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Il vero Brzezinski, grande architetto del terrorismo moderno
Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».Dopo che un colpo di stato in Afghanistan, nel 1973, aveva istituito un nuovo governo laico favorevole ai sovietici, gli Usa si impegnarono a rovesciarlo con una serie di tentativi di colpi di Stato «tramite i paesi lacché dell’America, il Pakistan e l’Iran (che a quel tempo era sotto il controllo dello Shah, sostenuto dagli Usa», scrive “The AntiMedia” in un post tradotto da “Voci dall’Estero”. Nel luglio 1979 Brzezinski autorizzò ufficialmente il sostegno ai ribelli mujaheddin in Afghanistan, tramite il programma della Cia denominato “Operazione Ciclone”. «Molti oggi difendono la decisione dell’America di armare i mujaheddin in Afghanistan, perché credono che fosse necessario per difendere il paese, e l’intera regione, dall’aggressione sovietica. Tuttavia le stesse affermazioni di Brzesinski contraddicono in pieno questa giustificazione». In un’intervista del 1998, Brzezinski ammise che, nel condurre questa operazione, l’amministrazione Carter stava «consapevolmente aumentando la probabilità» che i sovietici intervenissero militarmente. In altre parole, Brzezinski suggerisce che gli Usa «avessero iniziato ad armare le fazioni islamiste già prima dell’invasione sovietica».Brzezinski disse poi: «Pentirci di cosa? Quella operazione segreta fu un’idea eccellente. Ebbe l’effetto di attirare i russi nella trappola afghana e volete che me ne penta? Il giorno in cui i sovietici varcarono ufficialmente il confine afghano scrissi al presidente Carter: ora abbiamo l’opportunità di dare all’Urss il suo Vietnam». Questa affermazione, annota “The AntiMedia”, andava al di là del semplice vanto di avere istigato una guerra e il collasso definitivo dell’Unione Sovietica. Nelle sue memorie, intitolate “From the Shadows“, Robert Gates – ex direttore della Cia sotto Ronald Reagan e George W. Bush, nonché segretario alla difesa sia sotto Bush junior che sotto Obama – confermò direttamente che quella operazione segreta iniziò sei mesi prima dell’invasione sovietica, proprio con l’intento di attirare i russi in un pantano in stile vietnamita. «Brzezinski sapeva esattamente cosa stava facendo. I sovietici si impantanarono in Afghanistan per circa dieci anni, combattendo contro una riserva interminabile di armi fornite dagli americani e di combattenti addestrati dagli americani. A quel tempo i media si spinsero al punto di elogiare Osama Bin Laden – una delle figure più influenti dell’operazione segreta di Brzezinski. Sappiamo tutti come è andata a finire».Perfino dopo la piena consapevolezza di ciò che era diventata la sua creazione finanziata dalla Cia, nel 1998 Brzezinski fece queste dichiarazioni ai suoi intervistatori: «Cos’è più importante per la storia del mondo? I Talebani o il crollo dell’impero sovietico? Un po’ di musulmani scalmanati o la liberazione dell’Europa Centrale e la fine della guerra fredda?». L’intervistatore, allora, si rifiutò di lasciar passare questa risposta come se nulla fosse, e ribatté: «Un po’ di musulmani scalmanati? Ma è stato detto e ripetuto che il fondamentalismo islamico rappresenta una minaccia per il mondo moderno». Brzezinski troncò questa affermazione dicendo: «Nonsense!». Cose di questo genere, osserva il blog, «succedevano quando i giornalisti facevano ancora domande pressanti ai funzionari di governo, cosa che oggi accade assai di rado». Di fatto, il sostegno di Brzezinski a questi elementi radicali portò direttamente alla formazione di Al-Qaeda, che letteralmente significa “la base”, perché era in effetti la base da cui si lanciava la controffensiva contro l’invasione sovietica che si stava anticipando. «Ciò portò anche alla creazione dei Talebani, la mortale creatura che oggi sta combattendo una battaglia all’ultimo sangue contro le forze Nato».Inoltre, nonostante le affermazioni di Brzezinski, che cerca di far passare l’idea di una sconfitta definitiva dell’impero russo, «la verità è che, per Brzezinski, la guerra fredda non è mai terminata», sottolinea “The AntiMedia”. «Sebbene sia stato critico riguardo all’invasione dell’Iraq nel 2003, Brzezinski ha mantenuto un forte controllo sulla politica estera americana fino al momento della sua morte: non è una coincidenza che, in Siria, l’amministrazione Obama abbia adottato una strategia del tipo “pantano afghano” contro un altro alleato della Russia: il regime di Assad». Un comunicato divulgato da Wikileaks, datato dicembre 2006 e firmato da William Roebuck, a quel tempo incaricato d’affari presso l’ambasciata americana a Damasco, allude esplicitamente alla possibilità concreta di scommettere su «una crescente presenza di estremisti islamisti». Un po’ come con l’Operazione Ciclone in Afghanistan, sotto Barack Obama «la Cia ha speso circa un miliardo di dollari all’anno per addestrare i ribelli siriani, affinché si impegnassero in tattiche terroristiche». E la maggioranza di questi ribelli «condivide l’ideologia fondamentalista dell’Isis e ha l’obiettivo esplicito di stabilire la legge della Sharia in Siria».Proprio come in Afghanistan, la guerra in Siria ha coinvolto formalmente la Russia nel 2015, e l’eredità di Brzezinski è stata mantenuta viva attraverso gli “avvertimenti” di Obama al presidente russo Vladimir Putin, che avrebbe spinto la Russia verso un altro pantano in stile afghano. «Da chi può aver acquisito, Obama, queste tecniche “alla Brzezinski”, gettando la Siria nell’orrore di sei anni di guerra e di nuovo trascinando una grossa potenza nucleare in un conflitto pieno di crimini di guerra e di crimini contro l’umanità?». Ecco la risposta: «Le ha acquisite da Brzezinski stesso». Secondo Obama, Brzezinski è stato un suo mentore personale, un «amico eccezionale», dal quale ha imparato moltissimo. «Alla luce di questo, c’è forse da sorprendersi che siano sorti così tanti conflitti dal nulla durante la presidenza Obama?». Un’azione a tutto campo, dal Medio Oriente all’Ucraina: il 7 febbraio 2014, la “Bbc” ha pubblicato la trascrizione dell’intercettazione telefonica di una conversazione tra l’assistente segretaria di Stato, Victoria Nuland, e l’ambasciatore americano in Ucraina, Geoffrey Pyatt. In quella conversazione, i due alti funzionari «stavano discutendo su chi avrebbero voluto piazzare al governo ucraino dopo il colpo di Stato che aveva cacciato il presidente filorusso Viktor Yanukovych».Ed ecco che Brzezinski stesso, nel suo libro del 1998, “La Grande Scacchiera”, sosteneva la necessità di prendere il controllo dell’Ucraina, dicendo che era «uno spazio nuovo e importante sulla scacchiera euroasiatica, un perno geopolitico, perché la sua stessa esistenza come nazione indipendente implicava che la Russia cessasse di essere un impero euroasiatico». Brzezinski ammoniva contro l’eventualità di permettere alla Russia di prendere il controllo dell’Ucraina, perché «la Russia si riprenderebbe automaticamente i mezzi per tornare ad essere un potente Stato imperiale, con influenze sia in Europa che in Asia». Dopo Obama, Donald Trump è salito in carica con tutta un’altra mentalità, con l’idea di lavorare con la Russia e con il governo siriano per combattere l’Isis. «Non c’è da sorprendersi che Brzezinski non abbia sostenuto la campagna di Trump per la presidenza, e abbia ritenuto che le idee di Trump sulla politica estera mancassero di coerenza», aggiunge “The AntiMedia”. Poi, forse, qualche ripensamento in extremis: l’anno scorso, Brzezinski è sembrato aver cambiato posizione sulla “geopolitica del terrore”, iniziando a sostenere una redistribuzione del potere globale, alla luce del fatto che gli Usa non sono più la grande potenza imperiale di un tempo.Tuttavia, Brzezinski sembrava ancora ritenere che, senza il ruolo-guida dell’America, il risultato sarebbe stato solo «il caos globale». Pare perciò improbabile che il suo cambiamento di posizione fosse fondato su un cambiamento reale e significativo sullo scacchiere geopolitico. «La stessa esistenza della Cia è fondata sull’idea di una minaccia russa, come è stato evidenziato dall’aggressione decisa da parte della stessa Cia contro l’amministrazione Trump non appena si è delineata una possibile distensione con l’ex Unione Sovietica», conclude “The AntiMedia”. «Brzezinski è morto nella tranquillità del suo letto di ospedale, a differenza di milioni di civili sfollati e assassinati, risucchiati nel suo contorto gioco di scacchi geopolitico, fatto di sangue e follia. La sua eredità è la militanza jihadista, la formazione di Al-Quaeda, il più devastante attacco su suolo americano che sia mai stato fatto da un’entità straniera nella storia recente, e la demonizzazione della Russia come eterno avversario, con il quale la pace non si può e non si deve fare».Era lui il vero “inventore” del cosiddetto “terrorismo islamico”. Zbigniew Brzezinski, già consulente per la sicurezza nazionale di Jimmy Carter, spentosi il 26 maggio 2017 all’età di 89 anni, è stato «il grande architetto del terrorismo moderno», secondo il blog “The AntiMedia”, che prova a riassumerne l’eredità. «Mentre il Regno Unito si destreggia con la “minaccia terroristica” ai più alti livelli, dopo un attacco devastante ispirato dall’Isis, e mentre le Filippine entrano in uno stato di legge marziale quasi totale, dopo la devastazione ispirata dall’Isis, la morte di Brzezinski giunge al momento giusto, come stimolo a una comprensione più profonda dell’origine del terrorismo moderno». Come spiega il “New York Times”, «il profondo odio di Brzezinski contro l’Unione Sovietica» ha guidato molta della politica estera americana, «nel bene e nel male». Brzezinski sostenne l’invio di miliardi di dollari ai militanti islamisti che combattevano contro l’invasione delle truppe sovietiche in Afghanistan. E incoraggiò tacitamente la Cina a mantenere il suo sostegno al brutale regime di Pol Pot in Cambogia, nel timore che i vietnamiti, sostenuti dall’Urss, prendessero il controllo del paese. Ma il “New York Times” «non non rende giustizia al vero orrore dietro le politiche di Brzezinski».
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Prendi il telefono e scappa: abituarsi al terrore quotidiano
Come abituarsi al terrore quotidiano, verso una nuova (agghiacchiante) normalità, tra un attentato e l’altro. «Al terzo attacco terroristico in tre mesi Londra ha aperto le porte», scrive Giulia Zonca sulla “Stampa”: «Esiste ancora una reazione naturale davanti alla paura. La politica strilla trascinando l’ansia dentro le elezioni e la gente scrive, ancora oggi: divano disponibile, anzi #sofaforlondon». Era già successo a Parigi nella notte delle sparatorie attorno al Bataclan, e poi allo stadio di Dortmund quando la partita è stata rinviata per un agguato al pullman della squadra e i tifosi ospitanti si sono portati a casa quelli in trasferta. «A Londra sale il livello di allarme, del dibattito, dello spavento, però Facebook è considerato ancora una zona franca: il passaparola nella comunità virtuale regge mentre saltano gli schemi della quotidianità». Nella notte degli attentati a London Bridge e al Borought market, i residenti non si sono barricati in casa: «Hanno ospitato chi era stato evacuato dalla zona rossa durante il raid della polizia, un intero albergo sparso per i marciapiedi, qualcuno solo con i boxer e le infradito».Chi aveva un sacco a pelo in cantina lo ha steso in soggiorno, continua la “Stampa”: i locali appena fuori dall’area recintata hanno accolto fuggiaschi, «turisti sloggiati senza il tempo di prendere un giubbotto», e gli sfrattati dai b&b «hanno traslocato via app nel posto più vicino». Idem i trasporti: «I tassisti hanno girato gratuitamente raccogliendo chi era in giro, e Uber si è preso gli insulti perché ha raddoppiato le corse». Poi hanno risarcito chiunque abbia viaggiato in quella zona sabato notte: «Il sistema ha reagito alla domanda e, quando ci sono più richieste che auto in circolazione, il costo della corsa si alza seguendo l’algoritmo che lo muove». Ci hanno messo un po’ a intervenire, ma il sistema «ha risposto in automatico proprio come quello della rete di affittacamere che ha cercato nuove sistemazioni con un clic», ad esempio attraverso Facebook che «ha dato non solo una faccia, ma persino un profilo a chi cercava un tetto e qualche garanzia a chi lo voleva offrire».Secondo la giornalista del quotidiano torinese, «i social berciano parecchio» e addirittura «mandano in tilt la comunicazione con il veleno che schizza incontrollato da una nazione all’altra», dove forse per “veleno” si intendono le voci, immancabili sul web ma scarsissime sui media mainstream, riguardo le puntuali “stranezze” che contrassegnano sempre il neoterrorismo che spara nel mucchio: kamikaze già noti alle forze di sicurezza, a volte legati a elementi direttamente “coltivati” dall’intelligence, eppure lasciati liberissimi di muoversi, coordinarsi, armarsi e colpire. Più efficiente dell’antiterrorismo, a quanto pare, è il sistema dei social media: «Le app occupano persino la memoria del cervello, però offrono alternative», scrive Giulia Zonca. «Una rete tutt’altro che virtuale», offerta «a chi sta in mutande, perso in una notte di angoscia, senza soldi, documenti e riparo, e che guarda caso prima di scappare disperato ha afferrato solo una cosa: il telefono». Cittadini-soccorritori, gradualmente abituati alla strage sotto casa.Come abituarsi al terrore quotidiano, verso una nuova (agghiacchiante) normalità, tra un attentato e l’altro. «Al terzo attacco terroristico in tre mesi Londra ha aperto le porte», scrive Giulia Zonca sulla “Stampa”: «Esiste ancora una reazione naturale davanti alla paura. La politica strilla trascinando l’ansia dentro le elezioni e la gente scrive, ancora oggi: divano disponibile, anzi #sofaforlondon». Era già successo a Parigi nella notte delle sparatorie attorno al Bataclan, e poi allo stadio di Dortmund quando la partita è stata rinviata per un agguato al pullman della squadra e i tifosi ospitanti si sono portati a casa quelli in trasferta. «A Londra sale il livello di allarme, del dibattito, dello spavento, però Facebook è considerato ancora una zona franca: il passaparola nella comunità virtuale regge mentre saltano gli schemi della quotidianità». Nella notte degli attentati a London Bridge e al Borought market, i residenti non si sono barricati in casa: «Hanno ospitato chi era stato evacuato dalla zona rossa durante il raid della polizia, un intero albergo sparso per i marciapiedi, qualcuno solo con i boxer e le infradito».
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Foa: perdiamo tutti, se la nostra democrazia non conta più
Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un paese. A scuola, questo bambino studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo. Già, perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.E questo dovrebbe farci riflettere. Perché le differenze culturali, identitarie e politiche non devono più valere? Perché tutti i popoli devono assomigliarsi? Perché la famiglia tradizionale non va più bene e deve essere svuotata di significato? Ci rendiamo conto che la società che si delinea assomiglia sempre di più nella sua forma più ludica a quella descritta da Huxley nel romanzo “Mondo nuovo” e a quella più opprimente del citatissimo “1984” di Orwell? Io credo profondamente nella democrazia, mi scorre nelle vene e non riesco a reprimere l’impulso di parlare, di non tacere. E’ il dovere morale non di fare una rivoluzione ma di difendere quei valori e di contestare l’ineluttabilità della globalizzazione, soprattutto della sua omologazione, che si manifesta anche attraverso il continuo trasferimento di poteri a organismi sovranazionali, talvolta totalmente privi di qualunque legittimità popolare (Ocse, Nato, Oms, eccetera), talaltra diluiti in Parlamenti o altre forme di governance, poco efficaci, di rappresentanza, ridotti ad alibi morali, com’è stato fino ad oggi il Parlamento Europeo.Chiarisco subito che non si tratta di tornare a società autarchiche e dunque ottusamente protezionistiche, come lascia intendere certo pensiero mainstream; bensì di impostare una nuova forma di convivenza internazionale, in cui l’interesse e i poteri nazionali tornino ad avere il loro peso naturale e in cui i trattati internazionali non siano più calati dall’alto ma siano frutto di negoziazioni tra paesi sovrani e con pari diritti. Non si tratta di fermare il mondo, né di bloccare i commerci, ma di tenere conto anche di interessi che non siano solo quelli sovranazionali, nella convinzione che le democrazie siano ancora oggi il miglior sistema politico e che debba essere preservato, come peraltro lo Stato di diritto (altro valore che i globalisti tendono a disconoscere e a sostituire con forme molto strane di giustizia privata, quali gli arbitrati internazionali senza possibilità di ricorso, contemplati nel Ttip).Ecco perché le forme di protesta politica emerse recentemente in diversi paesi occidentali vanno salutate con favore. Testimoniano la capacità di resistenza di una parte importante della popolazione, l’attaccamento, talvolta istintivo, a quei valori e comunque a un sistema socioeconomico che negli ultimi 70 anni ha permesso un benessere senza precedenti e basato sull’ascensore sociale. La sfida, per chi ha il coraggio di definirsi sovranista, non è ovviamente di assecondare qualunque forma di protesta ma di contribuire alla nascita e allo sviluppo di movimenti culturali, civici e politici in grado di far maturare una risposta solida, concreta, credibile ai globalisti. E di denunciare ogni forma di insidia come quelle di chi prende a pretesto le fake news e le post-verità per imporre una censura alle opinioni scomode e spegnere sul nascere il contagio più pericoloso, quello delle idee. Non farlo significa rassegnarsi a società in cui sarà facilissimo privare ogni cittadino dei suoi diritti elementari e anche delle sue ricchezze personali. Un mondo che continuerà a dirsi democratico, perché la forma verrà rispettata, per trasformarsi nel suo esatto contrario. A voi quel mondo piace davvero?(Marcello Foa, “A voi questo mondo piace davvero? Le ottime ragioni dei sovranisti”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 1° giugno 2017; intervento anticipato a Milano in un convegno su sovranità e globalizzazione organizzato dalla rivista “Logos” e moderato dal giornalista Gianluca Savoini, con oratori del calibro di Ted Malloch – diplomatico e fedelissimo di Trump, in predicato di diventare ambasciatore Usa a Bruxelles – nonché Giulio Tremonti, il politologo Giuseppe Valditara e Thomas Williams, responsabile di “Breitbart Italia”).Viviamo in uno strano mondo, in cui un genitore insegna ai propri figli quelli che considera valori sani e inviolabili: il rispetto della Costituzione, della democrazia come espressione della sovranità. Gli spiega che quando avrà 18 anni potrà votare, scegliere il partito che più lo rappresenta. Gli racconta che in Parlamento si approvano le leggi e gli spiega cos’è un paese. A scuola, questo bambino studia i confini e la storia, coltiva un’identità e scopre le proprie radici familiari e nazionali. Cose normalissime. Un tempo. Già, perché quando compirà 18 anni si accorgerà improvvisamente che quella realtà e quei valori, costati milioni di vite ai tempi della Seconda Guerra Mondiale, non valgono più e se proverà a rivendicarli verrà trattato come un eretico, anzi come un pericoloso populista. Non capirà più nulla o forse capirà fin troppo bene cosa significano il conformismo, le pressioni sociali, l’omologazione. Quel mondo, purtroppo, non è ipotetico ma sempre più reale, un mondo in cui principi elementari, anzi fondamentali, come democrazia e sovranità popolare sono considerati scomodi o vengono ridotti a feticci sull’altare della mondializzazione.
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Corbyn tallona la May? Urge attentato elettorale, a Londra
Finiti i botti, si può anche sospendere la campagna elettorale. Se lo devono essere detti l’Mi5, l’Mi6, la loro dependance Scotland Yard, i fratelloni Mossad, Cia e i suoi 14 nipotini in Usa, i cugini delle varie marche imperiali europee, alla vista di uno che s’impegnava per un apocalittico cambio «dalla politica per i pochi alla politica per i tanti» (Jeremy Corbyn). Roba mai vista da quando l’Ue è entrata in funzione su mandato Rothschild, Rockefeller, Bilderberg e galassia finanziaria globale. Anatema. E così, dopo gli impiegati e il poliziotto sul ponte di Westminster e i ragazzetti al concerto di Manchester, è toccata ai flaneur e alle flaneuses serali sul London Bridge e nei pub sottostanti a finire, come va il trend di questi tempi, sotto un veicolo e tra le lame dei servizi. Quattro morti, più 22, più sette = 33, più parecchie decine di feriti, mutilati, menomati. Esito di una battaglia elettorale sul destino dei pochi e dei tanti. La May, primo ministro, ha cancellato quanto restava della campagna dei tanti. Se ne poteva fare a meno. Forse.A Torino, nel tempo accuratamente costruito dal terrorismo di regime e media, in cui, se cade per terra un mazzo di chiavi, o esplode una miccetta, o qualcuno starnuta forte, scatta il panico da attentato e conseguente fuga tumultuosa che travolge e schiaccia chi non corre abbastanza veloce, o non trova varchi, o è inciampato, per una partita virtuale su maxischermo si contano mille feriti e alcuni a portata di Caronte. In entrambi i casi, come in tutti quelli del prima e del dopo, il risultato è raggiunto. Colpendo nel mucchio. Di quelli che non c’entrano niente. Di quelli spendibili. Non una volta che si spari una bazookata contro le finestre di Goldman Sachs, o si faccia saltare la corrente alla Nato a Bruxelles, o si infili un candelotto sotto il sedile dell’ambasciatore saudita. Che sia mai. Non facciamoci del male da soli.A cui si aggiunge un’altra considerazione. Social, vanterie degli specialisti e dei ministri della “sicurezza”, gole profonde della Nsa, perfino il “Report” disinquinato di Sigfrido Ranucci (Rai 3), o le voci alternative di Gianluigi Paragone (La7), ci informano a valanga di quanto tutti siamo controllati, di come non sfuggiamo neanche al cesso o nell’alcova, di come il nostro cellulare racconti al collegato di che pasta siamo fatti e che pasta consumiamo, insomma come nulla di nessuno sfugga al Grande Occhio. Grande Occhio onnivedente e onniconoscente che resta cieco o chiuso quando gli formicolano davanti migliaia di reclute dell’Isis (chiamiamole così, per non disturbare), istruite nelle carceri o nei campi di Siria e Iraq, pendolari tra sgozzamenti a Mosul e Raqqa e deflagrazioni o piraterie stradali in Europa. «Li conoscevamo, li abbiamo anche registrati, ma poi li abbiamo persi di vista…». Volatilità, volubilità, spensieratezze, disattenzioni, dei servizi di intelligence. Son ragazzi. Sempre meglio che farsi scoprire mandanti. «Tanto poi li secchiamo tutti». Basterebbe sparare alle gambe, o tirare una siringa come alle pantere randagie, o un po’ di gas come i russi nel teatro di Mosca… Ma i morti non parlano.(Fulvio Grimaldi, estratto dal post “Corbyn tallona May? Urge attentato”, pubblicato dal blog di Grimaldi il 4 giugo 2017).Finiti i botti, si può anche sospendere la campagna elettorale. Se lo devono essere detti l’Mi5, l’Mi6, la loro dependance Scotland Yard, i fratelloni Mossad, Cia e i suoi 14 nipotini in Usa, i cugini delle varie marche imperiali europee, alla vista di uno che s’impegnava per un apocalittico cambio «dalla politica per i pochi alla politica per i tanti» (Jeremy Corbyn). Roba mai vista da quando l’Ue è entrata in funzione su mandato Rothschild, Rockefeller, Bilderberg e galassia finanziaria globale. Anatema. E così, dopo gli impiegati e il poliziotto sul ponte di Westminster e i ragazzetti al concerto di Manchester, è toccata ai flaneur e alle flaneuses serali sul London Bridge e nei pub sottostanti a finire, come va il trend di questi tempi, sotto un veicolo e tra le lame dei servizi. Quattro morti, più 22, più sette = 33, più parecchie decine di feriti, mutilati, menomati. Esito di una battaglia elettorale sul destino dei pochi e dei tanti. La May, primo ministro, ha cancellato quanto restava della campagna dei tanti. Se ne poteva fare a meno. Forse.
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Magaldi: 007 complici dei kamikaze, chi lo nega è bugiardo
«Toglietevi dalla testa l’idea che i servizi segreti non siano al corrente dei preparativi terroristici in corso: se la strage avviene, significa che settori dell’intelligence l’hanno consentita». Parola di Gioele Magaldi, all’indomani dell’ennesimo attentato di Londra, avvenuto pochi giorni dopo quello di Manchester. Attentati “false flag”, targati Isis, opportunamente confezionati – come già in Francia, Belgio e Germania – per produrre una politica securitaria: non stupisce oggi la premier Theresa May che dice “adesso basta, cambiamo le regole del nostro vivere”. Meno libertà per tutti? E’ esattamente l’obiettivo delle vere “menti” degli attentati-kamikaze, nient’affatto islamiche. Attentati che, peraltro, continuano a risparmiare l’Italia. E non a caso, secondo Magaldi: «Da noi, gli apparati di sicurezza lavorano lealmente, con professionalità. Laddove comunque dovessero emergere delle falle nella sicurezza – aggiunge Magaldi – sappiamo per certo che ci sarebbe lo zampino di qualche complice, all’interno delle istituzioni preposte alla vigilanza. Perché è matematicamente impossibile che i preparativi di un attacco, in Italia come in tutta Europa, sfuggano alla rete dell’intelligence: e chi dice il contrario mente, sapendo di mentire».Nel bestseller “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi svela il ruolo – anche nell’incubazione del neo-terrorismo – di Ur-Lodges supermassoniche internazionali come la “Hathor Pentalpha” fondata dal clan Bush, implicata nell’11 Settembre. E ora, ai microfoni di “Colors Radio”, denuncia quelle che definisce evidenti complicità nella carneficina in corso, dimostrate anche dalla puntuale, apparente “impreparazione” delle forze di polizia, inglesi e francesi: «Cose assurde, incredibili: personaggi lasciati circolare da un posto all’altro a preparare attentati. Invece della sorveglianza c’è stata quasi un’osservazione benigna, come a dire: “Fa’, pure, perché per qualche motivo ti devo lasciar compiere il tuo attentato”. Quindi, per favore, non raccontiamoci frescacce». Troppi strani “errori”, nella rete di protezione: «Se ne sono accorti persino i media, solitamente “ovattati” e autocensurati». In realtà, aggiunge Magaldi, «è anormale il funzionamento dei servizi antiterrorismo in Francia, in Gran Bretagna e ovunque si siano verificati attentati di questo tipo».Si punta a produrre paura generalizzata, che può aver avuto un effetto drammatico anche nell’incidente di Torino, con la folla impazzita di paura per l’esplosione di un petardo davanti al maxischermo che trasmetteva in piazza la finale di Champions: «Se si sollecita l’immaginario collettivo nel senso del terrore, è facilissimo che queste onde si trasmettano». Dobbiamo abituarci, insiste Magaldi: «C’è una maestria nel diffondere questa psicosi». C’era stato un momento quasi di assuefazione, dopo gli attentati francesi (Charlie Hebdo, Bataclan, Nizza) e ora c’è un nuovo salto di qualità. «Si vuol far credere che l’attentato è imprevedibile, che può succedere ovunque, dietro casa, in piazza, al concerto, come se noi non fossimo costantemente nella capacità di prevenire, intercettare, filtrare informazioni». La gente, forse, non sa come opera «un sano ed efficace antiterrorismo», quello delle reti di intelligence. «Chi conosce questi mondi – spiega Magaldi – sa perfettamente che è impossibile sfuggire ad una sorveglianza adeguata, a meno che coloro che sorvegliano non si “distraggano”, e lo facciano in malafede, in connivenza con chi poi li esegue, gli attentati».Anziché credersi in pericolo costante, i cittadini farebbero meglio a «chiedere ai governi di essere protetti efficacemente, ma senza subire restrizioni alla loro libertà». In questo, aggiunge Magaldi, «è sospetta la reazione di Theresa May all’ennesima odiosa carneficina: proprio la tolleranza e il rispetto delle libertà individuali sono ciò che la retorica del terrorismo combatte». Addio libertà? E’ esattamente l’obiettivo dei burattinai del terrore, che si nascono dietro sigle come l’Isis. «Dietro ci sono interessi non integralisti, ma che utilizzano l’integralismo religioso per promuovere regimi di vita in senso non tollerante, repressivo e illiberale nei paesi occidentali», continua Magaldi. «Ricordiamoci che la prima stagione del terrorismo globale, quella di Al-Qaeda, negli Usa ha prodotto le norme del Patriot Act, leggi liberticide che hanno limitato la libertà di movimento e diverse libertà civili dei cittadini americani, sostanzialmente conseguendo proprio quegli obiettivi che il terrorismo dice di perseguire, cioè la trasformazione in senso antidemocratico e illiberale dell’Occidente».Per Magaldi, il retroscena è geopolitico: chi sperava di “reincarnare” Al-Qaeda nello Stato Islamico per prolungare illimitatamente la “guerra infinita”, oggi è in difficoltà. «L’elezione di Donald Trump ha rappresentato un fattore disorientante per chi era pronto a declinare la “parte due” del copione, riguardante l’Isis, e ora ci sono dei colpi di coda». Che fare?Innnanzitutto non cedere alla paura, come vorrebbero gli strateghi occulti del terrore: «Bisogna tenere la barra dritta, sapendo che qualunque penetrazione attraverso le maglie dell’antiterrorismo e dell’intelligence ha precise responsabilità istituzionali». E quindi «non è certo limitando la libertà dei singoli, dei gruppi o del vivere civile occidentale che si consegue efficacemente la protezione dei cittadini». Il problema è, semmai, «cercare le mele marce». Magaldi lo ripete con la massima chiarezza: «In Francia, a Londra e ovunque accada un evento terroristico, se accade è perché l’intelligence e l’antiterrorismo non hanno fatto il loro mestiere, e non certo perché c’è una società che consente la libera circolazione delle persone e la tutela dei diritti individuali».Questo va chiarito, «altrimenti non si spiega perché, per esempio, in Italia – dove l’intelligence e l’antiterrorismo funzionano molto bene – finora non ci sono stati attentati». Qualcuno potrebbe dire: ma ce ne saranno, prima o poi. «Quando ci fossero – scandisce Magaldi – sarà perché qualcuno magari avrà tradito o avrà allentato il controllo per favorire la realizzazione di qualche attentato». Impossibile che qualcuno colpisca, con successo, eludendo le reti di sicurezza: di questo, Magaldi si dice certissimo. «Con gli attuali strumenti (risorse umane sul territorio e dotazioni tecnologiche) è assolutamente possibile prevenire attentati, ovunque. Quindi non è vero che c’è una loro imprevedibilità. Gli attentati sono spesso prevedibili, dunque prevenibili», e chi sostiene il contrario «mente, sapendo di mentire». In passato, peraltro, non è sempre andata così liscia: al contrario, l’Italia è stata colpita tante volte, dal terrorismo. Il motivo per cui non è più successo, «e probabilmente non succederà», ribadisce Magaldi sta nella lealtà e nell’impegno delle nostre forze di sicurezza. E aggiunge, a mo’ di avvertimento: «Se dovessi essere smentito, a quel punto saprò dove puntare il dito, con nomi e cognomi».«Toglietevi dalla testa l’idea che i servizi segreti non siano al corrente dei preparativi terroristici in corso: se la strage avviene, significa che settori dell’intelligence l’hanno consentita». Parola di Gioele Magaldi, all’indomani dell’ennesimo attentato di Londra, avvenuto pochi giorni dopo quello di Manchester. Attentati “false flag”, targati Isis, opportunamente confezionati – come già in Francia, Belgio e Germania – per produrre una politica securitaria: non stupisce oggi la premier Theresa May che dice “adesso basta, cambiamo le regole del nostro vivere”. Meno libertà per tutti? E’ esattamente l’obiettivo delle vere “menti” degli attentati-kamikaze, nient’affatto islamiche. Attentati che, peraltro, continuano a risparmiare l’Italia. E non a caso, secondo Magaldi: «Da noi, gli apparati di sicurezza lavorano lealmente, con professionalità. Laddove comunque dovessero emergere delle falle nella sicurezza – aggiunge Magaldi – sappiamo per certo che ci sarebbe lo zampino di qualche complice, all’interno delle istituzioni preposte alla vigilanza. Perché è matematicamente impossibile che i preparativi di un attacco, in Italia come in tutta Europa, sfuggano alla rete dell’intelligence: e chi dice il contrario mente, sapendo di mentire».
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E Gentiloni in silenzio vara il Ceta, cavallo di Troia del Ttip
Vi accapigliate sul decreto-mostro della Lorenzin sui 12 vaccini? E intanto Gentiloni, in silenzio, fa approvare il Ceta, cioè il Ttip che rientra dalla finestra, senza nemmeno una conferenza stampa. Il governo ha infatti approvato il disegno di legge per la ratifica l’attuazione dell’accordo commerciale Ue-Canada. Il Ttip includeva anche tra gli Usa, ma si teme che il Ceta euro-canadese ne sia il semplice battistrada. Il cardine è lo stesso: gli Stati non potranno più opporsi al business con iniziative di tutela della salute e del lavoro, sotto pena di sanzioni comminate da un potente tribunale internazionale, privato, al servizio delle multinazionali. Il Ceta è stato firmato lo scorso 30 ottobre a Bruxelles e ratificato dal Parlamento Europeo a febbraio, ora toccherà al Parlamento italiano. Lo ha stabilito il Consiglio dei ministri, riunitosi il 24 maggio «in fretta e furia e senza neanche un minuto di preavviso», scrive Guido Rossi su “L’Intellettuale Dissidente”. «Non è stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa». Strano, no? «Neanche il più ridicolo e scarso dei media (provare per credere? Fatevi un giro su Google) ha dato questa notizia di epocale importanza». Perché dunque è meglio «farlo passare in sordina», questo accordo potenzialmente epocale voluto dai poteri forti del pianeta?Sulla carta, il trattato promette ovviamente grandi sviluppi del trading euro-canadese, con agevolazioni sul libero scambio delle merci tra le due sponde dell’Atlantico. Ma, gratta gratta, si legge che l’Italia potrebbe beneficiarne in termini di maggiori esportazioni verso il Canada «per circa 7,3 miliardi di dollari canadesi». Appena sette miliardi? «Per avere un’idea – scrive Rossi – l’Imu che noi italiani abbiamo pagato sui nostri immobili, nel solo 2016, è costata 10 miliardi di euro; circa la stessa cifra è stata spesa dal governo Renzi per pagare i famigerati “80 euro”. Il governo Gentiloni ha recentemente “salvato” il sistema bancario creando con estrema facilità un fondo da 20 miliardi di euro». Sicché, «questo accordo, economicamente, non vale la carta su cui è stampato». Ma il punto è un altro, purtroppo: «A fronte di un così ridicolo guadagno – nemmeno sicuro, considerato che si tratta di stime – stiamo per svendere completamente la nostra nazione». Non è un’esagerazione, spiega Rossi: i nostri governanti lasciano capire che il Ceta aprirebbe le porte alla cessione graduale in mani private dei principali servizi strategici, oggi pubblici.E’ vero, Gentiloni e soci – a parole – assicurano che manterremo comunque «il diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche, salvaguardando i servizi pubblici (approvvigionamento idrico, sanità, servizi sociali, istruzione) e dando la facoltà agli Stati membri di decidere quali servizi desiderano mantenere universali e pubblici e se sovvenzionarli o privatizzarli in futuro». Peccato – obietta Rossi – che la cosa, «oltre a suonare palesemente come una “escusatio non petita”, è oltremodo falsa». E’ vero che il testo del Ceta “riconosce” agli Stati membri il diritto di prendere autonome decisioni su materie come la sanità, «ma in maniera altrettanto precisa descrive il funzionamento del “dispute settlement”, ossia di un arbitrato internazionale cui una “parte” (che può essere uno Stato ma anche un’azienda che opera sul suo territorio) può fare ricorso in caso sia in disaccordo con decisioni prese da altre parti». Tradotto: un’altra nazione – o peggio, una semplice società, spesso multinazionale – può impugnare una decisione di uno Stato anche quando adottata “nel diritto di legiferare nel settore delle politiche pubbliche”, qualora questa vada a “discriminare” il business dell’azienda.Il funzionamento di questo “tribunale privato” fa diretto richiamo al Dss, identico strumento previsto dall’Organizzazione Mondiale del commercio, il Wto. Quest’ultimo, continua Rossi, prevede la selezione di un “panel” di giudici, composto da esperti provenienti solitamente dal mondo della consulenza privata (quello delle multinazionali) o da atenei altrettanto privati. Il “panel” redige un rapporto contenente la propria opinione circa l’esistenza o meno di un’infrazione alle regole del Wto. Non ha la forza legale di una vera e propria sentenza, eppure la procedura di appello ha una durata massima prevista in 90 giorni, e dopo l’approvazione è definitiva. Sintetizzando: il Wto (cui l’Europa e l’Italia hanno aderito da più di vent’anni, nel 1995) ha fini prettamente economici e finanziari; gli Stati, si dice, sono ancora sovrani, eppure i principi che regolano gli scambi internazionali sono al di sopra delle leggi, nazionali e internazionali. E in caso di controversie, le parti (non gli Stati in realtà, quanto le società multinazionali “discriminate”) possono rivolgersi al Wto e chiedere se sia giusto o meno non applicare il suo regolamento. «Il Wto, privato e – sicuramente – imparzialissimo, emette la sentenza, che, per carità, non ha forza legale vera e propria (non essendo un vero tribunale), però è ad ogni modo inappellabile e definitiva. Democraticamente. E quel che è previsto per il Wto vale per il Ceta».Solo gli Stati Uniti, precisa ancora Rossi, sono stati coinvolti dal tribunale del Wto in più di 95 casi contro società private: e di questi processi gli Usa, in qualità di nazione, ne hanno persi 38 e vinti appena 9. Gli altri o sono stati risolti tramite negoziazioni preliminari oppure sono ancora in dibattimento. In circa 20 casi il “panel” non è mai stato nemmeno formato, e la maggior parte dei processi persi riguardava livelli di standard ambientale, misure di sicurezza, tasse e agricoltura. «Lo Stato italiano, al contrario di quanto dice il governo Gentiloni – scrive Rossi – non può decidere autonomamente alcunché, prima di tutto perché fa parte dell’Unione Europea e ha siglato accordi comunitari come il Patto di Stabilità e il Fiscal Compact, oltre a far parte di un’unione monetaria, quindi di partenza non ha alcun potere decisionale in termini di politiche monetarie, fiscali, economiche e sociali». E inoltre, anche se godesse di una simile sovranità, «comunque rischierebbe di trovarsi contro cause miliardarie – private – e di perderle, con tanti saluti al “potere politico”. Ed ecco che la nostra Carta costituzionale si trasforma in carta igienica».Quanto alle “potenzialità” di esportazione, secondo Rossi il relativo successo del nuovo “made in Italy” all’estero dipende solo dalla crisi: si punta all’export «semplicemente perché gli italiani non hanno più una lira: i consumi domestici sono drasticamente calati, grazie a politiche iniziate da Mario Monti che in una celebre intervista ammise di “distruggere la domanda interna”». Così, le imprese (quelle che ancora non hanno chiuso) si sono “arrangiante” puntando ancor più sui mercati forestieri. «Solo pochi giorni fa l’Istat ha registrato nei suoi dati la “morte” della classe media italiana». Nel frattempo, «visto che le merci di qualità come quelle nostrane non ce le possiamo permettere», nei nostri negozi «arrivano tonnellate di merci a basso costo ma di pessima qualità», con controlli «scarsi o addirittura nulli, poiché già siamo in un’unione di libero scambio, l’Unione Europea, che stiamo per estendere al Canada». Inutile sottolineare che simili politiche «danneggiano direttamente le nostre imprese, dunque il lavoro e in generale il benessere del nostro popolo», conclude Rossi. «Tutto questo per – forse – sette miseri miliardi. Neanche i 30 denari di Giuda».Vi accapigliate sul decreto-mostro della Lorenzin sui 12 vaccini? E intanto Gentiloni, in silenzio, fa approvare il Ceta, cioè il Ttip che rientra dalla finestra, senza nemmeno una conferenza stampa. Il governo ha infatti approvato il disegno di legge per la ratifica l’attuazione dell’accordo commerciale Ue-Canada. Il Ttip includeva anche gli Usa, ma si teme che il Ceta euro-canadese ne sia il semplice battistrada. Il cardine è lo stesso: gli Stati non potranno più opporsi al business con iniziative di tutela della salute e del lavoro, sotto pena di sanzioni comminate da un potente tribunale internazionale, privato, al servizio delle multinazionali. Il Ceta è stato firmato lo scorso 30 ottobre a Bruxelles e ratificato dal Parlamento Europeo a febbraio, ora toccherà al Parlamento italiano. Lo ha stabilito il Consiglio dei ministri, riunitosi il 24 maggio «in fretta e furia e senza neanche un minuto di preavviso», scrive Guido Rossi su “L’Intellettuale Dissidente”. «Non è stata convocata neanche l’ombra di una conferenza stampa». Strano, no? «Neanche il più ridicolo e scarso dei media (provare per credere? Fatevi un giro su Google) ha dato questa notizia di epocale importanza». Perché dunque è meglio «farlo passare in sordina», questo accordo potenzialmente epocale voluto dai poteri forti del pianeta?
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Usa, élite criminale depravata: è in ogni film di Kubrick
L’Armageddon si sta avvicinando e vale la pena citare Lincon che affermava che «la fine degli Stati Uniti non potrà che avvenire mediante suicidio». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, «né i neocon né Trump nascono dal nulla. Abbiamo a che fare con un paese di pazzi che adora le armi e massacra per puro divertimento. Bisonti, russi e cinesi sono avvertiti. In America, il genocidio indiano fu uno sport, come la caccia di schiavi che Dickens descrisse inorridito nelle sue cronache americane». Tutti conoscono il “dottor Stranamore” e magari hanno visto film come “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, regista su cui Bonnal ha scritto un libro, facendo notare che «una costante, generalmente trascurata, presente in tutta la sua opera: una critica radicale, sarcastica e costante delle élites». Nel film “Il bacio dell’assassino”, siamo di fronte a un personaggio, il proprietario, che ha pulsioni sessuali incontrollate e tendenze omicidie: verrà ucciso. In “Spartacus”, abbiamo a che fare con la depravazione dell’élite romana. «Attori britannici contro attori americani, come rivelava umoristicamente Michel Ciment. Lo scrittore comunista Howard Fast aveva pensato, per questo soggetto, alle élites statunitensi maccartiste del suo tempo».In “Lolita”, continua Bonnal in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”, siamo di fronte a un asso del travestimento chiamato Quilty: come “quilt”, il materasso, che potrebbe designare anche la colpevolezza, secondo un gioco di parole dello stesso Nabokov. Ebbene, Quilty violenta madre e figlia prima di subire la concorrenza dal docente europeo yéyé che sposa la madre e violenta la figlia. Nel film “Il dottor Stranamore”, prosegue Bonnal, abbiamo una sintesi della cultura statunitense basata sull’omicidio di massa e sull’ossessione sessuale. «Von Neumann inspira il dottor Stranamore, Curtis Le May il generale Turgidson (turgido) sul quale il suo amico Raico ci ha detto tutto. L’assassino di massa è rappresentato da un certo Jack Ripper, d’ispirazione londinese per così dire – si sa che era un intoccabile chirurgo in là con gli anni. Il film di Kubrick pone sullo stesso piano la liberazione sessuale (anni di play-boy) e l’adorazione nucleare. Le Barbie che oggi spopolano sui canali statunitensi gioiscono annunciando le esplosioni». Poi ecco “2001, Odissea nello spazio”, «una storia di cospirazione», dove «i responsabili della Nasa celano informazioni ai loro rivali russi e nascondono la scoperta del monolite grazie alle voci su una presunta epidemia (un attacco batteriologico? Chimico?)».Alla fine si scopre che il computer aveva la possibilità di distruggere l’equipaggio: «Ne sapeva più dell’equipaggio stesso». Ridley Scott se ne ricorda in “Alien”, dove «l’equipaggio è sacrificabile, come il popolo di oggi sotto la guida di Wall Street e di Bruxelles. Ed è pure ibernato». Sorvolando sui film successivi di Kubrick, Bonnal arriva a “Eyes Wide Shut”, «che ben rappresenta le inclinazioni degli anni di Clinton: ossessione sessuale (per Clinton come per Trump e le sue modelle), speculazione finanziaria, corrispondenza con gli Illuminati (scoperta da Texe Marrs), culto per le società segrete e soprattutto gusto per i sacrifici umani». Per il film, annota Bonnal, il regista si è ispirato a “Doppio sogno” di Schnitzler: «L’impero austroungarico, al tramonto, diede inizio alla Prima Guerra Mondiale – e ci ha lasciato Hitler in regalo». Osserva Bonnal: «In Kubrick le élites inglesi (“Barry Lyndon”, “Arancia meccanica” dove si serve dei teppisti per controllare le masse) o francesi (“Orizzonti di gloria”) non valgono di più. Ci sono, per citare Clint Eastwood, quelli che scavano e quelli che hanno la pistola. Adesso c’è chi ha i soldi e chi lavora. Chi lavora rischia di morire presto per permettere all’élite ecologista statunitense, che trova questa terra troppo popolata, di respirare».E cos’è “Donald”? Avic ne ha fatto un attore, Philippe Grasset, un uomo di reality. «Donald è presente anche nel thriller comico “Zoolander” (un top model che ha subito il lavaggio del cervello deve assassinare il presidente malese) e in “Celebrity” di Woody Allen», il quale «ha precisato che Trump era un eccellente uomo di spettacolo». Questo, chiosa Bonnal, dovrebbe rassicurarci «se crediamo, come Thierry Meyssan, che Donald non sia cambiato e che minacci la guerra solo per rassicurare i media neocon, in America e a Parigi». Tornando invece a Kubrick, «si dice abbia filmato le false immagini dell’allunaggio (lui avrebbe certamente fatto di meglio), che ha dovuto lasciare l’America, e che forse sarebbe stato assassinato, 666 giorni prima il primo gennaio 2001». Bonnal non chiude il suo libro con quest’argomento perché «la stupidità arriva presto alla conclusione, diceva Flaubert», ma insiste su un punto: «Da Lincoln e la sua folle guerra da un milione di morti (la schiavitù fu abolita ovunque e senza massacri), le élites statunitensi hanno perso il senno». Per Bonnal queste oligarchie «amano il detonatore, l’innesco, l’acceleratore, hanno il grilletto facile». Dopo, diceva il colonnello Kurz in “Apocalypse now”, «passano entusiasti agli aiuti umanitari».L’Armageddon si sta avvicinando e vale la pena citare Lincon che affermava che «la fine degli Stati Uniti non potrà che avvenire mediante suicidio». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, «né i neocon né Trump nascono dal nulla. Abbiamo a che fare con un paese di pazzi che adora le armi e massacra per puro divertimento. Bisonti, russi e cinesi sono avvertiti. In America, il genocidio indiano fu uno sport, come la caccia di schiavi che Dickens descrisse inorridito nelle sue cronache americane». Tutti conoscono il “dottor Stranamore” e magari hanno visto film come “Eyes Wide Shut”, di Stanley Kubrick, regista su cui Bonnal ha scritto un libro, facendo notare che «una costante, generalmente trascurata, presente in tutta la sua opera: una critica radicale, sarcastica e costante delle élites». Nel film “Il bacio dell’assassino”, siamo di fronte a un personaggio, il proprietario, che ha pulsioni sessuali incontrollate e tendenze omicidie: verrà ucciso. In “Spartacus”, abbiamo a che fare con la depravazione dell’élite romana. «Attori britannici contro attori americani, come rivelava umoristicamente Michel Ciment. Lo scrittore comunista Howard Fast aveva pensato, per questo soggetto, alle élites statunitensi maccartiste del suo tempo».
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Foa: anche la Merkel nel complotto per abbattere Trump
Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.Pensate alle marce pro-immigrati come quelle svoltesi a Londra o a Milano: rientrano non solo in una certa linea di pensiero (e fin qui niente di sorprendente) ma anche – e forse soprattutto – in un movimentismo teso a contrastare le cosiddette forze populiste. L’Europa, però, veniva indicata da Kupchan come nuovo perno del potere globalista. La frase cruciale è questa: «Stati Uniti e la Gran Bretagna saranno, almeno temporaneamente, latitanti quando si tratta di difendere l’ordine liberale internazionale, l’Europa continentale dovrà difendere la posizione. Nel momento in cui la coesione interna dell’Unione europea è messa alla prova dallo stesso populismo che occorre sconfiggere, non è buon momento per chiederle di colmare il vuoto lasciato dal disimpegno anglo-americano. Ma almeno per ora, la leadership europea è la migliore speranza per l’internazionalismo liberale». Riflettete: quante volte in passato i leader europei hanno osato contestare pubblicamente un presidente degli Stati Uniti durante un vertice del G7 o in altri consessi ufficiali?Probabilmente bisogna risalire al 2003 quanto Schroeder e Chirac si opposero, con saggezza, alla guerra in Irak. Per il resto o i contrasti non emergevano in conferenza stampa o più frequentemente, gli alleati europei si allineavano ai desiderata di Washington, talvolta anche contro il proprio interesse geostrategico. Non è strano che un cancelliere prudentissimo come la Merkel trovi improvvisamente il coraggio per dire: “Impossibile ormai fidarsi degli Usa”? Ne converrete: non è da lei. Il sospetto è che tanto ardire sia calcolato e strumentale: ovvero che vada a rafforzare la tesi – o dovremmo dire gli auspici – di Kupchan. Quelle dichiarazioni rafforzano l’establishment anti-Trump, che può dire ai notabili di Washington: visto? Perdiamo anche l’Europa. In realtà non va intesa come una rottura ma come una parentesi politica, perché lo stesso Kupchan parlava di una latitanza angloamericana “temporanea”; dunque il tempo di far fuori Trump. Quando negli Usa loro riconquisteranno la Casa Bianca, l’Unione europea tornerà ad essere consenziente e l’audace Merkel di nuovo pragmaticamente mansueta.(Marcello Foa, “Anche l’Europa nel piano per far cadere Trump, ecco perché la Merkel è cpsì audace”, dal blog di Foa sul “Giornale” del 28 maggio 2017).Per capire il significato più autentico della rottura che si è consumata a Taormina tra Trump e gli alleati europei occorre individuare la chiave di lettura. E quella più appropriata si trova, ancora una volta, nell’articolo di uno degli ex consiglieri di Obama Charles A. Kupchan, pubblicato lo scorso mese di febbraio. Sembrava l’ennesimo editoriale tanto interessante quanto destinato a un rapido oblio e invece indicava la linea che l’establishment globalista avrebbe seguito per estromettere Trump. E cosa c’entra l’Europa? Penseranno molti di voi. C’entra, c’entra. I passaggi salienti erano due. Questi: «Mentre gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali sono scosse dalle forze populiste, gli effetti moderatori dei contrappesi istituzionali saranno di importanza cruciale. Il sistema legislativo, i tribunali, i media, l’opinione pubblica e l’attivismo – rappresentano tutti un freno all’autorità esecutiva e devono essere pienamente adoperati». Ora, pensate a cosa sta succedendo negli Stati Uniti: a condurre la campagna contro Trump sul Russiagate sono i media, i parlamentari e, in divenire, i tribunali. E pensate a quante manifestazioni ci sono state, su temi cari alla sinistra negli Usa ma anche in Europa.
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La povertà è il più grosso business inventato dai ricchi
La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».Dopo il funesto 2011, in cui il mainstream ha ripetuto in modo martellante il “mantra del debito”, visto come problema e colpa sociale, «si è poi scoperto che il governo Monti non soltanto non ha ridotto il debito pubblico, ma lo ha aumentato», annota “Comidad”, in un post ripreso dal blog “La Crepa nel Muro”. «Il cosiddetto spread si è rivelato così una tassa sulla povertà, un’elemosina dei poveri nei confronti dei ricchi». E intanto ha fatto passi da gigante «l’addestramento dei poveri all’uso degli strumenti finanziari». Lo stesso governo Monti rilanciò la Social Card di tremontiana memoria: viste le cifre in ballo per quella carta prepagata, il vantaggio per le famiglie è apparso subito «pressoché inesistente». Semmai a incassare sarebbe stato il gestore finanziario, BancoPosta. Lo scopo della Social Card, in realtà, era quello di «allargare il target dei servizi finanziari», tanto per cambiare sul modello degli Usa, dove «anche lì in via sperimentale, la Social Security Card si è diffusa a macchia d’olio», arrivando nel 2013 a dieci milioni di utenti.«I paesi anglosassoni stanno dimostrando che i poveri costituiscono un target inesauribile per l’offerta di servizi finanziari», sottolinea “Comidad”. «Non soltanto la carta di credito viene oggi concessa anche ai disoccupati, ma questi sono anche fatti oggetto di un vero e proprio allettamento per dotarsi di questo “servizio” finanziario. Il fatto è comprensibile, se si considera che disoccupati e precari possono essere ridotti ad un livello assoluto di dipendenza da questi strumenti finanziari; cosa che non sarebbe possibile nei confronti di chi disponesse di fonti regolari di reddito». Se i prestiti ai poveri fossero ancora in contanti, allora i rischi di insolvenza «sarebbero mortali per un business del genere». Ma oggi c’è il denaro elettronico, e quindi «le banche non devono compromettere la propria liquidità per concedere carte di credito». I poveri tendono ancora a servirsi soprattutto di contanti, «ma le banche intendono sollevare le masse da questa condizione primitiva, attraverso quello che chiamano un programma di “inclusione finanziaria”».Aggiunge “Comidad”: «Il suono nobile e commovente della parola “inclusione” serve a nascondere il fatto che si tratta di un programma a basso rischio d’impresa per lo sfruttamento delle possibilità di indebitamento delle masse più povere». Il blog ricorda che già nel 2007 il governo britannico elaborò un piano di inclusione finanziaria «per salvare le masse di “unbanked” dal loro misero destino e per metterle a disposizione dell’amorevole offerta di servizi bancari». Lo stesso governo britannico «ha ritenuto di porre una deroga ai limiti della sua “spending review” pur di stanziare dei fondi per questo piano umanitario». Anche la Banca d’Italia «ha impostato un piano analogo, in attuazione delle indicazioni del G-20 a riguardo». A quanto pare, continua “Comidad”, «il denaro elettronico ha un club di supporter piuttosto nutrito». La Banca Mondiale, nella sua veste di agenzia specializzata dell’Onu, rappresenta l’avanguardia in questo progetto di “soccorso mondiale agli unbanked”. Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale sino al 2011, ha profuso più di tutti il suo personale impegno nella “financial inclusion”.«Zoellick costituisce il prototipo del perfetto “bombanchiere”: proviene da Goldman Sachs e, nel periodo in cui ha fatto parte dell’amministrazione Bush, è stato uno dei promotori più zelanti dell’aggressione all’Iraq. Zoellick è anche un ospite d’onore, pressoché fisso, del Consiglio Atlantico della Nato». Le banche hanno ormai una pessima reputazione e, spesso, persino una pessima stampa. «Ma le denunce possono rimanere sul vago, mentre, come si dice, il diavolo si annida nei dettagli. C’è qualche prestigioso commentatore che auspica addirittura un passaggio completo al denaro elettronico, con l’abbandono definitivo del contante; ciò in nome della lotta all’evasione fiscale, come se l’elettronica fosse intrinsecamente onesta, e fosse in grado solo di “tracciare” e non potesse anche sviare». Per “Comidad”, l’unico risultato certo dell’adozione integrale del denaro elettronico «sarebbe invece quello di rendere definitiva la “financial inclusion”, cioè di non porre più limiti alle possibilità per le banche di impoverire e sfruttare i popoli».La pubblicazione dei dati Eurostat sull’aumento della povertà e del rischio-povertà in Europa ha suscitato sui media il solito dibattito, viziato in partenza dal rappresentare l’impoverimento come un “problema”, come un effetto indesiderato delle politiche di rigore. «In realtà il bombardamento sociale del rigore finanziario non è sostanzialmente diverso dai bombardamenti militari, nei quali l’obbiettivo dichiarato è un pretesto non soltanto per il consumismo delle bombe (tanto paga il contribuente), ma anche per fare il maggior numero possibile di “danni collaterali”, cioè di vittime civili». Lo scriveva “Comidad” nel 2012, ma sembra scritto oggi. «Anche il rigore è un business, e il “danno collaterale” della maggiore povertà apre a sua volta nuove frontiere al business». In questi anni, aggiunge il blog, è risultato sempre più evidente il nesso consequenziale tra l’aumento della povertà e la finanziarizzazione dei rapporti sociali: «La povertà diventa un business finanziario, costringendo i poveri all’indebitamento crescente». Lo confermano annunci come quello del governo tedesco, che si vantà di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo. Ma la Germania «ha potuto finanziare il suo debito pubblico a tasso zero, poiché, contestualmente, sono stati i paesi del Sud dell’Europa non solo a pagare tassi di interesse più alti, ma anche a indebitarsi maggiormente».
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Il partito che non c’è: quello che direbbe tutta la verità
«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.«Chiedetevi come mai ci ritroviamo a domandarci, ogni volta, dov’è finita la politica seria, e perché è scomparsa», ripeteva anni fa Paolo Barnard, ricostruendo – nel saggio “Il più grande crimine” – la genesi dell’Eurozona in chiave economico-finanziaria ma soprattutto criminologica. L’accusa: una élite feudale pre-moderna e pre-democratica, travolta per due secoli dai progressivi successi della democrazia industriale, si sta semplicemente riprendendo tutto: in Europa ha rifondato una sorta di Sacro Romano Impero dove comandano politici non-eletti, a loro volta manovrati da una oligarchia finanziaria che ha imposto una moneta “privatizzata”, l’euro, con l’unico scopo di impoverire le popolazioni, trasferendo ricchezza dal basso verso l’alto. I politici che potevano opporsi sono stati eliminati (come Olof Palme) o più semplicemente “comprati”, cooptati, perché tradissero il loro mandato, il loro elettorato, i loro sindacati di riferimento. Applicarono alla lettera lo storico memorandum di Lewis Powell, adottato dalla Commissione Trilaterale per abbattere la sinistra sociale dei diritti, usando come clava il dogma del neoliberismo: il welfare deve finire, il potere deve tornare in mani neo-feudali come quelle che pilotano l’ordoliberismo germanico.Nel suo libro uscito nel 2014, “Massoni, società a responsabilità illimitata”, Magaldi (che cita spesso Barnard) completa il quadro: i “campioni” dell’attuale élite, dalla Merkel a Draghi, sono tutti supermassoni affiliati a 36 Ur-Lodges internazionali. «Non sono veri massoni», precisa Carpeoro, «visto che hanno tradito i principi progressisti della massoneria». Magaldi preferisce chiamarli contro-iniziati. Ma ricorda che proprio alla libera muratoria si devono le istituzioni-cardine della modernità: democrazia, elezioni, Stato laico, suffragio universale. Il dono della Rivoluzione Francese, ispirata proprio da massoni. «Solo che poi siamo arrivati a Monti, a Napolitano. Anche Renzi ha bussato a quei circoli, ma non gli hanno aperto. In alternativa ci sarebbero i 5 Stelle, ma non hanno ancora spiegato cosa farebbero, una volta al governo». Sicché, torna in campo la suggestione del “partito che non c’è”, ma sarebbe tanto utile se ci fosse. Un partito che, ad esempio, avesse come frontman un economista di primissimo piano come Nino Galloni, allievo del professor Federico Caffè (come lo stesso Draghi, che però si laureò con una tesi sull’insostenibilità di una moneta unica europea). Galloni ha le idee chiarissime: sbattere la porta in faccia all’Ue, se non accetta di rivedere tutti i trattati-capestro, da Maastricht in poi. Un sogno? Certo, per ora sì: è il sogno del “partito che non c’è”.Negli anni ‘80, quando Olof Palme era ancora vivo, una corrente (non populista) scosse l’Europa: quella del movimento ambientalista, che poi crebbe velocemente “grazie” al disastro nucleare di Chernobyl. Nemmeno i Verdi della prima ora intendevano abbattere il capitalismo, ma solo “tagliargli le unghie”, precisamente quelle più “velenose”, in nome della salute di cittadini e lavoratori. Fu una piccola rivoluzione, anche culturale: prima di degradarsi, il movimento costrinse i paesi europei a dotarsi di legislazioni più “verdi”, più attente alla tutela dell’ambiente. Ma a prendere il sopravvento, in Italia, fu il ciclone Tangentopoli, che solo oggi – dopo oltre vent’anni – si vede cosa ha prodotto: da quella colossale “distrazione di massa” venne fuori il nuovo conio dell’Unione Europea, quella che ha ridotto la Grecia a paese del terzo mondo e ha privato l’Italia del 25% della sua produzione industriale, facendo ricomparire ovunque lo spettro della povertà. E i ruggenti 5 Stelle? Molti si sono stupiti del loro silenzio tombale sul decreto-monstre della ministra Lorenzin sui 12 vaccini obbligatori. Non Carpeoro: «L’unica speranza sta nella base dei 5 Stelle, che è fatta di persone pulite. Vedremo se avranno la forza di prevalere sugli attuali vertici, che sono collusi con il potere».Chiedetevi perché non ci sono più i politici di una volta, insiste Barnard. «Un minuto dopo l’istituzione dell’euro – aggiunge Carpeoro – lo stesso Craxi “profetizzò” che sarebbe stato l’inizio della fine, per l’Italia. Con lui, se lo potevano sognare di fare quel tasso di cambio, rispetto alla lira». Galloni, all’epoca, era in trincea: era stato chiamato nientemeno che da Giulio Andreotti, per tentare di limitare i danni attraverso una “guerra” da condurre al coperto, nel palazzo. «Telefonò l’allora cancelliere Kohl – ricorda – per chiedere che fossi rimosso: lottavo, per cercare di impedire la deindustrializzazione dell’Italia». Ma il piano era partito, inesorabilmente, ed era potentissimo. Banche, grande industria, think-tanks, lobby euro-atlantiche, élite franco-tedesche con frotte di politici, tecnocrati ed economisti di complemento. Morti e feriti, alla distanza: rigore, austerity, Monti e Napolitano, la Fornero. Barnard accusa anche D’Alema, uomo-record nelle privatizzazioni, come il suo alleato Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs, e personaggi del calibro di Tommaso Padoa Schioppa e dello stesso Carlo Azeglio Ciampi, l’uomo che chiuse il “bancomat” statale di Bankitalia prima ancora dell’avvento dell’euro, costringendo il paese a dipendere, di colpo, dal credito della finanza privata internazionale, trasformando il debito pubblico in un dramma.Gioele Magaldi segnala che, dal fronte progressista di quella stessa élite neo-massonica, provengono anche segnali di risveglio. Carpeoro “legge” l’inquietudine dell’élite “terrorista” che ora colpisce Londra e Manchester, temendo che il Regno Unito post-Brexit possa smarcarsi dal vertice neocon ultraliberista. Ma se qualcuno ha palpitato per le elezioni francesi, sognando una vittoria “sovranista” di Marine Le Pen, si è dovuto arrendere all’evidenza del supermassone Macron, protetto dal supermassone reazionario Jacques Attali (storico sodale di D’Alema, secondo Barnard). Quanto all’Italia, «rido per non piangere», chiosa Magaldi, tra gli inchini di Gentiloni ai potenti del G7: «I nostri partiti cianciano di legge elettorale “alla tedesca” per ingessare in eterno il sistema con un bell’abbraccio tra Renzi e Berlusconi, che pare piaccia anche a Grillo, dato che porrebbe di fronte alla comoda prospettiva di una nuova stagione di opposizione da “duro e puro”».Tutto ciò, senza una sola parola – da parte di nessuno – su come uscire dalla trappola di questa Ue. Servirebbe, appunto, il “partito che non c’è”. Quelli che ci sono, infatti, servono solo a lasciare l’Italia in letargo, in mezzo alle sue “irrisolvibili” tragedie economiche, che il mainstream si guarda bene dall’approfondire: Barnard (cofondatore di “Report”) è trattato come un appestato, e il libro di Magaldi (decine di migliaia di copie vendute) non ha avuto sinora spazi in tv. Il mainstream preferisce registrare gli slogan di Salvini, fotografare l’anziano Silvio che allatta agnellini, filmare l’ectoplasma di Renzi che si riprende l’ectoplasma del Pd. Il mainstream riesce a stare ancora ad ascoltare persino la controfigura di Bersani che straparla di sinistra dimenticando l’altro Bersani, quello vero, che militarizzò il Parlamento per far votare il pareggio di bilancio imposto dall’élite per tramite dei suoi commissari, Monti e Napolitano. Forse, il “partito che non c’è” è quello degli italiani, che ancora stazionano davanti al televisore godendosi questo spettacolo, mentre altrove i veri capi – gli unici – decidono, ancora e sempre, sulla testa di tutti.«Io non sono contro il capitalismo, voglio solo tagliargli un po’ le unghie». Lo disse Olof Palme, grande leader socialdemocratico europeo, assassinato nel 1986 a Stoccolma mentre era premier della civilissima Svezia, dove aveva imposto l’ingresso diretto dello Stato nell’economia per salvare industrie traballanti, assegnando addirittura ai lavoratori una quota azionaria. «Chi ha ucciso Palme voleva “uccidere” il socialismo in Europa: il leader svedese andava abbattuto per poter poi mettere in piedi un obbrobrio come l’attuale Eurozona», sostiene Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che collega l’omicidio Palme (tuttora senza colpevoli) a un telegramma con il quale Licio Gelli annunciò l’imminente “caduta” della “palma svedese” al parlamentare statunitense Philip Guarino, allora braccio destro del politologo supermassone Michael Ledeen, onnipresente nella politica italiana, tanto che – sempre secondo Carpeoro – affiancò «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». Carpeoro aderisce al Movimento Roosevelt fondato da Gioele Magaldi, già maestro venerabile di una loggia romana del Grande Oriente d’Italia e poi Gran Maestro del Grande Oriente Democratico. Magaldi – sceso in campo a colpi di denunce contro gli abusi di certa massoneria internazionale neoaristocratica e in difesa e promozione della secolare tradizione progressista della libera muratoria – oggi invoca la nascita del “partito che non c’è”.
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Scarpinato: Falcone ucciso da mafia e 007, su ordine di chi?
Il 23 maggio 1992 esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali. Di che tipo? Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una «aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali».Traduzione: insieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa Nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come “instrumentum regni” e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica. Questa convergenza di interessi criminali la rivelò per primo Elio Ciolini, un ambiguo personaggio implicato nelle indagini per la strage di Bologna, legato al mondo dei servizi segreti, della massoneria e dell’eversione nera. Nel 1992 era in carcere a Bologna e il 4 marzo e il 18 marzo, poco prima che si scatenasse l’inferno, anticipò ai magistrati che nel marzo-luglio del ’92 sarebbe stato ucciso un importante esponente della Dc, sarebbero state compiute stragi e poi si sarebbe distolto «l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia». Tutti quegli eventi puntualmente si verificarono: il 12 marzo ’92 fu assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia; il 23 maggio fu consumata la strage di Capaci; il 19 luglio quella di via D’Amelio; poi – sempre come Ciolini aveva anticipato – la strategia stragista si spostò al Centro-Nord con le mattanze di Milano e Firenze e gli attentati a Roma.Tutte azioni rivendicate da comunicati a nome della “Falange Armata”, sigla di un’organizzazione eversiva che serviva appunto a distogliere l’opinione pubblica dal pericolo mafioso. Ma Ciolini non fu l’unico ad avere la “sfera di cristallo” che gli consentì di rivelare con così largo anticipo l’unitarietà e il respiro strategico della lunga campagna stragista. Il 21 e il 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa “Repubblica”, vicina ai servizi segreti, pronosticò che di lì a poco ci sarebbe stato un bel “botto esterno” per giustificare uno voto di emergenza che avrebbe sparigliato i giochi di potere in corso per la elezione del nuovo presidente della Repubblica. Anche questo evento puntualmente si verificò il 23 maggio: il “botto esterno” di Capaci azzerò le manovre per portare alla presidenza della Repubblica il senatore Giulio Andreotti e contribuì all’elezione dell’outsider Oscar Luigi Scalfaro.Molti collaboratori di giustizia ci hanno confermato in seguito che un selezionato numero di capi della Commissione regionale di Cosa Nostra, riuniti alla fine del 1991 in un casolare della campagna di Enna, avevano discusso per vari giorni quel complesso progetto politico che stava dietro alle stragi. Un progetto che fu tenuto segreto ad altri capi e ai ranghi inferiori dell’organizzazione, ai quali venne fatto credere che le stragi servivano solo a scopi interni alla mafia, cioè a costringere lo Stato a scendere a patti, garantendo in vari modi impunità e benefici penitenziari. E invece – come la Dia evidenziò già nel 1993 – dietro quella campagna si celavano menti raffinate e soggetti esterni, il cui ruolo attivo emerge anche nella fase esecutiva delle stragi. Purtroppo, dopo 25 anni di indagini, non è stato ancora possibile identificarli. Sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al ministero della giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura.Da Falcone si passa poi a Borsellino, appena 57 giorni dopo. Chi era il personaggio non appartenente alla mafia che, come ha rivelato il collaboratore Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage di via D’Amelio, assistette alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta? Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi. Altri pezzi mancanti su via D’Amelio? Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, in un colloquio intercettato il 14 dicembre ’93, poco dopo il rapimento del loro figlio Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Quell’intercettazione è agli atti del processo, ma quegli “infiltrati” è stato impossibile identificarli e assicurarli alla giustizia.Chi è in possesso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino trafugata, con una straordinaria e lucida tempistica, pochi minuti dopo l’immane esplosione di via D’Amelio? Su quell’agenda è noto che Paolo aveva annotato i terribili segreti intravisti negli ultimi mesi di vita. Segreti che l’avevano sconvolto e convinto di non avere scampo, perché – come confidò alla moglie Agnese – sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma solo quando altri lo avessero deciso. Chi erano questi “altri”? L’elenco delle domande che sinora non hanno avuto risposta disegna i contorni di un iceberg ancora sommerso che né le inchieste parlamentari né i processi sono mai riusciti a portare alla luce, per una pluralità di fattori che si sommano e delineano un quadro inquietante. Possibile che i magistrati che indagano da 25 anni non siano riusciti a fare luce su tutto questo? E come si fa, quando vengono sottratti ai magistrati documenti decisivi per l’accertamento di retroscena occulti? Ho già accennato alle carte di Falcone e all’agenda di Borsellino, episodi che si inscrivono in una lunga tradizione di carte rubate sui misteri d’Italia: dalla sparizione delle bobine con gli interrogatori di Aldo Moro nella prigione delle Br al trafugamento dei documenti segreti del generale Carlo Alberto dalla Chiesa dopo il suo assassinio.Ma penso anche alla miniera di tracce documentali custodita nella villa di via Bernini a Palermo, dove Salvatore Riina aveva abitato negli ultimi anni della sua latitanza. Si impedì ai magistrati di perquisire l’abitazione di Riina immediatamente dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993: ci assicurarono che il luogo era strettamente sorvegliato giorno e notte, mentre in realtà fu abbandonato poche ore dopo quella stessa assicurazione, lasciando campo libero a squadre di “solerti pulitori” che ebbero agio per diversi giorni di far sparire ogni cosa, smurando persino la cassaforte e ridipingendo le pareti per eliminare eventuali tracce di Dna. Chi è in possesso da 24 anni di quei documenti e che uso ne ha fatto? Decine di mafiosi, anche boss di prima grandezza, hanno collaborato con la giustizia. Certamente più di molti uomini delle istituzioni. Purtroppo tacciono ancora tanti boss che sanno tutto: i fratelli Graviano, Santapaola, Madonia e altri capi detenuti. E anche alcuni collaboratori danno l’impressione di sapere molto più di quel che dicono, ma di autocensurarsi. E penso anche ai silenzi prolungati e all’amnesia generalizzata di alcuni esponenti delle istituzioni, che solo con il forcipe delle indagini penali si sono decisi, a distanza di anni, a rivelare brandelli di verità.Quali erano i segreti sul coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi e omicidi eseguiti dalla mafia che Giovanni Ilardo, capomafia legato ai servizi segreti e alla destra eversiva, aveva promesso di rivelare ai magistrati pochi giorni prima di essere assassinato il 10 maggio 1996, proprio mentre si apprestava a mettere a verbale le sue dichiarazioni iniziando a collaborare? Lo stesso Ilardo era stato il primo a indicare Pietro Rampulla, anch’egli mafioso ed estremista di destra, come l’artificiere della strage di Capaci, che infatti sarebbe stato poi condannato con sentenza definitiva. Alcuni eventi recenti, ancora in corso di verifica processuale, sembrano dimostrare che purtroppo questa non è solo una tragica storia del passato. Per esempio le recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, capo dell’importante mandamento di Resuttana, membro di una famiglia mafiosa implicata in stragi e delitti eccellenti del passato e vecchia amica di apparati deviati delle istituzioni. Racconta Galatolo che alla fine del 2012 il capo latitante di Cosa Nostra, Messina Denaro, protagonista della stagione stragista del 1992-’93, ha ordinato l’omicidio del pm Nino Di Matteo, impegnato nelle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, con un’autobomba.Galatolo ha dichiarato che sia lui sia altri capi erano rimasti colpiti dal fatto che l’identità dell’artificiere messo a disposizione da Messina Denaro, doveva restare ignota a tutti, compresi i capi di Cosa Nostra. Una circostanza che, ancora una volta, contrastava palesemente con le regole mafiose e indicava la partecipazione anche in quel progetto stragista di soggetti esterni, portatori di interessi criminali convergenti con quelli della mafia. Prima che Galatolo iniziasse a collaborare rivelando l’episodio, un esposto anonimo aveva già messo al corrente la magistratura che Messina Denaro aveva ordinato una strage su richiesta di suoi “amici romani” per interessi politici che andavano oltre quelli di Cosa Nostra. Continuare a ricercare la verità è un dovere non solo istituzionale, ma anche morale. Il modo più autentico per onorare la memoria, per dare un senso al sacrificio dei tanti servitori dello Stato e alla morte di tante vittime innocenti le cui vite sono state inghiottite nei gorghi tumultuosi di quello che Giovanni Falcone definì “il gioco grande del potere” una guerra sporca giocata con tutti i mezzi nel “fuori scena” della storia.(Roberto Scarpinato, dichiarazioni rilasciate a Marco Travaglio per l’intervista “Strage di Capaci, una verità a brandelli: interessi politici oscuri tramano ancora”, pubblivata dal “Fatto Quotidiano” il 23 maggio 2017. Scarpinato, già membro del pool antimafia siciliano, è oggi procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo).Il 23 maggio 1992 esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali. Di che tipo? Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una «aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali».
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La libertà ai tempi del morbillo, i diktat di un’élite screditata
Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti. Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica. Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle Asl a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat. Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo. Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.Una volta, il camice bianco, lo scienziato, il “dottore” (figura archetipale della Conoscenza oscura e salvifica), con il solo carisma della funzione e del titolo di studio, esercitavano un’indiscussa egemonia sul popolino, che ne riconosceva acriticamente l’autorità specialistica. Idem per le altre figure preposte alla direzione della società: il politico-amministratore, il banchiere, il dirigente di polizia, il giudice. Mettere in discussione ruoli e competenze delle élite era possibile solo per ristrettissime minoranze critiche, perché la stragrande maggioranza della popolazione non aveva gli strumenti culturali per dissentire dai “gruppi dirigenti”, dai loro linguaggi specialistici, dalle loro ingiunzioni spesso inspiegabili. Chi stava “in basso” era più o meno rassegnato a delegare ai piani superiori la gestione delle grandi questioni che oggi collochiamo nella dimensione etica e bio-politica. Oggi non è più così. Una larga fetta di popolazione, generalmente i settori un po’ più dinamici e informati, nutre un sospetto e uno scetticismo critico “a priori” sulle competenze e sui moventi di ogni gruppo dirigente. È un fenomeno trasversale e secondo alcuni questa sorda e ostile sfiducia di massa, che corre lungo l’asse verticale “basso-alto” della società, è l’essenza di quello che viene definito “populismo”.Una recente inchiesta statistica lamenta il fatto che molti genitori sono andati in questi anni a cercarsi sul web informazioni sui vaccini, finendo vittime di quelle che, i curatori delle inchieste, definiscono costernati come le “solite bufale”. Senza entrare nel merito di una faccenda medico-scientifica assai complessa, pare un atteggiamento saggio quello di muoversi autonomamente e acquisire informazioni. Perché si dovrebbero delegare acriticamente la salute propria o dei figli ad un medico di base o, peggio, alle burocrazie sanitarie? Perché ci si dovrebbe rassegnare all’idea che sia il presidente della Regione – non di rado mediocrissimo funzionario di partito – a decidere le delicatissime strategie di salute pubblica? Non è forse più saggio esercitare un giudizio critico “a priori” rispetto all’affidarsi (sempre “a priori”) a quella classe medica che ogni tanto – in autorevoli suoi segmenti – viene investita da inchieste giudiziarie (non bufale, ma atti delle Procure) mentre esercita sperimentazioni di massa sui pazienti del Servizio Sanitario pubblico per conto di Big Pharma? È a costoro che si dovrebbe consegnare integralmente il delicato tema politico della salute?Tra l’altro l’impressione è che spesso i medici, massa proletarizzata di lavoratori della sanità pubblica, non facciano che ribadire i contenuti delle circolari ministeriali che gli arrivano sulla scrivania. Non hanno le competenze proprie dell’immunologo o dell’epidemiologo, non adottano nemmeno il protocollo minimo richiesto da qualsiasi somministrazione medica: conoscenza preventiva della storia del paziente e osservazione successiva e prolungata nel tempo degli effetti del farmaco somministrato (tutte pratiche incompatibili con il “vaccinificio industriale”). È in tale quadro che il cittadino cerca autonomamente informazioni dove e come può, essendo sostanzialmente vietato da un clima isterico (decisamente antiscientifico) ogni serio e rigoroso dibattito pubblico in materia. E qui si apre l’altro grande nodo di questi tempi: l’uso del web e la questione di chi gestisce l’infosfera ingovernabile della “pubblica opinione”, che tanto inquieta le élite globali. Esisteva un tempo una verità ufficiale capace di imporsi nel discorso pubblico, a cui tutti gli operatori del settore umilmente concorrevano. Tale monopolio del discorso pubblico (di cosa si parla e come se ne parla) pare ormai decisamente incrinato. Si mettano l’anima in pace scienziati, politicanti e giornalisti. I buoi sono usciti e sempre meno gente aderirà ciecamente al pastone mainstream che viene propinato ogni sera nei telegiornali o nei compunti editoriali antipopulisti.E l’Alitalia? Cosa ha a che fare l’Alitalia con la questione vaccini? Il nesso tra i due contesti – vaccini e vertenze – va cercato sul medesimo terreno minato, quello del consenso e della fiducia nei “dirigenti-specialisti”. Nell’ultimo referendum in cui i lavoratori del gruppo hanno votato in massa contro l’ipotesi di accordo, in ballo c’era proprio un “pacchetto” di misure confezionato ad arte da tutti i “professionisti” della gestione delle crisi, convocati attorno a un tavolo in cui, come in una sceneggiatura, tutti i ruoli erano noti e definiti: gli amministratori del gruppo, gli investitori internazionali, i consulenti delle banche creditrici, i saggi politici intervenuti con sollecitudine per la salvezza della ex compagnia di bandiera, i sindacalisti buoni e responsabili. Oltre alla supposta autorevolezza di queste figure, incombeva anche qui il clima terroristico che era alimentato abilmente dai mezzi di comunicazione: «O votate Sì o domattina siete disoccupati». Un ben curioso esercizio di dialettica democratica. Si è detto ai dipendenti di Alitalia: «Ci dispiace, ragazzi; dobbiamo sforbiciare salari, tutele e occupazione, ma che volete mai, dovete conservare pazienza e fiducia, gli specialisti siamo noi, vorreste forse rivendicare il diritto alla gestione di una compagnia aerea? Dateci il vostro consenso, perché è attraverso quello che vi salveremo».Il no di massa dei lavoratori è stato definitivo e fulminante: un’epidemia di dissenso. Qual è il segno politico di tale pronunciamento? Uno solo: «Non ci fidiamo più. Vogliamo vedere il gioco. Non ci fate più paura. Vediamo di cosa siete capaci». Una sfida lanciata dal basso che ha sparigliato i soliti vecchi giochi, generando un panico confuso tra consiglieri di amministrazione, sottogoverno, sindacalismo di Stato, editorialisti: una manica di cialtroni che alla prova dei fatti, sbugiardati e sfiduciati, mostrano tutta la loro pochezza, l’assenza di strategie e di ogni visione che non sia spolpare, spezzettare e svendere la memoria industriale di questo paese. Torniamo ai vaccini. Se dovesse passare una legge sulle vaccinazioni coatte, che succederà di fronte a migliaia di genitori che rivendicheranno il diritto di decidere, comunque, della salute dei propri figli?Che succederà se sfideranno le autorità scolastiche, portando i loro ragazzi a scuola per adempiere a quello che, almeno fino ad oggi, in Italia, è un obbligo di legge? Finirà che deciderà il Tar del Lazio. Come è “normale” che sia in un paese patetico come questo, in cui ai piani alti della società, mentre si esibisce la protervia modernizzatrice, serpeggia una ottocentesca paura del “popolo” – sempre evocato, omaggiato, blandito, ma sotto sotto temuto per le sue imprevedibili reazioni. Le élite italiane sono oggi così deboli, prive di autorità e di egemonia, che ormai l’azione di governo si esercita solo attraverso il comando amministrativo, la decretazione d’urgenza a cui segue, di solito, l’ammucchiata bi-partisan. Sul piano sociale, questa debolezza si manifesta in tante vertenze sindacali o territoriali: tra i Palazzi del potere e le comunità (critiche o rancorose) spesso c’è solo una sfilza di celerini. Niente altro in mezzo. Nessun potere può reggere a lungo su una base di consenso così fragile: un po’ di truppe in camice bianco (i chierici delle varie corporazioni di regime), un po’ di truppe in divisa blu, e in mezzo uno sparuto drappello in giacca e cravatta che twitta moniti e minacce, isolato e intimorito.Una nota finale sulla questione delle libertà. Il sistema tardo-liberale fa di questa parola la sua fonte di legittimazione e la sua bandiera: si va in Afghanistan a liberare le donne in burqa, si svende il patrimonio pubblico per liberalizzare l’economia, si ridisegna tutto il quadro dei diritti individuali per allargare la libertà della persona. Ma se c’è un opzione o un diritto collettivo che cozza con gli imperativi del mercato (vedi la libertà di scelta terapeutica) la reazione del sistema è feroce come un missile Hellfire che piomba su una festa di matrimonio a Kandahar: la retorica pubblica sulle libertà, viene sostituita dalla riemersione delle vecchie care parole d’ordine della società disciplinare – proibire, censurare, espellere, ingabbiare, controllare. Le retoriche del politicamente corretto, del contrasto al populismo, delle isterie securitarie, si sostituiscono in un battibaleno alle ciance sulla libertà e i diritti. Se hai abbastanza soldi puoi farti fare un figlio con maternità surrogata da una disgraziata in Romania: ma se il pupo si vaccina o no (ciò che attiene alle grandi scelte di salute pubblica e business) questo lo decideranno loro.(Giovanni Iozzoli, “La libertà ai tempi del morbillo”, da “Carmilla Online” del 20 maggio 2017).Cosa c’entra la questione vaccini con la crisi dell’Alitalia? Niente. O forse molto. Dipende dalla capacità di leggere nessi forse nemmeno tanto nascosti. Da ormai due anni è in atto una forsennata campagna di allarmismo terroristico nei confronti dell’opinione pubblica basata sulla necessità di incrementare le vaccinazioni di massa, giudicate in leggera flessione statistica. Non questo o quel vaccino in particolare: ma tutti, sempre, per qualunque problema. Si è partiti con articoli e interviste allarmanti sulle epidemie prossime venture (inesistenti picchi di meningite e pandemie di morbillo), si è continuato con lettere intimidatorie delle Asl a casa dei genitori riluttanti, si arriva al capitolo finale, con una legge in incubazione che vieterà l’ingresso a scuola ai non vaccinati e, quindi, obbligherà di fatto, l’intera popolazione giovanile ad adempiere al diktat. Ok, ma l’Alitalia? Ci arriviamo. Il fatto che molte famiglie abbiano scelto in questi anni di non vaccinare i figli e si ostinino a difendere la loro scelta, nonostante il dispiegamento di questa feroce campagna (senza precedenti), è solo un’altra manifestazione di quella diffusa “sfiducia nelle élite”, che è un dato costante e caratteristico di questa epoca.