Archivio del Tag ‘Indonesia’
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Barnard: il futuro è l’agri-business, e la mafia salverà l’Italia
Il celeberrimo economista del ‘700 Adam Smith (che tutti hanno travisato oggi) si trovò di fronte a una scelta di realismo: doveva scegliere fra un male abominevole, e cioè il dominio assoluto di Re e nobili parassiti, autoritari, succhiasangue di tutti senza far nulla, e un male assai minore, cioè il Libero Mercato nascente all’epoca della nuova borghesia commerciale. Fu REALISTA realista. Non era certo una “bella anima” deficiente come quelle che qui oggi predicano peace&love fuori dal capitalismo senza capire un cazzo della realtà. Adam Smith sapeva che la scelta era quella, e realisticamente scelse il Libero Mercato solo perché gli altri erano troppo orribili da contemplare. Oggi siamo allo stesso punto. Piacerebbe avere il mondo della giustizia e delle violette, ma non ci è concesso. La scelta oggi è di nuovo fra il Neofeudalesimo orripilante della politica tecnocratica europea, fra le Mafie pressoché medievali che abbiamo, e la più moderabile realtà del Mercato. Qui per ora dobbiamo scegliere. Per ora. Chi mi conosce sa il curriculum che ho. Gli altri pazienza.A questo punto dell’apocalisse in Eurozona, quando siamo alla fase forse più terribile del progetto di Friedrich Von Hayek (1899-1992) di distruzione di 250 anni di costruzioni democratiche, progetto pienamente avviato dalle tecnocrazie europee (fra cui quelle italiane di Andreatta, Padoa Schioppa, D’Alema, Bersani, De Benedetti, Prodi, Renzi ecc.), ho in mente quella che è l’unica via d’uscita. Ho in mente qualcosa un secolo avanti. Siamo quindi rimasti fra noi, le persone. Io, con mia madre cieca e 91enne che ha un badante che le succhia (meritevolmente) più di mezza pensione, e sempre io che devo vivere con mia madre con l’altra mezza pensione. Tu che lavori per una miseria, tu che sei un ‘flessibile’, tu che dopo la laurea hai nulla, tu che hai avuto il tuo primo contratto indeterminato a 50 anni, tu che sei cassintegrato, tu che bestemmi come regola ogni giorno, tu pensionato esodato indebitato, voi gente vera. Stiamo con l’Italia della disoccupazione fuori controllo che passa scoreggiando davanti al Job Act di Renzi (meno di 130.000 posti di lavoro creati dal fiorentino, con 285.000 posti persi solo per il sì del fiorentino alle sanzioni alla Russia, poi il resto della débacle).Stiamo con le Piccole Medie Imprese i cui marchi se li stanno comprando per spiccioli i cinesi e russi e tedeschi, a causa del deprezzamento indotto dall’Eurozona sui paesi del Sud Europa, a un ritmo di 350 marchi di prestigio che perdiamo all’anno. Stiamo col fatto che oggi un laureato in giurisprudenza o medicina se non emigra va a lavorare nei pub, anche con famiglia che appoggia. Ok. Sono anni che listo i disastri italiani. Soluzione via d’uscita di Realismo N.1, prima di arrivare alle Mafie: A) Tornare alla Lira, cioè alla moneta sovrana, e applicare le politiche economiche chiamate Mosler Economics. Le potete leggere QUI APPIENO qui appieno. Cosa significano in soldoni? Significano una cosa importantissima fra le tante benefiche per l’Italia, e leggete: “Che l’Italia torna ad avere la sovranità di emettere la propria moneta senza limiti, come fanno Usa e Giappone e Inghilterra. Quindi i mercati sapranno che qualsiasi cosa investano sullo Stato italiano, questo Stato in possesso di moneta sovrana emessa senza limiti sarà sempre in grado di ripagarla in pieno e puntuale. La famosa “ability to pay”, cioè capacità di pagare sempre, che è l’unica cosa che interessa i mercati”.“Oggi non l’abbiamo perché usiamo l’euro, che è moneta non italiana e che dobbiamo prensdere in prestito dalla Bce per pagare i mercati, che per questo motivo diffidano di noi. Ripresa la moneta sovrana in Italia, i mercati tornerano a investire a man bassa sull’Italia ricca (perché lo siamo), sull’Italia sicura nei ripagamenti, e sull’Italia con la piccola media impresa migliore del mondo”. I Mercati sono amorali, sono liberi, vanno dove si sentono sicuri, e se saranno sicuri della ABILITY TO PAY ability to pay dell’Italia con moneta sovrana illimitata, noi li avremo in massa a investire su questo paese geniale che ha saputo passare dalle rovine a livello kosovaro della II Guerra Mondiale alla 5a potenza del mondo in soli 35 anni. I Mercati questo lo sanno, sanno di che fibra siamo fatti, sanno che un tintore di pelli di Reggio Emilia sa battere la concorrenza di tutto il pianeta e diventare un mostro multimiliardario per Ferré, Dolce & Gabbana, Gucci e Krizia. Lo sanno i Mercati di che pasta siamo fatti sul lavoro, e da noi verranno in massa. Sui nostri titoli di Stato investiranno tranquilli (facendoci crollare i tassi d’interesse che Roma paga su di essi), ma, ripeto, solo se avremo quella “ability to pay” che viene dall’essere sovrani nella moneta come Usa, Gb e Giappone.E qui siamo alle Mafie. Salveranno il Sud Italia. Ora, voi, fermi. Quanto guadagnano in stime approssimative le 3 maggiori Mafie italiane all’anno, assommate? Le stime ci dicono circa 100 miliardi di dollari lordi (il riciclaggio gliene mangia enormi fette, quindi il netto è molto meno). Ora attenzione: quanto guadagna una singola megabanca d’investimento, UNA SINGOLA una singola, all’anno lordi? Prendiamo Jp Morgan di Ny: sono 101 miliardi di dollari nel 2014. E questa è una singola banca d’investimento, UNA SOLA una sola, che guadagna poco più delle tre maggiori Mafie del mondo. Quante megabanche esistono nel mondo e quanto guadagnano, quindi? Mafie, fatevi una pippa. Quando le Mafie si sbarazzeranno, e ACCADRA’ e accadrà, dei pecorari cervelli di culo di cane che ancora le dominano, capiranno che il loro futuro di ricchezza sta nel mega-banking in Sud Italia. Le Mafie lasceranno perdere gli investimenti puzzoni in puttane, armi, droga, racket, pizzi, omicidi, ed edificheranno le Istituzioni Finanziarie più avanzate del Sud Mediterraneo. Perché?Perché siamo in attesa del BOOOOM boooom, e lo scrivo appositamente così, della più grande industria planetaria del futuro: l’AGRIBUSINESS agribusiness per il cibo, in sviluppo nell’Africa sub-sahariana. E chi si trova in Occidente ma vicino a quell’Africa? Questo dovete CAPIRLO, CAPIRLO capirlo, capirlo!! Cristo: il Sud Italia è posizionato come nessuna terra al mondo all’incrocio dei traffici più lucrosi dei prossimi 500 anni, quelli del…. CIBO cibo! No, non è il petrolio che manca. Non è il cobalto. Non sono cotone e computer. E’… IL CIBO il cibo. In Africa, la Cina, i Sauditi, la Korea e altri stanno comprando appezzamenti da dedicare all’Agribusiness con altissime tecnologie che sono grandi come mezza Francia o come l’intero Belgio. E mica sono scemi. E’ il cibo che scarseggia al mondo, e questa scarsità diverrà insostenibile quando 1 miliardo e 400 milioni di cinesi, quasi 1 miliardo d’indiani, poi i brasiliani e indonesiani ecc. arriveranno alla classe media. Sarà allora che l’Agribusiness per cibo spazzerà via qualsiasi concorrente in affari.E chi, ditemi chi, avrebbe la capacità di smistare gli affari richiesti da Cina, India, Brasile, Indonesia, come super-banche a pochi chilometri dal Sudan, dalla Tunisia, dall’Egitto? IL SUD ITALIA! Il Sud Italia! Le Mafie abbandoneranno la criminalità miserabile, apriranno super-banche e ci porteranno miliardi in parcelle, investimenti e intermediazioni sull’Agribusiness africano, e molto altro in finanza. Fine famiglie di puzzoni psicopatici di Napoli, Sorrento, Catania, Palermo, Reggio, trogloditi taglieggiatori & puttanieri, fine riciclaggio di rifiuti tossici o armi, fine di un’epoca. Ora, realismo. Adam Smith vienici in aiuto. Non è il mondo peace&love di John Lennon. Ma è di certo un mondo assai migliore di quello di oggi. Cosa avremo?Di fatto avremo due cose: LA SOVRANITA’ POLITICA ED ECONOMICA DEL LEGISLATORE ITALIANO. E LE EX-MAFIE DIVENUTE COLLETTI BIANCHI NEI GRATTACIELI DI POZZUOLI O MESSINA A FAR AFFARI SOTTO I REGOLATORI PARLAMENTARI, COME A WALL STREET. La sovranità politica ed economica del legislatore italiano. E le ex-Mafie divenute colletti bianchi nei grattacieli di Pozzuoli o Messina a far affari sotto i regolatori parlamentari, come a Wall Street. Non c’è paragone con lo sfacelo italiano di oggi. Non esiste paragone. Poi da lì i nostri figli ripartiranno con un’altra battaglia, quella che oggi si combatte in Usa: come portare i secondi pienamente sotto il controllo dei primi per l’Interesse Pubblico. Ma questa è un’altra storia. Realismo: inutile sognare. Già oggi ci leccheremmo i baffi se avessimo uno Stato pienamente sovrano e benestante, e non più le 3 maggiori Mafie di assassini pecorari ricatta-vedove spacciatori trafficanti in droga e armi e puttanieri internazionali. Ecco tutto. Ecco come potrebbe accadere. Realisticamente.(Paolo Barnard, “Ci salveranno i Mercati e le Mafie, per ora. Grazie, Adam Smith”, dal blog di Barnard del 13 settembre 2015).Il celeberrimo economista del ‘700 Adam Smith (che tutti hanno travisato oggi) si trovò di fronte a una scelta di realismo: doveva scegliere fra un male abominevole, e cioè il dominio assoluto di Re e nobili parassiti, autoritari, succhiasangue di tutti senza far nulla, e un male assai minore, cioè il Libero Mercato nascente all’epoca della nuova borghesia commerciale. Fu realista. Non era certo una “bella anima” deficiente come quelle che qui oggi predicano peace&love fuori dal capitalismo senza capire un cazzo della realtà. Adam Smith sapeva che la scelta era quella, e realisticamente scelse il Libero Mercato solo perché gli altri erano troppo orribili da contemplare. Oggi siamo allo stesso punto. Piacerebbe avere il mondo della giustizia e delle violette, ma non ci è concesso. La scelta oggi è di nuovo fra il Neofeudalesimo orripilante della politica tecnocratica europea, fra le Mafie pressoché medievali che abbiamo, e la più moderabile realtà del Mercato. Qui per ora dobbiamo scegliere. Per ora. Chi mi conosce sa il curriculum che ho. Gli altri pazienza.
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Nuovo disordine mondiale, nei Brics torna lo Stato-azienda
La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.Questa stessa radice troviamo nel “progetto globalizzazione”, naturale sviluppo della modernizzazione, discorso esplicitato in particolare da Francis Fukuyama, la cui opera è il manifesto ideologico di quel progetto. Per Fukuyama, il modello sociale occidentale era il punto di arrivo non migliorabile cui la storia tende. Ne deriva, quindi, una visione del resto del mondo come “Occidente imperfetto” in via di rapida assimilazione al suo modello. Se quello di Fukuyama era il manifesto ideologico, Samuel Huntington ha scritto il manifesto politico di quel progetto. Con maggiore realismo, egli sostiene che modernizzazione non significa occidentalizzazione e che gli equilibri di potenza stanno mutando. Pertanto, sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà e la pretesa occidentale di rappresentare valori universali è destinata a scontrarsi con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’egemonia occidentale dipende dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unirsi per rinnovarla e proteggerla dalle sfide degli altri.Dove Fukuyama sognava un mondo uniformato in un’unica grande democrazia liberal-capitalistica, Huntington pensa ad un mondo ancora diviso in modelli culturali diversi ed antagonistici, ma sotto la salda direzione imperiale americana. C’è un terzo manifesto, di natura economica, che riassume il progetto della globalizzazione: il cosiddetto Washington Consensus. L’espressione, formulata nel 1989 da John Williamson, definisce 10 direttive di politica economica destinate ai paesi in stato di crisi, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicate dal Fmi e dalla Banca Mondiale (entrambi hanno sede a Washington): politica fiscale finalizzata al pareggio di bilancio, riaggiustamento della spesa pubblica, riforma del sistema tributario, adozione di tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) positivi, tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato, liberalizzazione del commercio e delle importazioni, liberalizzazione degli investimenti esteri, privatizzazione delle aziende statali, deregulation e tutela del diritto di proprietà privata.Questa piattaforma neoliberista venne poi in gran parte assorbita dagli accordi di Marrakech (1994) che dettero vita all’organizzazione mondiale per il commercio (Wto). La globalizzazione economica prometteva il riequilibrio delle disuguaglianze mondiali ed, attraverso questa dinamica convergente, lo sviluppo economico avrebbe assicurato l’espansione della democrazia e l’abbattimento dei regimi autocratici. Naturalmente, tutto questo avrebbe comportato un “urto” culturale, ma lo shock da globalizzazione sarebbe stato ampiamente compensato dai vantaggi. In parte le promesse della globalizzazione si sono avverate: Cina e India, ad esempio, da economie rurali ed arretrate sono diventate potenze emergenti a forte vocazione manifatturiera. Ma le cose stanno andando in modo molto diverso da quello previsto e lo skock da globalizzazione si sta rivelando molto più duro e contraddittorio. Se è vero che si sono prodotte delle convergenze, è altrettanto vero che si sono prodotte nuove asimmetrie, se è vero che i flussi finanziari, migrativi, culturali, commerciali attraversano in continuazione le frontiere in un mondo sempre più integrato, è anche vero che si sono prodotte nuove linee di faglia più profonde del passato.Inoltre, la globalizzazione non ha affatto prodotto la “fine della povertà”. Emblematico, in questo senso, il caso indiano, dove l’enorme crescita economica convive con le sacche di estrema miseria di sempre. Il capitalismo post coloniale non produce alcuna convergenza sociale fra i diversi paesi perchè, più che mai, è “capitale senza nazione”: estrae da ogni parte plusvalore che accumula in quell’U-topos che è “Riccolandia”. Soprattutto, contrariamente alle aspettative, la globalizzazione neoliberista non ha prodotto quel “nuovo ordine mondiale” cui aspirava; semmai siamo di fronte ad un “nuovo disordine mondiale”. Il mondo è più integrato dal punto di vista economico e delle comunicazioni, ma lo è di meno dal punto di vista politico. Le culture tradizionali, che si era pensato destinate a scomparire presto, hanno resistito (Huntington aveva visto più lontano di Fukuyama) e, pur subendo l’urto della penetrazione culturale dell’Occidente, hanno prodotto sintesi impreviste.Uno dei bersagli del progetto neo liberista è stato l’ordinamento westfalico basato sulla sovranità degli Stati nazione: il governo del mondo sarebbe spettato ad una fitta rete di organismi sovranazionali (dall’Onu al Wto, dal Fmi alla Bm ed alla serie di intese continentali come la Ue, il Nafta, il Mercosur ecc.), dunque, lo Stato nazionale aveva sempre meno ragion d’essere. La ritirata dello Stato dall’economia era la sanzione di questa detronizzazione. Parve che lo Stato nazionale sarebbe stato ridotto ai minimi termini per sottrazione di poteri sia verso l’alto che verso il basso e ci fu chi vide il suo completo annullamento in un nuovo “Impero”, non identificabile con nessuno degli Stati nazione esistenti. In realtà, il deperimento della sovranità nazionale non era affatto omogeneo ed universale, perchè aveva una sua rilevantissima eccezione negli Usa, monopolisti della forza a livello internazionale. Almeno sulla carta, nemmeno una alleanza di tutti gli altri Stati del mondo avrebbe avuto possibilità di vittoria contro gli Usa.Diversamente da quello che teorizzavano Negri ed Hardt, gli Usa non erano subordinati ad alcuna altra istituzione: erano superiorem non recognoscens e, pertanto, pienamente sovrani. Anzi, unico vero sovrano nel nuovo ordine imperiale. Ma nel giro di una quindicina di anni le cose sono rapidamente mutate: le sostanziali sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno dimostrato le fragilità di un esercito che, imbattibile in campo aperto, è inadeguato in uno scontro asimmetrico; nello stesso tempo, la crisi ha obbligato prima a contenere e dopo a ridurre la spesa militare americana, mentre cresce quella asiatica (soprattutto di Cina, India, Giappone, Viet Nam, Corea ecc.). Nello stesso tempo, il deperimento degli stati nazionali non è affatto proceduto omogeneamente in tutto il mondo ed, anzi, in paesi come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa si è registrato un rafforzamento dei rispettivi Stati. E tutto questo sta aprendo un dibattito molto fitto: se Prem Shankar Jha ritiene che gli Stati nazione stiano effettivamente deperendo, ma solo per esse sostituiti dal “caos prossimo venturo”, Robert Cooper distingue fra paesi premoderni (al limite della disintegrazione, come la Somalia), paesi moderni (i paesi emergenti che perseguono i propri interessi nazionali attraverso lo strumento statuale) e paesi “post moderni” (Ue e Giappone che rinunciano a parti della sovranità statale per adeguarsi alle dinamiche della globalizzazione neoliberista), con gli Usa in posizione critica fra la seconda e la terza opzione.Soprattutto, la grande sorpresa è stato il protagonismo economico degli stati emergenti. India, Cina e paesi arabi hanno costituito fondi sovrani assai cospicui per centinaia di miliardi di dollari, inoltre fra le dieci maggiori compagnie mondiali per ricavi, quattro sono controllate dal relativo Stato: tre cinesi (Sinopec Group, China National Petroleum Corporation, State Grid) ed una giapponese (Japan Post Holding). In Brasile le società controllate dallo Stato sono il 38%, in Russia il 62% in Cina addirittura l’80%, e “The Economist” (da cui traiamo questi dati) è giunto a chiedersi se il modello emergente non sia un nuovo “capitalismo di Stato”. Lasciamo impregiudicata la questione se quella di capitalismo di stato sia la definizione migliore o se dovremmo parlare di “neopatrimonialismo” o cercare altre definizioni più aderenti alla tradizione cinese, quel che rileva è che sta emergendo un ordine economico opposto di quello voluto da Whashington Consensus.(Aldo Giannuli, “Il nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 18 agosto 2015).La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.
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Ci hanno portato via il lavoro, ecco la causa del disastro
La finanza non spiega tutto: dietro la crisi dell’Occidente, con la fuga dell’industria verso l’ex terzo mondo globalizzato, rappresenta la punizione storica del capitale contro lavoratori evoluti, ben pagati e tutelati da importanti diritti. Lo sostiene Aldo Giannuli, rileggendo il senso della catastrofe in corso, che sta letteralmente devastando l’Europa. «Dalla fine degli anni settanta – scrive lo storico dell’ateneo milanese – si è manifestata a livello mondiale una tendenza al calo dell’occupazione manifatturiera, nonostante un forte incremento assoluto di produzione industriale». Fenomeno in larga parte spiegabile con il “salto” tecnologico prodotto dalla combinazione fra robot e informatica, che ha drasticamente ridotto la domanda di forza lavoro. Ma attenzione: questo calo non è avvenuto in modo omogeneo: mentre la componente industriale è aumentata vorticosamente nei paesi in via di sviluppo, specie in Asia (Corea e Thailandia, Singapore, Taiwan, e poi Cina, India, Vietnam, Indonesia), coinvolgendo quindi anche Messico, Egitto, Turchia e Argentina), nei paesi avanzati l’occupazione industriale è crollata. Addio lavoro in fabbrica negli Usa, in Europa e in Giappone. Idem nei paesi dell’ex blocco sovietico, salvo Polonia, Germania Orientale e Boemia.«Questo andamento – scrive Giannuli nel suo blog – è stato determinato in larga parte da un sostenuto processo di deindustrializzazione dei paesi avanzati, nei quali sono stati fortemente ridimensionati settori quali la siderurgia, i materiali da costruzione, la chimica base, il tessile e, parzialmente, l’alimentare». Siamo ormai nella “fabbrica globale”, per cui in alcuni settori (trasporti e meccanica, ma anche informatica e telecomunicazioni) i singoli componenti sono prodotti in diversi paesi emergenti, per essere poi assemblati negli stabilimenti della ditta che firma il prodotto. «Di fatto, in Occidente hanno resistito solo pochi settori (come la chimica fine, l’ottica o la farmaceutica) e hanno conosciuto un incremento (sia in termini di occupati che di fatturato) le sole industrie delle armi, del settore satellitare e del lusso». Questo processo, continua Giannuli, è stato determinato dal massiccio trasferimento di capitali e impianti in paesi dell’Asia e dell’America Latina e dal parallelo processo di smobilitazione industriale nei paesi avanzati. «Tutto ciò è stato il frutto di diversi fattori come il rigetto delle popolazioni locali nei confronti delle lavorazioni altamente inquinanti, ma soprattutto dall’esigenza di parte imprenditoriale di abbattere i salari». Così, le delocalizzazioni «sono state la principale arma imprenditoriale nella rivincita contro i lavoratori».Un’operazione brillantemente riuscita, grazie alla collaborazione dei governi di Usa, Europa e Giappone, indipendentemente dal loro colore politico: mentre i tassi di disoccupazione sono saliti mediamente del 4-5%, i salari reali sono calati. In più è cresciuta una massiccia fascia di precariato. E dovunque è peggiorata la parte normativa del rapporto di lavoro. Il trasferimento della produzione verso i paesi del Sud del mondo è stato favorito dal minor costo della forza lavoro, spesso priva dei più elementari diritti sindacali, insieme ad altri vantaggi: disponibilità di terreni a costo zero per gli stabilimenti, debole pressione fiscale dovuta all’assenza di un sistema previdenziale e sanitario, assenza di qualsivoglia normativa di tutela ambientale e, soprattutto, prezzi bassissimi dei trasporti. Il periodo tra il 1982 e il 2006 è stato un autentico “bengodi petrolifero”: il prezzo del barile inferiore ai 40 dollari ha consentito uno sviluppo senza precedenti dei trasporti, soprattutto marittimi. Questo, prosegue Giannuli, ha permesso ai prodotti di arrivare sui mercati a prezzi largamente concorrenziali, dopo aver percorso migliaia di miglia marine.In secondo luogo i cambi: l’introduzione della “fiat money” e la conseguente demetallizzazione del sistema monetario «ha avuto riflessi imprevisti in particolare nei confronti della Cina, la cui moneta non è convertibile (in realtà lo è ma solo attraverso la Boc che, ovviamente, applica i criteri che ritiene più opportuni per sostenere le esportazioni)». Il risultato è il “grande disordine monetario” di valute sganciate da qualsiasi parametro oggettivo, «alcune in reciproco apprezzamento che fluttua di giorno in giorno, altre governate politicamente, altre ancora rette artificialmente dal gioco dei regimi fiscali». Di fatto, «questo ha reso molto più facili le esportazioni dei paesi emergenti, che operano proprio sui margini offerti dal cambio». Si spiega così la provenienza cinese dell’aglio che consumiamo sulle nostre tavole: proprio l’alterazione del regime monetario riesce a rendere più “conveniente” l’aglio prodotto a migliaia di chilometri e trasportato sin qui. Decisivo, in ogni caso, il costo sociale delle delocalizzazioni, che «si sono rivelate il suicidio dell’Occidente». Un piano preciso: «La scelta di deindustrializzare i paesi sviluppati fu orientata in primo luogo a colpire i livelli salariali raggiunti e a smantellare l’organizzazione operaia, che aveva il suo punto di concentrazione nelle grandi industrie».Da industriali, le nostre economie si sono trasformate, basandosi sui servizi e sull’intermediazione finanziaria. Ipotesi rivelatasi fallimentare già nel medio periodo, «e non solo per il disastro finanziario, ma anche quello della bilancia dei pagamenti, intaccata sia dal deflusso di capitali che dal costante passivo della bilancia commerciale». Lo spiega un economista come Emiliano Brancaccio: la bilancia commerciale rappresenta il principale indicatore della forza competitiva del sistema produttivo nazionale. «Il surplus commerciale segnala che il paese non avrà bisogno di deprezzare la propria moneta per reggere la concorrenza, il che rassicura i creditori circa il valore futuro atteso dei titoli emessi». Per cui, aggiunge Brancaccio, anziché imporre un controproducente pareggio di bilancio pubblico, «bisognerebbe orientare le politiche economiche di tutti i paesi dell’Eurozona al perseguimento tendenziale di un altro pareggio: quello delle bilance commerciali». L’Italia, ad esempio, con un disavanzo verso l’estero superiore al 4% del Pil, «dovrebbe realizzare interventi strutturali realmente in grado di rilanciare una produttività del lavoro da tempo stagnante».Da oltre vent’anni la bilancia commerciale dei paesi sviluppati (con l’eccezione, peraltro non costante, di Germania e Giappone) è sostanzialmente in rosso. E questo per due precise ragioni: intanto, lo sviluppo dei servizi non compensa da solo la flessione occupazionale dell’industria. E poi la concorrenza dei paesi emergenti (la cui crescita fu troppo sottovalutata all’inizio del processo di globalizzazione) si è fatta sentire anche in quel campo. «Mentre quasi tutte le merci sono esportabili, non tutti i servizi lo sono», argomenta Giannuli. «Per cui, se posso “esportare” i viaggi aerei con rotte internazionali, non posso esportare il servizio tramviario, allo stesso modo il cui, se posso fornire all’estero servizi di consulenza di vario genere, non posso esportare il servizio dell’anagrafe o quello di chirurgia di urgenza». Una parte significativa dei servizi, per sua natura, è destinata al consumo interno, «per cui è evidente che la bilancia commerciale, attraverso l’esportazione dei servizi, recupera solo una parte di quello che ha perso sul piano della manifattura». In secondo luogo, «le previsioni sulla capacità di sviluppo dei paesi emergenti sono state molto al di sotto della realtà: la Cia, nel 2002 elaborò una ipotesi di scenario per il 2023 nel quale ipotizzava che la Cina avrebbe raggiunto certi traguardi non prima del 2025, ma essi risultarono poi raggiunti già nel 2008».Nel caso dei servizi, aggiunge Giannuli, la grande sorpresa è venuta dall’India: già da tempo New Delhi è definita il “call center del mondo” per i servizi di consulenza più diversi, e oggi inizia ad affacciarsi l’ipotesi di trasferire la diagnostica a medici indiani on line sulla base dei risultati delle analisi cliniche. Inoltre, le università indiane stanno scalando i primi posti per quanto riguarda le facoltà di matematica, e le società indiane offrono servizi di calcolo sempre più sofisticati, mentre le compagnie aeree (Air India, Air Deccan) iniziano a far sentire la loro concorrenza anche sulle rotte internazionali. «Dunque chi pensava che gli “arretrati asiatici” ci avrebbero messo decenni per rivaleggiare anche sui servizi, oggi deve prendere atto che anche qui le cose sono andate molto diversamente». Per dirla in due parole: «Le economie avanzate sono state svuotate, perchè la manifattura è emigrata in Asia e i profitti finanziari sono emigrati a Riccolandia. E questa – conclude Giannuli – è la base della nostra crisi irrisolta».La finanza non spiega tutto: dietro la crisi dell’Occidente, con la fuga dell’industria verso l’ex terzo mondo globalizzato, rappresenta la punizione storica del capitale contro lavoratori evoluti, ben pagati e tutelati da importanti diritti. Lo sostiene Aldo Giannuli, rileggendo il senso della catastrofe in corso, che sta letteralmente devastando l’Europa. «Dalla fine degli anni settanta – scrive lo storico dell’ateneo milanese – si è manifestata a livello mondiale una tendenza al calo dell’occupazione manifatturiera, nonostante un forte incremento assoluto di produzione industriale». Fenomeno in larga parte spiegabile con il “salto” tecnologico prodotto dalla combinazione fra robot e informatica, che ha drasticamente ridotto la domanda di forza lavoro. Ma attenzione: questo calo non è avvenuto in modo omogeneo: mentre la componente industriale è aumentata vorticosamente nei paesi in via di sviluppo, specie in Asia (Corea e Thailandia, Singapore, Taiwan, e poi Cina, India, Vietnam, Indonesia), coinvolgendo quindi anche Messico, Egitto, Turchia e Argentina), nei paesi avanzati l’occupazione industriale è crollata. Addio lavoro in fabbrica negli Usa, in Europa e in Giappone. Idem nei paesi dell’ex blocco sovietico, salvo Polonia, Germania Orientale e Boemia.
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Kissinger: abbiamo vinto, i vostri Stati sono in bolletta
«Vedo in questa crisi globale una grande opportunità», perché «la crisi finanziaria ha fatto il trucco, cioè ha limitato i mezzi che ogni Stato aveva per affermare i propri interessi». Così Henry Kissinger, potentissimo profeta del super-potere mondiale, all’occorrenza anche golpista – ieri coi carri armati, oggi col dominio finanziario di una ristretta élite. «Non c’è neppure più bisogno d’inventarsi un nuovo ordine internazionale», dice l’ex segretario di Stato americano in un’intervista. «Già i problemi esistenti oggi costringono tutti a soluzioni comuni e globali». Li chiama “interessi comuni”, come fossero accordi amichevoli tra buoni vicini di casa, ma in realtà intende l’esatto contrario: «I vicini di casa, cioè gli Stati – scrive Paolo Barnard – vengono prima colonizzati da un unico sistema finanziario, poi sottoposti a crisi di quel sistema talmente devastanti da incatenarli l’uno all’altro, e così per salvarsi sono costretti a cedere tutte le sovranità e a trovare un unico regime politico, o un’unica gestione».Barnard la chiama “l’era degli interessi comuni”, ma ovviamente nell’accezione più orwelliana e ipocrita possibile: la nuova epoca «sarà dettata dalla nazione egemone, in particolare da una minuta élite di uomini». Per Kissinger, «uno dei sacerdoti occulti di questo complotto», l’attuale amministrazione Obama «deve saper cogliere nella crisi la scintilla per costruire un nuovo sistema internazionale». Lo scenario è favorevole: «Ci sono già importanti parallelismi d’interesse fra le grandi potenze, cioè Usa, Cina, Russia, India ed Europa». E aggiunge: «Conosco l’opinione secondo cui si comincia convertendo l’intero pianeta alla nostra filosofia politica». Il super-oligarca americano non vede grossi ostacoli: «Ho parlato a diversi leader mondiali. Ho cercato di capire fino a che punto la crisi finanziaria ha aumentato la loro disponibilità a cooperare con gli Usa».«Di nuovo: il Complotto è lampante, è di una semplicità diabolica», insiste Barnard. «Ripeto: negli scorsi 40 anni il sistema finanziario ha colonizzato tutti, dall’Iran all’Indonesia, dal Giappone alla Russia, dal Brasile a Europa, Cina, Africa. Wall Street e Eurozona fanno deflagrare la più potente crisi in quasi un secolo». L’Eurozona, in particolare, con l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, «la incancrenisce con le Austerità dell’Economicidio, che di rimbalzo mandano sempre più in crisi le potenze anche più distanti, come la Cina». Il sistema, aggiunge Barnard, funziona con degli shock che rimbalzano uno contro l’altro e ri-rimbalzano indietro per ri-sfasciare i paesi da cui si erano originati, in un domino, o cane che si morde la coda, senza fine.«I mezzi sovrani di ogni nazione vegono disabilitati dalle proporzioni immani di questi shock», come nel caso delle banche “too big to fail”, troppo grosse da affrontare coi mezzi tradizionali democratici. «E allora ecco che i cosiddetti leader mondiali vengono costretti a mettersi nella mani di élite di globocrati che sono gli unici oggi in possesso delle chiavi per spegnere questa macchina mostruosa». Interi blocchi continentali, vicini a divenire delle superpotenze economiche fino a pochi anni fa, «si consegnano a questa gestione “comune” in mano a pochissimi uomini: i Neofeudali. Ecco il Complotto». Il vero potere in mano a un’élite esigua, che ormai ha raggiunto l’obiettivo indicato quarant’anni fa dal memoriale di Lewis Powell: neutralizzare completamente lo Stato come governatore democratico del popolo. Togliendoli la linfa vitale: la possibilità di fare spesa pubblica per sostenere il sistema del benessere diffuso.«Vedo in questa crisi globale una grande opportunità», perché «la crisi finanziaria ha fatto il trucco, cioè ha limitato i mezzi che ogni Stato aveva per affermare i propri interessi». Così Henry Kissinger, potentissimo profeta del super-potere mondiale, all’occorrenza anche golpista – ieri coi carri armati, oggi col dominio finanziario di una ristretta élite. «Non c’è neppure più bisogno d’inventarsi un nuovo ordine internazionale», dice l’ex segretario di Stato americano in un’intervista. «Già i problemi esistenti oggi costringono tutti a soluzioni comuni e globali». Li chiama “interessi comuni”, come fossero accordi amichevoli tra buoni vicini di casa, ma in realtà intende l’esatto contrario: «I vicini di casa, cioè gli Stati – scrive Paolo Barnard – vengono prima colonizzati da un unico sistema finanziario, poi sottoposti a crisi di quel sistema talmente devastanti da incatenarli l’uno all’altro, e così per salvarsi sono costretti a cedere tutte le sovranità e a trovare un unico regime politico, o un’unica gestione».
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Forze speciali: la guerra segreta di Obama in 134 paesi
Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».All’epoca di George W. Bush, le forze speciali statunitensi dislocate in “appena” 60 paesi, saliti poi a 75 nel 2010, secondo Karen DeYoung e Greg Jaffe del “Washington Post”. Per arrivare poi a proiettarsi in 120 nazioni nel 2011, come annunciato dal colonnello Tim Nye, portavoce del Socom, il Comando Operazioni Speciali. «Questa cifra oggi è già obsoleta», scrive Turse in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Nel 2013, le forze d’élite Usa erano dislocate in 134 paesi, secondo il colonnello Robert Bockholt ». Questo aumento del 123% durante l’amministrazione Obama «dimostra come, in aggiunta ai conflitti decennali convenzionali, alla campagna dei droni svolta dalla Cia, alla diplomazia e all’esteso controllo della cybersfera, l’America ha lanciato un ulteriore forma significativa di controllo nei paesi esteri». Una strategia «condotta per lo più con missioni-ombra svolte dalle forze d’elite», l’operazione «rimane per lo più sconosciuta ai media ed a ogni forma di controllo», proteggendo la Casa Bianca dalle ripercussioni di «conseguenze spesso catastrofiche e imprevedibili».Prima limitato a 32.000 unità, dopo l’11 Settembre il raggruppamento delle forze speciali è cresciuto in modo esponenziale, raggiungendo quota 72.000 soldati. Idem il costo: da 2,3 miliardi di dollari agli attuali 6,9 miliardi. Secondo ricerche di Tim Dispatch, nel biennio 2012-2013 le operazioni speciali si sono estese a 106 nazioni. Il comando Socom non chiarisce i dettagli sull’impiego di Berretti Verdi, Rangers, Navy Seals e Delta Force, ma alla fine ammette che sono ora impegnati in 134 paesi, in tutto il mondo. Il Pentagono sta «aumentando la propria rete globale», conferma l’ammiraglio William Mc Raven, collaborando con partner stranieri per «prevenire possibili minacce» ma anche «cogliere opportunità». Operativamente, «la rete rende possibile la presenza di piccole unità in posizioni critiche e ne facilita l’azione ove necessario o appropriato». L’aumento del 12% dei dispiegamenti – da 120 a 134 durante la gestione Mc Raven – secondo Turse rivela l’ambizione di «acquisire posizioni strategiche in ogni parte del pianeta», sia pure al riparo dall’opinione pubblica, che di fatto non è informata delle missioni segrete.Addestramenti a Gibuti, in Malawi e alle Seychelles. Poi la “guerra simulata” dei Navy Seals nel porto di Aqaba, in Giordania, insieme a unità irachene, giordane e libanesi. Nel luglio 2013, i Berretti Verdi si sono spostati a Trinidad e Tobago per addestrare forze locali. Un mese dopo, la stessa unità ha addestrato la marina dell’Honduras sull’uso di esplosivi. E a settembre si è svolta una maxi-esercitazione a Sentul, Java occidentale, coinvolgendo Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore, Thailandia, Brunei, Vietnam, Laos, Myanmar, Cambogia, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Corea del Sud, India, Cina e Russia. Molto più scarse, invece, le informazioni sulla guerra “non simulata”: rapimenti di sospetti terroristi in Somalia, raid in Libia e nel Corno d’Africa, operazioni nel Sud Sudan e accanto all’esercito afghano. Non mancano missioni umanitarie, come quella condotta a novembre in soccorso ai sopravissuti dell’uragano Haiyan nelle Filippine. Particolare cura è dedicata alla promozione dell’immagine: propaganda affidata a siti web «su misura per l’utenza straniera» e «fatti in modo da sembrare attendibili punti d’informazione». Il cyber-spazio è anch’esso terra di conquista, da parte del Socom.«Anche se il presidente Obama raccolse milioni voti nelle passate elezioni del 2008 con la sua politica di disimpegno – rileva Turse – ha dimostrato di essere un comandante in capo alquanto interventista, le cui politiche hanno già causato innumerevoli di quelle che, nel gergo Cia, vengono definite “blowbacks”», cioè conseguenze inaspettate subite durante un’operazione clandestina di intelligence, che possono «portare violenze random verso forze o popolazioni ritenute amiche». La Casa Bianca ha anche battuto ogni record di Bush sull’impiego di droni: 330 missioni, contro 51. «Solo nello scorso anno gli Usa hanno diretto azioni di combattimento in Afghanistan, Libia, Pakistan, Somalia e Yemen». Di recente, le rivelazioni di Edward Snowden (fonte, Nsa) hanno svelato all’opinione pubblica «la vastità della sorveglianza elettronica, che sotto l’amministrazione del Premio Nobel della Pace ha raggiunto un livello globale».Nel frattempo, le “blowbacks” devastano intere regioni: a 10 anni dalla famosa “missione compiuta”, il nuovo Iraq voluto dall’America è in fiamme, in preda ai terroristi di Al-Qaeda schierati contro l’Iran. L’abbattimento di Gheddafi ha destabilizzato il Mali, minacciando anche l’Algeria e provocando «una specie di “diaspora del terrore” in tutta la regione». E l’odierno Sud Sudan – nazione che gli Usa hanno artificialmente creato e che tuttora sostengono, nonostante l’impiego massiccio di bambini-soldato – viene utilizzato come base Hush-Hush, cioè segretissima, per operazioni speciali. Così, il paese «sta a letteralmente implodendo su stesso e scivolando verso una nuova guerra civile». Tutto questo, senza che gli americani abbiano la più pallida idea di quello che sta davvero avvenendo. Secondo l’ex colonnello Andrew Bacevich, docente all’università di Boston, l’utilizzo sempre più massiccio delle forze speciali «ha ridotto drasticamente la credibilità delle forze armate Usa, posto le basi per una “Presidenza Imperiale” e messo un piedi una guerra senza fine».L’utilizzo delle forze speciali per missioni-ombra, aggiunge Turse, «riduce la già sottile differenza fra politica e guerra». Così, sempre più spesso, «le conseguenze di queste operazioni segrete sono impreviste e disastrose». La storia insegna: Osama Bin Laden fu ingaggiato dalla Cia contro i sovietici in Afghanistan, prima di tornare sulla scena come protagonista (mediatico) dell’11 Settembre. «Stranamente, il Pentagono sembra non aver imparato nulla da quella devastante “blowback”», l’attacco alle Torri. Oggi, in Afghanistan e in Pakistan si vivono ancora strascichi da guerra fredda, «con la Cia che, per esempio, compie attacchi missilistici contro la rete Haqqani», network terroristico che, negli anni ‘80, la stessa Cia «aveva rifornito, appunto, di missili». Senza un quadro chiaro del mandato reale di queste forze, conclude Turse, il popolo americano non potrà neppure accorgersi del vero motivo di tanti “ritorni di fiamma”, ritorsioni per azioni “coperte” costate morti e feriti, terrore e sangue. In nome dell’America, forse, ma all’insaputa dei cittadini statunitensi.Operano nel Sud-Est Asiatico, immersi nel bagliore verde dei visori notturni. E percorrono le giungle del Sud America. Strappano le persone dalle loro case nel Maghreb e si confrontano con miliziani armati fino ai denti nel Corno d’Africa. Combattono nei Caraibi e nel Pacifico, affrontano il caldo soffocante in missioni nel Medio Oriente e il freddo glaciale della Scandinavia. «Su scala planetaria – accusa Nick Turse – l’amministrazione Obama conduce una guerra segreta di dimensioni sconosciute, almeno fino ad ora». Dal fatidico 11 settembre 2001, le forze speciali Usa «si sono sviluppate in ogni forma concepibile, sia come numerico sia per tipo», proiettate in «operazioni speciali richieste ormai a livello globale». La loro presenza,in quasi 70% delle nazioni mondiali «ci fornisce la prova delle dimensioni di questa guerra occulta che si svolge dall’America Latina all’entroterra afghano, passando dall’addestramento degli alleati africani fino alle operazioni virtuali nel cyber-spazio».
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Dopo Marx, sarà l’ex terzo mondo a sfidare l’élite
“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.Nel blog “Foreign Policy”, Kenny ricorre alla rivisitazione del marxismo: «Nella sua lotta di classe, Marx vide una logica apocalittica. E la battaglia della grande massa contro la piccola plutocrazia aveva una conclusione inevitabile: lavoratori 1, ricchi 0». Marx pensava che l’impulso rivoluzionario proletario fosse soprattutto globale, che le classi lavoratrici sarebbero state unite in tutto il mondo dalla loro comune esperienza di povertà devastante e dall’alienazione della vita in fabbrica. Ragionevole, per l’epoca. Secondo Branko Milanovic, economista della Banca Mondiale, quando nel 1848 fu scritto il “Manifesto” comunista la maggior parte della disuguaglianza del reddito a livello globale dipendeva dalla differenza fra classi su base nazionale. Sebbene alcuni paesi fossero più ricchi di altri, il reddito che poteva rendere un uomo ricco o confinarlo alla povertà in Inghilterra si sarebbe tradotto nella stessa cosa in Francia, negli Stati Uniti e persino in Argentina.Ma, mentre la Rivoluzione Industriale prendeva piede, quella parità mutava drammaticamente durante il secolo successivo: una ragione per la quale la predizione di Marx circa una rivoluzione proletaria globale si rivelò errata. Solo pochi anni dopo la pubblicazione del “Manifesto”, i salari dei lavoratori cominciarono a crescere in Inghilterra. La tendenza proseguì nel resto d’Europa e in Nord America, mentre divennero abissali le differenze col resto del mondo: «Centoquarant’anni fa l’africano medio era ricco un quinto del suo compagno inglese. Oggi, vale meno di un decimo». Mentre l’Occidente decollava verso una crescita continua, scrive Kenny in un intervento ripreso da “Come Don Chisciotte”, le differenze di reddito fra paesi sovrastavano il divario di reddito all’interno dei paesi stessi. Ovvero: «Una segretaria a tempo determinato nell’Est di Londra può ancora avere difficoltà ad arrivare alla fine del mese, ma se la mandi a Lagos potrà vivere come una regina». Lo stesso Milanovic stima che il reddito medio del 5% più ricco dell’India equivale a quello del 5% più povero degli Usa.I lavoratori municipali di più basso grado in Europa e negli Stati Uniti sono ben più ricchi dei loro omologhi nei paesi poveri in via di sviluppo, e stanno comunque meglio della gran parte degli occupati in quei paesi. Vero, la povera gente in Europa e in America fa parte dell’élite reddituale, secondo gli standard del Sud Asia o dell’Africa. Questo perché «i lavoratori di tutto il mondo non si sono ancora uniti», conclude Kenny. Nel 1920, l’Internazionale Comunista condannò il “tradimento” di molti socialisti europei e americani durante la Prima Guerra Mondiale, quando difesero la madrepatria per camuffare il “diritto” della loro borghesia di schiavizzare le colonie. Per i comunisti, la diffidenza generata nel resto del mondo poteva essere sradicata solo abbattendo l’imperialismo nei paesi avanzati e riscattando l’economia del terzo mondo. Oggi, il colonialismo si chiama globalizzazione. Ma secondo Kenny «è ancora un processo in fase di cambiamento», perché «a mano a mano che i mercati globali diventano sempre più interconnessi, i redditi medi convergono». Dati alla mano, «gli ultimi dieci anni hanno visto i paesi in via di sviluppo crescere molto più rapidamente dei paesi ad alto reddito, diminuendo la differenza fra redditi medi».Un altro economista, Arvind Subramanian, prevede che la Cina nel 2030 sarà ricca come l’intera Unione Europea oggi. E lo stesso Brasile non sarà molto indietro, attestandosi a un Pil pro-capite di 31.000 dollari, seguito a breve distanza da paesi come l’Indonesia e la Corea del Sud. «Semplicemente – annota Kenny – questo significa che, nello spazio di una generazione al massimo, una buona porzione del mondo sarà presto ricca, o come minimo solidamente classe media». Secondo le previsioni sviluppate in collaborazione con Sarah Dykstra di “Global Development”, Kenny rileva che circa il 16% della popolazione della Terra vive in paesi tanto ricchi da poter essere considerati dalla Banca Mondiale “ad alto reddito”. Se i tassi di crescita continueranno come nella decade passata, il 41% della popolazione mondiale si troverà entro il 2030 nella fascia “ad alto reddito”. «Quindi, se i paesi in via di sviluppo continueranno a crescere al ritmo che abbiamo visto di recente, la disuguaglianza fra nazioni si ridurrà, e la disuguaglianza all’interno delle nazioni tornerà la componente dominante della disuguaglianza globale».Ciò significa che Marx aveva ragione, con due secoli di anticipo? «Non esattamente», sostiene Kenny. «La realtà è che questa nuova classe media avrà una vita che la classe lavoratrice dell’era vittoriana poteva solo sognare. Lavoreranno in negozi e uffici illuminati da led piuttosto che in oscure e infernali fabbriche. E vivranno quasi 40 anni più a lungo della persona media nel 1848, secondo l’aspettativa di vita alla nascita». Ma la vera domanda è: condivideranno la causa con i loro compagni operai che sono ad un oceano di distanza? «Forse, ma non perchè le barricate sono l’unica opzione praticabile. Marx ha predetto che la classe lavoratrice globale si sarebbe unita e ribellata perché ovunque i salari sarebbero stati portati a livelli di sussistenza. Ma, a mano a mano che i salari crescono e si livellano in tutto il mondo, la brutta situazione del proletariato – lavoro duro, paga bassa – oggi più che mai significa lavoro più semplice e paga migliore».Solo in Cina, questo sviluppo sta portando centinaia di milioni di persone fuori dalla povertà. «Proprio perché il ricco e il povero di Lagos e di Londra si somiglieranno, sarà più probabile nel 2030 un’unione dei lavoratori di tutto il mondo». Mentre la tecnologia e il commercio livellano il campo di gioco e uniscono l’umanità, i previsti 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo potranno capire quanto hanno in comune rispetto alle super-ricche élite dei propri paesi. Secondo Kenny, i nuovi esponenti della mid-class mondiale «faranno pressioni sui governi per collaborare al fine di assicurare che il loro sudore e il loro sangue non arricchiscano troppo una piccola globale élite capitalista, ma siano diffusi più largamente». E magari «lavoreranno per fermare i paradisi fiscali dove i plutocrati del mondo nascondono i loro guadagni, e sosterranno i trattati per prevenire le corse al ribasso sui diritti del lavoro e nelle politiche fiscali pensate e stilate per attrarre le compagnie». Uno stile di vita globale, non solo per i più ricchi. Rivoluzione in vista? «La prossima decade – profetizza Kenny – non vedrà tanto la povertà disperata affrontare la plutocrazia, quanto la classe media riprendersi quanto le spetta».“Lavoratori di tutto il mondo unitevi”, recita l’iscrizione sulla tomba di Karl Marx nel cimitero di Highgate a Londra. Di sicuro la storia non è andata proprio in questo modo. Per quanto rumore “Occupy Wall Street” sia riuscito a generare in pochi mesi, ora il silenzio è assordante. Infatti, mentre le multinazionali si mangiavano il potere contrattuale dei lavoratori, gli operai del mondo ricco sono diventati meno inclini ad aiutare i loro compagni salariati dei paesi poveri. Ma c’è una scuola di pensiero che immagina il ritorno di una politica di classe globale. Se così fosse, dice Charles Kenny, le élite dovrebbero iniziare a tremare. Un nuovo spettro si aggira per il mondo, inquietando l’1% dei super-ricchi? Forse sì: ed è «l’attivismo della classe media». A una condizione, ovviamente: che non cessi la crescita dei Brics e dell’ex terzo mondo. In quel caso, un nuova mid-class globale potrebbe rivendicare i suoi (nuovi) diritti, sfidando l’attuale strapotere dell’élite.
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Il generale Mini: la guerra climatica è già cominciata
La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.Ne ha parlato di recente, in un convegno a Firenze largamente disertato dai media, l’ex comandante delle forze Nato in Kosovo. Mini rivendica la responsabilità di aver posto in Italia l’attenzione su questo tema quando nel 2007 scrisse l’articolo “Owning the weather: la guerra ambientale è già cominciata”, ufficializzando uno scenario nuovo e inquietante: le forze della natura sono adoperate e piegate come strumento ed arma. Può accadere, sottolinea Mini, perché – come di fronte a qualsiasi altra aberrazione di carattere mostruoso – l’opinione pubblica è innanzitutto incredula: «La maggior parte delle persone ritiene inconcepibili certi scenari, in quanto non è al corrente delle progettazioni in materia di tecnologie militari e quindi delle conseguenti implicazioni». Da un lato c’è la rassicurante convenzione Onu del 1977, che proibisce espressamente «l’uso militare, o di altra ostile natura, di tecniche di modificazione ambientale con effetti a larga diffusione, di lunga durata o di violenta intensità». In realtà, al 90% le prescrizioni Onu vengono regolarmente disattese, in particolare dai militari. I quali «hanno già la capacità di condizionare l’ambiente: tornado, uragani, terremoti e tsunami alterati o addirittura provocati dall’uomo sono una possibilità concreta».I militari, riassume Mini – citato nel report del blog “No Geoingegneria” – prediligono la tecnologia. E le loro richieste alla scienza non sono per programmi attuabili a breve termine, ma sono progetti con sviluppi nel medio e lunghissimo termine. Attenzione: «Non esiste una moralità che possa impedire di oltrepassare un certo punto. Basti pensare allo sviluppo e le applicazioni degli ordigni atomici. Non esiste vincolo morale, ciò che si può fare si fa». Inoltre, la nuova tecnologia viene applicata anche a livello immaturo: «La voglia di conseguire un vantaggio spinge ad usare le tecnologie senza fare test a sufficienza. Una possibilità viene messa in atto per verificarne il funzionamento, sperimentandone direttamente sul campo gli effetti». Già nel 1995, uno studio dell’aeronautica militare statunitense (“Weather as a Force Multiplier: Owning the Weather in 2025”) delineava i piani da sviluppare per conseguire nell’arco di 30 anni il controllo del meteo a livello globale. Secondo Mini, non si parlava ancora di “possedere il clima”, ma di controllare il meteo e lo spazio atmosferico per condurre operazioni belliche, «per esempio irrorando le nubi con ioduro d’argento, altre sostanze chimiche o polimeri, per dissolverle oppure spostarle».Si tratta della possibilità di destabilizzare una regione o paese, in qualsiasi parte del mondo. Oggi, a 17 anni dalla pubblicazione di quello studio, secondo il generale Mini «siamo piuttosto vicini al traguardo del 2025». Secondo il meteorologo statunitense Edward Norton Lorenz, padre della “teoria del caos”, mai e poi mai avremo conoscenze sufficienti a verificare le effettive conseguenze di una modificazione climatica. Se qualcuno trae un vantaggio da una modificazione climatica, dall’altra ci sarà qualcun altro che ne subisce un danno, e non è detto che lo paghi in termini lineari, con conseguenze anche catastrofiche, che Lorenz chiama “effetto farfalla”. Proprio in quegli anni si comincia a pensare non solo di cambiare il meteo, ma di creare una situazione permanente e quindi di trasformare il clima. «Così qualcuno inizia a pensare: cosa rende l’Europa prospera e le garantisce un clima favorevole? La corrente del Golfo del Messico. Bene, allora qualcuno si è messo a studiare come modificare questa corrente. Non solo, ma qualcuno ha iniziato a chiedersi: possiamo provocare un terremoto? Qualcuno ha risposto ‘si può fare’». Qualcuno chi?La domanda, infatti, è particolarmente inquietante: da chi scaturisce quella volontà politica che sta alla base della catena di comando? Brutte notizie, dice Mini: gli Stati stanno perdendo il controllo della situazione, che è monopolizzata da ristrettissimi gruppi di potere. Il generale le chiama “bande”. Sono costituite da «persone, associazioni e corporazioni, coaguli di potere che non hanno nessun interesse istituzionale, ma conseguono solamente il proprio interesse, e nel nome di esso sono disposte a mandare in crisi un sistema per modificarlo a proprio vantaggio, utilizzando mezzi illegali e legali». L’enorme potere di questo super-clan è confermato dalla situazione mondiale di massima emergenza, come confermato dalle analisi di carattere strategico a livello militare. In sintesi: la demografia del pianeta è in aumento esponenziale, le risorse della Terra sono in netta diminuzione, l’economia globale è in recessione. Insomma, la coperta è sempre più corta. E il ruolo degli Stati nella definizione della minaccia è ormai ridotto a zero.Non sono più gli Stati a decidere, a individuare o prevedere le minacce, sottolinea Mini. Sono “altri” che fanno le analisi. E fare le valutazioni della minaccia «vuol dire fornire le indicazioni per la politica». Bene, «questa prerogativa non è più nelle mani degli Stati, neanche di quelli forti». George W. Bush, quando ha avviato la “guerra infinita” innescata dagli attentati dell’11 Settembre, non è stato indirizzato da fonti istituzionali, ma da «qualcuno che lavora fuori dalle istituzioni, contro le istituzioni». La situazione è veramente critica: molti Stati hanno l’acqua alla gola, colpiti dalla crisi e ricattati dalla cupola finanziaria mondiale. La criminalità è in netto aumento, il contrasto verso le mafie si è indebolito e la percezione dell’insicurezza è cresciuta. Ogni problema viene estremizzato: la favola dello “scontro di civiltà” tra cultura giudaico-cristiana e cultura musulmana resta «il faro politico di tutte le relazioni internazionali». Così, non fa che cresce la militarizzazione del pianeta: «Le cose che venivano fatte con strumenti civili oggi vengono fatte quasi esclusivamente con strumenti militari, inducendo gli ambienti militari ad essere sempre più proiettati verso il controllo e il possesso di strumenti tecnologici per attuarlo».La dualità, lo scontro, si manifesta in maniera preponderante nello spazio, con il controllo delle telecomunicazioni e dei sistemi di difesa, e ora anche nell’ambiente, «che non è più il luogo ove la guerra si manifesta, ma è l’arma», e negli agglomerati urbani, «che sono i luoghi dove si prevede il maggior intervento in termini di militarizzazione». Lo spazio è definito un “bene comune” e come tale dovrebbe essere salvaguardato. «Ma non succede, e la percezione di scarsa sicurezza alimenta un incremento della militarizzazione». Come si sfrutta l’ambiente come arma? «Non solo con le modifiche meteorologiche, ma anche tramite la negazione delle informazioni. Non c’è solo la disinformazione sull’ambiente, ma c’è una pratica militare che si chiama “denial of service”». Ovvero: «Si stabilisce che è necessario non solo negare la realtà o l’evidenza, ma negare l’informazione». E questo, ribadisce Mini, è già un vero e proprio atto di guerra. «Determinate persone o paesi non devono venire a conoscenza delle informazioni», anche se questo può causare catastrofi di proporzioni bibliche, come il devastante tsunami abbattutosi sulle coste dell’Indonesia. «Lo tsunami indonesiano è ancora uno scandalo: l’informazione sul suo arrivo era disponibile, ma interruzioni nella trasmissione dati a causa di anelli malfunzionanti, o volutamente non funzionanti, ne hanno impedito la comunicazione».Un altro aspetto è emblematicamente rappresentato dal sistema Haarp. Invece di influire sull’ambiente a carattere solo locale, dice Mini, ormai si può incidere globalmente. Come? «Andando a creare, artificialmente, dei punti più caldi o più freddi, e quindi modificando il clima interferendo anche sulle correnti». Lo stesso dicasi per le alterazioni che provocano i terremoti, anche se il generale nega che il recente terremoto in Emilia sia stato “indotto”. Ma attenzione: «Nessuno può negare che ci siano state più di 2.000 esplosioni nucleari nel sottosuolo terrestre, nella profondità degli oceani e persino nello spazio». Già negli anni ’90, per colpire obiettivi di interesse militare in Cina, «fu pianificato di indurre un terremoto con delle esplosioni dalla zona di Okinawa». La dismissione di migliaia di ordigni nucleari, dopo la fine della guerra fredda, ha creato un mercato dei materiali fissili da innesco. «Le grandi compagnie petrolifere si offrirono di reimpiegarli e sappiamo che è possibile agire sulle faglie inducendo terremoti tramite ordigni nucleari o micro-nucleari».La guerra ambientale non è più solo un’ipotesi: è già in atto. Ma guai a dirlo: si passa per pazzi. Eppure, «negare l’informazione è già un atto di guerra fondamentale», denuncia il generale Fabio Mini, che conferma tutto: la “bomba climatica” è la nuova arma di distruzione di massa a cui si sta lavorando, in gran segreto, per acquisire vantaggi inimmaginabili su scala planetaria. Alluvioni, terremoti, tsunami, siccità, cataclismi. Uno scenario che, purtroppo, non è più fantascienza. E da parecchi anni. Era il lontano 1946 quando Thomas Leech, scienziato e professore israeliano-neozelandese, lavorò in Australia per conto dell’Università di Auckland con fondi americani e inglesi per provocare piccoli tsunami. Il successo del “Progetto Seal” spaventò Leech spingendolo a fermarsi dopo i primi test. Ma chi ci dice che la manipolazione del clima non sia stata portata avanti? Oggi, con la robotizzazione, per molte “operazioni” bastano poche persone. «Non ci sono vincoli, non ci sono regole, se c’è la possibilità di farlo ‘qualcuno’ lo farà». Non i governi, ma ristrette élite.
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Offsetting: finanziarizzare la natura per rapinare la Terra
Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.Una pratica simile a quella dei famigerati “crediti di carbonio”, che permette alle aziende responsabili del danno di dichiararsi “investitori nella protezione dell’ambiente”, con conseguente ritorno d’immagine e “greenwashing” dei loro prodotti e servizi. Così, la protezione dell’ambiente si trasforma in un sottoprodotto commerciale. «Il paradosso è che le più grandi aberrazioni in tema di ambiente vengono concepite proprio in occasione dei grandi vertici internazionali, spacciati per momenti di bilancio e autocritica, per ricercare soluzioni alle drammatiche emergenze dell’umanità e del pianeta». Già il Protocollo di Kyoto aveva sostenuto la logica dei “permessi di inquinamento” per il carbonio, ma il peggio è avvenuto nel giugno 2012 al vertice di Rio +20: la “Dichiarazione sul Capitale Naturale e sui Servizi resi da un ecosistema”, elaborata dalla grande finanza, sdogana ufficialmente il “mercato delle indulgenze ambientali”.Cibo, fibre, acqua, aria, salute, energia, sicurezza climatica: i beni e i servizi degli ecosistemi del “capitale naturale” ogni anno ammontano a trilioni di dollari. Sono fondamentali per la nostra sopravvivenza, anche se il loro immenso beneficio non è “registrato all’interno dei nostri sistemi economici”. Grosso problema, per chi non conosce altra misura che il denaro. Che il vero benessere non influisca sul Pil, ai “padroni dell’universo” non sta bene: non è “sostenibile”, letteralmente, il mancato conteggio – in soldoni – di tutto quanto ci è davvero indispensabile per vivere. «Non esiterei a paragonarla a una dichiarazione di guerra al pianeta e ai suoi abitanti», protesta Rebecca Rovoletto: la pretesa mercificazione finale dell’habitat «impone una sofisticata e sordida “anschluss” semantica», dove anche la natura viene assorbita dal mondo del mercato. «E questo sta avvenendo mentre ovunque nel mondo ci si batte per la difesa dei territori, per la sovranità alimentare e l’accesso alla terra, per il diritto alla gestione e tutela dei beni comuni naturali da parte delle comunità».Mentre sale la protesta dei movimenti sovranisti organizzati, coi contro-vertici di Bruxelles e Edimburgo, nel sistema globalizzato non c’è istituzione che non sostenga questa nuova, perversa visione: si va dall’Unesco al Wwf, che ha sottoscritto la Dichiarazione di Rio e «sposato questa falsa soluzione in un’ottica di investimento di capitali finanziari in alcune riserve protette, a discapito però di tutte le altre aree aggredite». Per Rovoletto, si aprono scenari inimmaginabili: «La natura è unica e complessa, è impossibile misurarne la biodiversità: allora chi e come stabilisce il valore di un ecosistema?». Alcuni ecosistemi hanno impiegato migliaia di anni per raggiungere il loro stato attuale: «Possono essere riproducibili? E che valore hanno i loro abitanti, umani e non umani? Che fine faranno la sussistenza, le economie, la cultura?». Attenzione: «La natura ha un ruolo sociale, spirituale e di sostegno per le comunità, che definiscono il proprio territorio sulla base di interrelazioni tradizionali con la terra: come si può pensare di sfollare intere comunità?».Per il mercato, tutto questo si traduce in un prezzo, «calcolato da discutibili software», con simulatori che conteggiano, al volo, i “crediti di natura”. Il “pallottoliere digitale” è destinato ai proprietari di terreni e foreste intenzionati a mettere all’asta, come “offset”, i loro tesori naturali: «Nasceranno istituti per certificare i valori degli habitat, società di rating per stabilire le classifiche degli investimenti più redditizi, broker e intermediari per un mercato dalle infinite e infernali potenzialità». I casi studiati, aggiunge “Democrazia Km Zero”, dimostrano come questa pratica incentivi lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali, minando ogni tipo di pianificazione “verde”: «La logica dell’offsetting della biodiversità separa le persone dall’ambiente e dai territori in cui vivono, marginalizzandole fino a minacciare lo stesso diritto alla vita».In Brasile, per esempio, il nuovo codice forestale permette ai proprietari di terre di distruggere i boschi contro l’acquisto di “certificati di riserve ambientali” emessi dallo Stato e commercializzati alla Borsa Verde di Rio, cioè, il “mercato di titoli verdi” creato di recente dal governo brasiliano. Si sta muovendo il super-potere mondiale, regista della disastrosa globalizzazione del pianeta: la Banca Mondiale e la Bei, Banca Europea per gli Investimenti, puntano a includere l’offsetting della biodiversità nei propri standard, «come strumento per “compensare” il danno permanente causato dalle grandi infrastrutture che queste stesse istituzioni finanziano». E mentre Londra sta cercando di introdurre l’offsetting nel proprio quadro normativo, «compromettendo l’iter decisionale democratico e indebolendo le voci delle comunità», in Francia fa scandalo il progetto aeroportuale di Notre Dame des Landes: l’agenzia Biotope ha ricalcolato il “valore” dell’ecosistema considerando le sue “funzioni” e non la sua estensione, così il maxi-costruttore Vinci dovrà provvedere all’offsetting di appena 600 ettari di zona umida, anziché 1.000.«Da 40 anni l’opposizione degli abitanti ha permesso di bloccare il progetto e ha messo in discussione lo schema di offsetting», ma ora la Commissione Europea sta intervenendo anche sul caso francese: attraverso la “strategia europea 2020 sulla biodiversità”, Bruxelles vuole dotarsi di una legislazione sull’offsetting che includa la creazione di una “banca degli habitat” per consentire l’offsetting di specie e habitat naturali all’interno dei confini europei. «Lo scopo è quello di annullare la “perdita netta” (no net loss) della biodiversità, obiettivo assolutamente diverso da quello precedentemente perseguito di garantire “nessuna perdita” (no loss)». E’ la stessa filosofia iper-liberista della Banca Mondiale, che ha finanziato il mega-progetto di estrazione mineraria di nichel e cobalto Weda Bay in Indonesia.L’azienda mineraria francese Eramet dichiara di coniugare “business e biodiversità”, dal nome dell’ambiguo progetto europeo che punta a raccogliere fondi anche dalla Banca Asiatica di Sviluppo, dalla Banca Giapponese per la Cooperazione Internazionale (Jpic) e dalle francesi Coface e Agenzia di sviluppo (Afd). L’impatto sulle persone e sul territorio? Enorme: infatti, «il progetto è contestato dalle comunità indonesiane e da organizzazioni della società civile internazionale». Per Rebecca Rovoletto, «è chiaro che ci troviamo di fronte a un giro di boa fondamentale nella folle corsa che sta sistematizzando il paradigma della finanziarizzazione globale della natura, all’interno del noto orizzonte sviluppista-speculativo e della retorica mistificante che si appella alla sostenibilità e alla salvaguardia, alla partecipazione e all’equità. Un paradigma dalle profonde implicazioni, queste sì, davvero eversive dell’ordine naturale del creato».Al confronto, la privatizzazione dell’acqua fa ridere. Lo chiamano “biodiversity offsetting” o “ecosystem offsetting”: è il nuovo trucco della finanza globale per mettere definitivamente le mani sugli ecosistemi. Tutto deve avere un prezzo, l’ambiente va comprato e venduto, trasformato in business. Finanziarizzazione della natura, istruzioni per l’uso. Energia, miniere, trasporti: le grandi opere devastano un’intera area? Niente paura, basta “quotare” il danno e trasferire il risarcimento altrove. Europa, istituzioni finanziarie e governi (Regno Unito in testa) premono per introdurre il concetto della “compensazione traslata” del danno ambientale, in particolare di habitat protetti e biodiversità. Se la “valutazione di impatto ambientale” punta a causare il minor danno possibile, il nuovo meccanismo non si cura più di salvare il territorio minacciato ma si limita a quantificare il danno. «Parallelamente, si sta creando un mercato di titoli collegati alla biodiversità e agli habitat naturali da avviare alla compravendita, come per qualsiasi altro titolo di investimento altamente speculativo», spiega Rebecca Rovoletto su “Democrazia Km Zero”.
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L’oro di Berlino contro il dollaro? Finiremo nella bufera
Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.Nel clamore generale, scrive De Martini sul “Corriere della Collera”, l’unica cosa che i leader europei hanno certamente capito è «che persino le loro telefonate più private – anche quelle sentimentali delle signore – sono state registrate». Quindi, un “leak” potrebbe «tradire i loro più riposti rapporti con il governo americano». Faranno meglio a tenerlo a mente, aggiunge De Martini, il giorno – ormai non lontano – in cui collasserà l’insostenibile Eurozona. «L’attuale quotazione dell’euro non è così forte da provocare una grave crisi diplomatica con gli Usa, ma è abbastanza forte da provocare un restringimento della base occupazionale e delle esportazioni dei paesi europei». Attenzione: questa crisi farà traboccare il vaso, perché «si aggiunge alla crisi della bolla Internet, a quella dei subprime, a quella immobiliare, a quella bancaria, a quella produttiva e a quella occupazionale». Il detestato euro, la moneta che doveva unire il continente, rischia di spezzarlo, lasciando l’Europa totalmente indifesa di fronte al declinante dominio dell’impero americano.Ormai, un euro vale quasi un dollaro e mezzo. E’ considerato troppo forte dagli acquirenti mondiali di beni industriali, cosa che penalizza le esportazioni europee (non certo quelle statunitensi). «In pratica è come se le imprese americane vendessero col 40% di sconto rispetto a noi». L’inflazione, in Eurozona? «Praticamente inesistente: il tasso d’interesse della Bce è ormai dello 0%», quindi la banca centrale «non è in grado di stimolare l’economia». Contraccolpi: i bond italiani franano, la Francia continua a perdere 50.000 posti di lavoro al mese. Il solo ossigeno possibile, dice De Marini, è il “quantitative easing”, che il governo Letta rifiuta, preferendo la ricetta tedesca: più tasse e meno spesa pubblica. «La Germania, forte di un surplus commerciale quasi triplo in termini reali e assoluti rispetto alla stessa Cina, vuole tornare al Gold Standard», anche se questa scelta antinflazionistica penalizza i paesi come l’Italia, che dispone sì della quarta riserva aurea mondiale, ma ha i conti pubblici devastati.Secondo De Martini, la scelta tedesca di puntare sull’oro «comporta il crollo americano», profilando scenari da guerra mondiale. Gli Usa, ricorda l’analista, abbandonarono il vincolo aureo per la quotazione del dollaro nel 1971: stampare tanto denaro quanto necessario al rilancio dell’economia significa considerare che «la vera ricchezza su cui misurare un paese è il suo apparato produttivo e la sua capacità di penetrazione commerciale nel mondo». Oggi, gli Usa stampano 85 miliardi di dollari al mese. «Questo potrebbe creare un problema di credibilità nell’ipotesi di una richiesta di rientro dal debito, ma nessuno si sogna di chiedere il rientro a un debitore manesco che domina i mari del globo con diciannove portaerei». Durante la recente crisi per l’approvazione del bilancio americano, in cui aleggiava lo spettro del default, i tassi d’interesse del debito Usa non si sono mossi di un millimetro: «Chi spera nel default del dollaro si disilluda», avverte De Martini. «La legge per i forti non è la stessa nostra. Il ferro pesa più dell’oro».Insieme agli Usa, a non temere più il rischio-inflazione per decenni agitato dai neoliberisti sono oggi Gran Bretagna e Giappone. «Alla lunga, dicono gli economisti ortodossi, il default è inevitabile». Alla lunga, appunto: mentre il respiro corto dell’Europa “tedesca”, quell’euro tenuto al guinzaglio dalla Bce, segna già oggi la fine economica di tutto ciò che non è Germania. I riflessi geopolitici dello scontro che si profila sono di vastissima portata, scrive De Martini: al confronto planetario tra Usa, Cina e Russia si aggiunge ora la collisione economica e ideologica fra «la triade del quantitative easing», cioè Usa, Regno Unito e Giappone, e la Germania, «attorniata dai vari paesi della Ue, alcuni dei quali stanno dando segnali di esaurimento economico e politico». La Russia «non sfida apertamente il dominio del dollaro», mentre i cinesi cercano di affermare la loro valuta sugli scambi internazionali, per ora solo bilaterali, con India, Indonesia e Giappone. E mentre un paese come l’Italia è alla canna del gas, la Merkel continua a barare: dopo averci tenuto col fiato sospeso in attesa del traguardo elettorale tedesco «facendoci soffrire in attesa di un momento di sollievo», ora attende le elezioni europee «per distinguere gli alleati buoni dai cattivi e i fedeli dagli infedeli». Ma ormai «sono in molti a ritenere che stia tirando troppo la corda».Giusto il tempo di chiudere il capitolo “guerra in Siria” sbattendo la porta in faccia all’ambasciatore di Al-Qaeda, il capo dei servizi segreti sauditi Bandar Bin Sultan, ed ecco che la violenza terrorista esplode simultaneamente al confine con l’Iran, a Volgograd in Russia e in piazza Tienanmen a Pechino, cioè a casa dei sostenitori di Assad che hanno appena fermato i missili Nato nel Mediterraneo. L’America di Obama? Infangata dagli imbarazzi del Datagate e decisa a farla pagare cara a Snowden e Assange, il quale – fra le rituali proteste dei governi europei, coinvolti fino al collo nello spionaggio Usa – rivela che «un ministro dell’Ue collabora attivamente con la Cia». Il clamore per lo scandalo planetario, sostiene Antonio De Martini, in realtà nasconde la vera “bomba” in arrivo, e cioè la crisi dell’euro. E se collassa l’Europa, salta in aria l’unico soggetto «in grado di competere con gli Usa a livello mondiale», e di mettere in crisi l’arma principale del dominio americano: il dollaro.
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Pilger: il nostro grande nemico, di cui nessuno osa parlare
Attaccata al muro di fronte a me c’è la prima pagina del “Daily Express” del 5 settembre 1945 con le parole: «Scrivo questo come avvertimento per il mondo». Così cominciava il rapporto da Hiroshima di Wilfred Burchett. Fu lo scoop del secolo. Per quel suo solitario, pericoloso viaggio che sfidava le autorità di occupazione americane, Burchett fu messo alla gogna, anche dai colleghi che lavoravano con lui, ma fece sapere al mondo che un atto premeditato di omicidio di massa, su scala epica, aveva innescato una nuova era di terrore. Quasi ogni giorno, ora, ci si riconosce nelle sue parole. Tutta l’intrinseca criminalità dei bombardamenti atomici si è sprigionata, dagli archivi nazionali Usa, per decenni di militarismo camuffati da democrazia. Come si vede chiaramente oggi nello psicodramma della Siria. Ancora una volta, tengono il mondo in ostaggio per combattere un terrorismo, la cui natura e la cui storia è ormai negata anche dal più liberale dei critici. L’Innominato, che è il più grande e pericoloso nemico dell’umanità, abita a Washington.
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Un G20 storico, se i Brics fermano i predoni del pianeta
L’irruzione dei Brics nel G20 dimostra che i tempi stanno per cambiare: non potrà più essere solo Washington a dettare le regole del gioco. Una lunghissima stagione egemonica, dopo Yalta e Bretton Woods, forzata nel ’71 con la fine del Golden Exchange Standard, evento che fece crollare tutto l’impianto, «figlio della Rivoluzione Francese ed elaborato dalla massoneria mondiale». Fu in quell’occasione, rileva Glauco Benigni, che «la volontà di egemonia di una minoranza» si impose apertamente «contro il resto dell’umanità»: e il pianeta «paga tuttora quel progetto», che consente al dollaro di considerarsi (al 65%) moneta di riserva mondiale, quindi stampabile all’infinito, «solo perchè garantito e “coperto” dal bisogno di petrolio degli umani». Se la Guerra del Kippur nel ’73 siglò il secondo atto della tragedia e la caduta del Muro di Berlino una nuova pace provvisoria, lo scoppio del Nasdaq nel 1999 fu l’alba della nuova era, quella dalla quale il mondo sta ora cercando affannosamente di uscire.
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Il vero peso dell’Italia, occultato dai padrini dell’euro
Opinion maker come Eugenio Scalfari e Giovanni Floris fanno operazioni di «spudorato terrorismo», perché «spaventavano il pubblico dicendo che, fuori dall’euro, l’Italia avrebbe perso qualsiasi peso economico» e hanno usato espressioni come «finiremmo come il Marocco, o l’Egitto, quei posti lì». Sorvolando sul «retrogusto razzistoide» di frasi di quel genere, che possono far presa «solo su chi ha una totale ignoranza della realtà economica del nostro tempo, e in particolare sul peso specifico del nostro paese nel contesto internazionale», Claudio Martini ricorda che l’Italia «è un paese molto importante, ma sopratutto molto ricco». Peccato che, nell’immaginario collettivo di tanti italiani, il nostro paese resta «una provincia piccola e marginale», che presto sarà «scalzata dalla Thailandia», e che comunque «non può reggere il peso dell’avanzata dei paesi emergenti», quindi deve “fare gruppo” con i cugini europei per resistere alla preoccupante ascesa dei “negri”, membri dell’ex “terzo mondo”. «Corollario: se si esce dall’esclusivo club euro si finisce come il Nord Africa».