Archivio del Tag ‘Matteo Orfini’
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Benetton-Spagna grazie ai nostri pedaggi, regalo di D’Alema
«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).Gli imprenditori trevigiani erano partiti molti anni fa con l’abbigliamento a buon mercato, ricorda Fabio Pavesi sul “Fatto Quotidiano”, ma hanno scoperto ben presto che i soldi – quelli veri e tanti – si fanno con i business monopolistici: «Quelli regolati da tariffe e dove la concorrenza sui prezzi, che ha morso sempre di più il tessile-abbigliamento, è del tutto inesistente». Oggi il marchio Benetton è in crisi profonda, mentre i business delle infrastrutture (autostrade e aeroporti, fino alla ristorazione con Autogrill) in cui la famiglia di Ponzano Veneto ha pensato bene di investire alla grande, sfavillano di luce propria. Atlantia, la capofila del gruppo nel settore delle autostrade, ha trovato l’accordo con la Acs di Florentino Perez (patron del Real Madrid) e la sua controllata tedesca Hochtief per “papparsi” la spagnola Abertis, su cui Atlantia aveva lanciato un’Opa da 16 miliardi. Il progetto: una holding in cui proprio Atlantia avrà il 50% del capitale, più un’azione. «Il gruppo dei Benetton entra così in Abertis dal piano superiore. Una mossa che la dice lunga sull’abilità della famiglia di Ponzano Veneto di giocarsi alla grande i suoi investimenti».Del resto, aggiunge Pavesi, il business delle autostrade è da sempre un investimento a prova di rischio, e molto remunerativo.Basta scorrere i numeri di Atlantia che possiede Autostrade per l’Italia, la rete da 3 mila chilometri (solo in Italia) oltre agli Aeroporti di Roma, cui si è aggiunto quello di Nizza, insieme ad altri piccoli scali. La holding infrastrutturale – posseduta al 30% da Edizione, la cassaforte dei Benetton – sforna ogni anno numeri in costante crescita. Nel 2017, Atlantia ha visto i ricavi salire e lambire i 6 miliardi, contro i 5,4 di solo un anno prima. «La crisi economica in Atlantia non si è mai vista. Nel 2010 il fatturato valeva poco meno di 4,5 miliardi. Eppure il traffico sulla rete autostradale negli anni bui era anche diminuito. A far salire in continuazione il fatturato c’è sempre la ciambella di salvataggio delle tariffe. Quelle non scendono mai – scrive il “Fatto” – nemmeno quando l’inflazione va a zero, come è accaduto». E’ il bengodi, per i gestori: lo Stato concede loro di rincarare i pedaggi per coprire gli investimenti. «Anche nel 2017 per Autostrade per l’Italia le tariffe hanno corso di più dell’incremento da volumi di traffico. Ed è proprio Autostrade per l’Italia l’asset più redditizio per l’intera Atlantia. La sola Autostrade ha fatto ricavi per 3,94 miliardi sui 6 miliardi di tutta Atlantia. Pagati costi operativi e del lavoro, Autostrade ha una redditività industriale stratosferica: su 3,94 miliardi di fatturato il margine operativo lordo è di ben 2,45 miliardi. Un livello del 62%. Livelli che pochi raggiungono».Dal 2012 al 2016, continua il “Fatto”, Atlantia ha girato dividendi per la bellezza di 1,5 miliardi. «Una vera “cash machine”, una macchina da soldi che spende sì in investimenti per la manutenzione e ha speso molto per la Variante di Valico, ma con una redditività così elevata si permette il lusso di portare a casa quasi un miliardo di utile netto su 6 miliardi di ricavi. Niente male, per la famiglia veneta, che ha capito già 20 anni fa che quel business era l’affare della vita». Basti pensare, come documenta Mediobanca, che a primavera del 2017 Atlantia ha ceduto due pacchetti del 5% di Autostrade con una plusvalenza di ben 732 milioni. «Ricchi, ricchissimi, un vero tesoro Autostrade/Atlantia per i Benetton». Le perdite del marchio dei maglioni? Fanno solo il solletico – conclude Pavesi – al gruppo che siede sul tesoro delle autostrade italiane, e domani anche di quelle spagnole. Il governo Conte ora annuncia una multa da 150 milioni per il crollo di Genova. Ma la revoca della storica concessione, si apprende, potrebbe costare al paese qualcosa come 20 miliardi. “E’ la privatizzazione, bellezza”. «Durante la grande svendita delle aziende di Stato, costruite con i soldi degli italiani – scrive “VoxNews” – solo comprando e rivendendo dall’Iri la catena Gs, Benetton ha messo a segno una plusvalenza da 4.500 miliardi di vecchie lire. E come nel caso Telecom, di fatto “regalata” all’amico Colaninno, nel 1999 è il governo di Massimo D’Alema a imporre all’Iri di privatizzare le autostrade».Per i Benetton, aggiunge il newsmagazine, si trattava di un grande affare da affiancare a quello di Autogrill, anch’essa acquistata tre anni prima sempre dall’Iri assieme alla catena della grande distribuzione. L’operazione finì nel mirino dell’Antitrust, che chiese ai Benetton di aprire le strade italiane anche ad altri concorrenti della ristorazione. Ma, secondo l’Agcom, il diktat dell’autorità guidata da Giuseppe Tesauro non venne osservato, e per questo nel 2004 i Benetton si beccarono una multa da quasi 16 milioni di euro. «Una puntura di spillo», rispetto alla voragine di miliardi nel frattempo incassati ogni anno. La tragedia di Genova è uno specchio: di neoliberismo privatizzatore si muore. Romperemo i vincoli di bilancio imposti dall’Ue, annuncia Salvini tra le macerie genovesi, pur di mettere in sicurezza la rete nazionale dei trasporti. Ecco il punto: scardinare la consegna del rigore e riconquistare quella sovranità finanziaria che, negli anni della crescita (attraverso il ricorso strategico al debito pubblico) aveva permesso di realizzarle, le infrastrutture che poi il centrosinistra ha svenduto. E’ solo l’inizio di un rivolgimento epocale inevitabile, drammaticamente urgente. D’Alema tace, mentre l’oscuro Orfini accusa Lega e 5 Stelle di ragliare a vanvera. Non una parola di autocritica, dall’ex sinistra che sta assistendo alla sua cancellazione, ingloriosa, dalla storia italiana.«Genova: il crollo è cominciato nel 1999 – scrive “VoxNews” – quando D’Alema ha regalato le autostrade ai Benetton». Oggi si piangono le vittime del viadotto Morandi, collassato per deficit di manutenzione, e secondo l’esecutivo gialloverde per colpa di Autostrade per l’Italia (che avrebbe dovuto, quantomeno, segnalare il pericolo e chiudere l’arteria). Ma se lo Stato non ha più la gestione dell’infrastruttura, e quindi il controllo della sua sicurezza, lo si deve alla grande privatizzazione decisa trent’anni fa dal centrosinistra dalemiano: un esecutivo che vedeva Sergio Mattarella vicepremier e Carlo Azeglio Ciampi al Tesoro, insieme a Giuliano Amato. Poche varianti nel D’Alema-bis: il tecnocrate Franco Bassanini alla funzione pubblica, il boiardo di Stato Antonio Maccanico alle riforme istituzionali e Amato al Tesoro, con Mattarella alla difesa e Vincenzo Visco alle finanze. Erano gli anni ruggenti della “terza via”, il neoliberismo adottato con entusiasmo dalla post-sinistra clintoniana e blairiana: rottamare lo Stato e svendere il patrimonio ai grandi trust privati. Palazzo Chigi trasformato in una merchant bank: lo stesso D’Alema si vantò di aver realizzato il record europeo, in tema di privatizzazioni. Le autostrade? Dall’Iri ai Benetton: l’affare del secolo (ma solo per i Benetton, a quanto pare).
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Scanzi: governo, il suicidio perfetto del mitologico Mattarella
Tutti in piedi, perché siamo già dritti dritti dentro la leggenda. E’ tutto bellissimo. Domenica, quando Re Sergio ha preso a pretesto il vecchio trombone Savona facendolo passare per un Bakunin scavezzacollo, la cosa più bella era vedere i renziani e gli annessi cortigiani che esultavano, ovviamente ignari di qualsivoglia competenza costituzionale e del tutto sconnessi da qualsiasi analisi politica minima: “Ha salvato il paese”, “Ha salvato la democrazia”. Come no. E magari ha pure salvato la buonanima di stocazzo. Per carità: l’impeachment proposto da M5S e Meloni è una buffonata, che oltretutto porta pure sfiga (chiedere a Occhetto, che poi si sfracellò nel ’94, e al M5S, che di lì a poco fu disintegrato alle Europee 2014). Quello di Mattarella non è un atto eversivo: molto più semplicemente, è una delle più grandi puttanate politiche nella storia della galassia. Leggo che ora sono in molti a voler votare il 29 luglio. Non solo M5S e Lega, ma pure Pd, magari quella quota anti-renziana (si fa per dire) che spera così di mondare le liste dal mosciume andrearomanico-renzista-migliorista. Ohibò: ricordo male o votare a luglio era esattamente ciò che più non voleva Mattarella?Domenica sera ho letto molti commenti, ora renzisti e ora sinistrorsisti, che dicevano: “Alè, abbiamo evitato Salvini agli Interni! #iostoconmattarella”. Bravi: non avrete Salvini al Viminale, ma lo avrete come Presidente del Consiglio. Son soddisfazioni. Intanto lo spread cresce ancora (ma non era colpa del Salvimaio?), Cottarelli ha la grinta di Orfini in ciabatte e Renzi ha ricominciato a parlare da solo su Facebook, dispensando le consuete battute da Panariello irrisolto. C’è poi Gunther Oettinger, Commissario Ue al Bilancio, che dichiara: “Mercati spingeranno gli italiani a non votare per i populisti”. Giusto per ricordarci che votiamo in Italia, ma decidono in Germania. Non male anche la grande pensata dei sinistrorsi, in prima fila Boldrini e D’Alema, antichi sfollatori di consensi, che esortano a unirsi a tutti (anche e soprattutto con Renzi) per difendere Mattarella (che Renzi sfanculava fino a ieri poiché colpevole di non averci fatto votare “in una delle finestre del 2017”) e “per arginare la deriva sovranista”, come fosse Antani e con tapioca prematurata. La poraccitudine imperversa e sciaborda con sicumera crassa.Con il suo gesto costituzionalmente spericolato (lo dicono Onida e Villone, non proprio grillo-leghisti) e politicamente folle, il rutilante Mattarella ha regalato il paese proprio a chi detesta di più. Cioè i populisti. A partire dalla Lega. Che infatti, a giudicare dai sondaggi, è già a un passo dal 30% (a marzo non arrivava al 18). Dopo il voto Salvini potrà scegliere: o governare (con ruolo dominante) con M5S, realizzando un governo ancora più forte – e quindi più detestabile dai mattarellisti – del governicchio Conte. Oppure, ed è l’ipotesi più probabile, sarà il dux indiscusso di un governo di centrodestra con Berlusconi ridotto a vassallo, ma comunque ben presente. Un capolavoro di cui dovremo ringraziare il Capo dello Stato, fenomeno vero e idolo imperituro delle galassie. Daje.(Andrea Scanzi, “Governo, il suicidio perfetto del mitologico Mattarella”, dal “Fatto Quotidiano” del 29 maggio 2018).Tutti in piedi, perché siamo già dritti dritti dentro la leggenda. E’ tutto bellissimo. Domenica, quando Re Sergio ha preso a pretesto il vecchio trombone Savona facendolo passare per un Bakunin scavezzacollo, la cosa più bella era vedere i renziani e gli annessi cortigiani che esultavano, ovviamente ignari di qualsivoglia competenza costituzionale e del tutto sconnessi da qualsiasi analisi politica minima: “Ha salvato il paese”, “Ha salvato la democrazia”. Come no. E magari ha pure salvato la buonanima di stocazzo. Per carità: l’impeachment proposto da M5S e Meloni è una buffonata, che oltretutto porta pure sfiga (chiedere a Occhetto, che poi si sfracellò nel ’94, e al M5S, che di lì a poco fu disintegrato alle Europee 2014). Quello di Mattarella non è un atto eversivo: molto più semplicemente, è una delle più grandi puttanate politiche nella storia della galassia. Leggo che ora sono in molti a voler votare il 29 luglio. Non solo M5S e Lega, ma pure Pd, magari quella quota anti-renziana (si fa per dire) che spera così di mondare le liste dal mosciume andrearomanico-renzista-migliorista. Ohibò: ricordo male o votare a luglio era esattamente ciò che più non voleva Mattarella?
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L’Italia frana e il Pd le ha offerto solo la mistica del Jobs Act
«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.La cifra del tenore politico in casa Pd, dice Magaldi ai microfoni di “Colors Radio”, la offrono le meste esternazioni dei renziani Orfini, Lotti, Martina, «non a caso incolori e privi di qualsiasi carisma, come tutti quelli del Giglio Magico», assolutamente anonimi, fatta eccezione per la Boschi (che si fa notare per «la notevole avvenenza e l’astuzia nella cura del suo “particulare”») e per il misterioso Carrai, «personaggio scaltro, che appare e scompare». Sconfitti, i renziani ripetono: «Lasciateci perdere, per il governo vedetevela voi. Noi abbiamo perso, non vogliamo governare: lo faccia chi ha vinto, cioè 5 Stelle e Lega, con o senza Forza Italia al seguito». Peccato, si rammarica Magaldi: «E’ una posizione formalistica», sterile, ma certo non inaspettata. «In tutta questa storia del renzismo prevale sempre il lato formale», rileva Magaldi. «Hanno prevalso gli slogan, le propagande, le affermazioni altisonanti che dovevano sostituire la realtà: la mistica del Jobs Act, la mistica della crescita del paese. Ho ascoltato esterrefatto Alessandra Moretti, l’ex “lady like”, dire che loro pensavano che la ripresa avrebbe premiato il Pd, invece il paese reale ha una percezione diversa».«Non è questione di percezione», obietta Magaldi: «E’ che sono stronzate quelle che vengono dichiarate a reti unificate sulla ripresa: gli indicatori economici utilizzati sono fasulli (ma finiscono per convincere anche i loro propagatori), mentre il paese continua a essere in ginocchio da troppi anni, la disoccupazione galoppa e l’economia gira poco e male». E anziché aprire gli occhi e ammettere i suoi errori (evidentissimi agli elettori) il Pd «continua la sua triste narrativa renziana, dove quello che conta non è la sostanza». Ben diverso, aggiunge Magaldi, se Renzi dicesse: «Ho capito dove ho sbagliato, quindi offro un supporto al governo 5 Stelle (o a un altro governo) sulla base di alcuni progetti, che sono nostri. Non li vogliono? Pazienza, ma noi facciamo politica perché vogliamo fare delle cose, abbiamo questi progetti che avremmo attuato se avessimo vinto, e quindi se qualcuno li vuole sostenere andiamo avanti insieme». Questo, conclude Magaldi, «sarebbe un ragionamento di sostanzialità politica, e cioè: tu testimoni quello che è il tuo progetto politico – sia che perdi, sia che vinci. E invece siamo al tatticismo. Si dice: abbiamo perso, ci lecchiamo le ferite».In più, aggiunge, dopo la Caporetto del 4 marzo, «nel Pd prevale ancora un’identificazione fortissima con il sentire personale di Renzi», l’ex rottamatore arrivato al capolinea. In realtà, secondo Magaldi, dovrebbe essere rottamato l’intero centrosinistra italiano: di fatto, ha consegnato l’Italia a poteri oligarchici privati, coronando il sogno antidemocratico dell’ultimo Kalergi, adottato da Jean Monnet e dagli altri padrini storici di quest’Europa “antieuropeista”, che rema contro i propri popoli mettendoli l’uno contro l’altro a colpi di mercantilismo e culto del rigore. Finisce nei guai un paese come l’Italia, che oggi – tra le altre cose – si ritrova senza una politica all’altezza della situazione «e senza uno straccio di ideologia, tranne l’unica rimasta in piedi: quella neoliberista». Tatticismi, appunto: «Compreso il peggiore in assoluto, ipotesi di cui nessuno parla: la possibilità teorica che il centrodestra, in silenzio, possa “pescare” seggi tra i tanti grillini neo-eletti, come auspicato dallo stesso Berlusconi». Niente male, come inizio, per l’ipotetica Terza Repubblica fondata sugli equivoci, mentre il paese continua a crollare.«Ok, abbiamo perso. Volete i nostri voti, in Parlamento? Benissimo: preparatevi a sostenere alcune nostre proposte, quelle che in caso di vittoria avremmo attuato noi». Questo sarebbe un parlare politico, responsabile, incisivo. E invece il Pd, rottamato dalla catastrofe elettorale, tiene il muso. E si rifugia, per ora, in un Aventino che sarà anche «legittimo e coerente con l’esito delle urne», ma certo non utile a costruire futuro. Anche perché, a monte, manca il tassello fondamentale: «Renzi dovrebbe innanzitutto dire: abbiamo sbagliato», anziché lasciar credere che a “sbagliare” siano stati gli elettori, che non avrebbero compreso la qualità e la mole del lavoro svolto dal governo. “Non ci hanno compreso”, è il refrain. “Non siamo stati capaci di farci capire”. Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, «questa vicenda del Pd che non gioca più, che non vuole più giocare, racconta benissimo questa politica che ha abdicato al suo ruolo costruttivo, accontentandosi di un ruolo meramente rappresentativo e oleografico». Una mediocrità imbarazzante, nella quale peraltro affonda l’ex riformismo italiano, quello dei sedicenti “progressisti” che hanno votato il governo Monti e la legge Fornero, senza avere nemmeno il coraggio di rimettere in discussione almeno il pareggio di bilancio in Costituzione, inserendolo nel fatale referendum del dicembre 2016.
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Giannuli: tamarri al potere, il Pd è una vergogna nazionale
«A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».«Sino a quando una norma c’è, si rispetta e non si aggira, magari con la compiacenza di un governo e di un Parlamento di “amichetti”», scrive Giannuli nel suo blog. «Ma la concezione di De Luca è quella dell’asso pigliatutto: chi vince, per fas et nefas poco importa, governa, anzi “comanda” (come insegna il suo capo, Renzi: “un uomo solo al comando”). E’ la stessa concezione della democrazia di Berlusconi, per la quale chi vince le elezioni è “l’Unto del Signore”. Una concezione predatoria che include anche le leggi ad hoc o ad personam, lo smembramento della Costituzione, l’assalto alle alte cariche dello Stato, il diritto di saccheggio». Una concezione che «non concepisce i limiti opposti al potere dalle norme dello Stato di Diritto, dalla divisione dei poteri, dal ruolo dell’opinione pubblica. Una idea da caudillo latinoamericano». Questa, continua Giannuli, è l’ idea del potere che ha anche Renzi, mirabilmente espressa nella sua legge elettorale, per la quale una forza politica che magari rappresenta il 12,5% dell’elettorato totale (ad esempio il 25% del 50% di quanti vanno a votare) si aggiudica il 54% dei seggi dell’unica Camera e ha un’ottima base di partenza per cambiare la Costituzione a piacimento.E questo perché “gli italiani devono sapere dalla sera delle votazioni chi governerà”, anzi: “comanderà”, perché «il tanghero fiorentino confonde il governo con il Potere nella sua interezza: ma il governo, in uno Stato di diritto, è solo una delle articolazioni del potere, non l’unica». In Germania, Francia, Inghilterra, Spagna, Austria, Olanda ci sono sistemi elettorali che non garantiscono affatto di sapere chi governerà nei 5 anni successivi, eppure quei paesi non vanno in crisi. Perché in Italia dovrebbe essere diverso? «Ma De Luca e Renzi non sono uomini da sofisticatezze intellettuali, cose che lasciano agli oziosi», loro sono uomini d’azione, non di cultura «e ci tengono a rimarcarlo in ogni occasione, facendo sfoggio del loro spirito praticone e del fastidio per ogni dibattito, soprattutto quando assuma vaghe sfumature culturali». E se qualcuno riesce a fare un’obiezione, la risposta non è mai nel merito: è sempre colpa di “personaggetti”, “disfattisti”, “rosiconi”, “gufi”. «Un cocktail di arroganza, aggressività, cafoneria, invadenza, prevaricazione, spudoratezza. E’ il Renzi’s tamarro style che ormai non appartiene solo a lui ma è la cifra di una intera classe politica».Da Orfini, che zittisce Gomez sullo scandalo di Mafia Capitale, a Enrico Carbone che la sera della disfatta alle regionali tenta di imporsi sul concorrente vendoliano: «Al povero senatore Stefàno di Sel, che è pugliese ed obiettava che in Puglia nelle civiche c’era proprio di tutto, Carbone rispondeva “Tu pensa a Sel che in Puglia è andata male”. Appunto: perfetto Renzi’s Tamarro Style». Questo stile, conclude Giannuli, è la spia di una concezione autoritaria della democrazia. «Il fatto è che i renziani sono antropologicamente estranei alla civiltà delle buone maniere che, guarda caso, quantomeno storicamente, è la premessa di quella della democrazia. E allora, venite ancora a dirmi che ad essere impresentabile è il solo De Luca? Impresentabile è il Pd in quanto tale. E ho una domanda agli ex militanti del Pci, ancora numerosi, nonostante tutto, nelle file del Pd: ma come fate a non vergognarvi di stare in una cloaca del genere?».«A essere impresentabile non è Vincenzo De Luca, ma il Pd». Per Aldo Giannuli, il vincitore delle elezioni regionali in Campania «non è un incidente di percorso del Pd, un occasionale cacicco meridionale la cui presenza il partito ha dovuto subire per i capricci del popolo delle primarie». Se così fosse stato, «Renzi non si sarebbe speso mettendoci personalmente la faccia ed oggi non starebbe ad arrampicarsi sugli specchi per salvarlo dalla legge Severino, altre volte applicata senza sconti». L’ex sindaco di Salerno «non è nemmeno un fenomeno locale, che tocca difendere per onor di bandiera». De Luca «esprime l’essenza del Pd attuale», al netto delle sue controversie giudiziarie che «lo rendono simile a tanti altri amministratori del Pd a Genova, a Venezia, a Roma». Il problema? La sua «oscena concezione della politica». Per Giannuli, questo “feudatario del Cilento” «dice quello che il suo gruppo dirigente pensa ma non osa dire». Chissenefrega della legge Severino? Giusto che governi chi ha vinto le elezioni, purché però «nel rispetto delle leggi».
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Gawronski: in politica entra solo chi non ostacola le ruberie
Fai politica seriamente? Potresti perdere poltrona e prebende. Dunque, prudenza: mai disturbare chi comanda. Inutile stupirsi, quindi, se il sistema politico è marcio: entrarvi è difficile e, una volta dentro, l’unica regola che conta è non dare fastidio a nessuno, altrimenti si verrebbe esplusi. Lo sostiene Piergiorgio Gawronski, riflettendo sull’ultimo scandalo – quello romano di “Mafia Capitale” – che sta travolgendo destra e sinistra. «I delinquenti ci sono in tutti i paesi del mondo: non sono loro a fare la differenza», premette Gaweonski. «La salute di una società dipende piuttosto dalla qualità degli onesti». Per esempio, i politici che si presentano come moralizzatori, rinnovatori, alfieri della trasparenza. Da Matteo Orfini, incaricato di bonificare il Pd romano, al “rottamatore” Renzi, dall’ex sindaco Alemanno, “faccia pulita” della destra, al suo predecessore Veltroni, «che guidava personalmente le scolaresche ad Auschwitz». Tutti ora si dichiarano sorpresi, sconcertati. «Ho sbagliato squadra», ammette Alemanno. E Veltroni, su “Repubblica”, si dichiara folgorato dallo stupore: mai avuto sentore di malversazioni sul business dell’assistenza ai migranti.«La politica italiana è un business ad altissimo rendimento», replica Gawronski su “Micromega”. «Perciò come si fa a cadere dalle nuvole quando si scopre che attira frotte di arraffoni? I politici italiani sono i più pagati d’Europa, eppure «Veltroni per primo deviò l’attenzione dagli emolumenti al numero dei parlamentari. E ora Renzi, suo epigono, smantella istituzioni invece di moralizzarle». Fa gola il lucroso “indotto” della politica: spesa pubblica opaca, appalti, carriere politicizzate nella pubblica amministrazione. «Né i privilegi sono transitori: si perpetuano nel tempo, perché non sono contendibili». Spiega Gawronski: «La politica ha altissime “barriere all’ingresso”: le candidature a qualsiasi assemblea elettiva sono strettamente controllate, è ammesso solo chi non dà seriamente fastidio. E le selezioni dal basso – primarie, preferenze – per come sono organizzate si vincono solo investendo molti soldi. Per gli interessi privati è razionale farlo, per gli altri no, perciò semplicemente gli altri non sono competitivi».Veltroni divenne il primo segretario del Pd vincendo le primarie nel 2007 contro Rosy Bindi, alfiere dei cattolici democratici, che ha fatto dell’onestà un punto fermo nella sua vita: «Noi non siamo responsabili della crisi del paese!», si auto-assolse la Bindi nel 2013. «Siamo stati inadeguati? Questo sì! Forse… Ma colpevoli, no!». Eppure, ricorda Gaweonski, alle primarie del 2007 la Bindi aderì alla proposta degli outsider – taglio netto della “paga” dei parlamentari, da 15.000 a soli 5.000 euro – ma «parlava solo dello stipendio, che è il 44% della busta paga», e in ogni caso «a tale richiesta non diede mai seguito». Nel “club” ci si divide su tutto, aggiunge Gawronski, «ma non sui privilegi oligarchici del sistema, altrimenti il sistema ti espelle». Nel 2008, Veltroni finse si accogliere le richieste di rinnovamento: «Basta con i capibastone! Voglio un partito di gente perbene, un partito sano, gli altri fuori». Ma non prese alcun provvedimento: «Alle elezioni candidò tutti i capibastone, coperti da una manciata di candidati scelti dall’alto a fini mediatici: un “giovane”, una “donna”, un “operaio della Thyssen”». E nessuna elevata competenza.In passato, ricorda Gawronski, i politici come Fanfani, Amendola e De Gasperi «venivano a Roma a fare i parlamentari in cambio di emolumenti un decimo degli attuali». Oggi, politici e sindacalisti si sono “imborghesiti”: «Non vogliono rinunciare al loro elevato benessere, e neppure ai loro esorbitanti poteri discrezionali sulla pubblica amministrazione, sulla spesa pubblica, sulle candidature». Tutto questo, «a costo di mantenere nel sistema politico incentivi perversi, che lo distorcono profondamente». Tutto diventab torbido, i sospetti si incrociano insieme ai ricatti virtuali, ai veti che portano alla paralisi e all’impossibilità di adottare soluzioni utili, radicali, decisive. Ecco perché questi politici «sono responsabili per l’ipertrofia della corruzione». Il problema di fondo? «I politici “buoni” – scrive Gawronski – ci hanno convinto che noi italiani siamo irrecuperabili, perciò quel che accade non è colpa loro». In più, ci hanno anche convinto che «quel che conta è “fare presto”». E quindi, «trasparenza, controlli e democrazia sono lussi inutili». Poi, a tempo scaduto, va in scena ovviamente il festival dello stupore.Fai politica seriamente? Potresti perdere poltrona e prebende. Dunque, prudenza: mai disturbare chi comanda. Inutile stupirsi, quindi, se il sistema politico è marcio: entrarvi è difficile e, una volta dentro, l’unica regola che conta è non dare fastidio a nessuno, altrimenti si verrebbe esplusi. Lo sostiene Piergiorgio Gawronski, riflettendo sull’ultimo scandalo – quello romano di “Mafia Capitale” – che sta travolgendo destra e sinistra. «I delinquenti ci sono in tutti i paesi del mondo: non sono loro a fare la differenza», premette Gaweonski. «La salute di una società dipende piuttosto dalla qualità degli onesti». Per esempio, i politici che si presentano come moralizzatori, rinnovatori, alfieri della trasparenza. Da Matteo Orfini, incaricato di bonificare il Pd romano, al “rottamatore” Renzi, dall’ex sindaco Alemanno, “faccia pulita” della destra, al suo predecessore Veltroni, «che guidava personalmente le scolaresche ad Auschwitz». Tutti ora si dichiarano sorpresi, sconcertati. «Ho sbagliato squadra», ammette Alemanno. E Veltroni, su “Repubblica”, si dichiara folgorato dallo stupore: mai avuto sentore di malversazioni sul business dell’assistenza ai migranti.
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Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra
“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».(Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).“Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.