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Sorvegliati via smartphone: Singapore, governa Big Data
«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.L’analisi di Derrick de Kerckhove, presentata su “Avvenire”, parte dall’esempio di una città-Stato, Singapore, dove il modello di gestione è fondato sulla tecno-etica. «Ho definito quest’organizzazione “datacracy”, perché è una civiltà che si fonda sui dati e apparentemente permette di vivere in un luogo ideale senza rapine né furti». Tutto è regolato secondo un nuovo ordine che parte dalla raccolta e dall’analisi dei dati. «Il protagonista di questo nuovo modello è lo smartphone, perché ci identifica molto più del nostro passaporto, della nostra carta di credito o del nostro certificato di nascita». Il telefono palmare, infatti, «contiene tutto ciò che riguarda ciascuno di noi ed è sempre pronto a condividere contenuti con chiunque abbia le giuste capacità tecniche, anche se non possiede requisiti giuridici o diritti legali». Di noi, lo smarthone registra tutto, cosa che «ormai è di dominio pubblico». Follia? No, è solo l’ultimo gradino della scala che stiamo scendendo, da anni: «Dall’arrivo di Internet – scrive il sociologo – abbiamo iniziato a perdere privacy e anche il controllo delle nostre idee, scritte o discusse. E presto, forse, perderemo anche l’esclusiva sui nostri pensieri».Le tracce che ciascuno di noi lascia, continua de Kerckhove, sono raccolte da banche dati e poi riutilizzati per tanti scopi. Scandaloso? Ma anche ineluttabile: «Quello che sta accadendo dopo l’adozione globale di Internet è una graduale diminuzione delle libertà civili e delle garanzie che associamo con l’idea di democrazia occidentale», ammette lo studioso. «La privacy svanisce più velocemente nelle società dove le garanzie per l’individuo sono meno sacre o addirittura inesistenti; ne è prova l’evoluzione di Singapore, dove Lee Hsien Loong, figlio di Lee Kuan Yew, continuando l’opera del genitore ha abilmente usato la tecnologia per mettere sotto sorveglianza permanente i suoi cittadini». E guarda caso, «Singapore è la città-Stato con il più alto tasso di penetrazione al mondo di smartphone». Fino a che punto il fine può giustificare i mezzi? «Singapore si pone come Stato precursore del controllo urbano attraverso la sorveglianza fondata su Big Data e smartphone». Un modello di vita basato sulla tecno-etica: «I cittadini di Singapore, come la maggior parte di noi, trascorrono molta della loro vita attiva di fronte a uno schermo, lasciano tracce: sono geolocalizzati, si sa cosa scrivono e dicono. Le istituzioni di Singapore hanno deciso senza pudore di fare pieno uso di tali informazioni al fine di garantire ordine sociale e comportamenti corretti. Nessuno sporca la città, nessuno trasgredisce la legge».Nella metropoli asiatica, rilva il sociologo, la tendenza alla sorveglianza occhiuta si manifesta tra il 1965 e il 1990, quando Lee Kuan Yew (premier e padre dell’attuale capo di governo), istituisce regole draconiane per ripulire la città e per gestire le tensioni tra i quattro gruppi etnici che popolano Singapore. Tante le imposizioni: vietato masticare chewingum fuori casa, sputare per terra; non azionare lo scarico nei bagni pubblici. Bacchettate sulle mani per gli autori di graffiti, fustigazione per gli atti vandalici. Idem per l’ambito privato: zero pornografia, illegale il sesso gay (due anni di carcere). E’ illegale persino camminare nudi, in casa, fuori del bagno. Questo regime ha un nome, si chiama “democratura”. E oggi sta diventando anche “datacracy” o “governo di algoritmi”. «L’imposizione di una trasparenza completa permette di sapere il più possibile su tutto e tutti». Salito al potere nel 2004, Lee Hsien Loong ha imposto nuovi divieti e onnipresenti telecamere di sorveglianza: «Siamo alla ricreazione di Argus, il gigante della mitologia greca che tutto vede con i suoi 100 occhi. L’attuale capo del governo ha sostituito la democratura del padre con la datacrazia: siamo al “governo dell’ algoritmo”. E questo significa che dai dati raccolti e analizzati viene automaticamente il responso e, nel caso, la pena».Nuovi sensori e telecamere poste su tutto il territorio di Singapore raccolgono dati e informazioni per consentire al governo di monitorare ogni azione o evento, controllare pulizia degli spazi pubblici, tassi d’inquinamento, densità di folla e movimento di tutti i veicoli. «La sorveglianza è completa grazie ai dati raccolti da smartphone, social media, sensori e telecamere pubbliche». Il sistema «assicura l’immediato giudizio, il verdetto e l’esecuzione della pena (multe o peggio)». E le persone? «Sembrano soddisfatte della situazione, che assicura pace e ordine, pulizia, e attrae investitori», senza contare «salute e tutto il benessere possibile». A Singapore, scrive Derrick de Kerckhove, «si respira un senso di armonia sociale di cui i cittadini sembrano essere orgogliosi». Tutti d’accordo? No, ovviamente: esiste «una frangia di dissenso», peraltro «già sotto stretta sorveglianza». I critici sostengono che l’uso di Internet non è sicuro e quindi le persone tendono all’auto-censura, preferiscono tenere la bocca chiusa. Anche perché i blogger dissidenti sono perseguitati: Amos Yee, 16 anni, è in carcere dal maggio 2015 per commenti offensivi. Ong e informazione libera sono scoraggiati, la tv è monopolio statale, la stampa è fortemente controllata.«La narrazione politica sulla supposta armonia interculturale impera», sottoinea de Kerckhove, «ma il razzismo continua, soprattutto nelle assunzioni». Intanto, «i simboli del passato vengono soffocati da opere moderne, senza rispetto per la storia della città», che viene «riscritta, nei testi scolastici, per soddisfare la propaganda di Stato». A maggior ragione, «l’accesso agli archivi governativi pubblici è limitata». Secondo il sociologo, «ci avviamo al punto di non ritorno di un cambiamento radicale, paragonabile solo al Rinascimento europeo. Questa volta, però, mondiale». De Kerckhove cita Marshall McLuhan, secondo cui l’elettricità è l’infrastruttura della rivoluzione: «Dispositivi d’informazione elettrici sono gli strumenti per la tirannia e la sorveglianza universale, dal grembo materno alla tomba. Nasce così un grave dilemma tra il nostro diritto alla privacy e la necessità della comunità di sapere. Le idee tradizionali legate ai pensieri e alle azioni private sono minacciate dai modelli di tecnologia meccanica che grazie all’elettricità permette il recupero istantaneo delle informazioni». Fascicoli zeppi di notizie e pettegolezzi che non perdonano: «Non c’è redenzione, nessuna cancellazione di “errori” di gioventù». Alla fine, conclude Derrick de Kerckhove, dovremo «trovare un equilibrio tra le esigenze di vita privata e quelle sociali». Cos’è peggio, la vecchia “democratura” o la nuova, inquietante “datacrazia”, ovvero il «potenziale tirannico di un governo dei Big Data»? E soprattutto: «Abbiamo ancora una scelta, in materia», o si tratta di un destino inesorabile?«Il nostro smartphone ci rende trasparenti e molto vulnerabili: certamente sarebbe meno pericoloso girare completamente nudi in un parco», anche perché il microfono «funziona anche quando la nostra conversazione è terminata (penso a Siri per l’iPhone)». Sicché, «ogni nostra parola, i suoni intorno a noi, i nostri movimenti, sono registrati». Un sistema di controllo perfetto. Perché allora non farne anche un sistema di governo? E’ esattamente la scelta di Singapore, che «sta progettando un nuovo modello d’ingegneria sociale che potrebbe presto essere applicato altrove, in particolare nelle grandi metropoli come Parigi», scrive il sociologo belga-canadese Derrick de Kerckhove, direttore scientifico della rivista italiana “Media2000” e dell’Osservatorio TuttiMedia all’Internet Forum di Pechino, dopo aver guidato il McLuhan Program di Toronto fino al 2008. Ora siamo alla “datacrazia” definitiva, il “potere dei dati”: i leader li crea direttamente un algoritmo, i cittadini si adeguano ai comportamenti sociali imposti dalla tecnologia, di cui il governo si serve per mantenere il controllo. Una “tirannia morbida”, verso il “governo delle macchine”.
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Bibbia senza Dio? Biglino è un pazzo. E buon Natale a tutti
«Se dovesse succedermi qualcosa non potrò farci niente. Io devo andare avanti col mio lavoro senza condizionamenti esterni». Risponde così, Mauro Biglino, quando gli si chiede se teme per la propria vita: perché, dopo esser stato minacciato e calunniato – nel tentativo di screditare più la persona, che non le idee – niente può essere escluso, scrive Simone Cosimelli sul blog “Mi faccio di cultura”. E si domanda: «Ma chi è questo torinese dallo sguardo severo, gli occhi temerari e il sorriso facile?». Risposta: «Mauro Biglino è un pazzo. Un anarchico curioso. Un visionario errante». È uno che, dopo aver studiato una vita, ed essere finito a tradurre 19 libri dell’Antico Testamento per le prestigiose Edizioni San Paolo, la più importante casa editrice cattolica italiana, direttamente subordinata al Vaticano, un giorno, deliberatamente, «ha perso il senno (e il lavoro, ovviamente)». Pazza idea, prendere la Bibbia alla lettera? Rispettiamola, dice l’autore: e scopriremo che racconta solo di guerre feroci, volute da un certo Jahvè, che poi i teologi hanno deciso di chiamare “Dio” mentre, secondo la Bibbia, era solo uno degli Elohim, uno dei tanti, e neppure tra i più importanti.Elohim? «Non traduciamo questa parola, perché nessuno al mondo sa cosa voglia dire», ripete Biglino nelle affollatissime conferenze che tiene in tutta Italia. Peggio: «Nella Bibbia non esitono i concetti di Dio, creazione ed eternità. L’ebraico antico non ha una sola parola che significhi “Dio”. E i teologi hanno sempre tradotto “olàm”, cioè “tempo molto lungo”, con “eternità”», cioè assenza di tempo. «E hanno tradotto il verbo “barà”, modificare, con “creare dal nulla”». Non è finita: i Cherubini sono mezzi meccanici, «come gli ebrei hanno sempre saputo, grazie al Talmud», e i Malàch – angeli, in greco – non sono graziose creature alate ma cattivi soggetti, i temuti ufficiali degli Elohim. La Bibbia, dice Biglino, scrive che l’Elohim chiamato Jahvè si spostava a bordo del “kavòd”, un veicolo rumoroso e pericoloso, al cui passaggio si levava un gran vento (“ruach”). Traduzione teologica: il “kavòd” di Jahvè diventa “la gloria di Dio”, e di conseguenza il “ruach” cessa di essere un ventaccio e si trasforma in “spirito” (di Dio, ovviamente). «Ovvio: se introduci il soprannaturale, che nella Bibbia non c’è, poi devi scrivere migliaia di trattati inventando spiegazioni».La “colpa” di Biglino, scrive Cosimelli, è quella di aver svelato che la Bibbia non è un libro sacro. E poi «ha cominciato a fantasticare riguardo la possibilità di influenze concrete di individui alieni (nell’accezione latina del termine) che avrebbero avuto un’incidenza significativa nello sviluppo della civiltà umana, se non addirittura nel definitivo salto evolutivo che ha condotto all’homo sapiens». L’autore lo spiega, portando prove: alcuni genetisti cominciano a dar credito ai libri antichi – presi alla lettera – perché potrebbero spiegare l’inspiegabile, ovvero il salto, nel nostro Dna, di svariate sequenze geniche, non rintracciabili nelle specie evolutivamente più prossime a noi. «La Genesi dice, in modo esplicito, che gli Elohim “fabbricarono” l’Adàm nel loro laboratorio, il Gan-Eden». Siamo ibridi semi-extraterrestri? «La nostra è l’unica specie vivente che, allo stato di natura, non potrebbe sopravvivere un solo giorno», dice Biglino. «Ogni altro animale sa nutrirsi e proteggersi dal freddo usando solo il proprio corpo, noi invece abbiamo bisogno di armi, indumenti, utensili».«Mauro Biglino è un pazzo», scrive Cosimelli. «Perché, attraverso la filologia e la profonda conoscenza della storia delle religioni, sta scardinando il concetto stesso del monoteismo, sta rivoltando il significato della Bibbia traducendola alla lettera e allontanando dogmi, simbolismi e artefatti teologici che per secoli sono stati propinati da sacerdoti, inquisitori e supposti uomini di fede: e che ancora oggi sono considerati inoppugnabili». Da cinque anni lo studioso torinese scrive libri con ritmo sorprendente, tradotti in paesi diversi (gli ultimi due, dal titolo emblematico, “La Bibbia non parla di Dio” e “L’invenzione di Dio”), e le sue conferenze in tutta Italia, a ciclo continuo, sono affollatissime. «L’effetto che produce su chi lo segue, o chi lo teme, è sempre lo stesso: destabilizzante». Nella Bibbia, letta testualmente, «non ci sarebbe nessun Dio onnisciente e onnipresente, non ci sarebbe nessuna creazione dal nulla, non ci sarebbe traccia dell’eternità». Tutt’altro: non uno ma più dèi, gli Elohim, in realtà semidei non immortali, proprio come i semidei omerici. L’Antico Testamento? «Non si sa chi l’abbia scritto, né quando, né in che lingua. L’unica cosa certa è che la versione attuale, riscritta da il VI e il IX secolo dopo Cristo, epoca Carlomagno, non è certo l’originale».Un libro riscritto continuamente, a più mani, per secoli. Peraltro sembra la copia dei miti fondativi della cività sumera, che gli ebrei conobbero durante la “cattività babilonese”. Solo che per i teologi quella dei Sumeri (l’originale) è leggenda, mentre la Bibbia (la copia) è un libro autentico, nonché sacro, addirittura proveniente da Dio. Peccato racconti la medesima storia, dice Biglino: cambia solo il nome dei potenti signori dell’epoca, gli Annunaki sumeri diventano gli Elohim biblici. Nient’altro che «un grande inganno, sotto cui organismi monarchici e oscurantisti sono nati, si sono strutturati, ramificati, e hanno sperperato, defraudato e ucciso per motivazioni di natura più secolare che spirituale», scrive ancora Cosimelli. «Mauro Biglino è un pazzo. Perché considera la Bibbia l’asse portante di un castello di carte destinato a crollare: e, sapendo questo, la svuota del suo atavico valore. Lo fa con la precisione cinica delle traduzioni letterali, lo fa svelando contraddizioni e incongruenze da sempre celate e tenute ben lontane dagli occhi indiscreti dei più». Un libro “aggiustato”, manipolato, ritoccato con aggiunte e omissioni.«Professori universitari da Gerusalemme a Los Angeles assecondano queste tesi», continua Cosimelli. «Rabbini dalle reticenti risposte o infervorati esegeti ebrei – cioè chi più di altri può a ragione occuparsi dell’Antico Testamento – ritengono esatto buona parte del lavoro presentato da Biglino. E la scienza sembra confermare ipotesi ardite, al limite del possibile». Biglino? «E’ un pazzo, perché ipotizza che la Bibbia sia stata concepita e scritta come un libro cronachistico inteso a narrare eventi realmente accaduti, in tempi in cui gli Elohim favorirono, o assoggettarono, gli uomini». Sicché, «dogmi, simbolismi e allegorie spirituali non c’entrerebbero nulla col testo». Il concetto di monoteismo, sorto intorno al V secolo prima di Cristo «sarebbe stato – e si sarebbe rivelato – il più efficiente e gravoso sistema di controllo delle masse». Le tesi di Biglino, insiste Cosimelli, «attaccano integralmente il paradigma attorno cui si è sviluppata la cultura umana moderna: è il –teismo ad entrare in crisi». La forza di questo autore? «Va oltre la competenza: la si trova nella ferrea umiltà di non imporre la propria verità a nessuno che non voglia ascoltarla, pur difendendo quest’ultima a spada tratta».Inoltre, Biglino è riuscito a «far assurgere il dibattito a livello accademico, cercando di aprire al pubblico con criterio». Ad oggi, peraltro, nessuno ha potuto smentirlo. Dove arriverà? «Difficile dirlo. Sembra essere la passione a spingerlo, non il protagonismo». Ecco perché «Mauro Biglino è un pazzo. E un eretico», ben sapendo che «se non fosse stato per le eresie, la Terra oggi sarebbe ancora piatta». Jahvé, cioè il Dio signore del cielo e creatore della Terra? «Non per la Bibbia». Attenzione, avverte Biglino: «Io non entro nel problema di Dio, mi limito a dire che è la Bibbia a non parlarne». Nel libro “La Bibbia non è un libro sacro”, scriove: «La realtà testuale si trova sotto i nostri occhi, in superfice, e, proprio per questo, è stata coperta da spesse coltri di invenzioni ed elaborazioni, arricchita da attribuzioni di nebbiose valenze misteriche. Questo è stato fatto perché su quella storia, conosciuta nella sua autentica sostanza scritturale, non si sarebbe potuto costruire nulla: né religioni, né ideologie nazionaliste, né sistemi di potere». E buon Natale a tutti.«Se dovesse succedermi qualcosa non potrò farci niente. Io devo andare avanti col mio lavoro senza condizionamenti esterni». Risponde così, Mauro Biglino, quando gli si chiede se teme per la propria vita: perché, dopo esser stato minacciato e calunniato – nel tentativo di screditare più la persona, che non le idee – niente può essere escluso, scrive Simone Cosimelli sul blog “Mi faccio di cultura”. E si domanda: «Ma chi è questo torinese dallo sguardo severo, gli occhi temerari e il sorriso facile?». Risposta: «Mauro Biglino è un pazzo. Un anarchico curioso. Un visionario errante». È uno che, dopo aver studiato una vita, ed essere finito a tradurre 19 libri dell’Antico Testamento per le prestigiose Edizioni San Paolo, la più importante casa editrice cattolica italiana, direttamente subordinata al Vaticano, un giorno, deliberatamente, «ha perso il senno (e il lavoro, ovviamente)». Pazza idea, prendere la Bibbia alla lettera? Rispettiamola, dice l’autore: e scopriremo che racconta solo di guerre feroci, volute da un certo Jahvè, che poi i teologi hanno deciso di chiamare “Dio” mentre, secondo la Bibbia, era solo uno degli Elohim, uno dei tanti, e neppure tra i più importanti.
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Gallino: con l’euro ci stanno facendo tornare al medioevo
«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».È possibile che il capitalismo attuale sia in una stagnazione senza fine, dichiara Gallino a Giacomo Russo Spena in un’intervista pubblicata da “Micromega”. Difficile che il sistema riprenda una marcia espansiva come se nulla fosse successo in questi anni: «Con la finanziarizzazione dell’economia, il capitalismo ha tramutato in merce un’entità immaginaria, ovvero il futuro. A tale desolante quadro, si collega la distruzione del nostro sistema ecologico». Ovvero: «Per ottemperare alla crisi, il capitalismo ha reagito devastando ambiente e consumando maggiori risorse, mentre nel mondo le materie prime sono in via di esaurimento. Ciò ha causato distruzioni all’ecosistema e danni climatici come il surriscaldamento del pianeta». I progressi intrapresi con il Protocollo di Kyoto? «I paesi sono lontani dal mantenere gli obiettivi prefissati, i risultati sotto gli occhi di tutti: l’innalzamento delle temperature, “bombe” d’acqua, alluvioni».Gallino narra la storia di una sconfitta politica. Al posto del pensiero critico ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale: la lotta di classe l’avrebbero vinta i ricchi. Ma come siamo arrivati a questo punto? «Dagli anni ’80 il pensiero neoliberale ha scatenato un’offensiva che ha messo sotto attacco le idee e le politiche di uguaglianza. Un apparato di super-ricchi e potenti ha imposto il proprio dominio su finanza, società e media. Nessun esponente politico ne è rimasto escluso, anche dopo il 2007 quando tale pensiero è entrato totalmente in crisi». In gioco, aggiunge il sociologo, non c’è soltanto la demolizione del welfare, ma «la ristrutturazione dell’intera società secondo il modello della cultura politica neoliberale, o meglio della sua variante, soprattutto se pensiamo al piano tedesco: l’ordoliberalismo», regolato da una ferra disciplina sociale a vantaggio dei più ricchi.A proposito delle ricette economiche adottate per affrontare la crisi, nel libro scrive che siamo dinanzi a casi conclamati di stupidità. «I governi dei paesi europei hanno sposato i paradigmi dell’economia neoliberale e perseguito il dogma dell’austerity non avanzando una sola spiegazione decente delle cause della crisi mondiale: i modelli intrapresi sono lontani anni luce della realtà dell’economia. Hanno utilizzato modelli vecchi e superati». Un esempio italiano? «Nella nuova riforma sul lavoro, il Jobs Act, non vi è alcun elemento né innovativo né rivoluzionario, tutto già visto 15-20 anni fa. È una creatura del passato che getta le proprie basi nella riforma del mercato anglosassone di stampo blairiano, nell’agenda sul lavoro del 2003 in Germania e, più in generale, nelle ricerche dell’Ocse – poi riviste – della metà anni ’90». Un’altra follia, continua Gallino, è l’aver avallato l’idea che una crescita senza limiti dell’economia capitalistica sia possibile. «In questa lunga discesa verso la recessione, gli esecutivi di Berlusconi, Monti, Letta e ora Renzi saranno ricordati come quelli con la maggiore incapacità di governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi».Con il terremoto finanziario ha “perso” l’idea di uguaglianza. Un dato su tutti: il 28% è il numero dei bambini che vivono sotto la soglia di povertà in Europa. Sempre il 28, scrive Russo Speana, è la crescita del fatturato delle aziende del lusso tra il 2010 e il 2013. Anni di crisi, quindi, ma non per tutti? «Nei maggiori paesi Ocse, nel periodo 1976-2006, la quota salari sul Pil è scesa in media di 10 punti, i quali sono passati alla quota profitti dando origine a diseguaglianze di reddito e ricchezza mai viste dopo il Medioevo. Inoltre, va evidenziato che l’enorme diseguaglianza non è la causa ma l’effetto delle politiche di austerity adottate dai governi per combattere la crisi. Due facce di unico processo: la redistribuzione dal basso verso l’alto con i più poveri che sono stati impoveriti dai più ricchi». Vie d’uscita? Una sola, ovvero «il superamento del pensiero neoliberale sotto i vari aspetti a cominciare da quello economico».Nulla che sia all’orizzonte, però. Anche se, recentemente, si stanno sviluppando «esempi di resistenza» e “pensatoi” di studiosi che riflettono su ipotesi di discontinuità. Ma, appunto, «siamo lontani da un effettivo cambiamento dello status quo». In realtà, servirebbe «un segnale di rottura anche nella scuole e nell’università che, negli ultimi decenni, hanno subito un attacco da parte dei governi a colpi di riforme orientate a espellere il pensiero critico dai luoghi della formazione: l’intero sistema doveva essere ristrutturato come un’impresa che crea e accumula “capitale umano”». La crisi del capitalismo ha portato anche ad una crisi della democrazia? «Sicuramente, basta pensare all’attuale architettura dell’Unione Europea e alla sovranità perduta: il trasferimento di poteri da Roma a Bruxelles è andato oltre a quel che era previsto dal trattato di Maastricht. Temo che il sogno europeista si sia infranto sugli scogli dell’euro».La moneta unica, aggiunge lo studioso, «si è rivelata una camicia di forza e non ha minimamente contribuito a ridurre gli scarti tra un’economia e l’altra in termini di ricerca e sviluppo, investimenti, innovazione di prodotto e di processi, dotazione di infrastrutture ed istruzione professionale». Gallino si dichiara apertamente no-euro: «Decisamente sì, lo sono da anni». E spiega: «Ci vuole un intervento radicale», anche se sa benissimo che l’uscita dalla moneta unica è «complessa e difficile», quindi «va pensata gradualmente e concordata con Bruxelles». Pensa anche alla rottura dell’Unione Europea? Questo no: «Uscire dall’Europa sarebbe, per l’Italia, un disastro economico per via dei cambi che si scatenerebbero contro di noi». Gallino è «favorevole ad una graduale uscita dall’euro, rimanendo però nell’Unione Europea». Sottolienea come sia «tecnicamente possibile», e si impegna a dimostrarlo in un “paper” che presenterà a breve.Russo Spena si domanda se «una sinistra degna di questo nome» non dovrebbe fare proprio il tema della lotta alla diseguaglianza sociale. Già, ma quale sinistra? «Dove sta a sinistra una formazione di qualche solidità e ampiezza che ne abbia fatto la propria bandiera?». Anche in Italia «ci sono dei segmenti», però «sono ininfluenti, soprattutto di fronte a quel che dovrebbe essere il domani di una sinistra in grado di rappresentare una valida opzione politica. Purtroppo, da noi, la sinistra non esiste», chiarisce Gallino. E Syriza, Podemos, il Sinn Fein e le altre forze della sinistra europea? Nient’altro che «segnali di incoraggiamento», verso i quali Gallino resta cauto: «Bisogna capire quanto dureranno questi fenomeni e se riusciranno realmente ad incidere a Bruxelles e contro le politiche d’austerity. Tifo per loro senza illusioni». Poco allegro, dunque, l’orizzonte per i giovani. «Cambiare in modo radicale le strategie di produzione e consumo è una necessità vitale per l’intera umanità». Un messaggio ai ragazzi? «Se volete avere qualche speranza… studiate, studiate, studiate».«Una fiammella di pensiero critico nell’età della sua scomparsa». Luciano Gallino, noto sociologo, parla così della sua ultima fatica “Il denaro, il debito e la doppia crisi” (Einaudi editore). Un testo, dedicato ai nipoti, che analizza l’attuale fase socio-economica: «Senza un’adeguata comprensione della crisi del capitalismo e del sistema finanziario, dei suoi sviluppi e degli effetti che l’uno e l’altro hanno prodotto nel tentativo di salvarsi, ogni speranza di realizzare una società migliore dall’attuale può essere abbandonata», si legge nella prefazione al libro. Il suo giudizio è netto, crudo e decisamente pessimista. A partire dagli anni Ottanta avremmo visto scomparire due pratiche che giudicavamo fondamentali: l’idea di uguaglianza e quella, appunto, del pensiero critico. Al loro posto ci ritroviamo con l’egemonia dell’ideologia neoliberale, la vincitrice assoluta della nostra era. Qual è la doppia crisi che va spiegata ai nipoti? «La crisi del capitalismo e del sistema ecologico. Due crisi strettamente legate tra loro».
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Berardi: ma crescita di cosa? Di lavoro non c’è più bisogno
Alla fine degli anni ‘70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della Fiat convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello, fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quello per cui nel 1970 ne occorrevano cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario. Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano, perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.Quella volta purtroppo i sindacati credettero che la tecnologia fosse un nemico dal quale occorreva difendersi. Occuparono la fabbrica per difendere il posto di lavoro e il risultato prevedibilmente fu che gli operai persero tutto. Ma si poteva fare altrimenti?, chiederete voi. Certo che si poteva. Una piccola minoranza disse allora: “Lavorare meno per lavorare tutti”, e qualcuno più furbo disse addirittura: “Lavorare tutti per lavorare meno”. Furono attaccati come estremisti, e alcuni li arrestarono per associazione sovversiva. Nel 1983 nel paese più brutto del mondo c’era un governo infernale guidato da una signora cui piaceva la frusta. Aveva detto che la società non esiste (“there is no such thing as society”) per dire che ognuno è solo e deve combattere contro tutti gli altri col risultato che uno su mille può far la bella vita e scorrazzare in Rolls Royce, uno su cento può vivere decentemente e tutti gli altri debbono fare la vita di merda che più di merda non si può immaginare.Ma ritorniamo a noi, mica sono pagato per parlar male dell’Inghilterra. Un bel giorno la signora decise che di miniere non ce n’era più bisogno e neanche di minatori. Cosa fareste se la vita vi fosse andata così male da ritrovarvi a fare il minatore in un paese di merda dove in superficie piove sempre e c’è la Thatcher, e sottoterra è anche peggio? Non so voi, ma nel caso io facessi il minatore e qualcuno mi dicesse che non c’è più bisogno di miniere ringrazierei il cielo e chiederei un salario di cittadinanza. Non così Arthur Scargill, che era il capo di un sindacato che si chiamava “Union Miners”. Un sindacato glorioso che organizzò una lotta eroica contro i licenziamenti, come direbbe Ken Loach. So bene che c’è poco da fare gli spiritosi perché fu una tragedia per decine di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie: naturalmente i minatori persero la lotta, il lavoro e il salario, ed era solo l’inizio. La disoccupazione è oggi in crescita in ogni paese d’Europa. Metà della popolazione giovanile non ha un salario, o ha un salario miserabile e precario, mentre i riformatori europei hanno imposto un rinvio dell’età pensionabile da 60 a 62, a 64, a 65, a 67. E poi?C’è qualcuno che possa spiegarmi secondo le regole della logica aristotelica il mistero secondo cui per curare la disoccupazione dilagante occorre perseguitare crudelmente i vecchi che lavorano costringendoli a boccheggiare sul bagnasciuga di una pensione che non arriva mai? Nessuno che sia sano di mente mi risponde, perché la risposta non si trova nelle regole della logica aristotelica, ma solo nelle regole della logica finanziaria che con la logica non c’entra niente ma c’entra moltissimo con la crudeltà. Se la logica finanziaria contraddice la logica punto e basta, cosa farebbe una persona dotata di senso comune? Riformerebbe la logica finanziaria per piegarla alla logica, no? Invece Giavazzi dice che la logica vada a farsi fottere perché noi siamo moderni (mica greci).“Animal Kingdom” è il nome di un’azienda di Saint Denis che vende ranocchie e cibi per cani. “Candelia” vende mobili per ufficio. Sembrano aziende normali ma non lo sono affatto, perché l’intero business di queste aziende è finto: finti i clienti che telefonano, finti i prodotti che nessuno produce, finta perfino la banca cui le “fake companies” chiedono falsi crediti. Come racconta un articolo del “New York Times” del 29 maggio, da cui si deduce che il capitalismo è affetto da demenza senile, in Francia ci sono un centinaio di aziende finte, e pare che in Europa se ne contino migliaia. Milioni di persone non hanno un salario e milioni perderanno il lavoro nei prossimi anni per una ragione molto semplice: di lavoro non ce n’è più bisogno. Informatica, intelligenza artificiale, robotica rendono possibile la produzione di quel che ci serve con l’impiego di una quantità sempre più piccola di lavoro umano. Questo fatto è evidente a chiunque ragioni e legga le statistiche, ma nessuno può dirlo: è il tabù più tabù che ci sia, perché l’intero edificio della società in cui viviamo si fonda sulla premessa che chi non lavora non mangia.Una premessa imbecille, una superstizione, un’abitudine culturale dalla quale occorrerebbe liberarsi. Eppure economisti e governanti, invece di trovare una via d’uscita dal paradosso in cui ci porta la superstizione del lavoro salariato, insistono nel promettere la ripresa dell’occupazione e della crescita. E siccome la ripresa è finta, qualcuno ha avuto questa idea demente di creare aziende in cui si finge di lavorare per non perdere l’abitudine e la fiducia nel futuro, poiché i disoccupati di lungo corso (il 52,6% dei disoccupati dell’Eurozona sono senza lavoro da più di un anno) rischiano di perdere la fede oltre al salario. Ma torniamo al punto. Dice il giovane presidente del Consiglio che il reddito di cittadinanza è una cosa per furbi perché in questo paese chi lavora duro ce la può fare. Forse qualcuno sì, non me la sento di escluderlo, ma qui stiamo parlando di ventotto milioni di disoccupati europei. E a me risulta che la disoccupazione non è destinata a diminuire ma ad aumentare, e ti dico perché. Perché di tutto quel lavoro (duro o morbido non importa) non ce n’è più bisogno.Lo dice qualcuno che è più moderno di Renzi e di Giavazzi messi insieme, credete a me. Lo dice un giovanotto dotato intellettualmente che si chiama Larry Page. In un’intervista pubblicata da “Computer World” nell’ottobre del 2014 questo tizio, che dirige la più grande azienda di tutti i tempi, dice che Google investe massicciamente in direzione della robotica. E sai che fa la robotica? Rende il lavoro inutile, questo fa. Larry Page aggiunge che secondo lui solamente dei pazzi possono pensare di continuare a lavorare quaranta ore alla settimana. Si stringe nelle spalle e dice: Renzi, lavorare duro d’accordo, ma per fare che? Il Foreign Office nel suo Report dell’anno scorso diceva che il 45% dei lavori con cui oggi la gente si guadagna da vivere potrebbe scomparire domattina perché non ce n’è più bisogno. Caro Renzi, qui si tratta di cose serie, lascia fare ai grandi e torna a giocare con i videogame: occorre immediatamente un reddito di cittadinanza che liberi la gente dall’ossessione idiota del lavoro.La situazione infatti è tanto grave e tanto imprevista, che occorre un’invenzione scientifica che non è alla portata degli economisti. Ti sei mai chiesto cosa sia una scienza? Diciamo, per non farla troppo lunga, che è una forma di conoscenza libera da ogni dogma, capace di estrapolare leggi generali dall’osservazione di fenomeni empirici, capace di prevedere quello che accadrà sulla base dell’esperienza del passato, e per finire capace di comprendere fenomeni così radicalmente innovativi da mutare gli stessi paradigmi su cui la stessa scienza si fonda. Direi allora che l’economia non ha niente a che fare con la scienza. Gli economisti sono ossessionati da nozioni dogmatiche come crescita, competizione e prodotto nazionale lordo. Dicono che la realtà è in crisi ogni qualvolta non corrisponde ai loro dogmi, e sono incapaci di prevedere quel che accadrà domani, come ha dimostrato l’esperienza delle crisi degli ultimi cento anni.Gli economisti per giunta sono incapaci di ricavare leggi dall’osservazione della realtà, in quanto preferiscono che la realtà sia in armonia con i loro dogmi, e incapaci di riconoscere quando mutamenti della realtà richiedono un cambiamento di paradigma. Lungi dall’essere una scienza, l’economia è una tecnica la cui funzione è piegare la realtà multiforme agli interessi di chi paga lo stipendio degli economisti. Dunque sta ad ascoltarmi: non c’è più bisogno di Giavazzi, di tutti quei tristi personaggi che vogliono convincerti che l’occupazione presto riprenderà e la crescita anche. Lavoriamo meno per un reddito di cittadinanza, curiamoci la salute andiamo al cinema, insegniamo matematica e facciamo quel milione di cose utili che non sono lavoro e non hanno bisogno di scambiarsi con salario. Perché, sai che ti dico: di lavoro non ce n’è più bisogno.(Franco Berardi, “Di lavoro non ce n’è più bisogno”, dal numero di luglio della nuova edizione di “Linus”, ripreso da “Megachip” il 27 luglio 2015).Alla fine degli anni ‘70, dopo dieci anni di scioperi selvaggi, la direzione della Fiat convocò gli ingegneri perché introducessero modifiche tecniche utili a ridurre il lavoro necessario, e licenziare gli estremisti che avevano bloccato le catene di montaggio. Sarà per questo sarà per quello, fatto sta che la produttività aumentò di cinque volte nel periodo che sta fra il 1970 e il 2000. Detto altrimenti, nel 2000 un operaio poteva produrre quello per cui nel 1970 ne occorrevano cinque. Morale della favola: le lotte operaie servono fra l’altro a far venire gli ingegneri per aumentare la produttività e a ridurre il lavoro necessario. Vi pare una cosa buona o cattiva? A me pare una cosa buonissima se gli operai hanno la forza (e a quel tempo ce l’avevano, perbacco) di ridurre l’orario di lavoro a parità di salario. Una cosa pessima se i sindacati si oppongono all’innovazione e difendono il posto di lavoro senza capire che la tecnologia cambia tutto e di lavoro non ce n’è più bisogno.