Archivio del Tag ‘Guido Rossi’
-
E Gentiloni in silenzio vara il Ceta, cavallo di Troia del Ttip
Vi accapigliate sul decreto-mostro della Lorenzin sui 12 vaccini? E intanto Gentiloni, in silenzio, fa approvare il Ceta, cioè il Ttip che rientra dalla finestra, senza nemmeno una conferenza stampa. Il governo ha infatti approvato il disegno di legge per la ratifica l’attuazione dell’accordo commerciale Ue-Canada. Il Ttip includeva anche tra gli Usa, ma si teme che il Ceta euro-canadese ne sia il semplice battistrada. Il cardine è lo stesso: gli Stati non potranno più opporsi al business con iniziative di tutela della salute e del lavoro, sotto pena di sanzioni comminate da un potente tribunale internazionale, privato, al servizio delle multinazionali. Il Ceta è stato firmato lo scorso 30 ottobre a Bruxelles e ratificato dal Parlamento Europeo a febbraio, ora toccherà al Parlamento italiano. Lo ha stabilito il Consiglio dei ministri, riunitosi il 24 maggio «in fretta e furia e senza neanche un minuto di preavviso», scrive Guido Rossi su “L’Intellettuale Dissidente”. «Non è stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa». Strano, no? «Neanche il più ridicolo e scarso dei media (provare per credere? Fatevi un giro su Google) ha dato questa notizia di epocale importanza». Perché dunque è meglio «farlo passare in sordina», questo accordo potenzialmente epocale voluto dai poteri forti del pianeta?Sulla carta, il trattato promette ovviamente grandi sviluppi del trading euro-canadese, con agevolazioni sul libero scambio delle merci tra le due sponde dell’Atlantico. Ma, gratta gratta, si legge che l’Italia potrebbe beneficiarne in termini di maggiori esportazioni verso il Canada «per circa 7,3 miliardi di dollari canadesi». Appena sette miliardi? «Per avere un’idea – scrive Rossi – l’Imu che noi italiani abbiamo pagato sui nostri immobili, nel solo 2016, è costata 10 miliardi di euro; circa la stessa cifra è stata spesa dal governo Renzi per pagare i famigerati “80 euro”. Il governo Gentiloni ha recentemente “salvato” il sistema bancario creando con estrema facilità un fondo da 20 miliardi di euro». Sicché, «questo accordo, economicamente, non vale la carta su cui è stampato». Ma il punto è un altro, purtroppo: «A fronte di un così ridicolo guadagno – nemmeno sicuro, considerato che si tratta di stime – stiamo per svendere completamente la nostra nazione». Non è un’esagerazione, spiega Rossi: i nostri governanti lasciano capire che il Ceta aprirebbe le porte alla cessione graduale in mani private dei principali servizi strategici, oggi pubblici.E’ vero, Gentiloni e soci – a parole – assicurano che manterremo comunque «il diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche, salvaguardando i servizi pubblici (approvvigionamento idrico, sanità, servizi sociali, istruzione) e dando la facoltà agli Stati membri di decidere quali servizi desiderano mantenere universali e pubblici e se sovvenzionarli o privatizzarli in futuro». Peccato – obietta Rossi – che la cosa, «oltre a suonare palesemente come una “escusatio non petita”, è oltremodo falsa». E’ vero che il testo del Ceta “riconosce” agli Stati membri il diritto di prendere autonome decisioni su materie come la sanità, «ma in maniera altrettanto precisa descrive il funzionamento del “dispute settlement”, ossia di un arbitrato internazionale cui una “parte” (che può essere uno Stato ma anche un’azienda che opera sul suo territorio) può fare ricorso in caso sia in disaccordo con decisioni prese da altre parti». Tradotto: un’altra nazione – o peggio, una semplice società, spesso multinazionale – può impugnare una decisione di uno Stato anche quando adottata “nel diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche”, qualora questa vada a “discriminare” il business dell’azienda.Il funzionamento di questo “tribunale privato” fa diretto richiamo al Dss, identico strumento previsto dall’Organizzazione Mondiale del commercio, il Wto. Quest’ultimo, continua Rossi, prevede la selezione di un “panel” di giudici, composto da esperti provenienti solitamente dal mondo della consulenza privata (quello delle multinazionali) o da atenei altrettanto privati. Il “panel” redige un rapporto contenente la propria opinione circa l’esistenza o meno di un’infrazione alle regole del Wto. Non ha la forza legale di una vera e propria sentenza, eppure la procedura di appello ha una durata massima prevista in 90 giorni, e dopo l’approvazione è definitiva. Sintetizzando: il Wto (cui l’Europa e l’Italia hanno aderito da più di vent’anni, nel 1995) ha fini prettamente economici e finanziari; gli Stati, si dice, sono ancora sovrani, eppure i principi che regolano gli scambi internazionali sono al di sopra delle leggi, nazionali e internazionali. E in caso di controversie, le parti (non gli Stati in realtà, quanto le società multinazionali “discriminate”) possono rivolgersi al Wto e chiedere se sia giusto o meno non applicare il suo regolamento. «Il Wto, privato e – sicuramente – imparzialissimo, emette la sentenza, che, per carità, non ha forza legale vera e propria (non essendo un vero tribunale), però è ad ogni modo inappellabile e definitiva. Democraticamente. E quel che è previsto per il Wto vale per il Ceta».Solo gli Stati Uniti, precisa ancora Rossi, sono stati coinvolti dal tribunale del Wto in più di 95 casi contro società private: e di questi processi gli Usa, in qualità di nazione, ne hanno persi 38 e vinti appena 9. Gli altri o sono stati risolti tramite negoziazioni preliminari oppure sono ancora in dibattimento. In circa 20 casi il “panel” non è mai stato nemmeno formato, e la maggior parte dei processi persi riguardava livelli di standard ambientale, misure di sicurezza, tasse e agricoltura. «Lo Stato italiano, al contrario di quanto dice il governo Gentiloni – scrive Rossi – non può decidere autonomamente alcunché, prima di tutto perché fa parte dell’Unione Europea e ha siglato accordi comunitari come il Patto di Stabilità e il Fiscal Compact, oltre a far parte di un’unione monetaria, quindi di partenza non ha alcun potere decisionale in termini di politiche monetarie, fiscali, economiche e sociali». E inoltre, anche se godesse di una simile sovranità, «comunque rischierebbe di trovarsi contro cause miliardarie – private – e di perderle, con tanti saluti al “potere politico”. Ed ecco che la nostra Carta costituzionale si trasforma in carta igienica».Quanto alle “potenzialità” di esportazione, secondo Rossi il relativo successo del nuovo “made in Italy” all’estero dipende solo dalla crisi: si punta all’export «semplicemente perché gli italiani non hanno più una lira: i consumi domestici sono drasticamente calati, grazie a politiche iniziate da Mario Monti che in una celebre intervista ammise di “distruggere la domanda interna”». Così, le imprese (quelle che ancora non hanno chiuso) si sono “arrangiante” puntando ancor più sui mercati forestieri. «Solo pochi giorni fa l’Istat ha registrato nei suoi dati la “morte” della classe media italiana». Nel frattempo, «visto che le merci di qualità come quelle nostrane non ce le possiamo permettere», nei nostri negozi «arrivano tonnellate di merci a basso costo ma di pessima qualità», con controlli «scarsi o addirittura nulli, poiché già siamo in un’unione di libero scambio, l’Unione Europea, che stiamo per estendere al Canada». Inutile sottolineare che simili politiche «danneggiano direttamente le nostre imprese, dunque il lavoro e in generale il benessere del nostro popolo», conclude Rossi. «Tutto questo per – forse – sette miseri miliardi. Neanche i 30 denari di Giuda».Vi accapigliate sul decreto-mostro della Lorenzin sui 12 vaccini? E intanto Gentiloni, in silenzio, fa approvare il Ceta, cioè il Ttip che rientra dalla finestra, senza nemmeno una conferenza stampa. Il governo ha infatti approvato il disegno di legge per la ratifica l’attuazione dell’accordo commerciale Ue-Canada. Il Ttip includeva anche gli Usa, ma si teme che il Ceta euro-canadese ne sia il semplice battistrada. Il cardine è lo stesso: gli Stati non potranno più opporsi al business con iniziative di tutela della salute e del lavoro, sotto pena di sanzioni comminate da un potente tribunale internazionale, privato, al servizio delle multinazionali. Il Ceta è stato firmato lo scorso 30 ottobre a Bruxelles e ratificato dal Parlamento Europeo a febbraio, ora toccherà al Parlamento italiano. Lo ha stabilito il Consiglio dei ministri, riunitosi il 24 maggio «in fretta e furia e senza neanche un minuto di preavviso», scrive Guido Rossi su “L’Intellettuale Dissidente”. «Non è stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa». Strano, no? «Neanche il più ridicolo e scarso dei media (provare per credere? Fatevi un giro su Google) ha dato questa notizia di epocale importanza». Perché dunque è meglio «farlo passare in sordina», questo accordo potenzialmente epocale voluto dai poteri forti del pianeta?
-
Guido Rossi: conta solo il denaro, la democrazia è finita
omo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.C’è un sistema ideologico alla base delle politiche economiche, accusa Rossi in un editoriale sul “Sole 24 Ore” ripreso da “Micromega”: «Un erroneo concetto di libertà ha fatto sì che le scuole, gli ospedali e persino le prigioni possano essere privatizzate a scopo di lucro. E se così è, perché non dovrebbe essere, allo stesso scopo, privatizzato anche ogni ufficio pubblico?». Questo sistema, continua Rossi, ha creato due conseguenze parallele: «Le ineguaglianze, delle quali ha dato un’impareggiabile recente documentazione il tanto discusso libro di Thomas Piketty “Le capital au XXI siècle”», e naturalmente «la corruzione, sia nel settore pubblico sia in quello privato». Secondo la “London Review of Books”, che parla di “Disastro italiano”, l’Italia in Europa non è un caso anomalo, ma piuttosto una sorta di concentrato, visto che «la manipolazione da parte dei poteri esecutivi nei confronti dei legislativi e la generale involuzione e crisi delle classi politiche causano un silenzioso deficit di democrazia, alimentato da una quasi assoluta scarsità di mezzi di informazione indipendenti e con un aumento della corruzione».Un panorama impressionante in tutti i paesi: dalla Germania di Helmut Kohl, indiscusso cancelliere per 16 anni, che ricevette due milioni di marchi tedeschi in fondi neri, «rifiutandosi di rivelare il nome dei donatori per timore che emergessero i favori che avevano ricevuto in cambio», alla Francia di un altro super-potente, il presidente Jacques Chirac, in sella per 12 anni, che a fine mandato (cessata l’immunità) fu accusato di abuso d’ufficio, peculato e conflitto di interessi. Clamoroso, ancora in Germania, il governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che garantì un prestito da un milione di euro a Gazprom per creare una pipeline nel Baltico, «poche settimane prima che lo stesso cancelliere, terminato il mandato, diventasse consulente di Gazprom a un compenso molto maggiore di quello fino a quel momento ricevuto per governare il paese». Dalla Grecia alla Spagna non si salva nessuno. Spiccano, in Gran Bretagna, i favori elargiti alla Faith Foundation di Tony Blair, il rottamatore della sinistra inglese.«Le diseguaglianze dovute all’abnorme concentrazione in poche mani della ricchezza e le varie forme di corruzione sono indissolubilmente legate», sottolinea Guido Rossi, e costituiscono «la conseguenza principale e più grave dell’intreccio ormai inevitabile fra politica ed economia». Non è un caso che questo intreccio, nelle ideologie contemporanee, diventi inestricabile, al punto che le stesse istituzioni politiche ancora formalmente democratiche «diventino a loro volta causa ed effetto delle diseguaglianze e della corruzione». Non ne sono immuni neppure gli Usa, dove si sta erodendo una Costituzione nata per «assicurare l’indipendenza del governo federale da chiunque non fosse il solo popolo», secondo le famose parole di James Madison. Nel suo libro-denuncia del 2011 sulla “Repubblica perduta” (“Republic, Lost: How Money Corrupts Congress – And a Plan to Stop It”), Lawrence Lessig spiega che la “gift economy” americana prevede uno scambio corruttivo fatto di «favori e rapporti», innescando un conflitto istituzionale che minaccia la democrazia americana, secondo il grande filosofo Ronald Dworkin. Nel 2010 e poi il 2 aprile 2014, infatti, la Corte Suprema ha riconosciuto il diritto costituzionale di «finanziare candidati e campagne elettorali senza limiti alle somme di denaro profuse».Di conseguenza, secondo Lessig, il denaro «è diventato il problema della politica americana e la radice di ogni altro male, che avvelena la fiducia del cittadino nel governo e nella democrazia, divenuta una sorta di sciarada». Così, osserva Rossi, emerge «un virus distruttivo delle democrazie, che induce i tre poteri dello Stato a confrontarsi fra loro nel tentativo di combattere senza successo la corruzione pubblica, che anche quando viene individuata rimane senza sanzione», confermando l’intreccio tra politica e affari. «Né i grandi banchieri né i politici corrotti sono di norma puniti con la reclusione, perché entrambi sono, secondo l’espressione americana, “too big to jail” (troppo importanti per la galera)». E’ così che, lentamente, soccombe il potere che più di ogni altro dovrebbe combattere le disuguaglianze: la giustizia. La mondializzazione tende a privatizzare anche quella: «Le sanzioni contro la corruzione internazionale delle grandi multinazionali globalizzate sono comminate con il versamento di cospicue somme di danaro, attraverso accordi con organismi del potere esecutivo e delle agenzie indipendenti (Doj, Sec), con una giustizia negoziata e privatizzata, secondo la perversa ideologia in voga».In questo modo, «la repressione della corruzione delle grandi società viene definita al di fuori delle autorità giurisdizionali, attraverso una collaborazione interna e un’autodichiarazione di colpevolezza da parte delle società che, pur di evitare la giustizia penale, pericolosa sotto ogni aspetto, anche quello reputazionale, preferiscono dichiararsi colpevoli e collaborare utilizzando complessi sistemi di indagini interne». Si chiamano “accordi di giustizia”, e sono semplici trattative. Senza più una vera giustizia, la corruzione pubblica e privata incoraggiata dalla deregulation continua a dilagare, senza freni, assumendo forme «di apparente legalità, difficilmente sanzionabili». Così, per Rossi, «la lotta contro le disuguaglianze e le corruzioni, pubbliche e private, illegali o elusive, deve essere ormai considerata il principale obiettivo per far sopravvivere le società che le corrette idee del passato, prima della loro disgregazione, ci avevano consegnato attraverso la tutela dei diritti dei cittadini».Plutocrazia, tutto il potere all’élite dei più ricchi. Se ormai conta solo il denaro – ed è quello a decidere chi sale e chi scende, chi vince e chi perde – possiamo dire addio alla politica, alla giustizia e alla stessa democrazia dei diritti. La corruzione dilagante? E’ solo una naturale conseguenza, in un mondo degradato dallo strapotere del denaro, immense ricchezze nelle mani di pochi oligarchi. Ne è convinto Guido Rossi, economista italiano e storico “controllore” della Consob, l’agenzia di vigilanza borsistica. La corruzione dilagante, che ha ormai «permeato tutta la vita politica, economica e sociale del nostro paese», segnando l’evidente «declino dell’ordine e delle istituzioni politiche», è un vero e proprio «sintomo del regime economico, non solo italiano ma europeo, che ci condiziona dagli anni ‘80», da quando cioè i mercati sono diventati «il valore di riferimento», e il denaro «la misura di tutte le cose». Tutto è denaro, quindi ogni bene pubblico è privatizzabile. Con tanti saluti allo Stato di diritto.