarierà «non solo tra gli esseri umani, ma tra tutti i viventi», e arricchisce la pulsione all’uguaglianza di un profilo anche esistenziale. Cosa manca? Una politica, capace di aggregare milioni di individui per invertire il corso degli eventi, scongiurando la catastrofe. Destra e sinistra? Un lungo equivoco. E’ lo stesso Hayek, nume tutelare dei criminali architetti dell’austerity europea, a chiarire che il liberalismo non è stato conservatore, ma rivoluzionario. La sinistra ha arrancato dietro al capitale, cercando solo di distribuirne i profitti in modo più largo. Ma, secondo Pallante, persino l’ossigeno del deficit teorizzato da Keynes è controproducente: siamo al punto in cui – come predetto dal Club di Roma, cioè dal Mit di Boston – ogni espansione dei consumi ci accorcerebbe ulteriormente la vita.
    Come se ne esce? In un solo modo: tagliando il Pil. Decrescita infelice? No: selettiva. Nel mirino, gli sprechi. Non la barzelletta delle auto blu, ma cifre spaventose, che valgono intere finanziarie: la sola riconversione ecologica degli edifici farebbe crollare di 2/3 la spesa energetica nazionale, creando un oceano di posti di lavoro (utili) e abbattendo in modo vertiginoso l’impatto ambientale. Nel gelido Nord Europa c’è chi vive in “case passive” tecnologicamente avanzate, senza riscaldamento convenzionale, a emissioni zero. Noi invece siamo ancora impelagati nelle guerre geopolitiche per i gasdotti, come se vivessimo all’inizio del ‘900. Le ultime elezioni italiane hanno rottamato la vecchia politica e in particolare la sinistra? Ovvio: proprio la sinistra ha abbandonato i territori che storicamente si era candidata a tutelare. In ordine sparso, si va organizzando localmente un arcipelago di comunità fondate sulle filiere corte, ancora senza rappresentanza istituzionale. Riuscirà a nascere un partito che punti alla sostenibilità dell’economia, anziché all’impossibile “sviluppo sostenibile”? Matematica: benché “sostenibile”, cioè con minor impatto immediato sull’ecosistema, qualsisasi “sviluppo” (crescita illimitata) diventa comunque insostenibile alla distanza, perché farà crescere consumi superflui e veleni.
    «E’ l’equivoco delle rinnovabili: sono meno impattanti oggi, ma quell’energia “verde” aggraverà il bilancio ecologico domani, se ci sarà ancora “sviluppo”». L’alternativa? Vivere benissimo e diventare tutti ricchissimi: non per forza di denaro, ma di beni (prodotti con “valore d’uso”, anziché merci “usa e getta”). Nel suo libro – densamente argomentato e documentato, numeri alla mano – Pallante ammette che il suo pensiero è necessariamente eretico, di fronte al non-pensiero del “mercato”. «La decrescita selettiva degli sprechi – insiste – è l’unica via d’uscita a una crisi che da troppo tempo genera problemi al sistema economico e sofferenze umane gravissime». Mentre la disoccupazione ci devasta, nessuno mette in cantiere le attività utili, quelle adatte ad affrontare la crisi sociale e l’emergenza ambientale. «Una società che non fa lavorare chi vorrebbe farlo e non commissiona i lavori più necessari, che ripagherebbero i loro costi con i risparmi che consentono di ottenere, è profondamente malata. E la sua malattia è causata dalla diffusione dell’idea assurda che lo scopo dell’economia sia la crescita del Pil. Prima ce ne liberiamo e meglio sarà».
    Inutile spiegarlo agli oligopolisti del denaro, i ras della finanza che stanno schiantando il pianeta alla velocità della luce. Dovranno essere i molti, non i pochi, a disertare dall’esercito del Pil, additando questo “sviluppo” come il vero nemico di un’umanità ancora intenzionata ad abitare la Terra. E’ in arrivo un cataclisma definitivo o sarà ancora possibile metter mano al nostro destino, fermando la corsa verso il baratro? Dipende da noi, secondo Pallante, che intanto propone di uscire dal grande imbroglio della fiction mainstream. Svegliarsi: rottamare il culto di vocaboli-totem come progresso, modernità e innovazione. Continuare a scambiarli per sinonimi di miglioramento, sostiene, significa restare prigionieri di un inganno saguinoso, ormai esiziale per le sorti della società e del pianeta. Tornare all’antico? Al contrario: «Occorre utilizzare l’enorme patrimonio scientifico e tecnologico delle società industriali», non più per incrementare la produttività e la produzione di merci, ma «per sviluppare le tecnologie che aumentano l’efficienza con cui le risorse della Terra vengono trasformate in beni». Raffinate tecnologie, che riducono gli sprechi, tagliano le emissioni e recuperano i rifiuti.
    Oggi, insiste Pallante, difendere la democrazia significa affrontare i problemi creati dalla gobalizzazione: «Occorre porre al centro della politica economica l’autosufficienza alimentare ed energetica». Filiere corte, dall’energia al cibo. Parola d’ordine: «Rilocalizzare tutte le attivitù produttive che rispondono ai bisogni fondamentali della vita e possono essere svolte più vantaggiosamente a livello nazionale che a livello globale». Settori d’impiego teoricamente infiniti: basterebbe «ristrutturare ecologicamente il patrimonio edilizio, rinaturalizzare il paesaggio, ripulire i fiumi, rifare le reti idriche che perdono mediamente il 65% dell’acqua». Solo così, conclude Pallante, si può rianimare l’economia creando lavoro “utile”, che risana l’ecosistema. Serve un nuovo umanesimo, un patto tra comunità consapevoli: «Occorre ridare slancio alla convinzione che il lavoro di ognuno può contribuire in maniera determinante al benessere di tutti», restituendo un futuro ai giovani e alle generazioni a venire. Utopia? Sì, necessaria e urgente. Non c’è più tempo per i sogni, serve una politica operativa basata su un paradigma opposto a quello della crescita, cieca e suicida. Anche perché l’alternativa è già scritta: siamo noi, il famoso tonno da tagliare con un grissino.
    (Il libro: Maurizio Pallante, “Sostenibilità equità solidarietà”, sottotitolo “Un manifesto politico e culturale”, Lindau, 185 pagine, 16 euro).

    Così tenero, che si taglia con un grissino. Peccato che non si sia mai visto, in natura, un pesce che abbia la consistenza del budino. Eppure ha funzionato, la celebre pubblicità del tonno, perché viviamo in un mondo virtuale, inventato di sana pianta, plasmato da un pensiero “magico”: non valgono più le regole dell’universo, ma quelle fabbricate dalla neolingua della manipolazione. Lo sostiene Gianfranco Carpeoro, autore di saggi come “Summa Symbolica”. La tesi: il 90% delle nostre azioni è sapientemente pilotato, a nostra insaputa. In altri termini, lo dimostra anche Maurizio Pallante, teorico italiano della decrescita: il linguaggio comune trasforma i difetti in virtù, presenta i problemi come soluzioni. E’ un inganno, un trucco al quale abbocchiamo regolarmente, quando pensiamo che sia desiderabile (magari perché “si taglia con un grissino”) il cosiddetto “sviluppo sostenibile”. Un ossimoro: se lo sviluppo non è fisiologico – cioè a termine, come quello di un bambino o di una pianta – è qualcosa che fa male, che sega il ramo sul quale stiamo appollaiati. La parola “sviluppo” è diventata surreale, come il celebre tonno. E’ ormai sinonimo di crescita illimitata, innaturale, cancerogena. Abbellirla con l’ipocrita aggettivo “sostenibile” significa solo prolungare il decorso del male: morte lenta.

  • Della Luna: noi e il cantiere (zootecnico) del pensiero unico

    Scritto il 05/4/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.
    Il dissenso rispetto all’ortodossia, e la stessa libera indagine scientifica e storica di quelle credenze, scrive Della Luna nel suo blog, sono atteggiamenti inammissibili, «sanzionati con la delegittimazione morale, il boicottaggio della carriera, la discriminazione amministrativa, l’esclusione dei media, dall’insegnamento, dall’editoria, quando non anche da conseguenze penali». I dati di fatto smentiscono l’ortodossia? Non importa: «Vengono taciuti all’opinione pubblica, soprattutto nei campi chiave per l’orientamento del pensiero e della sensibilità collettivi, della concezione generale della realtà, del consenso politico, della legislazione e della giurisdizione». Anche la ricerca scientifica è «condizionata, limitata e incanalata attraverso il controllo finanziario della stampa specialistica, delle università, della ricerca, dell’editoria». Per Della Luna, avvocato e saggista, si è così ottenuta una sostanziale limitazione della libertà di ricerca, di insegnamento, di informazione pubblica – limitazione che, di fatto, «previene grande parte del possibile dissenso». Attenzione: «L’imposizione di un’ortodossia è incompatibile con la scienza, perché la scienza procede proprio per continua revisione, verificazione, falsificazione, ed è incompatibile con l’indiscutibilità». Dunque, l’ortodossia «serve a proteggere dal controllo scientifico le credenze che sostengono posizioni di privilegio e sfruttamento».
    E’ un sistema basato sul dominio, con i suoi guardiani: «Le posizioni politiche che mettono in luce e contestano il trend di progressivo trasferimento dei redditi e della ricchezza dai lavoratori alla finanza improduttiva – scrive Della Luna – sono tutte etichettate, dalla grande comunicazione, come populiste-estremiste, se non peggio», mentre sono definiti “di sinistra” partiti come il Pd in Italia, che «difendono la concentrazione dei redditi e del potere politico nelle mani dei grandi banchieri, quando non sono addirittura diretti da figli di banchieri molto discutibili o addirittura incriminati». Secondo Della Luna, «l’uomo non è una grande risorsa per i suoi ideali di giustizia, verità, libertà: pur di non guardare in faccia la realtà e non doversi addossare responsabilità, la maggior parte della gente adotta credenze assurde e rinuncia alla libertà, arrivando a pagare, a stordirsi, a compiere cose degradanti». C’è chi vorrebbe suscitare un movimento rivoluzionario e moralizzatore? Vorrebbe puntare sulla diffusione della conoscenza, illuminando decisivi aspetti della realtà? Tutte illusioni, sostiene il pessimista Della Luna.
    Siamo tornati all’antico potere sacerdotale, avverte il saggista: «I cleri di molte civiltà si arricchivano e acquisivano potere politico facendo credere al popolo che, per far sì che gli dèi mandassero la pioggia e proteggessero dalle pestilenze e dalle carestie, bisognasse fare grandi donazioni in sacrificio ai templi e obbedire ai grandi sacerdoti». Oggi, afferma Della Luna, svolge una funzione analoga «la credenza istituzionalizzata (cioè la religione) della scarsità della moneta e della indispensabilità per gli Stati di indebitarsi per finanziarsi». Nel saggio “Pensare altrimenti”, il filosofo Diego Fusaro scrive che il capitalismo finanziario, per realizzare il proprio sistema di profitto, ha necessità di farsi pensiero totalitario, unico, quindi di eliminare ogni identità umana differenziale e ogni valore diverso da quelli di scambio, così come ogni vincolo morale, comunitario, etnico, culturale e spirituale, insieme a ogni concezione alternativa dell’uomo e dell’ordinamento esistente, perché ostacolerebbero la “onnimercificazione” e la immediatezza del business.
    Il nuovo business, aggiunge Fusaro, vuole che ogni qualità sia riducibile a quantità, e che tutto e tutti siano costantemente disponibili on line per le operazioni di mercato (e di sorveglianza), in un processo di omogeneizzazione e riduzione del qualitativo al quantitativo che ammette solo i flussi di scambio, non i soggetti che se li scambiano. Questo produce un effetto ultimamente entropizzante e mortifero, cioè nullificante: «Illumina l’accostamento che Fusaro fa di questo processo all’avanzare del Nulla che divora il fantastico mondo del famoso film “La storia infinita”», annota Della Luna. Per compiere questa eliminazione, soprattutto nei cosiddetti “gloriosi 30” (i decenni della grande crescita e redistribuzione economica «apparentemente democratica»), il sistema ha sviluppato in modo pianificato «la demolizione della consapevolezza di classe attraverso il consumismo: col quale le classi subalterne hanno assimilato i valori di quelle dominanti e si sono moralmente neutralizzate nonché politicamente castrate».
    Al contempo, ha prodotto la relativizzazione e l’inversione dei valori e delle istituzioni tradizionali, «assieme a un complesso processo di censura e “tabuizzazione del dissenso”, del pensiero diverso (circa le cose che contano, soprattutto degli scopi dell’esistenza) e delle stesse parole che servono per esprimere la critica al capitalismo finanziario». Imperialismo, colonialismo, plutocrazia, conflitto servi-padroni: «Sono vocaboli fondamentali per rappresentarsi le operazioni e le realtà del nostro mondo», in cui le guerre di conquista per il petrolio e le altre risorse, e per l’imposizione del dollaro come moneta obbligata degli scambi di materie prime, «vengono legittimate come esportazione della democrazia, lotta al terrorismo e tutela dei diritti dell’uomo». Parole necessarie, continua Della Luna, e quindi «tolte dalla comunicazione per l’opinione pubblica, e sostituite con altre parole opportunamente scelte». E’ la “neolingua” orwelliana: invertire il significato delle parole, restringere il lessico per ridurre i concetti e produrre così il consenso al sistema. Lo si ottiene, oggi, con il lancio mirato di milioni di email e tweet, nonché «campagne di criminalizzazione, di allarmismo, di ottimismo» dirette a manipolare la mente e il comportamento collettivo, in ambito politico e finanziario.
    «Con quest’arma ci si può liberare di intellettuali dissenzienti e delle loro idee o rivelazioni, come pure di concorrenti commerciali e politici, creando l’apparenza che la società stessa, democraticamente, li condanni o ne diffidi, mentre si tratta dell’attacco di un singolo soggetto, moltiplicato per milioni mediante strumenti tecnologici». Così per tutto. La ricerca scientifica? Vincolata ai finanziamenti del capitalismo privato e del settore militare. Conseguenze: «note e terribili, nei campi sanitario e alimentare». E l’ideologia gender, introdotta sin dal ‘96 anche attraverso l’Ue? «Persino dati di fatto biologici, come la dualità dei sessi, vengono negati e “tabuizzati” in quanto dati di natura, immodificabili, e convertiti in convenzioni-costruzioni volontarie, ossia in prodotti, così da creare il mercato dei trattamenti per sviluppare un gender», ovvero: «Trattamenti ormonali per sospendere la sessuazione nei fanciulli rinviandola a quando potranno scegliere se diventare maschi o femmine», e anche «condizionamenti psicologici per indurre identificazioni e prassi di “gender” divergenti dall’appartenenza sessuale biologica».
    La “destra del capitale” (come la chiama Fusaro), si serve di una censoria “sinistra del costume” (ottusa o mercenaria) che è stata allocata negli spazi e gli organi “culturali” (sovrastruttura) per oscurare, delegittimare, criminalizzare e attaccare, talvolta persino con la violenza fisica, i critici strutturali del modello capitalista, vantandosi “antifascista” «ma di fatto esercitando, in modo tipicamente fascista, la proscrizione e repressione dei critici del sistema, senza confronto nel merito ma semplicemente mediante accuse di immoralità, estremismo, populismo o irrazionalismo, nonché di fake news». Non sempre funziona: le elezioni del 4 marzo 2018 – aggiunge Della Luna – hanno dimostrato che larga parte dell’elettorato ha rigettato la propaganda istituzionale pro-immigrazione e pro-eurocrazia. Nei suoi saggi, l’autore demistifica soprattutto i dogmi fondanti del sistema capitalistico, della sua legittimazione giuridica e del consenso che lo sostiene: scarsità-costosità della moneta, efficienza-esistenza del libero mercato, “virtuosità” della spesa pubblica e della riduzione dei debiti nazionali (mediamente cresciuti, non calati, proprio per effetto del rigore fiscale Ue). «Ma siccome queste sono una credenza protetta, non possono essere messe a confronto col loro fallimento di fatto».
    In grande maggioranza, sostiene Fusaro citando Etienne de la Boétie, la popolazione tende ad adattarsi cognitivamente, moralmente ed emotivamente allo stato di fatto della realtà, ai rapporti di potere effettivi, «perché pensare l’ingiustizia del potere che si subisce rende il subirla più afflittivo e tormentoso, senza apportare vantaggi». In altre parole: meglio non guardarla in faccia, una realtà così orrenda. L’industria culturale del capitalismo finanziario aiuta, eccome, a non aprire gli occhi: agisce «analogamente ma assai più efficacemente di ogni altro totalitarismo precedente, teocratico, comunista o fascista che fosse». Ha costruito e imposto una sua ortodossia, ha fabbricato un consenso, una legittimazione democratico-giuridica. E ha ottenuto che il “logos” dissenziente, cioè la consapevolezza dell’ingiustizia (dell’illogicità e dell’infelicità provocata dal sistema in atto, e della progettabilità di sistemi diversi) possa circolare solo tra pochi intellettuali indipendenti, marginali al potere, senza poter alimentare un movimento politico consistente ed efficace. Quand’anche, aggiunge Della Luna, non si andrebbe oltre qualche piccolo attrito, «perché la capacità repressiva del sistema, col suo apparato mediatico-militare-istituzionale, è immensa».
    Del resto, «la quota di potere reale messa in gioco nelle votazioni popolari è minima». Chi vota, può decidere pochissime cose. Della Luna l’ha spiegato in saggi come “Oligarchia per popoli superflui” e “Oltre l’agonia”: il pensiero unico è pervasivo, fortissimo. «E’ di gran lunga più capace che ogni altro sistema di legare a sé le persone, le aziende, i governi», proprio perché «più di ogni altro sistema produce e distribuisce mezzi monetari», che sono «il motivatore universale», e lo fa «con operazioni contabili che indebitano verso di esso, con interesse composto, le persone, le aziende, i governi (denaro-debito)». E quindi, nel finanziare il corpo sociale – cioè nel dargli volta per volta il denaro di cui questo necessita per funzionare – al contempo lo indebita verso di sé, creandogli la necessità di prendere ulteriore denaro a prestito (il cosiddetto “debito infinito”, i cui leader sono i produttori della moneta, cioè i vertici del sistema finanziario). «E’ un fattore matematico ineliminabile. E questa dipendenza è divenuta non solo economica, nel tempo, ma anche politica». Il vertice finanziario emana le direttive e detta le leggi: è il fondamento del potere politico. L’attività strategica dei “produttori di denaro”, insiste Della Luna, rappresenta «il core business del settore bancario», che opprime le nazioni indebitate.
    «Siamo evidentemente in presenza di un piano politico di lungo termine, ovviamente non dichiarato e non proposto al pubblico dibattito né menzionato o menzionabile nei programmi elettorali dei partiti politici». Per Della Luna, è in corso da decenni «un piano di indebitamento progressivo a fine di potere politico e di esautorazione delle istituzioni pubbliche». Si basa sul fatto che gli utenti del credito (cittadini, aziende, amministratori, politici) si accontentano di risolvere il problema finanziario immediato ottenendo un nuovo finanziamento, senza considerare «l’effetto cumulativo macroeconomico del finanziarsi ripetutamente a credito nel lungo e lunghissimo periodo». Ed è proprio questo l’obiettivo dell’operazione. Il piano «viene nascosto, dai suoi stessi esecutori, dietro i precetti della lotta al debito pubblico, dell’avanzo primario e della “virtuosità” di bilancio – precetti la cui applicazione ha infatti aumentato l’indebitamento pubblico verso la comunità bancaria internazionale, come volevano i loro fautori». Indebitamento che, su scala mondiale, supera i 260.000 miliardi di dollari. In Europa, un muro insormontabile grazie alla moneta unica (Della Luna ne parla in “Cimiteuro”, “Euroschiavi”, “La moneta copernicana”).
    E’ il “social control”, sintetizza Della Luna, il vero obiettivo di fondo dell’oligarchia finanziaria globale. Il profitto monetario? «E’ solo uno strumento», benché formidabile e con volumi mostruosi. Invece, «gestire un mondo in preda a squilibri e conflitti crescenti è molto più impegnativo». Secondo l’analista, questo richiede il passaggio già in corso: «Dalla società finanziarizzata alla società amministrata zootecnicamente». E’ drastico, Della Luna: «All’atto pratico – scrive – lo spazio di libertà degli uomini è sempre stato proporzionale alla loro capacità fisica e mentale di conquistarselo e difenderlo, ossia di resistere alla tendenza a controllarli e sfruttarli da parte del potere costituito». La libertà individuale? Non è altro che «un rapporto tra la forza di controllo dall’alto e quella di resistenza ad essa dal basso». Oggi, conclude, la tecnologia sta moltiplicando la prima rispetto alla seconda. In ogni campo: dalla comunicazione all’elettronica, della biochimica alla manipolazione genetica per via farmacologica. Contiamo sempre meno, saremo sempre più in gabbia. Zootecnia, appunto: «Gli spazi di libertà vanno ad azzerarsi».

    Gigantesco, industrioso, immane. E’ uno dei più cospicui fenomeni del nostro tempo. Marco Della Luna lo chiama: il cantiere del pensiero unico globalizzato. Ci sono committenti, architetti, sacerdoti e guardiani. Rendono prevedibili e pilotabili i comportamenti sociali nel mondo super-accelerato e conflittuale in cui viviamo. Manovrando l’industria culturale (entertainment compreso), il capitalismo finanziario «ha creato un’ortodossia, un pensiero obbligato, mainstream, scientifically correct». Uno strumento che, di qualsiasi cosa parli, «delegittima, isola o criminalizza – cioè praticamente scomunica, espelle dalla società conformata – non solo il pensiero divergente dall’ortodossia, ma la stessa libera indagine scientifica, economica e storiografica». Missione titanica: plasmare la società, cioè noi. Usa la storia e l’economia, l’integrazione europea e l’euro, l’immigrazione e l’Islam, le diversità etniche e l’identità sessuale, e da ultimo «le asserite efficacia e innocuità dei vaccini obbligatori». Su queste cose, sottolinea Della Luna, sono state costruiti “protected beliefs”, credenze protette dal dogma. E guai a chi sgarra: per i trasgressori c’è l’isolamento, la punzione economica, persino il carcere.

  • Fico della Mirandola, l’anima più rivoluzionaria di Grillology

    Scritto il 04/4/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Magari sarà un buon presidente. Magari è un bravo ragazzo. Però uno come Roberto Fico presidente della Camera parte coi peggiori requisiti. Culturali, professionali, politici, ideologici. Uno che come titolo di studio è laureato in canzone neomelodica napoletana, e non nel senso che almeno cantava e si guadagnava da vivere per strada o tra i tavoli del bar passando col piattino; ma, peggio, studiava i cantanti napoletani, studiava la fenomenologia di Mario Merola. Studioso non di Machiavelli o Beccaria ma di Gigi d’Alessio e Nino d’Angelo. Un genio dal sapere enciclopedico. Fico della Mirandola. Uno che fino a quarant’anni, cioè fino a che non vinse la ruota della fortuna coi 5 stelle non aveva arte né parte ma si arrangiava tra hotel, ufficistampa, vendeva tessuti marocchini e roba varia. Uno che rappresenta l’ala più grillina dei grillini, fanatico dell’Ideologia di Grillology. Però, uè, ha rinunciato all’indennità aggiuntiva e all’autoblu, dunque è un eroe e martire della Causa. Ma soprattutto Fico è stato celebrato dai media come uno che rappresenta l’ala sinistra del Movimento. E infatti rimastica il vecchio egualitarismo e l’antico pauperismo, è ovviamente nemico, anche per fatto personale, della meritocrazia; è totalmente appiattito sul politically correct anche in temi bioetici e ha subito sbandierato, insediandosi a Montecitorio, la sua continuità antifascista con la Boldrina.
    Insomma uno che rappresenta non solo il movimentismo extraparlamentare ed extraterrestre dei 5 Stelle in versione radical-pop, ma la sinistra d’asporto, di strada, di rete e di utopia, senza il realismo politico della sinistra più scafata, da Bersani e D’Alema a Minniti. Se questa è la sinistra, a questo punto dateci Marco Rizzo, comunista senza peli e senza indugi. Peggio della sinistra c’è solo la sinistra in formato grillino. Quando si è profilata l’alleanza 5 Stelle-Lega, su “La Repubblica”, Francesco Merlo ha pianto con la caduta della sinistra la fine della cultura al governo. Nella stessa pagina accanto al suo pezzo, figurava la seguente notizia rassicurante: prima di andarsene la sinistra aveva compiuto un atto simbolico e culturale di grande significato, aveva votato alla presidenza del Senato il ministro uscente della pubblica istruzione, Fedeli. Sì proprio lei, quella senza laurea e senza grammatica alla guida della scuola. Se è la firma di chiusura della sinistra di governo è il segno del suo analfabetismo militante. E fa ridere pensare che il fascismo barbaro e ignorante affidò la scuola a Giovanni Gentile e la sinistra colta e civile invece lasciò la scuola alla Fedeli…
    Comunque non si preoccupi, la “Repubblica”, la cultura della Fedeli sarà degnamente continuata dal presidente grillocomunista Fico, così come la grammatica della medesima sarà continuata dal grillomutante Di Maio. Il duo napoletano garantirà un fedele trapasso di consegne. Qual è il filo conduttore culturale tra le due sinistre nel loro viaggio dalla Fedeli a Fico? L’ignoranza è una virtù. È la convinzione egualitaria e sessantottina che l’ignoranza sia sinonimo di purezza, di incontaminata virtù, di vicinanza al popolo versione auditel, ignorantitel. Niente studio, tutto è creatività. Niente mediazioni, tutto è immediato, diretto. Fu quella l’impronta sessantottina della nuova sinistra, dove arroganza e ignoranza fecero rima. Ed è questa l’impronta casaleggesca del grillismo, il buon selvaggio che va al potere, in democrazia diretta, streaming. Vox populi vox reti. Però noi confidiamo nelle sorprese, nelle conversioni, negli imprevisti, perfino in quella legge della storia che i filosofi chiamavano eterogenesi dei fini (ossia accade che alcune intenzioni di partenza vengano poi deviate nelle loro realizzazioni e diano luogo a esiti diversi se non capovolti). Chissà che il Fico non maturi.
    (Marcello Veneziani, “Fico della Mirandola”, da “Il Tempo” del 27 marzo 2018, articolo ripreso dal blog di Veneziani).

    Magari sarà un buon presidente. Magari è un bravo ragazzo. Però uno come Roberto Fico presidente della Camera parte coi peggiori requisiti. Culturali, professionali, politici, ideologici. Uno che come titolo di studio è laureato in canzone neomelodica napoletana, e non nel senso che almeno cantava e si guadagnava da vivere per strada o tra i tavoli del bar passando col piattino; ma, peggio, studiava i cantanti napoletani, studiava la fenomenologia di Mario Merola. Studioso non di Machiavelli o Beccaria ma di Gigi d’Alessio e Nino d’Angelo. Un genio dal sapere enciclopedico. Fico della Mirandola. Uno che fino a quarant’anni, cioè fino a che non vinse la ruota della fortuna coi 5 stelle non aveva arte né parte ma si arrangiava tra hotel, ufficistampa, vendeva tessuti marocchini e roba varia. Uno che rappresenta l’ala più grillina dei grillini, fanatico dell’Ideologia di Grillology. Però, uè, ha rinunciato all’indennità aggiuntiva e all’autoblu, dunque è un eroe e martire della Causa. Ma soprattutto Fico è stato celebrato dai media come uno che rappresenta l’ala sinistra del Movimento. E infatti rimastica il vecchio egualitarismo e l’antico pauperismo, è ovviamente nemico, anche per fatto personale, della meritocrazia; è totalmente appiattito sul politically correct anche in temi bioetici e ha subito sbandierato, insediandosi a Montecitorio, la sua continuità antifascista con la Boldrina.

  • Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo

    Scritto il 02/4/18 • nella Categoria: idee • (2)

    Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
    La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.
    C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.
    Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.
    Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.
    E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.
    E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.
    Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?
    (Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).

    Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.

  • Non basta uscire da Facebook, va chiusa anche WhatsApp

    Scritto il 29/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (47)

    Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.
    Il patron di Facebook, Mark Zuckerberg, ha detto al “New York Times” di non ritenere che ci sia stato un numero significativo di abbandoni di Facebook. Molti siti, aggiunge “La Stampa” hanno intanto spiegato che, in realtà, cancellare il proprio account non è sufficiente per smettere di fornire dati al social network. La canadese “Ctv News” ricorda (pubblicando il contenuto anche su Facebook) che la società di Zuckerberg ha acquisito Instagram nel 2012 e poi i sistemi di messaggistica Cros e Whatsapp, nonché la società per lo sviluppo di realtà virtuale OculusVr e lo stesso Tbh, il social network usato soprattutto dai più giovani. L’amara soerpresa? «I termini per l’uso dei dati e la privacy di queste società permettono lo scambio di dati con Fb», scrive Magliocco. «La società di Zuckerberg, quindi, continuerebbe a raccogliere informazioni sulle persone attraverso queste altre app, se non vengono anch’esse abbandonate». E non è tutto: pure utilizzare il proprio account di Facebook per risparmiare tempo quando ci si iscrive ad altre applicazioni, come Airbnb, «probabilmente mette in collegamento i dati registrati da queste app con il social network». Se si vuole sapere quali siano queste applicazioni “contagiose” si può accedere al loro elenco attraverso il menù “impostazioni”.
    Inoltre, come ha dimostrato proprio il caso di Cambridge Analytica, i dati possono essere raccolti anche attraverso il collegamento con gli altri, aggiunge la “Stampa”: «Per essere certi che le proprie informazioni siano al sicuro non bisognerebbe essere in contatto con altre persone attraverso applicazioni che, nelle impostazioni usate da queste persone, siano potenzialmente collegate con Facebook». Ma ci vuol altro, per scoraggiare gli utenti di Facebook – ormai 2 miliardi, in tutto il mondo. Il quotidiano torinese cita lo psicanalista Aaron Balick, autore del libro “The Psychodynamics of Social Networking”, intervistato dall’edizione britannica di “Wired”. Per Balick, il problema nel lasciare Facebook sarebbe soprattutto di ordine psicologico: la preoccupazione per la propria privacy non supererebbe ancora la comodità di mantenere rapporti attraverso il social network, perché «a questo punto Facebook è integrato nelle nostre vite di relazione». Come dire: sappiamo di essere in trappola, ma ci restiamo tranquillamente. E pazienza se ogni nostro sospiro viene schedato e tradotto in numeri, a beneficio del marketing o del controllo politico.

    Non è così facile “mollare” Facebook e la sua rete di collegamenti: per uscire dal “radar” del più vasto social network al mondo, infatti, non basta cancellare il proprio profilo. Lo spiega Paolo Magliocco sulla “Stampa”, pensando soprattutto all’esodo di massa che sarebbe in corso: molti utenti sono infatti intenzionati ad abbandonare la piattaforma digitale più diffusa sul pianeta, dopo lo scandalo Cambridge Analytica: i dati di 50 milioni di statunitensi registrati da Facebook sono stati poi utilizzati da una società privata per la campagna elettorale presidenziale del 2016 ch ha incoronato Donald Trump. L’accusa: trasferendo i Big Data, Facebook ha consentito agli uomini reclutati da Steve Bannon di conoscere in anticipo l’orientamento elettorale di milioni di americani, “leggendo” alla perfezione anche il loro profilo psicologico, le loro abitudini, le loro intenzioni e forse anche i loro pensieri più reconditi, neppure ancora espressi. Alcuni utenti di Facebook adesso «hanno scoperto che i dati conservati dal social network sono molto più ampi di quanto immaginato». Dati che infatti «comprendono il registro di telefonate e messaggi di ogni genere, da Messenger a Whatsapp e agli Sms». Il movimento “#deletefacebook” ha raccolto adesioni di persone note, come la cantante Cher, l’industriale Elon Musk (proprietario di Tesla e SpaceX) e il cofondatore di Whatsapp, Brian Acton.

  • Magaldi: cari Di Maio e Salvini, tocca a voi sfidare Bruxelles

    Scritto il 27/3/18 • nella Categoria: idee • (10)

    Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».
    Di Maio e Salvini potrebbero imboccare «una strada coraggiosa, coerente con quello che gli elettori hanno loro chiesto». Ovvero: «Tener ferme certe posizioni rispetto ai gestori di questa Unione Europea e di questa Eurozona». Attenzione: sarebbe davvero un’impresa «titanica, eroica», contro la quale infatti «si stanno già muovendo molte forze per sterilizzare qualunque istanza innovativa». Se Lega e 5 Stelle terranno duro, dice Magaldi, il Movimento Roosevelt (da lui presieduto, con accanto un economista come Nino Galloni) è pronto a fornire supporto, in termini di risorse, idee e know-how. Il punto centrale, ovviamente, è proprio «la volontà politica di inaugurare un nuovo corso». Si può sperare che accada davvero qualcosa di buono? Magaldi “promuove” a pieni voti l’economista Alberto Bagnai, candidato dalla Lega: «Credo sia una delle persone migliori elette in questo Parlamento. E’ vero, aveva profetizzato il crollo dell’Eurozona (che non è crollata), forse mancandogli una completa visione delle forze politiche e metapolitiche, palesi e occulte, che fanno in modo che l’Eurozona perduri, al di là del fallimento economico ben evidenziato da Bagnai». In ogni caso, il professore «è un eccellente post-keynesiano: ha una visione lucida, sa bene in cosa va criticata l’Eurozona e sa demistificare i dogmatismi che hanno puntellato il paradigma neoliberista nella versione europeista, quindi sarebbe senz’altro un eccellente ministro».
    Magaldi propone un approccio laico e pragmatico, per non sprecare l’esito delle urne e le grandi aspettative espresse dagli elettori. Uno sguardo disincantato, a cominciare dalle nuove presidenze di Camera e Senato. «Un affronto a Berlusconi, la nuova presidenza del Senato? Errore: la Casellati era stata individuata da tempo, ben prima che scoppiasse la pantomima dello scontro con Salvini», rivela Magaldi. «Come al solito, nel “back office” si decidono cose che poi vengono rappresentate in termini teatrali, a beneficio dell’opinione pubblica. L’elezione della Casellati non crea la minima difficoltà a Berlusconi, che ha invece iniziato a mettere “a riposo” alcuni personaggi ormai inadeguati». Elisabetta Casellati è una berlusconiana di ferro, «probabimente anche più gestibile di Paolo Romani». Tutt’altro che sconfitto, il Cavaliere: «Da tempo Forza Italia vuole ringiovanire i testimonial e puntare sulle donne». Le dichiarazioni a caldo contro Salvini? «Solo teatro». La neoeletta, in realtà, era la vera candidata fin dall’inizio. «Credo che gestirà il Senato senza infamia né lode. Del resto il suo predecessore è stato Grasso: non è che queste cariche trasformino i ronzini in purosangue. Semmai – insiste Magaldi – in questo asse tra 5 Stelle e Lega che ha portato all’elezione di Casellati e Fico c’è una chance: declinare un paradigma diverso, nel rapporto con l’Europa e l’economia, riguardo al benessere di milioni di italiani. Vedremo».
    Certo, «Berlusconi gioca su più tavoli, come al solito». E nel teatrino inscenato dopo la bocciatura di Romani, ampiamente prevista, è riuscito a dire tutto e il contrario di tutto, nel giro di 24 ore. Il Cavaliere «non vuole il “partito unico” del centrodestra, che ormai sarebbe egemonizzato dalla Lega, e adesso giura di fidarsi di Salvini, a cui lascia semmai l’onere del tradimento dell’alleanza». Ma non è neppure quello, il problema: il vero scoglio, per Magaldi, è la disponibilità del Movimento 5 Stelle a convivere con un Berlusconi ancora abbastanza “visibile”, nell’eventuale intesa governativa con il centrodestra. Quanto ai grandi vecchi, l’ultimo passaggio parlamentare ha regalato l’ennesimo minuto di gloria mediatica all’ineffabile Napolitano. «Ha avuto la responsabilità degli ultimi (pessimi) governi italiani, e l’ha scaricata sugli altri – come se lui fosse stato nell’Empireo – ergendosi come al solito ad accusatore che punta il dito, con atteggiamento ierocratico. Ineffabilità e, come al solito, indisponibilità all’autocritica, pur con l’amarezza di aver sbagliato anche lui le previsioni sull’esito delle sue manovre degli anni scorsi».
    Napolitano? «Un avversario, di cui non condivido nulla», dice Magaldi. «Gli riconosco una grande capacità di durata: è un uomo che ha vissuto sempre per il potere, che ha cambiato mille volte ideologia apparendo sempre granitico nel sostenere le idee che, di volta in volta, cambiava». Gli si può augurare lunga vita, «se non altro per meditare sui suoi tanti errori, sulla sua incorenza e sulle conseguenze così negative, per l’Italia, che il suo operato ha prodotto». Desta comunque ammirazione, aggiunge Magaldi, la sua capacità di stare in scena: «E’ un altro grande teatrante, al pari di Berlusconi. Dietro il teatro, però, c’è una sostanza spregiudicata e indifferente al copione – purché, appunto, ci sia la scena». L’ultima partita persa da Napolitano probabimente si chiama Matteo Renzi: è il vero, grande perdente del 4 marzo. «Si è sconfitto da solo, in modo stolto, con una vocazione al “cupio dissolvi” sin dai tempi del referendum costituzionale: la sua strampalata coerenza non aveva contenuti tali da passare alla storia. E anche dopo – aggiunge Magaldi – ha continuato a insistere su una narrazione astratta, non realistica, del tipo “va tutto bene, madama la marchesa”. E’ stato vittima di se stesso: convinto di aver ben governato, pensava che il popolo italiano avrebbe dovuto riconoscerlo».
    Certo, i 5 Stelle e la Lega hanno saputo senz’altro convincere un elettorato mobile, che prima aveva creduto nella narrativa renziana. Uno tsunami da cui lo stesso Berlusconi esce fortemente ridimensionato, come “capostipite” dell’infelice Seconda Repubblica, il cui ultimo epigono è stato proprio Renzi. «Con la differenza che Berlusconi ha sette vite (come i gatti) e quindi potrà ancora recitare un ruolo, mentre Renzi subirà un’inevitabile resa dei conti nel Pd». E anche adesso, invece di fare autocritica ammettendo i propri errori, «si propone dinnanzi a tutti come una sorta di bambino malmostoso che si porta via il pallone perché gli hanno segnato troppi goal». Oggi il Pd è fuori gioco «per colpa di Renzi, accecato dalla sventura che lui stesso ha prodotto per insipienza e arroganza». Per dire: poteva giocare di sponda, fin dall’inizio, coi 5 Stelle. E invece manca un leader, nel Pd sequestrato da Renzi, che si è circondato di mezze calzette: «Renzi ha eliminato dei catafalchi, ed è stato il suo unico merito: i “rottamati” erano anche peggio di lui, pur avendo almeno una fisionomia politica». Non resta che il deserto, per ora: «Nessuno in vista, a quanto pare, che sia capace di ergersi sugli altri e tentare una rotta diversa».
    Un naufragio, quello del centrosinistra, che coinvolge anche i sindacati: «Anacronistica la battaglia sull’articolo 18, che tutela solo chi già lavora». La sfida, oggi, sta nel creare lavoro per chi non ce l’ha: e lo si può fare, insiste Magaldi, costituzionalizzando il diritto al lavoro. «In un mondo che non ha mai prodotto tanta ricchezza come oggi, e che però la gestisce malissimo (mai come oggi è grande il divario tra i pochi ricchi e i moltissimi cittadini in difficoltà economiche) si può tranquillamente rendere costituzionale il diritto al lavoro». Il reddito di cittadinanza? «Una misura che in Italia che si può adottare». Ma il cittadino italiano, aggiunge Magaldi, «deve nascere con il diritto a poter lavorare in base alle proprie capacità». Come? «Bisogna istituire un’alta autorità per la piena occupazione, che in base alla formazione e al talento dirotti i futuri lavoratori in ambito pubblico o privato: nessuno può essere lasciato senza un lavoro». Magaldi ci crede: «Sarebbe una misura rivoluzionaria e al tempo stesso social-liberale, coerente con l’economia di mercato, capace di assicurare prosperità al sistema nel suo complesso». Ottimismo: «Prima o poi vinceremo», scommette Magaldi, che pensa al nuovo partito democratico-progressista, il Pdp, da mettere in campo per fare forza al “cambio di paradigma” a cui già il prossimo governo potrebbe inziare a dare corso, se Di Maio e Salvini avranno il coraggio di non piegarsi agli oligarchi dell’Unione Europea.

    Mettete Keynes nei vostri cannoni (politici), e avrete «posti di lavoro, pace sociale e una vastissima platea di consumatori». Si chiama “piena occupazione”: vale più del reddito di cittadinanza o della Flat Tax. Primo passo: inserire il diritto al lavoro nella Costituzione. Obiettivo: non lasciare più a casa nessuno. Un appunto, che Gioele Magaldi segnala ai vincitori del 4 marzo. A proposito: ma perché Salvini e Di Maio non ci dovrebbero provare, a formare un governo? «Se la giochino fino in fondo, la partita: hanno vinto loro. Lo stesso Berlusconi è del tutto propenso a far parte del gioco: non ha mai detto di volersene stare sull’Aventino, come invece il suo amico (e falso nemico) Renzi». Semmai è il Movimento 5 Stelle che ha un po’ paura di lasciarsi contaminare da quello che Beppe Grillo chiamava “lo psiconano”, ma lo stesso Grillo ora ha iniziato a elogiare Salvini. «E’ un incontro politico legittimo e auspicabile, quello tra Lega e 5 Stelle, insieme a chiunque altro ci stia – purché serva a prendere decisioni concrete e urgenti». Per Magaldi, ai microfoni di “Colors Radio”, siamo davanti a un bivio: «Più che i nomi del premier e dei ministri, bisognerà osservare molto bene il programma operativo, gli atti concreti del futuro governo. Bisogna dimostrare subito, al popolo sovrano, che si ha intenzione di cambiare qualcosa».

  • Francesi contro Macron, Sarkozy (e attentati) per distrarli

    Scritto il 27/3/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.
    È un regime, quello macronista, simile alle presidenze di Georges Pompidou e di Valéry Giscard d’Estaing (cui si deve la legge del 1973 che separò il Tesoro dalla Banca di Francia, con effetti simili a quelli prodotti in Italia con l’analogo provvedimento di Beniamino Andreatta) o al regno di François Mitterrand (cui si devono le grandi privatizzazioni di fine anni ‘80 ed il nulla osta alla nascita dell’euro): è il regime dell’alta finanza parigina, dei Rothschild, dei ricchi notabili cosmopoliti. Creato dal nulla pochi mesi prima delle elezioni, “En Marche” è studiato per subentrare ai socialisti di François Hollande, ormai esausto dopo cinque anni all’Eliseo: a colpi di scandali mediatico-giudiziari (l’eliminazione di François Fillon) e di demonizzazione degli avversari (la minaccia “nera” di Marine Le Pen), Macron è fortunosamente paracadutato ai vertici della Francia, perché portanti avanti “le riforme” di cui la Francia ha bisogno. Sono le classiche ricette di svalutazione interna, con cui la Francia deve smettere di “vivere al di sopra delle proprie possibilità” (si veda la voragine nella bilancia commerciale), cosicché possa rimanere agganciata alla Germania e all’euro-marco.
    È un compito titanico perché, come testimoniano i diversi andamenti del debito pubblico (esploso in Francia dopo l’introduzione dell’euro e oramai vicino al 100% del Pil, sotto il 70% in Germania e in calo da anni) e i diversi tassi di disoccupazione (9% contro 3,5%2) il motore franco-tedesco è sbiellato. Ciononostante, il giovane e ambizioso Macron si cimenta nell’impresa, prendendo ovviamente di mira la bestia più odiata dagli ambienti dell’alta finanza: lo Stato, che irradiandosi da Parigi all’ultimo dei dipartimenti, rappresenta l’orgoglio della Francia sin dai tempi di Luigi XIV. È lo Stato che con le partecipazioni statali consente di presidiare tutti settori strategici dell’economia, che consente alla Francia di avere il più alto tasso di fecondità d’Europa grazie ai generosi servizi elargiti alle famiglie, che garantisce opportunità di lavoro anche nelle zone più disagiate. Contro questo «kombinat tecnico-burocratico», che per l’“Huffington Post” «assorbe il 57% del Pil, della ricchezza nazionale» (che “assorbe” e non “produce”, si noti), l’ex-banchiere della Rothschild & Cie promette di agire con sega e bisturi: 120.000 licenziati tra i dipendenti pubblici in cinque anni, blocco degli stipendi, sospensione del turnover, lotta ai “regimi speciali” di cui godono una trentina di categorie di lavoratori pubblici.
    La lotta ai “privilegiati dello Stato”, in particolare, porta Macron in rotta di collisione con il potente sindacato dei ferrovieri, quei “cheminots” che possono vantare un regime previdenziale molto generoso (età pensionabile a 52 anni, contro i 62 delle altre categorie) e che garantiscano ogni anno lo spostamento di 1,4 miliardi di persone. Attaccare il sindacato dei ferrovieri significa correre il rischio di paralizzare letteralmente la Francia, isolando Parigi dal resto del paese e le comunicazioni dentro la stessa Île-de-France. Il 22 marzo, Macron affronta così la prima prova di piazza: dipendenti di ferrovie, scuole, ospedali e aeroporti incrociano le braccia. Si tratta peraltro soltanto di un “avvertimento”, perché lo sciopero dei ferrovieri si estenderà da inizio aprile a fine giugno, al ritmo di due giorni di sciopero ogni cinque. Si prospetta quindi una primavera bollente per il regime macronista, che guarda con terrore il saldarsi delle diverse proteste (Sncf, Air France, sanità, educazione pubblica, etc.): come nel caso di Hollande, la stagione degli scioperi rischia di affondare una presidenza già oggi compromessa, che raccoglie il giudizio negativo della maggioranza dei francesi (57% di insoddisfatti secondo un recente sondaggio).
    Dopo Macron, è però quasi impossibile che l’establishment francese riesca a trovare un candidato per frenare l’onda nazional-populista: il suo quinquennio è l’ultima occasione per attuare con successo quelle riforme indispensabili per tenere la Francia al passo con la Germania. Tutto deve essere fatto per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalla manifestazioni di piazza e dalle montanti tensioni sociali: come la Francia ha eletto Macron in pieno “stato d’emergenza”, così è facile il paese, man mano che il regime macronista incontra resistenza, precipiti di nuovo in quella condizione. Il primo a essere immolato è stato Nicolas Sarkozy: il 20 marzo, due giorni prima del “giovedì nero” dei trasporti, la stampa annuncia che l’ex-presidente della Repubblica è in stato di fermo, sottoposto a interrogatorio per i finanziamenti illeciti ricevuti da Muammar Gheddafi per la campagna elettorale del 2007. Nonostante ci siano pochi dubbi sull’effettiva ricezione dei fondi e sulla bassezza morale di Sarkozy, mandante dell’omicidio del rais libico (ucciso da agenti francesi), è ormai chiaro che “l’affare libico”, aperto dalla magistratura nel 2013, torna a galla quando è più comodo all’establishment: successe così nell’autunno 20178, alla vigilia delle primarie del centrodestra, e succede così nel marzo 2018.
    L’annuncio sulla messa sotto indagine dell’ex-presidente della Repubblica è dato alla vigilia dello sciopero del 22 marzo e consente, così, di calamitare l’attenzione dei media lontano dalla mobilitazione dei sindacati. Più grave e sfacciato ancora è l’immediato rigurgito del terrorismo “islamico” che, dalla strage di Charlie Hebdo in avanti, ha accompagnato la declinante presidenza di Hollande sino a culminare con la mattanza del Bataclan e la proclamazione dello stato d’emergenza: non trascorrono neppure 24 ore dalla conclusione delle grandi manifestazioni sindacali che l’Isis, “dormiente” per buona parte del 2017, torna a colpire la Francia. Un 26enne di origine marocchina, già noto ai servizi e schedato per radicalizzazione, ruba una macchina, ferendo il conducente e uccidendo un passeggero, colpisce alcuni agenti e si barrica in supermercato di Trèbes, sud-est della Francia, dove uccide altre due persone prima di essere liquidato dalle teste di cuoio. Macron è avvisato della situazione davanti alla telecamere, quando si trova a fianco di Angela Merkel per la conferenza congiunta al termine del Consiglio Europeo.
    Si rifà viva anche la solita Rita Katz, che non si dice sorpresa perché, dopo la bonaccia del 2017, c’erano segnali di una ripresa di attività dell’Isis: è sufficiente infatti che i servizi occidentali liberino qualche terrorista allevato ad hoc. Se per l’Italia sono in serbo altri piani (un governo M5S, l’ultimo saccheggio dei risparmi pubblici e dei beni statali, l’uscita caotica dall’euro ed un possibile default), nel caso francese c’è, invece, la volontà di tenere Parigi agganciata a Berlino: ecco perché, man mano che il regime macronista procede con “le riforme”, affondando parallelamente negli indici di gradimento, è pressoché certo che si assista ad una nuova recrudescenza del terrorismo, distogliendo l’attenzione dell’opinione pubblica dalle tensioni sociali in rapido aumento. Allo scellerato Sarkozy si può rinfacciare tutto, ma bisogna riconoscergli di aver azzeccato almeno una previsione: «Ça va très mal finir».
    (Federico Dezzani, “Francia, il regime macronista alla prova della piazza”, dal blog di Dezzani del 23 marzo 2018).

    Con una certa lungimiranza, nell’ottobre 2017, Nicolas Sarkozy aveva già lanciato un monito al neo-inquilino dell’Eliseo: «Ça va très mal finir». Finirà molto male, notava pessimista l’ex-presidente della Repubblica, perché Emmanuel Macron è sconnesso dal paese, rappresenta soltanto l’élite del denaro, è sordo alle grida che si alzano dalla società in ebollizione. C’è rischio di una «éruption politique». Ciò che Sarkò ignorava è che lui stesso sarebbe finito male, dato in pasto alla magistratura e all’opinione pubblica, proprio per distogliere le attenzioni dalle crescenti difficoltà che sta incontrando la presidenza Macron. Appena conosciuto l’esito delle elezioni francesi, nel maggio dello scorso anno, avevamo anticipato l’evoluzione della presidenza di Macron, dall’alto dell’esperienza maturata in Italia: forti erano, infatti, le analogie tra la stella di “En Marche” e l’ex-presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi. Entrambi giovani, entrambi “rottamatori”, entrambi “modernizzatori”, entrambi dotati di un illimitato capitale politico appena entrati nella stanza dei bottoni: come Renzi l’aveva dilapidato in mille giorni, impiccandosi al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, così, dicevamo, sarebbe successo a Macron. Quanto sta accadendo in Francia sembra confermare le nostre previsioni.

  • Uranio e vaccini, 7.000 i militari malati (più 1000 già morti)

    Scritto il 26/3/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Linfomi e leucemie: è salito a 7.000 il numero dei militari italiani colpiti da tumori e patologie degenerative, mentre i soldati già morti sono diventati un migliaio, nel 2017. Una strage silenziosa, che colpisce le nostre forze armate: sono oltre 400 i soli marinai colpiti da mesotelioma pleurico, il cancro provocato dal contatto con l’amianto, mentre a trasformare un ragazzo nel fiore degli anni in un malato grave, spesso terminale, sono l’uranio impoverito e altri materiali letali presenti negli armamenti (e nei poligoni di addestramento) insieme alla somministrazione approssimativa di troppi vaccini, spesso inoculati senza adeguate precauzioni. Lo afferma Ivan Catalano, vicepresidente della commissione difesa guidata da Gian Pietro Scanu, protagonista a febbraio di una clamorosa denuncia ampiamente silenziata dai media: il clima della campagna elettorale ha “imposto” il quasi-silenzio sul dramma dei militari italiani, a maggior ragione (dopo il decreto Lorenzin) su quelli colpiti da patologie che la commissione non esclude siano correlate con la somministrazione inappropriata dei vaccini. Risultato: migliaia di militari nei guai, insieme alle loro famiglie. «All’angoscia per la salute del congiunto si somma la sua solitudine di fronte allo Stato, che rifiuta di riconoscere il problema: così, ai soldati ammalatisi “per cause di servizio” non viene assicurato il trattamento speciale, assistenziale e previdenziale, cui avrebbero pieno diritto».
    Inutili le pressioni esercitate sull’allora ministro della difesa Roberta Pinotti, alla quale la commissione ha chiesto di fermare l’azione della potentissima avvocatura dello Stato: «Comprensibile che gli avvocati governativi (che dispongono di un budget illimitato) trovino ogni mezzo per evitare esborsi, ma non è giusto che un militare colpito da malattie “professionali” così gravi non venga riconosciuto come vittima da tutelare e risarcire», afferma Catalano, in un incontro pubblico promosso a Torino dal Movimento Roosevelt. «Abbiamo vagliato casi-limite particolarmente eloquenti: sono stati bollati come “renitenti” anche quei giovani ammalatisi improvvisamente, ragazzi che in pochi mesi hanno perso 20-30 chili di peso». Sono in gioco diritti fondamentali, «ed è assurdo che i nostri militari siano considerati cittadini di serie B». Nel settore difesa non esiste terzietà né possibilità di contraddittorio, sono militari anche i sanitari e le commissioni preposte a vagliare i singoli casi. «Chiediamo invece che i vaccini vengano somministrati ai militari dalle autorità sanitarie civili: solo nel caso dei carabinieri – afferma Catalano – abbiamo verificato che le vaccinazioni sono correttamente tracciate, mentre nelle altre forze armate non è sempre possibile risalire alla storia vaccinale del singolo militare, col rischio (non infrequente) che allo stesso soldato vengano inoculate più volte le medesime vaccinazioni, spesso senza precauzioni e magari alla vigilia di missioni all’estero, senza cioè il tempo materiale di verificarne le eventuali reazioni avverse, sul piano della salute».
    Proteggere i nostri militari: un impegno per il quale Catalano (eletto nei 5 Stelle, poi passato al gruppo misto) si è battuto come un leone, insieme ai colleghi della commissione difesa: «Tutto inutile, però: non siamo riusciti a ottenere un’apposita legge, né a far inserire nell’ultima finanziaria l’emendamento su “tutela assistenziale, previdenziale e sicurezza sul lavoro del personale militare”». Obiettivo: estendere anche ai soldati e alle forze di polizia le norme “salvavita” (infortuni sul lavoro e malattie professionali) che tutelano i lavoratori civili. «Un militare in missione sa perfettamente di essere in pericolo: fa parte del gioco, a patto che la minaccia provenga da un soggetto ostile, da un terrorista. Non è accettabile che soldati, avieri e marinai italiani rischino di veder pregiudicata per sempre la loro salute, a vent’anni, dal contatto improprio con armamenti “sporchi” o da vaccinazioni somministrate in modo inadeguato». In 8 casi su 10, poi, per andare incontro a rischi mortali non c’è bisogno di partire per l’Afghanistan: il “fuoco amico” è nettamente più pericoloso delle pallottole dei Talebani. E’ notoriamente scandaloso l’inquinamento permanente di poligoni di artiglieria come quelli del Salto di Quirra e di Capo Teulada in Sardegna. I soldati operano su terreni non bonificati, sui quali cadono migliaia di missili. «Il Movimento Roosevelt nasce per tutelare i diritti dell’uomo», ricorda Patrizia Scanu: «Tra questi, rientrano certamente anche quelli dei nostri militari, non adeguatamente riconosciuti, nonostante l’enorme lavoro di Ivan Calatano e degli altri parlamentari della commissione difesa. Un impegno, il loro, che provvederemo a ricordare al nuovo Parlamento: l’Italia deve assolutamente arrivare a tutelare nel modo migliore i suoi militari».

    Linfomi e leucemie: è salito a 7.000 il numero dei militari italiani colpiti da tumori e patologie degenerative, mentre i soldati già morti sono diventati un migliaio, nel 2017. Una strage silenziosa, che colpisce le nostre forze armate: sono 570 i soli marinai colpiti da mesotelioma pleurico, il cancro provocato dal contatto con l’amianto, mentre a trasformare un ragazzo nel fiore degli anni in un malato grave, spesso terminale, sono l’uranio impoverito e altri materiali letali presenti negli armamenti (e nei poligoni di addestramento) insieme alla somministrazione approssimativa di troppi vaccini, spesso inoculati senza adeguate precauzioni. Lo afferma Ivan Catalano, vicepresidente della commissione difesa guidata da Gian Pietro Scanu, protagonista a febbraio di una clamorosa denuncia ampiamente silenziata dai media: il clima della campagna elettorale ha “imposto” il quasi-silenzio sul dramma dei militari italiani, a maggior ragione (dopo il decreto Lorenzin) su quelli colpiti da patologie che la commissione non esclude siano correlate con la somministrazione inappropriata dei vaccini. Risultato: migliaia di militari nei guai, insieme alle loro famiglie. «All’angoscia per la salute del congiunto si somma la sua solitudine di fronte allo Stato, che rifiuta di riconoscere il problema: così, ai soldati ammalatisi “per cause di servizio” non viene assicurato il trattamento cui avrebbero pieno diritto, anche in termini previdenziali».

  • Giovani in fuga da Facebook, al riparo dai genitori guardoni

    Scritto il 25/3/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.
    In Facebook si possono fare tutte le cose di Instagram e molte di più. Su Fb puoi mettere video e musica, mentre su Instagram hai pochi secondi di sintesi che ti lasciano più insoddisfatto di Donald Trump al cospetto di Putin. Su Fb puoi fare dialoghi così lunghi e articolati che metterebbero in imbarazzo Platone. Su Fb veicoli immagini di tutte le dimensioni, mentre su Instagram occorre accontentarsi dei miseri pixel offerti dagli smartphone, con relativi ritagli. Insomma, non ha alcun senso usare Instagram, bastava che Zuckerberg si adoperasse un attimo per ottimizzare meglio Fb ai telefonini 2.0 e il gioco era fatto. Invece, l’informatico di Harvard ha preferito comprarsi tutto il pacchetto di Instagram. Aveva forse intuito che i “ciòfani” sarebbero transitati in massa sul nuovo social? E comunque, perchè lo fanno? Il motivo me l’han fatto capire mia figlia dodicenne e una studentessa, che alzano il sopracciglio ad ogni mio post con aria compassionevole. E proprio mi sorprendo di non averlo capito prima. Fuggono da noi! Fuggono dagli “adulti” e dalla loro smania di sembrare giovani. Fuggono dai discorsi politici e dalle polemiche infinite dei thread. Fuggono da adulti guardoni, sempre fuori sincrono e impacciati con le nuove tecnologie, anche se fingono di saperla lunga. Fuggono dal controllo.
    La grande fuga è iniziata già da qualche tempo, ma nel 2018 è destinata ad aumentare in modo clamoroso. Le ragioni dunque sono social-familiari. La prima è che su Fb, o anche su Twitter, ci sono tanti genitori che “spiano”. In questi ultimi mesi, e proprio come ha fatto il sottoscritto senza averci pensato, gli adulti stanno arrivando anche su Instagram e i ragazzi non a caso hanno aperto anche dei nuovi profili Snapchat (un social ancora più “evanescente” di Instagram). Non mi stupirei affatto se, continuando così, le nuove generazioni transitassero armi e bagagli nel Deep Web, l’Internet oscuro e demoniaco dove trovi anche i kalashnikov in vendita e dove preti e puttanieri si scambiano i ruoli. La verità è che i ragazzi fanno benissimo e che noi adulti dobbiamo piantarla. Siamo decisamente più ridicoli e patetici dei nostri vecchi quando facevano la loro comparsata in discoteca alle undici di sera fingendo di bersi un bicchiere al bar. Dobbiamo invecchiare, farci crescere la barba, andare a caccia, comprarci l’Ape, fare la legna e toglierci dalle palle. Però comincate voi che mi leggete; io infatti orami sono un influenzzzer, guru, blogger e tutto il repertorio.
    (Massimo Bordin, “Fuga da Facebook”, dal blog “Micidial” del 12 marzo 2018).

    Siccome voglio fare l’influenzzzzer, anzi il guru, anzi il playboy, mi sono iscritto a Instagram! Sì, proprio il social che va per la maggiore tra i “ciòfani” e che agevola le pratiche onanistiche anche delle persone più anziane. «Non posso non esserci», mi sono detto. Anche se Instagram mi sembra più una Bibbia mediatica per segaioli impenitenti, così come all’inizio non mi piaceva Facebook, mi farò andare bene anche Instagram. Non possiamo sottrarci alle novità tecnologiche, fare i luddisti e spaccare le macchine con la clava. Non possiamo tirarci fuori. Ebbene, frequentando il “nuovo” social, mi sono subito accorto di una cosa: tutti i ragazzi che fino a 5 anni fa erano su Facebook, ora sono su Instagram e “fanno finta” di essere ancora presenti nel vecchio social. I loro profili Fb sono morti come Emma Bonino dopo le elezioni del 4 marzo. I loro ultimi commenti risalgono alla terza guerra punica. Su Instagram, invece, pullulano le stories (minchiate galattiche ove fano vedere video di 4 secondi dove fanno versi) e foto ritoccate all’inverosimile che farebbero sembrare figa anche Rosy Bindi. Eppure, diciamocelo chiaro: Instagram non arriva neanche ai garretti di Facebook.

  • Attacco alla medicina naturale, criminalizzata come devianza

    Scritto il 25/3/18 • nella Categoria: idee • (2)

    In questi ultimi tempi stiamo assistendo ad una vera e propria guerra tra la medicina naturale, o naturopatia, e la medicina tradizionale. Una guerra senza esclusione di colpi, che vede da una parte indagati o radiati medici non in linea con le linee del sistema (pensiamo al recente caso di Stefano Montanari, o a quello di Paolo Rege Gianas), dall’altra comportamenti e dichiarazione assurde (come quella di Nadia Toffa, che ha dichiarato di essere guarita in pochi mesi da un tumore grazie alla chemioterapia, e che – improvvisatasi esperta di medicina – ha fatto un invito pubblico a curarsi solo con radio e chemio affermando siano le sole cure possibili). E’ di queste ore la notizia dell’arresto di Mario Pianesi, considerato il guru della macrobiotica in Italia (fondatore di un vero e proprio impero macrobiotico, con circa 100 ristoranti che dipendono dalla sua associazione), accusato di associazione a delinquere finalizzato alla riduzione in schiavitù e evasione fiscale. Non scenderò nei contenuti dell’inchiesta, perché non conosco i particolari della vicenda (anche se, per la notorietà internazionale dell’indagato, che era ricevuto in privato dal Papa, era invitato a eventi del Rotary locale, e aveva riconoscimenti internazionali un po’ ovunque – aveva anche ricevuto una laurea honoris causa dall’università della Mongolia – propenderei per uno scontro tra poteri a livelli piuttosto alti).
    Mi limiterò a vagliare le dichiarazioni dei quotidiani, per far vedere come, dietro a questa vicenda, si cela comunque anche – perlomeno da parte della stampa – un attacco alla medicina naturale. Iniziando all’Ansa, che ha dato la notizia stamattina: “Smantellata la setta macrobiotica”. Come foto compariva una riunione di persone col cappuccio, dandosi ad intendere che macrobiotica e sette esoteriche o sataniche siano un fenomeno assimilabile. Nell’articolo si citavano le diete ristrettissime denominate Mapi 1, 2, 3, 4 e 5 che venivano imposte forzatamente agli affiliati. Altri quotidiani hanno citato queste terribili diete come una tortura inflitta alle “vittime”. In realtà tali diete restrittive partono da una normalissima dieta depurativa monoalimento, per finire con una dieta (la Mapi 5) composta da cereali, legumi, frutta, verdura, carne, pesce e dolci, con eliminazione di zuccheri semplici e alcuni alimenti. In sostanza, poco di diverso da quanto proposto da qualsiasi linea guida nutrizionale corretta. Tanto è vero che la bontà di queste linee guida  alimentari è stata certificata da riviste internazionali del settore medico e da nutrizionisti esperti.
    Poche ore dopo la foto della setta sull’Ansa è scomparsa, ed è stata rimpiazzata dalla foto di una ragazza anoressica, e i contenuti dell’articolo sono diventati più razionali (l’articolo infatti si incentra sui contenuti dell’inchiesta e sono sparite le assurdità dietetiche). Questa dieta, affermano praticamente tutti i quotidiani, prometteva miracoli per curare malattie. Scrive ad esempio “Il Messaggero”: «Le indagini della polizia hanno accertato che il rigido stile di vita imposto dal maestro, attraverso le diete Ma.Pi, (dal nome del maestro) in numero di 5 (gradualmente sempre più ristrette e severe) e le lunghe “conferenze” da lui tenute, durante le quali si parlava per ore della forza salvifica della sua dottrina alimentare, erano volte a plasmare un asservimento totale delle vittime». Questa frase, delle diete sempre più ristrette e severe, è stata ripresa un po’ da tutti i quotidiani. A parte il fatto che le diete, come abbiamo detto, non sono “sempre più restrittive e severe”, ma sono via via sempre più permissive, avremmo insomma una setta che asservisce le vittime a base di dolci, carne, pesce, legumi cereali e frutta. Cioè a base di una dieta completa. Questo è quello che si evince leggendo i giornali.
    In altre parole: abbiamo una persona indagata per una serie di fatti che non sappiamo se abbia commesso o no; ma i giornali puntano i titoli, e anche i contenuti dei vari articoli, sui pericoli della macrobiotica. Un po’ come se, indagati Berlusoni e Dell’Utri di associazione mafiosa, all’epoca proprietario del Milan, della Standa, i giornali avessero deciso di incentrare la notizia sui pericoli dei supermercati e sulla inutilità del gioco del calcio, scrivendo “indagati Dell’Utri e Berlusconi, guru dei supermercati e del gioco del calcio, fenomeno demenziale in cui 22 giovanotti in mutande si disputano una palla, e vengono pagati miliardi per questa assurdità. I due guru cercavano di abbindolare la gente facendoli entrare nei loro supermercati, praticando sconti sui prodotti, e facevano un pacco di soldi con questo gioco inutile, che non serve a nulla e anzi, provoca pure danni (basti vedere le vittime fatte dagli ultrà delle varie squadre italiane)”.
    Per un contrappasso curioso, nello stesso giorno, sempre l’Ansa declamava le meravigliose proprietà di una nuovissima dieta (ovviamente proveniente dall’America), tra i cui principi fondanti troviamo: 1) mangiare solo gli alimenti che ci piacciono; 2) mangiare al massimo tre volte al giorno; 3) saltare un pasto se si va a cena fuori. Insomma, una marea di banalità che se applicate alla lettera, potrebbero fare innumerevoli danni perché potrebbero portare una persona a mangiare solo carne qualora fosse l’unico alimento che gli piace, e non fornisce alcune indicazione sui vari componenti della dieta. In conclusione: il problema non è se le accuse siano vere o false, perchè di quello si occuperà la magistratura. Il problema è che una persona viene indagata per un reato preciso, ma il problema diventano non i reati in sé, ma la dieta macrobiotica. E l’impressione generale è che – dal punto di vista giornalistico – la vicenda sia strumentalizzata per attaccare tutto il sistema della medicina naturale, e che la vicenda debba essere inquadrata nel più generale contesto della guerra tra medicina naturale preventiva e medicina classica allopatica.
    (Paolo Franceschetti, “Attacco alla medicina naturale”, dal blog “Petali di Loto” del 14 marzo 2018).

    In questi ultimi tempi stiamo assistendo ad una vera e propria guerra tra la medicina naturale, o naturopatia, e la medicina tradizionale. Una guerra senza esclusione di colpi, che vede da una parte indagati o radiati medici non in linea con le linee del sistema (pensiamo al recente caso di Stefano Montanari, o a quello di Paolo Rege Gianas), dall’altra comportamenti e dichiarazione assurde (come quella di Nadia Toffa, che ha dichiarato di essere guarita in pochi mesi da un tumore grazie alla chemioterapia, e che – improvvisatasi esperta di medicina – ha fatto un invito pubblico a curarsi solo con radio e chemio affermando siano le sole cure possibili). E’ di queste ore la notizia dell’arresto di Mario Pianesi, considerato il guru della macrobiotica in Italia (fondatore di un vero e proprio impero macrobiotico, con circa 100 ristoranti che dipendono dalla sua associazione), accusato di associazione a delinquere finalizzato alla riduzione in schiavitù e evasione fiscale. Non scenderò nei contenuti dell’inchiesta, perché non conosco i particolari della vicenda (anche se, per la notorietà internazionale dell’indagato, che era ricevuto in privato dal Papa, era invitato a eventi del Rotary locale, e aveva riconoscimenti internazionali un po’ ovunque – aveva anche ricevuto una laurea honoris causa dall’università della Mongolia – propenderei per uno scontro tra poteri a livelli piuttosto alti).

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