Archivio del Tag ‘migranti’
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Tutti contro i 5 Stelle, eppure Di Maio sta limitando i danni
Marcucci (Pd) imputa il recente smottamento dell’industria italiana al reddito di cittadinanza che ancora deve entrare in vigore. Allo stesso tempo, come fanno anche molti altri del monopartito Pd-Fi, afferma che a causa dello spread gli italiani dilapidano soldi pubblici. In realtà se la Bce svolgesse il suo lavoro in modo efficace e non nazionalista (Aquisgrana) ma onesto, lo spread non dovrebbe proprio esistere, ma questo ai poveri cittadini non viene detto. Non viene detto nemmeno che quando Di Battista ha informato sul doping con cui la Francia riesce a resistere nella moneta unica (cioè lo sfruttamento dei paesi africani che ancora colonizza e che paghiamo anche noi italiani, economicamente e socialmente), lo spread si è impennato; e questo perché molto probabilmente soggetti finanziari francesi amici di “Didì” Macron hanno venduto titoli decennali italiani (magari comprandone di tedeschi). Una ritorsione quindi nazionalista, oltre che ovviamente di stampo speculativo. Sarebbe interessante che in questo splendido contesto di identità europea “spinelliana” (spero si colga l’ironia) nell’Europarlamento qualcuno si incaricasse di chiedere una indagine su come si sono mossi i capitali in questione.
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Perché Salvini stravincerà, nonostante l’economia in crisi
C’è chi lo critica da destra perchè non è abbastanza liberista e chi lo critica da sinistra perchè non è abbastanza liberista. Poi c’è chi lo critica perchè è troppo liberista, ma quelli siamo in pochi. Comunque sia, qualunque cosa egli faccia, l’Italia è già in stagnazione ora e andrà in recessione domani. Eppure, il Capitano non solo rimarrà saldamente al comando del paese, ma i suoi consensi sono destinati a crescere. Gli avversari politici parlano di propaganda, di populismo, di fascismo, e invece devono imputare questa situazione nient’altro che a sè stessi e alla loro ideologia demenziale: la globalizzazione neoliberista. Prima di riflettere su ciò, ho letto questo post su Twitter: “Ragazzi credetemi: sono su un treno regionale che da Catanzaro porta a Rossano Calabro e trovare un italiano su questa carrozza è davvero un’impresa”. E l’artefice del post stava parlando della Calabria, cioè di una delle regioni a minor occupazione in Italia. Non si stava riferendo al Veneto o alla Lombardia.L’altra sera sono andato dal medico di famiglia. Spesso mi scordo come si chiama perchè io vado dal medico solo quando ho dolori lancinanti e quindi, per fortuna, molto di rado. Arrivato nella sala d’attesa dell’ambulatorio noto subito che sono l’unico italiano, gli altri sono componenti di famiglie nordafricane che parlottano. Impossibile capire cosa si stiano dicendo: magari parlavano del sottoscritto come di uno stronzo. Chissà, non lo saprò mai. A me non interessa più di tanto trovarmi quotidianamente alle Poste o dal dottore o in un qualsivolgia luogo pubblico con tutti stranieri attorno, ma sfido chiunque a sostenere che la cosa sia piacevole. Impossibilitati a comunicare e a capire ciò che gli interlocutori attorno si dicono, ti senti isolato, fuori casa. Eppure riconosco le strade, i nomi delle vie, gli edifici. Mio zio fa il muratore: ha lavorato alla realizzzazione di quell’immobile che ospita il supermercato nel quale sto entrando. Un mio amico vende frigoriferi industriali, la fabbrica produttrice è del mio paese e la marca di quel congelatore al supermercato è proprio quella, la conosco bene.Sui pezzi di carta appiccicati ai muri e sulla segnaletica stradale usano i caratteri latini. In fondo al paese c’è un campanile. Si, insomma, a quanto pare sono proprio in Italia. Perchè allora devo sentire tutti dal medico o al parco che parlano arabo o wolof, o quello che stracazzo? La Costituzione italiana esplicitamente afferma che bisogna tutelare le minoranze linguistiche. Ciò significa, sic et simpliciter, che la maggioranza linguistica non va tutelata? A scuola se ne vede di ogni. Quando un alunno dimentica una matita o disturba durante le lezioni, dagli insegnanti riceve una predica che neanche Don Camillo a Brescello. Poi però vediamo bambini e ragazzini che prendono diplomi senza avere proprietà di linguaggio alcuna, e soprattutto senza che mai siano stati bocciati lungo il percorso scolastico italiano, che dura minimo 10 anni.Come dite? Si tratta di naturali conseguenze dell’emigrazione ed è sempre successo così? Be’, i miei genitori in Svizzera negli anni Sessanta col piffero che potevano sbraitare tra di loro in italiano nei luoghi pubblici, ed era ritenuta grandissima maleducazione parlare una lingua che una persona presente non conosce se chi discute ha la possibilità di parlare quella che tutti conoscono. Mi risulta che negli Stati Uniti o in Francia, dove il melting pot è una realtà da tanti lustri, i quartieri dove si parla spagnolo o marocchino siano quelli più degradati. Eppoi, come sanno anche i sassi, chi un tempo migrava lo faceva per guadagnare più soldi, e non per fruire di servizi che alla comunità autoctona sono costati anni di battaglie e alta pressione fiscale. Purtroppo, complici anche scelte politiche sui trattati internazionali, oggi in Italia la disoccupazione si aggira sul 10 per cento e quella giovanile al 33. Dunque è facilmente ipotizzabile che il reale vantaggio nel risiedere in Italia consista nel suo sistema di wefare, più che nelle opportunità di lavoro.La migrazione di popoli c’è sempre stata. Spesso ha migliorato le condizioni di vita, come quando i fenici colonizzarono il Mediterraneo, o come quando i greci portarono la civiltà in Medio Oriente ben prima della predicazione di Maometto. Altre volte, però, le migrazioni di popoli hanno portato solo sciagure, come alla fine dell’Impero Romano, quando i barbari che già vivevano all’interno del limes finirono per logorare e abbattere un sistema millenario lasciando spazio alla tribalità ed al nomadismo che svuotarono le città nell’alto medioevo ed impoverirono tutta Europa. Migrare non è affatto un valore: è una condizione che comporta sofferenza e che proprio per questo non va promossa, ma contenuta. Salvini l’ha capito: più di tutti i comunisti, più di tutti i neoliberisti, più di tutti i preti di questo paese levantino. E farà il peno di voti, che vi piaccia o no. Oooops, quasi dimenticavo i sovranisti movimentisti: per costoro il problema migrazione c’è, ma è secondario rispetto alla moneta endogena creata alla supercazzola con scappellamento a destra. Dunque lasciano l’argomento a Salvini.(Massimo Bordin, “Perchè Salvini stravincerà le prossime elezioni, nonostante l’economia”, dal blog “Micidial” del 17 febbraio 2019).C’è chi lo critica da destra perché non è abbastanza liberista e chi lo critica da sinistra perché non è abbastanza liberista. Poi c’è chi lo critica perché è troppo liberista, ma quelli siamo in pochi. Comunque sia, qualunque cosa egli faccia, l’Italia è già in stagnazione ora e andrà in recessione domani. Eppure, il Capitano non solo rimarrà saldamente al comando del paese, ma i suoi consensi sono destinati a crescere. Gli avversari politici parlano di propaganda, di populismo, di fascismo, e invece devono imputare questa situazione nient’altro che a sè stessi e alla loro ideologia demenziale: la globalizzazione neoliberista. Prima di riflettere su ciò, ho letto questo post su Twitter: “Ragazzi credetemi: sono su un treno regionale che da Catanzaro porta a Rossano Calabro e trovare un italiano su questa carrozza è davvero un’impresa”. E l’artefice del post stava parlando della Calabria, cioè di una delle regioni a minor occupazione in Italia. Non si stava riferendo al Veneto o alla Lombardia.
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Niente preservativo: e la Chiesa fabbrica migranti e orrori
Verrà il giorno in cui, finalmente, l’ipocrita Chiesa romana oserà pretendere una soluzione per abolirla, la povertà? Anziché predicare l’aiuto ai poveri, nascerà un Papa capace di imporre alla politica di eliminarla dalla faccia della Terra, la miseria? Se lo domanda Paolo Barnard, nell’esprimere un giudizio impietoso sulla situazione di oggi, con l’Africa che si prepara a inondare l’Europa di migranti. E non è che l’inizio dell’esodo, visto il boom demografico in corso nel continente nero. Nessun impegno, dal Vaticano, per limitare la natalità mediante l’uso dei contraccettivi. Anzi: il pontefice è intervenuto per censurare l’Ordine di Malta, che aveva tentato di promuovere gli anticoncezionali in Africa. Così i barconi continuano a solcare il Mediterraneo, dando poi modo allo sceriffo Salvini di fare il “signor no”. Tutto teatro, dice Barnard: facendosi fotografare mentre agita la croce e il rosario, il capo della Lega chiarisce che non si permetterebbe mai di contestare il potere religioso, che secondo Barnard è il vero motore dell’emigrazione. «Il tasso di natalità africano – scrive il giornalista sul suo blog – è una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali: non esiste guerra, sfruttamento neo-coloniale, franco Cfa o malapolitica africana che gli possa stare vicino, come causa nella monumentale tragedia della loro povertà oggi».Secondo Barnard, nel 2019, «il vero anti-razzista e umanitarista deve guardare in faccia l’africano e l’africana e dirgli di smetterla di figliare come pazzi». Il giornalista punta il dito contro «la perversione mentale chiamata fede cristiana che noi abbiamo esportato e che continuiamo a esportare là, e che fisicamente impedisce ai metodi contraccettivi e all’educazione ai diritti riproduttivi di raggiungere le donne del continente, anche quando sono laiche e consapevoli». In Africa una donna negli anni di fertilità partorisce dai 5 ai 7 figli, in media. L’Onu prevede che, fra 30 anni, più di un miliardo di umani si aggiungerà alla già stipata Africa. «Nonostante i cosiddetti aiuti umanitari – con missionari laici o religiosi, con l’industria delle donazioni e della “caritas cristiana” – il numero totale di poveri estremi nell’Africa Sub-Sahariana è oggi più alto che nel 1981. E di nuovo: l’abnorme tasso di natalità gioca, in questo, un ruolo infernale». Le cause storiche della povertà africana le conosciamo, e sono «il nostro furto delle loro risorse ma anche la loro corruzione». Ma figliare a questo ritmo scriteriato, aggiunge Barnard, «creerebbe disperazione economica anche nella Svizzera delle banche, disintegrerebbe il potere di spesa sociale della Fed degli Stati Uniti».Insiste Barnard: il flusso dei profughi economici che vediamo oggi è solo la minuscola frazione dei fuggitivi africani che riescono ad arrivare in Libia. Ma il 99% dei futuri migranti stanno appena più a Sud, «e sono quelli che arriveranno quando la vera crisi dei migranti esploderà: sono gli africani dell’immenso bacino cattolico». Che fare? Tanto per cominciare, bisognerebbe «distribuire su scala intensiva preservativi agli africani», attraverso «programmi di educazione ai diritti riproduttivi (come evitare gravidanze non volute), in un accordo non solo con i politici, ma con le due maggiori religioni africane, cattolicesimo e Islam». Significherebbe «aiutare a prevenire almeno una notevole fetta di sofferenze umane che negli ultimi 40 anni hanno di molto superato in numeri quelle dell’Olocausto nazista». E di conseguenza, «prevenire la crisi dei migranti». Al contrario, ostacolare la contraccezione in un’Africa già irresponsabilmente riproduttiva «significa pianificare a tavolino uno sterminio, con tragedie incalcolabili, con la destabilizzazione peggiore mai vissuta dall’Europa moderna». Un fenomeno che, fra l’altro, «alimenta la proliferazione dei nuovi fascismi europei».In un’intervista del 1952, ricorda Barnard, il filosofo della scienza Bertrand Russell «non solo predisse il globale dramma delle migrazioni per povertà, ma dettò la ricetta per fermarle, auspicando allo stesso tempo equità economica nell’intero pianeta». Barnard considera Russell «la mente forse più lucida, autorevole e umanitarista del XX secolo». Nodo irrisolto, da allora: il problema demografico e la proibizione cristiana della contraccezione. «Sarà impossibile ridurre la diseguaglianza globale – disse Russell – se non raggiungeremo popolazioni numericamente stabili». Altro pericolo: i poveri oggi possono vedere come vivono i ricchi, cioè noi. «La consapevolezza, da parte di immense masse di poveri, della disparità di ricchezza fra loro e noi, ci porterà pericoli alla pace e calamità», aggiunse Russell. «E’ assolutamente giusto che Africa e Asia ottengano eguaglianza nella ricchezza con l’Occidente. Ma se si vuole evitare che l’Africa e l’Asia travolgano il mondo con immense popolazioni in estrema povertà – concluse il filosofo – esse dovranno però imparare a mantenere popolazioni numericamente stabili. E se non impareranno a controllare questo, allora inevitabilmente perderanno la loro rivendicazione di eguaglianza economica».Cosa si deve aggiungere – dice Barnard – a parole del genere? Furono pronunciate «cinquant’anni prima che chiunque, qui da noi, sentisse parlare di barconi, crisi migranti, neo-razzismo e di Salvini». Profezia lampante: «Il controllo delle nascite, quindi la contraccezione, sono vitali per l’economia e la giustizia globali». La soluzione è proprio la contraccezione, «non la demente astinenza predicata dalla Chiesa». E chi si oppone a questa politica salva-pianeta che mitigherebbe guerre, migrazioni e drammi incalcolabili? «Due fanatici della croce vaticana, Bergoglio e Salvini», scrive Barnard. Per il Vaticano «la contraccezione, in ogni sua forma, è dannazione divina, è perdizione: equivale al peggior sudiciume morale, addirittura all’infanticidio». Non importa se poi la mancata contraccezione miete milioni di vittime: «Conta la croce vaticana, che purtroppo proprio nell’Africa più disperata ha una presa pandemica sui suoi abitanti». Per Barnard, il pontefice romano e il capo leghista «sono disgustosi entrambi», per ipocrisia: il primo contribuisce direttamente alla strage, l’altro campa politicamente sull’esodo. Bergoglio? «Nell’encefalo di milioni di fessi passa come un “francescano” riformatore», come il volto nuovo (decente) della «vomitevole Chiesa storica», cioè «quella dell’opzione per i ricchi e morte ai poveri».Ma per fortuna esiste Wikileaks, continua Barnard: il network di Julian Assange rivela che Papa Francesco intervenne «in un mefitico guazzabuglio di potere» con il cattolico Ordine di Malta, il quale «per un errore di un tal Gran Cancelliere» dell’ordine religioso vaticano, di nome Albrecht Freiherr von Boeselager, «aveva osato finanziare l’uso di contraccettivi per non sovrappopolare l’Africa, e quindi per evitare non solo le infezioni da Aids ma anche per diminuire le crisi dei migranti che finiscono sui barconi». Dai documenti pubblicati da Wikileaks, il Papa si sarebbe «prodigato nel suo decennale doppiogiochismo». Barnard ricorda che Bergoglio «fu pro/anti torturatori argentini, fu pro/anti teologi della liberazione, fu pro/anti-preti pedofili, fu pro/anti Fondo Monetario Internazionale alla gola dei poveri latinoamericani, infatti aiutava una manciata di poveracci ma ostacolava la “socialista” Kirchner». Secondo Wikileaks, se da un lato ha messo sotto scacco la parte più conservatrice del vaticanissimo Ordine di Malta («dopotutto deve figurare come Francesco il progressista, no?»), dall’altro avrebbe imposto «con feroce autoritarismo» la proibizione dei contraccettivi e dei diritti riproduttivi su tutta l’Africa, «con morti per Aids, sovrappopolazione e povertà disperata come conseguenze».Ipocrisia su ipocrisia: non sono certo «i miliardi vaticani investiti in hedge funds o immobili miliardari a pagare per l’accoglienza». Per Barnard, siamo di fronte a «oggettivi crimini contro l’umanità, dettati da una fede religiosa da sempre genocida». Crimini che però «farebbero poca strada, se poi non esistessero vaste masse di complici». Fra queste, «il “popolo del capro espiatorio” in drammatica espansione in Ue, cioè le destre populiste, quelli che “tutto è colpa del migrante, anche il deficit strutturale”». Peggio di loro si comportano le “anime belle”: «Sono l’altro popolo, cioè il “popolo della caritas”, quello che in nome della propria auto-santificazione alimenta l’orrore, abbracciando la croce del genocidio anti-contraccettivo». In patria, i buonisti «lavorano per l’inutile e controproducente industria della “caritas” verso i dannati della Terra», ma spesso «vanno anche a far danni diretti nelle ormai secolari scorribande missionarie vaticane».Si indigna, Barnard: «Se questo “popolo della caritas” dedicasse quella montagna di energie a pretendere dalla politica occidentale soluzioni sistemiche alla povertà e alla sovrappopolazione del mondo, senza neppure spostarsi da casa, se questo avessero fatto da anni invece di sentirsi “buoni” e dare l’obolo o fare il viaggetto santo, noi nel 2019 non avremmo mai sentito parlare di un trionfante Salvini, di barconi, di cadaveri sul fondo del Mediterraneo, di neofascismi in tutto l’Occidente e, soprattutto, la tragedia del Terzo Mondo sarebbe ora solo un brutto ricordo». E invece ecco ogni giorno in televisione «il Santo Signore di tutti gli Ipocriti, con al seguito il vostro beniamino padano che sbraita contro l’invasione dei disperati ma bacia la croce che l’alimenta a tutta forza». Però «mica se la prende con le gabbane, il Matteo: no, solo coi disperati». Ribadisce Barnard: «Priorità per la tragedia migranti: contraccettivi e educazione ai diritti riproduttivi. Ora. Perché mentre ne respingete uno, là se ne creano 10.000».Verrà il giorno in cui, finalmente, l’ipocrita Chiesa romana oserà pretendere una soluzione per abolirla, la povertà? Anziché predicare l’aiuto ai poveri, nascerà un Papa capace di imporre alla politica di eliminarla dalla faccia della Terra, la miseria? Se lo domanda Paolo Barnard, nell’esprimere un giudizio impietoso sulla situazione di oggi, con l’Africa che si prepara a inondare l’Europa di migranti. E non è che l’inizio dell’esodo, visto il boom demografico in corso nel continente nero. Nessun impegno, dal Vaticano, per limitare la natalità mediante l’uso dei contraccettivi. Anzi: il pontefice è intervenuto per censurare l’Ordine di Malta, che aveva tentato di promuovere gli anticoncezionali in Africa. Così i barconi continuano a solcare il Mediterraneo, dando poi modo allo sceriffo Salvini di fare il “signor no”. Tutto teatro, dice Barnard: facendosi fotografare mentre agita la croce e il rosario, il capo della Lega chiarisce che non si permetterebbe mai di contestare il potere religioso, che secondo Barnard è il vero motore dell’emigrazione. «Il tasso di natalità africano – scrive il giornalista sul suo blog – è una macchina di disperazione e di morte di proporzioni infernali: non esiste guerra, sfruttamento neo-coloniale, franco Cfa o malapolitica africana che gli possa stare vicino, come causa nella monumentale tragedia della loro povertà oggi».
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Software manipolabile e affari privati, l’imbroglio Rousseau
Si scrive Movimento 5 Stelle, ma si legge “sistema Casaleggio”. Ovvero: come si tradisce una rivoluzione. Non perché al governo c’è Di Maio piuttosto che Di Battista, ma perché «il calcolo e l’inganno hanno dato il benservito al desiderio di rinnovamento e alla passione politica». A dirlo è Marco Canestrari, sviluppatore e blogger. Oggi vive e lavora a Londra, ma un tempo seguiva Grillo ovunque, scrive sul “Sussidiario” Federico Ferraù, che lo ha intervistato. Il tecnico ha visto nascere, per avervi collaborato e lavorato, la macchina organizzativa del M5S. Quello che sa lo ha scritto con Nicola Biondo in “Supernova”. La piattaforma Rousseu? «Il voto ha valore zero, non è certificato da nessuno e si svolge attraverso un software manipolabile, insicuro e privato», dice Canestrari. Alla vigilia della votazione sull’autorizzazione a procedere contro Savini, ha detto: «Quale sarà il modo in cui questa volta prenderanno in giro i propri elettori lo sanno solo loro». Dopo il voto in Abruzzo – tra Tav, riforme e caso Diciotti – i 5 Stelle appaiono incerti e frastornati, annota Ferraù. Per Canestrari «c’è una cosa che spiega tutto», e cioè «i due giorni di assenza di Di Maio dopo il voto in Abruzzo, l’incertezza, il cambio di marcia, l’idea di una struttura più tradizionale». Il problema? «Siamo ancora abituati all’idea del movimento che aveva Casaleggio: Gianroberto, intendo». Ormai il capo è il figlio Davide, e secondo Canestrari il movimento «non è più l’evoluzione dei MeetUp, ma il ramo d’azienda politico di un’entità più grande che io chiamo “sistema Casaleggio”».«Mentre Gianroberto voleva mettere alla prova nella realtà le sue teorie sulla rete – sostiene Canestrari – a Davide interessa solo mantenere e sviluppare il controllo del sistema. E lo fa attraverso la piattaforma Rousseau, con cui conosce tutto, ma proprio tutto, di iscritti ed eletti a M5S». L’accusa: è il sistema-Casaleggio ad avere al suo interno il M5S. «Il movimento, l’associazione Rousseau, la piattaforma: si tratta di vere e proprie unità organizzative aziendali». Qualche giorno fa, aggiunge Canestrari, l’edizione americana di “Wired” ha rilanciato una notizia interessante: la conferma di un incontro tra Steve Bannon e Davide Casaleggio in Italia ai primi di giugno 2018. «Perché gli aderenti al movimento e gli eletti non l’hanno saputo? Di cos’hanno parlato i due? La verità – dice Canestrari – è che ad avere in mano il pallino è Davide, non altri. Lo fa come presidente della Casaleggio Associati e dell’Associazione Rousseau, seguendo un’agenda sconosciuta a tutti gli altri». Quindi la piattaforma Rousseau è la vera la leva dell’ingranaggio? Soltanto in apparenza, dice Canestrari: «Nella sostanza è solo uno specchietto per le allodole che serve a profilare gli utenti, siano essi iscritti, candidati o parlamentari».La sua gestione, prosegue il tecnico, è segnata da episodi controversi: «E’ stato il Garante della privacy a dire che i gestori sapevano come votavano gli iscritti alla piattaforma perché i dati erano conservati “in chiaro”». Aggiunge Canestrari: «Davide Casaleggio sa tutto, è questo il segreto del suo “soft power”, che in M5S non è paragonabile a quello di nessun altro, nemmeno Di Maio, figuriamoci Grillo». Come sono oggi i rapporti tra Casaleggio e Di Maio? «Sono ottimi – risponde Canestrari – per il semplice motivo che gli interessi sono convergenti». Quello di Davide è «mantenere il controllo della struttura», e Canestrari ricorda che l’associazione Rousseau «incassa quasi 9 milioni di euro a legislatura dai parlamentari e dalle donazioni al M5S». Ma se i grillini volessero liberarsi di Rousseau non potrebbero farlo, sostiene sempre Canestrari, «perché nessuno può rimuovere Casaleggio dal suo ruolo: la sua carica nell’associazione non è elettiva, la può occupare solo un socio fondatore e Davide è l’unico rimasto dopo la morte del padre». E alla luce di tutto questo – domanda Ferraù – Di Maio che ruolo ha? «E’ l’amministratore delegato del ramo d’azienda politico del sistema-Casaleggio». E’ evidente che le dispute sulle correnti di Fico, Di Battista e via dicendo «sono solo accademia», teatro. «Ciò che conta è chi resta e chi se ne va. E a restare sarà Davide Casaleggio».Nel suo blog, Canestrari parla di evidenti conflitti d’interesse: proprio mentre Di Maio annunciava il riconoscimento legale alla tecnologia blockchain (ad uso del Made in Italy), la Casaleggio Associati presentava un rapporto sulla tecnologia blockchain ad uso delle imprese. «In platea c’erano gli imprenditori che stavano aspettando di capire come accedere a quei fondi: indovinate chi gli farà le consulenze». Sempre secondo Canestrari, il “sistema-Casaleggio” viene prima di qualsiasi nodo politico sul tappeto, come il Tav Torino-Lione che oppone i 5 Stelle alla Lega. «Io penso che il governo regga – dice l’informatico – per il semplice motivo che il 70% dei parlamentari sono di prima nomina e nel settembre del 2022 matureranno il diritto alla pensione». Poi ci sono ragioni anche politiche: «Nel febbraio del ’22 si elegge il presidente della Repubblica: dubito che Di Maio e Salvini vogliano lasciarsi sfuggire l’opportunità di decidere chi va al Colle». Nel frattempo potranno esserci, al massimo, «dei rimescolamenti di poltrone». E sul Tav valsusino, domanda Ferraù, alla fine i 5 Stelle cosa faranno? «Andiamo a vedere cos’è successo quando hanno affrontato un problema del genere: il Tap si è fatto, il Muos anche, lo stesso dicasi per il Terzo Valico».«Tutte le battaglie che in questi anni il movimento ha appoggiato non sono mai state battaglie sue, ma di altri che il M5S appoggiava», sottolinea Canestrari. «Alla fin fine non sono mai stati in grado di rispondere in modo decisivo alle esigenze di chi manifestava. E poi, in un’opera che muove interessi così grandi, non vedo speranze per il M5S». Si può immaginare che, al massimo, sulla Torino-Lione «trovino un compromesso». E se in Italia i consensi sono in calo, per l’ex consulente di Grillo il vero problema sono le elezioni europee: «Il Movimento è alla disperata ricerca di compagni di strada per formare un gruppo e potrebbe non farcela. Significherebbe dire addio ai fondi e alle cariche». Canestrari non esclude una possibile intesa con il gruppo di Salvini, «magari con altro nome», che consenta ai grillini «di portare a casa i soldi e qualche carica», cedendo «alla destra europea». Nel periodo che ha condotto alla formazione del governo gialloverde, ricorda Ferraù, Mattarella ha certamente favorito i 5 Stelle. Sarà ancora così? Canestrari ne dubita: «Penso che il Quirinale abbia capito che il M5S si muove secondo logiche in parte sconosciute e in parte non riconducibili a obiettivi politici tradizionali, e che quindi il suo giudizio sia molto più cauto».Si scrive Movimento 5 Stelle, ma si legge “sistema Casaleggio”. Ovvero: come si tradisce una rivoluzione. Non perché al governo c’è Di Maio piuttosto che Di Battista, ma perché «il calcolo e l’inganno hanno dato il benservito al desiderio di rinnovamento e alla passione politica». A dirlo è Marco Canestrari, sviluppatore e blogger. Oggi vive e lavora a Londra, ma un tempo seguiva Grillo ovunque, scrive sul “Sussidiario” Federico Ferraù, che lo ha intervistato. Il tecnico ha visto nascere, per avervi collaborato e lavorato, la macchina organizzativa del M5S. Quello che sa lo ha scritto con Nicola Biondo in “Supernova”. La piattaforma Rousseu? «Il voto ha valore zero, non è certificato da nessuno e si svolge attraverso un software manipolabile, insicuro e privato», dice Canestrari. Alla vigilia della votazione sull’autorizzazione a procedere contro Savini, ha detto: «Quale sarà il modo in cui questa volta prenderanno in giro i propri elettori lo sanno solo loro». Dopo il voto in Abruzzo – tra Tav, riforme e caso Diciotti – i 5 Stelle appaiono incerti e frastornati, annota Ferraù. Per Canestrari «c’è una cosa che spiega tutto», e cioè «i due giorni di assenza di Di Maio dopo il voto in Abruzzo, l’incertezza, il cambio di marcia, l’idea di una struttura più tradizionale». Il problema? «Siamo ancora abituati all’idea del movimento che aveva Casaleggio: Gianroberto, intendo». Ormai il capo è il figlio Davide, e secondo Canestrari il movimento «non è più l’evoluzione dei MeetUp, ma il ramo d’azienda politico di un’entità più grande che io chiamo “sistema Casaleggio”».
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Salvini-Diciotti, Magaldi: quando la Lega tifava per i giudici
Ma che razza di democrazia è, quella in cui si affida a un’anomima piattaforma informatica la decisione sulla sorte di un ministro, per giunta alleato di governo? Possibile che i 5 Stelle non riescano a difendere in modo netto Matteo Salvini, senza dover consultare gli iscritti? Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, prende atto della preoccupante debolezza politica dei pentastellati: la loro classe dirigente non osa assumersi la piena responsabilità di schierarsi fino in fondo con il leader della Lega, messo alla berlina dalla magistratura per aver ostacolato lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti. Sequestro di persona? Questa l’ipotesi di reato, formulata dai magistrati siciliani. Durissimo, in proposito, un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro: non è possibile sanzionare un politico per un legittimo atto governativo, dice Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «I migranti della Diciotti non erano affatto sequestrati: nessuno impediva loro di dirigersi altrove, Salvini ha solo frenato il loro ingresso in Italia», sostiene Carpeoro, che ipotizza un abuso extra-costituzionale. «Mi auguro – aggiunge – che altri magistrati valutino l’operato dei colleghi che hanno deciso di indagare Salvini».L’avvocato Pierluigi Winkler, altro “rooseveltiano”, fa notare che il sequestro di persona, come reato, dovrebbe avere alle spalle una finalità criminale: e di quale crimine si dovrebbe accusare il governo italiano, in questo caso? Concorda lo stesso Magaldi, a sua volta in diretta web su YouTube con Frabetti: «E’ evidente che Salvini non ha commesso alcun reato, e bene ha fatto il resto del governo – cioè i 5 Stelle e lo stesso Conte – a dichiararsi corresponsabile della decisione di Salvini. Quello che stupisce, semmai – aggiunge Magaldi – è che Di Maio e soci non abbiano trovato il coraggio di prendere la decisione di proteggere Salvini dall’azione giudiziaria, ricorrendo invece alla consultazione online degli iscritti». Democrazia diretta? «Va bene che il popolo dev’essere sovrano. Ma se proponesse una follia? Un gruppo dirigente deve sapersi assumere precise responsabilità, senza rinunciare a dire come la pensa». Pesa, sui 5 Stelle, il recentissimo passato giustizialista: tanti voti sono arrivati al movimento di Grillo proprio grazie alla retorica anti-casta, alla crociata contro i privilegi. Fino al punto da esporre un alleato di governo al rischio di farsi processare – concedendo l’autorizzazione a procedere – solo per aver tenuto fede alla sua linea politica?Gli stessi leghisti, peraltro – ricorda Magaldi – sono reduci della stessa “malattia” dei 5 Stelle: anche loro, guidati da Bossi, agitarono il cappio in Parlamento nella battaglia campale contro i politici corrotti. Invasione di campo, da parte della magistratura? «Negli anni ‘90, gli esponenti forcaioli della Lega Nord erano ben lieti che il pool di Mani Pulite facesse a pezzi i partiti della Prima Repubblica». Beninteso: i reati vanno perseguiti, e i partiti italiani scontavano un tasso elevato di corruzione, oltre all’ipocrisia sul finanziamento pubblico (tollerato, benché irregolare). Per contro, gli stessi magistrati – per decenni – non avevano mai osato mettere sotto accusa ministri e segretari di partito. Il motivo? Geopolitico: l’Italia era troppo importante, come baluardo contro l’impero sovietico. Per consentire ai pm di indagare Craxi c’è stato bisogno del crollo del Muro di Berlino. Magistrati anche valorosi e in totale buona fede, aggiunge Magaldi, sono diventati lo strumento di un gioco pericoloso, costruito per indebolire l’Italia. Un gioco avviato proprio in quegli anni dal separatismo nordista della Lega di Bossi, che – nella sua vulgata – criminalizzò l’intero processo dell’unità nazionale, rappresentando il Risorgimento come una tragica farsa.Suscita malinconia, oggi, riscontrare la singolare consonanza di vedute tra i vetero-leghisti degli anni ‘90 e i propagandisti neo-borbonici, cioè tra il Nord che si ritiene vampirizzato finanziariamente dal Meridione “scansafatiche” e il Sud che, a sua volta, si dichiara vittima dell’imperialismo coloniale nordista, garibaldino e sabaudo. Pura ignoranza della nostra storia, dice Magaldi: impossibile dimenticare che i combattenti meridionali aderirono all’esercito di Garibaldi perché non ne potevano più del regime assolutista dei Borboni, violento e autoritario, privo di Costituzione, fondato sull’arbitrio e sullo sfruttamento schiavistico di milioni di “cafoni” costretti a faticare nei latifondi. Pessima, poi, la gestione post-unitaria dopo la perdita di Cavour, col prevalere degli aspetti più reazionari della pessima monarchia torinese. Ma da qui a rimpiangere la cricca parassitaria del sovrano di Napoli, ne corre. Piuttosto: ci siamo mai domandati perché periodicamente esplodono queste polemiche fondate sulla non-conoscenza della storia?Se voglio colpire un paese, ragiona Magaldi, per prima cosa lo divido, mettendo il Nord contro il Sud. Poi magari uso la magistratura per decapitarne la classe dirigente (nel caso dell’Italia, protagonista di un notevole riscatto economico nei decenni del dopoguerra). In altre parole, la manipolazione produce una specie di harakiri: un paese indifeso, proprio quando i grandi poteri globalizzatori stanno per assalirlo e depredarlo, grazie alle regole truccate della nuova Ue. Fino a ritrovarsi poi con Mario Monti a Palazzo Chigi, spedito a commissariare l’Italia dagli stessi poteri che hanno lavorato, anche con l’aiuto della Lega Nord, per sabotare il Belpaese. Quindi è bene prestare la massima attenzione, se il potere giudiziario si mette contro il potere esecutivo. «Provo una sorta di compassione – ammette Magaldi – per come il Movimento 5 Stelle sta facendo di tutto per dissipare il consenso che aveva raccolto in questi anni. Possiamo anche relativizzare la recente débacle alle regionali abruzzesi, ma come non vedere che l’elettorato contesta ovunque il mancato rispetto delle promesse elettorali?». Pessima idea, quella di rifugiarsi nella piattaforma Rousseau sul caso Salvini-Diciotti: «Se per assurdo gli iscritti decidessero un bel giorno che dobbiamo ripristinare le leggi razziali, i dirigenti 5 Stelle si adeguerebbero?».Ma che razza di democrazia è, quella in cui si affida a un’anonima piattaforma informatica la decisione sulla sorte di un ministro, per giunta alleato di governo? Possibile che i 5 Stelle non riescano a difendere in modo netto Matteo Salvini, senza dover consultare gli iscritti? Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, prende atto della preoccupante debolezza politica dei pentastellati: la loro classe dirigente non osa assumersi la piena responsabilità di schierarsi fino in fondo con il leader della Lega, messo alla berlina dalla magistratura per aver ostacolato lo sbarco dei migranti a bordo della nave Diciotti. Sequestro di persona? Questa l’ipotesi di reato, formulata dai magistrati siciliani. Durissimo, in proposito, un altro esponente del Movimento Roosevelt, Gianfranco Carpeoro: non è possibile sanzionare un politico per un legittimo atto governativo, dice Carpeoro in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”. «I migranti della Diciotti non erano affatto sequestrati: nessuno impediva loro di dirigersi altrove, Salvini ha solo frenato il loro ingresso in Italia», sostiene Carpeoro, che ipotizza un abuso extra-costituzionale. «Mi auguro – aggiunge – che altri magistrati valutino l’operato dei colleghi che hanno deciso di indagare Salvini».
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Gas, l’Eni sfratta il Belgio dal Venezuela: perciò ci odiano
Non so se qualcun altro l’ha già scritto. La ragione del rabbioso attacco di Verhofstadt a Conte sta esattamente nelle sue parole dal minuto 0:34 al minuto 1:04 qui, ed è un embolo di gas Lng, piuttosto raro fra gli umani, ma non fra quelli come lui. Roba da tanti, ma tanti soldi. Al belga sono rimasti piantati a metà trachea il Venezuela e Putin, e soprattutto la mite posizione italiana su di essi. Per questo ci odia, e, ancor più di lui, ci odia la Exmar, che come avrete di certo letto sui giornali è la corporation navale belga che gli paga le parcelle mentre ’sto lobbista siede a fare il parlamentare europeo. Una storia multimiliardaria di Lng (gas naturale liquefatto), le cui maggiori comparse sono: un incontro dell’ottobre 2017 fra Putin e l’iraniano colosso petrolifero Nioc; un contratto andato in malora l’anno precedente fra la Exmar e la canadese Pacific Exploration & Production Corporation in Colombia; la Carribean Flng, che è la mega-chiatta per la lavorazione e il trasporto del Lng strapagata dalla Exmar, che oltretutto se la fece recapitare dalla Cina con l’ambizione di farci una montagna di soldi, ma rimasta piantata ad arrugginirsi per via dei sopraccitato contratto andato a vuoto e anche di un secondo contratto andato a puttane, poi graziata all’ultimo dall’odierno arcinemico latino americano del Venezuela, cioè il presidente argentino Macri; l’Eni che si lavora il Lng di Maduro mentre i belgi della Exmar schiumano alla bocca per vederlo morto.Il Belgio è un paese di sfigati, che dopo aver ammazzato 11 milioni di congolesi, per rimanere poi a mani vuote, circa 130 anni fa (il cobalto e il coltan, che oggi nell’It e nella Smart Tv-Smart Phones Industry valgono più dei diamanti, se li sono presi i Kabila, l’americana Glencore e gli israeliani), si sono distinti di recente per aver avvelenato i maiali di tutt’Europa con la diossina, e poi sono rimasti sfigati. Possono vantare solo quella cloaca di politica autocratica e infestata di lobbies che è Bruxelles, ma mica tanto altro. La loro Exmar è dal 1981 che si è fatta un nome nel mondo per i servizi di trasporto navale e di rigassificazione soprattutto di gas naturale, che viene trasformato in Lng. Ne vanno fieri, e che ci sia un paese in Ue che non solo gli piscia in testa sugli idrocarburi con l’Eni, ma che è pure ‘amico’ di due giganti odiosi per la Exmar nel business Lng come Russia e Venezuela, be’, questo per Verhofstadt e per le ambizioni smisurate di chi ce l’ha a busta paga, la Exmar appunto, è stato troppo. Fra poche righe capirete il perché. Tutto il resto della sua sparata su Italia vs Ue, immigrazione, gran valori di Spinelli, Ciampi e Bonino, la recessione, i populismi, sono stati pretesti. Contano i soldi, follow the money, eh?Un po’ di background in breve. Dunque, nel luglio 2017 i padroni di ’sto Verhofstadt, la Exmar, si fa recapitare dall’altra parte del pianeta questa mega-chiatta chiamata Carribean Flng che avevano costruito a costi stratosferici nella speranza di concludere un accordo multi-milionario con l’Iran. Ma nel novembre successivo la Gazprom di Putin arriva a Tehran, incontra la Nioc (la regina degli idrocarburi iraniana) e di colpo tutto per la Exmar va storto. L’Iran, si disse allora, avrebbe usato altri vascelli per il Lng, quelli norvegesi, e gli oleodotti russi dell’amico Vladimir. Questo aprì ulcere gastriche in Belgio dove ci passava un pallone da calcio, soprattutto perché era la seconda volta che la super-chiatta della Exmar veniva cestinata con milioni di dollari di perdite: era successo nel 2016 nel sopraccitato flop in Colombia in associazione con la fallita canadese Pacific Exploration & Production Corporation. I padroni di Verhofstadt ora hanno buchi contabili che si vedono dalla Luna con ’sta mega-chiatta Carribean Flng piantata sul gozzo mentre altri si stanno spartendo l’immane mercato del gas Lng.Putin è il target N.1 dell’odio della Exmar, e non solo per la faccenda dell’Iran del 2017, ma anche perché in tutto l’affare Nord Stream 2 (il super-gasdotto dalla Russia alla Germania) le mega-chiatte della Exmar e tutti i suoi servizi aggiunti per il trasporto del gas Lng sono ovviamente tagliati fuori. La corporation belga e il suo scagnozzo lobbista Verhofstadt sono impotenti contro Mosca in Ue. Per ovvi motivi, “l’amico del tuo nemico è il tuo nemico”, cioè tradotto: l’Italia di Salvini che è di casa in Russia diventa oggetto d’odio alla Exmar-Verhofstadt. Ma non solo. C’è il Venezuela. Caracas, come si sa, è un colosso di idrocarburi, ora ingabbiato dalle sanzioni Obama-Trump, ma lo stesso una miniera d’infinite ricchezze anche di gas Lng. Infatti si sappia che, sorprendentemente, uno del 10 maggiori esportatori al mondo di Lng è Trinidad & Tobago nei Caraibi, ma la sua vera fonte è la compagnia petrolifera di Stato di Caracas, la Pdvsa. A Bruxelles gli ulcerati della Exmar stanno solo a guardare tutto quel ben di Dio in mano al “socialista” Maduro, a cui loro non hanno significativi accessi, mentre l’Eni sì, eccome. ‘Sti italiani, di nuovo in mezzo alle palle, eh? Allora che si fa?Be’, com’è noto, nell’America Latina esiste oggi un gruppo di nazioni totalmente baciapile di Washington che si chiama il Gruppo di Lima, e chi le capeggia? L’Argentina del presidente Macri. E allora, si dicono gli ulcerati della Exmar a Bruxelles, dove la piazziamo ’sta emorragia di milioni di dollari che si chiama super-chiatta Carribean Flng? Eh, da un signor nessuno mondiale del gas Lng, cioè proprio da Macri, ma la rinominiamo Tango Flng, giusto per smussare un po’ le figurette di cacca del passato. E giù a ingoiare magoni, loro e il loro servetto Verhofstadt. Insomma, quello che doveva essere per i padroni di Verhofstadt l’inizio di un business multi-milionario nel 2016, finisce a far da carretta per il mediocre business dell’Lng in Argentina, mentre è proprio l’Italia che ostacola l’appoggio dell’infame Ue al golpe americano in Venezuela che avrebbe aperto ogni singolo rubinetto di petrolio e gas Lng agli Usa e ai Verhofstadt-Exmar-Bruxelles per mano del cagnolino di Washington, Juan Guaidò. Poi Salvini che strizza l’occhio a Putin, quello dei due mega-calci in culo alla Exmar e al suo prezzolato Verhofstadt… dai, le ulcere di sti belgi non hanno retto. Non so se serve sapere altro. Non credo. Ora sapete che significava il bau-bau di ’sto cane da guinzaglio. Poi, lo ribadisco, Conte non Conta in effetti una mazza, ma con ’sta storia i burattini non c’entrano proprio per nulla.(Paolo Barnard, “A Verhofstadt è partito l’embolo di Lng, il ‘burattino’ Conte non c’entra”, dal blog di Barnard del 15 febbraio 2019).Non so se qualcun altro l’ha già scritto. La ragione del rabbioso attacco di Verhofstadt a Conte sta esattamente nelle sue parole dal minuto 0:34 al minuto 1:04 qui, ed è un embolo di gas Lng, piuttosto raro fra gli umani, ma non fra quelli come lui. Roba da tanti, ma tanti soldi. Al belga sono rimasti piantati a metà trachea il Venezuela e Putin, e soprattutto la mite posizione italiana su di essi. Per questo ci odia, e, ancor più di lui, ci odia la Exmar, che come avrete di certo letto sui giornali è la corporation navale belga che gli paga le parcelle mentre ’sto lobbista siede a fare il parlamentare europeo. Una storia multimiliardaria di Lng (gas naturale liquefatto), le cui maggiori comparse sono: un incontro dell’ottobre 2017 fra Putin e l’iraniano colosso petrolifero Nioc; un contratto andato in malora l’anno precedente fra la Exmar e la canadese Pacific Exploration & Production Corporation in Colombia; la Carribean Flng, che è la mega-chiatta per la lavorazione e il trasporto del Lng strapagata dalla Exmar, che oltretutto se la fece recapitare dalla Cina con l’ambizione di farci una montagna di soldi, ma rimasta piantata ad arrugginirsi per via dei sopraccitato contratto andato a vuoto e anche di un secondo contratto andato a puttane, poi graziata all’ultimo dall’odierno arcinemico latino americano del Venezuela, cioè il presidente argentino Macri; l’Eni che si lavora il Lng di Maduro mentre i belgi della Exmar schiumano alla bocca per vederlo morto.
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Salvini nell’Anno del Maiale (in compenso, l’Asino siamo noi)
«Una notte di metà dicembre, nella fattoria il maiale si diverte a prendere in giro l’asino: “Il padrone ti bastona, ti affama, ti costringe ai lavori più faticosi e umilianti. Guarda me, invece: non devo far altro che mangiare, dormire, e rotolarmi nel fango!”. L’asino gli dà un’occhiata, e poi gli chiede: “Tu non sei quello dell’anno scorso, vero?”» (Antica barzelletta). Oggi Matteo Salvini è apparentemente il politico più popolare d’Italia. Sembra che non debba far altro che mangiare, ghignare, e rotolarsi sui social, per continuare a guadagnare consensi a spese di tutti. La cosa spaventa molto i suoi soci a cinque stelle, ormai pronti a rimangiarsi persino la loro Prima Direttiva legalitaria, pur dì garantire al pingue leghista l’impunità che pretende. Giuseppe Conte l’ha spiegato molto bene ad Angela Merkel: i grillini sono nel panico per il calo nei sondaggi del Movimento a favore della Lega, perciò si sono buttati alla disperata rincorsa di Salvini sul terreno – anzi, nelle acque – della peggiore propaganda razzista, mentre contemporaneamente fanno mostra di sfidarlo sul “no” al Tav. Un gioco delle parti sempre più spericolato.«Lo so», ha commentato la Merkel, serafica. «Salvini è contro Francia e Germania?», ha chiesto. «Salvini è contro tutti», ha risposto Conte. La Merkel ha sorriso, divertita. Questo grottesco esecutivo Grilloverde è esattamente il “Nemico” del quale lei e l’Europa carolingia del Patto di Aquisgrana hanno bisogno. Proprio come il maiale della barzelletta, oggi Matteo Salvini è all’ingrasso. Mediaticamente, politicamente (e fisicamente). L’Unione Europea lo adopera come spauracchio, allo stesso modo in cui lui strumentalizza i migranti. Salvini è l’Uomo Nero d’Europa. L’intenzione delle élite europee è lasciare che questo governo di arroganti babbei scaraventi l’Italia nel burrone, per poi usarlo come esempio e monito. Esporre l’Italia in gabbia sulle mura esterne della Fortezza Europa, e citare il Grilloverde per dare del coglione fascista a chiunque oserà in futuro mettere in discussione il liberismo.Così che tutte le feroci stronzate di Salvini e Toninelli vengano rinfacciate anche a chi a sinistra le avrà combattute. Come oggi gli si rinfaccia Pol Pot. E l’inevitabile fallimento Grilloverde trascini alla rovina tutte le forze antagoniste – sia vere, che false come il M5S – mentre la Lega di Giorgetti e Zaia torna al governo coi Moderati, dopo aver voltato per l’ennesima volta la verde gabbana. Se Salvini è il metaforico maiale della barzelletta, l’asino siamo noi. La nostra condanna è quella di Sisifo al contrario: ogni volta che riusciamo a buttare giù il maiale seduto in cima alla collina, ce ne viene issato sopra un altro. E nessuno butta giù il padrone. (Secondo l’oroscopo cinese, il 2019 è l’anno del maiale).(Alessandra Daniele, “L’anno del maiale”, da “Carmilla” del 3 febbraio 2019).«Una notte di metà dicembre, nella fattoria il maiale si diverte a prendere in giro l’asino: “Il padrone ti bastona, ti affama, ti costringe ai lavori più faticosi e umilianti. Guarda me, invece: non devo far altro che mangiare, dormire, e rotolarmi nel fango!”. L’asino gli dà un’occhiata, e poi gli chiede: “Tu non sei quello dell’anno scorso, vero?”» (antica barzelletta). Oggi Matteo Salvini è apparentemente il politico più popolare d’Italia. Sembra che non debba far altro che mangiare, ghignare, e rotolarsi sui social, per continuare a guadagnare consensi a spese di tutti. La cosa spaventa molto i suoi soci a cinque stelle, ormai pronti a rimangiarsi persino la loro Prima Direttiva legalitaria, pur dì garantire al pingue leghista l’impunità che pretende. Giuseppe Conte l’ha spiegato molto bene ad Angela Merkel: i grillini sono nel panico per il calo nei sondaggi del Movimento a favore della Lega, perciò si sono buttati alla disperata rincorsa di Salvini sul terreno – anzi, nelle acque – della peggiore propaganda razzista, mentre contemporaneamente fanno mostra di sfidarlo sul “no” al Tav. Un gioco delle parti sempre più spericolato.
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E se nascesse il Partito del Papa, pro-migranti e pro-Islam
Prima o poi il Partito Popolare rinascerà. Lo farà Romano Prodi, o il suo erede, Enrico Letta; lo farà Berlusconi, o il suo Antonio Tajani del momento, o lo faranno insieme, i rivali di ieri, all’ombra del Ppe che già li unisce. Ma alla fine qualcosa del genere si farà, pensando all’Europa e ai sovranismi, più che a don Sturzo e al centenario del Partito Popolare. Però mentre i tirannosauri del popolarismo si muovono lentamente, indugiando e tergiversando, qualcuno sta bruciando le tappe. È la Chiesa di Bergoglio, è la Chiesa del Cardinal Bassetti, a capo della Conferenza episcopale italiana, è la Chiesa di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Se il Partito Popolare lo fondò un prete, perché non dovrebbe pensarci ora un prelato anziché un politico? La novità è che un Partito del Papa, ossia un Partito dei Cattolici sotto l’egida di Bergoglio, avrebbe solo una cosa in comune col Partito Popolare prodiano e/o berlusconiano: nascerebbe contro la presente maggioranza, per sbarrare la strada ai populismi, ai nazionalismi e ai sovranismi. Ma dopo questa concordanza, il Partito del Papa sarebbe inevitabilmente il Partito dell’Accoglienza, il Partito Pro-Migranti, la prosecuzione della Caritas e della Comunità Sant’Egidio in politica. Al limite, sarebbe il partito di Gino Strada e di Mimmo Lucano, per capirci. Una cosa assai diversa da quello che fu da noi il Partito dei cattolici, la vecchia Dc.Allora lasciamo le polemiche contingenti e vediamo le cose in una prospettiva più ampia, storica. L’Italia riuscì a sopravvivere al fascismo, alla sconfitta della guerra, alle vendette e alle minacce del comunismo, rifugiandosi sotto le mammelle della Dc. Un partito che ebbe la sua forza nella sua debolezza, nel non opporsi a niente in modo radicale e risoluto, nel rispecchiare la realtà in modo duttile e malleabile, garantendo un po’ tutti, o non minacciando nessuno. Organizzò la fuoruscita dalla storia a tariffe convenienti, fu insieme una pomata e una polizza contro i traumi passati e presenti. La Dc fu l’autobiografia della nazione in versione materna, mentre il fascismo era stato l’autobiografia della nazione in versione paterna, virile, guerresca. La forza della Dc fu quella di garantire una transizione indolore dal fascismo all’antifascismo, dalla Nazione che volle farsi impero al paese che volle accucciarsi sotto l’ombrello atlantico americano e sotto il parasole europeista, ricevendo in cambio aiuti, piani di sostegno e controllo militare. La sua forza fu la paura del comunismo, la voglia di tranquillità. E la Matria al posto della Patria.Avrebbe senso oggi un partito dei cattolici in un paese fortemente scristianizzato, radicalmente secolarizzato, con le chiese svuotate? Ma soprattutto riuscirebbe a sfondare un partito dei cattolici proiettato sulla linea pontificia di Bergoglio? Non rischierebbe di lasciar fuori troppi cattolici che si riconoscono nella tradizione, nella civiltà cristiana, nella difesa della famiglia? Che posizione assumerebbe un partito papista sui temi dell’aborto e delle adozioni omosessuali, delle nozze gay e dell’eutanasia, delle nascite e della salvaguardia della figura materna e paterna? La Dc resse su un tacito ma duraturo compromesso tra questa componente conservatrice e la componente moderata che riteneva prioritaria la salvaguardia occidentale, l’atlantismo e l’anticomunismo, la difesa del mercato e del privato. Ma l’avversario principale per un partito cattolico non dovrebbe essere il laicismo radical, lo spirito giacobino e progressista, il materialismo ateo che è oggi il principale sponsor del bergoglismo? E la paura del comunismo non si traduce oggi nella paura dell’Islam, verso cui la Chiesa di Bergoglio è assai aperta?È evidente che il Partito del Papa non riuscirebbe a rappresentare che una piccola quota di cattolici, più una fetta di elettori radicali, di sinistra, non cattolici se non atei. Oggi il loro organo ufficiale non sarebbe l’“Avvenire” ma “La Repubblica”. E sarebbe un bel paradosso. Dopo mezzo secolo di guida democristiana, i cattolici riuscirono a ritagliarsi un ruolo nel sistema bipolare con l’antica strategia dei due forni, facendosi corteggiare da ambo i poli, perché stando nel mezzo e non avendo più rappresentanza politica, pur in minoranza, potevano spostare l’equilibrio a favore del centro-destra o del centro-sinistra. Da qualche anno invece, è lampante l’irrilevanza dei cattolici nelle scelte della politica. Certo, non mancano figure di garanzia per il mondo cattolico, da Mattarella a Conte. Ma l’influenza esercitata nel passato è oggi impensabile, e non parliamo del passato remoto o della Prima Repubblica ma anche più recente.Anche perché si è ridotta la pressione dei cattolici, della Cei, della Curia sui temi bioetici e sulla famiglia, per crescere invece sul tema migranti e accoglienza. Un tema che allontana molti cattolici, non perché siano refrattari alla carità, ma perché diffidenti davanti a una Chiesa-Ong che non si cura della civiltà cristiana in declino e apre le porte anche agli islamici. Allo stato attuale nessuno è in grado di rappresentare i cattolici in politica. Tre partiti cattolici s’intravedono all’orizzonte, quello che nascerebbe dalle ceneri dell’Ulivo, quello che sorgerebbe sulle spoglie di Forza Italia e quello che spunterebbe dalla tonaca del Papa (e dalla Cei). Ma sono tre partiti difficilmente componibili tra loro, tutti fortemente minoritari. E’ difficile immaginare che possa rinascere qualcosa come un partito unitario dei cattolici. Un tempo si diceva, con rassegnazione, moriremo democristiani. Oggi invece si dovrebbe dire: non rinasceremo democristiani.(Marcello Veneziani, “E se nascesse il Partito del Papa?”, da “Panorama” n. 4 del 2019; articolo ripreso sul blog di Veneziani).Prima o poi il Partito Popolare rinascerà. Lo farà Romano Prodi, o il suo erede, Enrico Letta; lo farà Berlusconi, o il suo Antonio Tajani del momento, o lo faranno insieme, i rivali di ieri, all’ombra del Ppe che già li unisce. Ma alla fine qualcosa del genere si farà, pensando all’Europa e ai sovranismi, più che a don Sturzo e al centenario del Partito Popolare. Però mentre i tirannosauri del popolarismo si muovono lentamente, indugiando e tergiversando, qualcuno sta bruciando le tappe. È la Chiesa di Bergoglio, è la Chiesa del Cardinal Bassetti, a capo della Conferenza episcopale italiana, è la Chiesa di Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. Se il Partito Popolare lo fondò un prete, perché non dovrebbe pensarci ora un prelato anziché un politico? La novità è che un Partito del Papa, ossia un Partito dei Cattolici sotto l’egida di Bergoglio, avrebbe solo una cosa in comune col Partito Popolare prodiano e/o berlusconiano: nascerebbe contro la presente maggioranza, per sbarrare la strada ai populismi, ai nazionalismi e ai sovranismi. Ma dopo questa concordanza, il Partito del Papa sarebbe inevitabilmente il Partito dell’Accoglienza, il Partito Pro-Migranti, la prosecuzione della Caritas e della Comunità Sant’Egidio in politica. Al limite, sarebbe il partito di Gino Strada e di Mimmo Lucano, per capirci. Una cosa assai diversa da quello che fu da noi il Partito dei cattolici, la vecchia Dc.
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Magaldi: niente è come sembra, e in troppi stanno barando
Viviamo strani giorni, cantava Battiato. Prendi l’Italia: in soli cinque anni ha voltato le spalle al conducator Renzi, trionfatore alle europee con il 40%, per dare una chance all’alieno governo gialloverde. Ma non doveva regnare in eterno, il Fanfarone di Rignano? Com’è possibile che si sia letteralmente estinto, consegnando il paese (provvisoriamente) agli apprendisti stregoni grillini e ai vetero-leghisti già forcaioli, abilmente riciclati da Salvini? Esecutivo bifronte, in tutti i sensi: diviso ormai sul 90% del programma, e incagliato su troppi nodi difficili da sbrogliare. Tanto peggio per i 5 Stelle, i più esposti al vento contrario: facile alzare la voce coi migranti, grazie a una politica low-cost, tutta immagine e quasi senza stanziamenti. Più complicato esaudire il sogno costoso del reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio. Tutti colpevoli, in ogni caso. Il loro peccato? Uno: non aver osato assolvere al compito ricevuto dagli elettori, e cioè riscattare l’Italia liberandola dalla tagliola di un’Ue finita in mano a un potentissimo clan di oligopolisti prezzolati. Lo afferma Gioele Magaldi, il primo a cantare fuori dal coro neo-sovranista di fronte al cedimento del governo Conte sul deficit 2019. Il presidente del Movimento Roosevelt è stato anche il primo (oltre che l’unico) a smascherare il teatrino dell’austerity: dietro il rigore – ha spiegato nel saggio “Massoni” – c’è assenzialmente un club di supermassoni reazionari. Ecco perché, anziché sparare a casaccio contro “l’Europa”, sarebbe più utile fare nomi e cognomi.Lo stesso dicasi per l’altro tasto dolente, assai caro a tanta parte del popolo del web: l’odiato imperialismo yankee, il Deep State che trasforma la superpotenza egemone in uno strumento di violenza e guerra, sfruttamento e oppressione (tema in auge praticamente sempre, ora rinverdito dalle vistose pressioni Usa sul Venezuela di Maduro). A costo di ripetersi, Magaldi insiste: sono stato proprio io – dice, in web streaming su YouTube – a spiegare, più precisamente di altri, quale America ha fatto del male agli americani e al resto del mondo. Brutto spettacolo: le trame golpiste della superloggia “Three Eyes”, il neoliberismo a mano armata, i neocon. Ma erano americani anche i Roosevelt e i Kennedy, così come Martin Luther King. E se tutte le potenze mondiali hanno sempre e solo perseguito la logica mercantile del dominio, almeno – dice Magaldi, convinto atlantista – gli Stati Uniti restano la prima democrazia del mondo e la prima repubblica a essersi dotata di un governo parlamentare elettivo, sulla scorta di una Costituzione che proclamò l’estrema eresia del “diritto alla felicità”, per tutti, in un mondo allora retto soltanto da imperi e monarchie, senza diritti e senza suffragio universale. Questo ovviamente non assolve l’America dai suoi peccati, ma almeno – sottolinea Magaldi – dovrebbe imporre il sano esercizio dei distinguo: buoni e cattivi non sono mai la stessa cosa, anche se coabitano sotto la stessa bandiera.Viviamo strani giorni, inutile negarlo: i 5 Stelle sprofondano alle regionali in Abruzzo facendo impallidire il 40% incassato un anno fa dagli abruzzesi alle politiche, ma lo stesso Salvini – pensando a Renzi – farebbe meglio a non dormire sugli allori. E se il voto è diventato così volatile, ragiona Magaldi, è perché gli italiani sono veramente stufi di essere presi in giro: l’allora padrone del Pd aveva solo finto di sfidare Bruxelles, e i gialloverdi sembrano scivolare lungo la stessa china. Non avendo osato tener duro sul deficit per alimentare la crescita, saranno costretti – vista l’inevitabile flessione del Pil – a procedere con sanguinosi tagli lineari. Strani giorni, appunto: mentre diventano sempre più evanescenti le categorie del Novecento, destra e sinistra, visti soprattutto gli imbarazzanti portavoce del centrodestra e del centrosinistra, stenta ancora ad affermarsi una visione del presente più realistica, capace cioè di fotografare il vero scontro: da una parte l’apolide oligarchia del denaro, dall’altra i difensori della sovranità democratica (che non è né di destra né di sinistra, ma è stata confiscata dai poteri privatizzatori col servile contributo di entrambi gli schieramenti, che per tutta la Seconda Repubblica hanno solo e sempre fatto finta di combattersi, per poi eseguire i dettami neoliberali della medesima élite transnazionale).Strani giorni, questi, in cui Di Maio – in preda al panico pre-elettorale da sondaggi – organizza fuori tempo massimo uno sgangherato gemellaggio con frange dei Gilet Gialli, ottenendo uno scontro diplomatico con la Francia, in rivolta contro il supermassone Macron. Più che azzoppato, il ducetto dell’Eliseo: praticamente impresentabile, eppure capace di siglare il tragicomico Trattato di Aquisgrana con Angela Merkel, con la quale poi Giuseppe Conte si intrattiene amabilmente al bar, sparlando dei suoi “azionisti” politici, i 5 Stelle. Tanto teatro, e pochissima sostanza commestibile. Non è sul tavolo – su nessun tavolo – il cambio di paradigma, keynesiano, per il quale Gioele Magaldi si batte. In queste sabbie mobili, il Movimento Roosevelt annuncia inziative di sapore strategico nei prossimi mesi. A Londra il primo appuntamento, il 30 marzo: un’agenda da aggiornare con Nino Galloni, Guido Grossi, Ilaria Bifarini, Antonio Maria Rinaldi e altri cervelli dell’economia democratica, per chiarire che – obbedendo a questa Ue – non si va da nessuna parte.Poi in Sicilia è in arrivo un forum sui migranti, per ribadire che il Mediterraneo e l’Africa si possono (e si devono) abbracciare, con una visione strategica di partnership, nel segno del rispetto per la sovranità del terzo mondo. Una battaglia costata la vita a Thomas Sankara, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, il 3 maggio. L’evento milanese vuol recuperare la memoria di Sankara ma anche di Carlo Rosselli, alfiere italiano del socialismo liberale «assassinato dai fascisti ma detestato anche dai comunisti». Due icone, per il fronte progressista universale che si richiama ai diritti dell’uomo, esattamente come lo svedese Olof Palme, altro massone progressista, ucciso a Stoccolma dai sicari dell’oligarchia euro-atlantica che progettava questa globalizzazione e questa Unione Europea. Globalizzazione che poi ha realizzato, sottolinea Magaldi, con il pieno contributo di supermassoni neo-aristocratici mediorientali, asiatici, cinesi e russi.Ecco perché è così difficile, oggi, “nazionalizzare” una geopolitica ormai interamente “privatizzata” da opachi comitati d’affari, che – all’occorrenza – si dedicano anche al terrorismo, alle “rivoluzioni colorate”, ai maxi-attentati come quello dell’11 Settembre per poi incassare i dividendi della “guerra infinita” (Iraq e Afghanistan, Libia e Siria), fino all’estrema propaggine dell’orrore, incarnata dall’Isis del supermassone Al-Baghdadi. Ci stanno sanguinosamente prendendo in giro? Esatto, ribadisce Magaldi. E la via d’uscita, insiste, è una sola: si chiama democrazia. Un’Ue non-democratica non può continuare a tiranneggiare il governo italiano, che sarà pieno di difetti ma è stato votato dai cittadini. E se Lega e 5 Stelle fingono di dormire, Magaldi scommette sul cantiere del “Partito che serve all’Italia”: un modo per dire che, prima o poi, il velo dovrà cadere. Obiettivo: smascherare il vero avversario e consentire allo Stato di tornare a spendere per i cittadini, mettendo fine allo scandalo silenzioso dell’avanzo primario, con gli italiani che – da troppi anni – versano allo Stato più denaro, sotto forma di tasse, di quanto il governo non ne spenda per loro.Viviamo strani giorni, cantava Battiato. Prendi l’Italia: in soli cinque anni ha voltato le spalle al conducator Renzi, trionfatore alle europee con il 40%, per dare una chance all’alieno governo gialloverde. Ma non doveva regnare in eterno, il Fanfarone di Rignano? Com’è possibile che si sia letteralmente estinto, consegnando il paese (provvisoriamente) agli apprendisti stregoni grillini e ai vetero-leghisti già forcaioli, abilmente riciclati da Salvini? Esecutivo bifronte, in tutti i sensi: diviso ormai sul 90% del programma, e incagliato su troppi nodi difficili da sbrogliare. Tanto peggio per i 5 Stelle, i più esposti al vento contrario: facile alzare la voce coi migranti, grazie a una politica low-cost, tutta immagine e quasi senza stanziamenti. Più complicato esaudire il sogno costoso del reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio. Tutti colpevoli, in ogni caso. Il loro peccato? Uno: non aver osato assolvere al compito ricevuto dagli elettori, e cioè riscattare l’Italia liberandola dalla tagliola di un’Ue finita in mano a un potentissimo clan di oligopolisti prezzolati. Lo afferma Gioele Magaldi, il primo a cantare fuori dal coro neo-sovranista di fronte al cedimento del governo Conte sul deficit 2019. Il presidente del Movimento Roosevelt è stato anche il primo (oltre che l’unico) a smascherare il teatrino dell’austerity: dietro il rigore – ha spiegato nel saggio “Massoni” – c’è essenzialmente un club di supermassoni reazionari. Ecco perché, anziché sparare a casaccio contro “l’Europa”, sarebbe più utile fare nomi e cognomi.
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Abruzzo, Caporetto 5 Stelle: più vicina la fine del governo
«Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».Secondo il “Sussidiario”, la sconfitta in Abruzzo potrebbe avviare la resa dei conti dentro il Movimento 5 Stelle, con Di Maio sul banco degli imputati. «E una seconda solenne sconfitta in terra sarda potrebbe costituire per la sua leadership il colpo di grazia». Del resto, annota Del Duca, l’elenco dei fronti caldi per i grillini si allunga giorno dopo giorno: la Tav, la Francia e da ultimi la polemica di Di Battista contro Napolitano e quella contro la Banca d’Italia. «Per di più, solo in quest’ultimo caso si è registrata una perfetta identità di vedute con l’alleato leghista. Per il resto la distanza è siderale». Si pensi alla crisi venezuelana, all’autonomia delle Regioni del Nord, alla legittima difesa o all’autorizzazione a procedere contro Salvini per il caso Diciotti. «Unica speranza di invertire il trend, il reddito di cittadinanza». Il Movimento 5 Stelle «vive con apprensione l’isolamento crescente che verifica intorno a sé, compreso il crescente pressing del Quirinale, che ormai non perdona passi falsi. «Alla Lega, al contrario, si rivolgono in tanti, ad esempio sindacati e imprenditori, come l’unica forza ragionevole, in grado di stoppare le leggerezze di un governo giudicato del tutto inadeguato».Finora, prosegue Del Duca, il rapporto personale fra Salvini e Di Maio ha puntellato il traballante governo Conte. Presto però potrebbe non bastare, «se l’ala dura dei grillini dovesse pretendere di più». Allo stesso modo, Salvini «potrebbe non riuscire più a resistere alle sirene di chi gli chiede di staccare la spina». Per prendere una decisione sul futuro il tempo stringe: a fine maggio ci sono le europee, ma soprattutto – in prospettiva – si preannuncia «una legge di bilancio drammatica, con la necessità di trovare una cifra enorme, 23 miliardi, solo per evitare l’aumento automatico dell’Iva». Sarà quindi una manovra “lacrime e sangue”, «di quelle che si possono fare solo in una fase immediatamente successiva a un turno elettorale, non subito prima». Secondo Del Duca, infatti, “zoppica” l’ipotesi che questo governo possa arrivare a fine anno, e poi portare il paese alle elezioni a inizio 2020. Mattarella si convincerà che il voto è il male minore per il paese? «Dall’Abruzzo però potrebbe davvero essere partita una valanga in grado di travolgere l’esecutivo gialloverde».«Nel decennale del tragico terremoto dell’Aquila parte dall’Abruzzo un terremoto di altro genere, meno cruento, ma destinato a far sentire le proprie onde sussultorie sino a Roma». Lo scrive Anselmo Del Duca sul “Sussidiario”, di fronte al risultato delle regionali in Abruzzo: vittoria del centrodestra e tracollo dei 5 Stelle, che vedono dimezzare il 40% ottenuto alle politiche meno di un anno fa. Quello che ha più colpito chi ha potuto osservare l’andamento del consenso attraverso i sondaggi – osserva Del Duca – è stato il progressivo indebolimento dei grillini, rimontati persino dal Pd. «La batosta grillina appare ancora più evidente di fronte a un’ottima tenuta del centrodestra unito, che stravince con un candidato targato Fratelli d’Italia», Marco Marsilio, ma soprattutto «grazie a una Lega straripante». Per la maggioranza gialloverde «non ci poteva essere un campanello d’allarme più rumoroso». Nell’immediato è probabile che non succeda nulla, aggiunge Del Duca, anche perché Salvini si è affrettato a spiegare che a Roma non cambia nulla. «Ma fra due settimane, se il trend abruzzese dovesse essere confermato nelle elezioni regionali della Sardegna, allora davvero si potrebbero aprire scenari imprevedibili».
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“Bergoglio fa il globalista? Oscura il suo passato fascista”
C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).Evidentemente anche nell’Argentina dei Peron il mito di Codreanu, barbaramente assassinato, e del suo integralismo cristiano, aveva proseliti. Nel ’74, dopo la morte di Peron, il movimento legionario si sciolse. Era un gruppo di 3.500 militanti e 15mila attivisti. Si opponevano ai guerriglieri di sinistra peronisti infiltrati dai castristi, seguaci di Che Guevara; loro erano, per così dire, l’ala di estrema destra del giustizialismo. Il gruppo della Guardia de Hierro era stato fondato da Alejandro Gallego Alvarez. Era un movimento che teneva molto alla formazione culturale dei suoi militanti e alla presenza tra i diseredati e gli ultimi. A Bergoglio fu poi affidata un’istituzione in difficoltà, l’Università del Salvador. Bergoglio la risanò e l’affidò a due ex-camerati della Guardia de Hierro, Francisco José Pinon e Walter Romero. In quegli anni Bergoglio era avversario dichiarato dei gesuiti di sinistra da posizioni nazionaliste e populiste. La sua avversione alla teologia della liberazione gli procurò l’accusa di omertà da parte del Premio Nobel Perez Esqivel e poi di collaborazionismo con la dittatura dei generali argentini, dal 1976 a 1983.Lo storico Osvaldo Bayer dichiarò ai giornali: «Per noi è un’amara sconfitta che Bergoglio sia diventato Papa». E Orlando Yorio, uno dei gesuiti filocastristi catturato e torturato dai servizi segreti del regime militare, accuserà: «Bergoglio non ci avvisò mai del pericolo che correvamo. Sono sicuro che egli stesso dette ai marinai la lista coi nostri nomi». Solo dopo la caduta della dittatura militare Bergoglio iniziò a prendere le distanze dal peronismo nazionalista. Ho tratto fedelmente questa ricostruzione dalle pagine del libro di Emidio Novi, “La riscossa populista”, appena uscito per le edizioni Controcorrente (pp.286, 20 euro). Novi sostiene che la deriva progressista e mondialista di Francesco nasca da questo passato rimosso. Secondo Novi, «Papa Bergoglio vuol farsi perdonare il suo passato “fascista” durato fino al 1980». Per questo non perde occasione di compiacere il politically correct, il partito progressista dell’accoglienza, l’antinazionalismo radicale.Novi, giornalista di lungo corso e senatore di Forza Italia, è morto lo scorso 24 agosto investito da un camion della nettezza urbana in retromarcia mentre era al suo paese natale, S.Agata di Puglia. Il suo libro è uscito postumo, con una prefazione di Amedeo Laboccetta e a cura di suo figlio Vittorio Alfredo. Novi si definiva populista già decenni prima che sorgesse in Italia l’onda populista. Era populista al cubo, perché proveniva dall’ala più “movimentista” dell’Msi ispirata dal fascismo sociale: poi perché proveniva dal sud e da Napoli, ed era un interprete genuino dell’antico populismo meridionale, a cavallo tra la rivolta popolana e la nostalgia borbonica; e infine era populista perché considerava l’oligarchia finanziaria, la dittatura dei banchieri e degli eurocrati, il nemico principale dei popoli nel presente. Perciò amava definirsi nazionalpopulista, e sovranista ante litteram.In questo suo ultimo libro Novi si occupa in più pagine del «papulismo» di Bergoglio, della sua teologia «improvvisata e arruffona», della sua resa all’Islam, della sua ossessione migrazionista fino a definire Gesù, la Madonna e San Giuseppe come una famiglia di immigrati clandestini in fuga. Lo reputa «uno strumento dell’anticristo», funzionale sia al progressismo radical dell’accoglienza che al mondialismo laicista della finanza, mescolando il vecchio terzomondismo, l’internazionalismo socialista con il disegno global che ci vuole nomadi, senza radici, senza patria e senza frontiere. Ma del suo passato argentino, al tempo di Peron, del giustizialismo e poi della dittatura militare, Bergoglio preferisce non parlare. Anche gli estroversi a volte tacciono.(Marcello Veneziani, “Camerata Bergoglio”, da “La Verità” del 31 gennaio 2019; articolo ripreso dal blog di Veneziani).C’era una volta in Argentina un gesuita, Jorge Mario Bergoglio, che era schierato contro la teologia della liberazione, vicina al castrismo e negli anni ’70 aderì alla Guardia de Hierro, un’organizzazione peronista, di stampo nazionalista, cattolica, ferocemente anticomunista. In quegli anni a chi gli faceva notare che l’organizzazione a cui aderiva si richiamasse alla Guardia di Ferro, il movimento romeno del comandante Corneliu Zelea Codreanu, nazionalista e fascista, Bergoglio replicava: «Meglio così». Della sua vicinanza alla Guardia de Hierro ne parlò dopo la sua elezione il quotidiano argentino “Clarin”, mentre a Buenos Aires apparivano manifesti che ricordavano Bergoglio peronista. Per la cronaca, la Guardia di Ferro era un movimento di legionari, molto popolare in Romania negli anni trenta, ritenuto antisemita e filonazista, di cui si innamorarono in molti, non solo in Romania. Uno di questi fu Indro Montanelli che pubblicò sul “Corriere della Sera” una serie di entusiastici reportage pieni di ammirazione per Codreanu, nell’estate del 1940, a guerra inoltrata, smentendo la sua tesi postuma che dopo il ’38 si fosse già convertito all’antifascismo. Testi ripubblicati di recente, “Da inviato di guerra” (ed. Ar).
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Piano Usa: guerra, per rovesciare Maduro (e frenare la Cina)
A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.A fornire gli elementi di questa analisi geopolitica è il giovane Giacomo Gabellini, redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. Gabellini è autore di diversi volumi, in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali è “Eurocrack”, sul disastro politico-economico e strategico dell’Europa, uscito nel 2015 per Anteo Edizioni. Sul sito di Arianna Editrice, ora Gabellini inquadra le grandi manovre del fronte statunitense per accelerare il collasso del regime di Maduro. «La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò – premette Gabellini – rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile, rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011». Un’analogia che emerge anche dal pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation, fino al recente embargo finanziario, al congelamento dei beni venezuelani in territorio Usa e al declassamento del debito di Caracas.Nel momento in cui il governo venezuelano ha cercato di difendersi svincolando la propria economia dal dollaro attraverso la creazione del “petro”, criptovaluta ancorata alle ricchezze minerarie ed energetiche, l’amministrazione Trump ha reagito vietando qualsiasi transazione nella nuova moneta all’interno degli Stati Uniti ed estendendo le sanzioni al settore dell’oro, minerale di cui il Venezuela è particolarmente ricco. «Una mossa, quest’ultima, che ha impedito al Venezuela di ricevere certificazioni straniere sulla qualità del proprio metallo prezioso, con conseguente interruzione o forte limitazione dei rapporti commerciali con le imprese operanti nel settore aurifero venezuelano». Simultaneamente, aggiunge Gabellini, Trump ha imposto pesanti sanzioni contro otto magistrati del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), con lo scopo di colpire quegli apparati istituzionali venezuelani ritenuti colpevoli di aver bloccato la proposta di intervento militare contro l’esecutivo, avanzata dal Parlamento controllato dall’opposizione. «In precedenza, una delegazione senatoriale Usa aveva sondato il terreno con il presidente colombiano Manuel Santos, maggiore alleato degli Usa in America Latina, per lanciare un’operazione militare congiunta atta a «permettere alla Colombia di difendersi dalle provocazioni venezuelane».Proprio in Colombia, ricorda Gabellini, staziona il più corposo contingente militare di cui gli Stati Uniti dispongano in tutto il continente. E accanto ai soldati americani operano le formazioni paramilitari di estrema destra vicine all’ex presidente Alvaro Uribe, «resesi responsabili di innumerevoli scorribande in territorio venezuelano». In quest’ambito rientrano anche operazioni sotto falsa bandiera: «In passato, alcuni miliziani colombiani erano stati arrestati dalle forze dell’ordine di Caracas con indosso divise della polizia venezuelana». Circostanze, osserva Gabellini, che rendono il ruolo svolto dalla Colombia nella crisi venezuelana «molto simile a quello esercitato dalla Turchia rispetto al conflitto siriano». Il presidente colombiano Manuel Santos ha infatti fornito «supporto attivo alle frange paramilitari annidate nella giungla colombiana in funzione anti-bolivariana». Sono le stesse milizie che, scrive l’analista, nella scorsa primavera presero d’assalto una stazione della polizia venezuelana al confine con la Colombia, «al fine di assumere il controllo di alcune aree strategicamente fondamentali per condurre operazioni di sabotaggio verso le regioni più interne».Ma le analogie con la crisi siriana non finiscono qui: già nel 2002, le forze venezuelane di opposizione tentarono un colpo di Stato contro Hugo Chavez, nel corso del quale «cecchini mai identificati aprirono il fuoco tanto sui civili quanto sulle forze di polizia, con lo scopo di invelenire il clima e destabilizzare l’ordine pubblico». Stesso schema in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010. Poi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria nel 2011, e in Ucraina nel 2014. «Tutte manovre finalizzate al cambio di regime, dietro le quali si è intravista in controluce la longa manus degli Stati Uniti». In molte di esse, il clima preparatorio era stato predisposto tramite l’infiltrazione di Ong «riconducibili a George Soros o direttamente al Dipartimento di Stato», le quali «allacciarono contatti con partiti di opposizione e gruppi organizzati». Sotto questo aspetto, aggiunge Gabellini, il caso del Venezuela appare paradigmatico, se anche una fonte insospettabile come “The Independent” è arrivata a riconoscere che «oltre ad appoggiare le forze che arrestarono Chavez nel 2002, gli Usa hanno inviato centinaia di migliaia di dollari ai suoi avversari attraverso la National Endowment for Democracy».Le manovre di Washington però non si limitano a questo, rivela Gabellini: lo conferma un documento di 11 pagine firmato già nel 2018 dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del SouthCom (Southern Command), in cui si dichiara apertamente che gli Usa «hanno già predisposto un piano operativo finalizzato al rovesciamento del presidente Nicolas Maduro». Un’analisi spietata: la tenuta della “dittatura chavista” è ormai minata da problemi interni, a partire dalla scarsità di cibo e dalla caduta dei proventi petroliferi, oltre che dalla corruzione dilagante. Ma il problema, per l’ammiraglio Tidd è che le forze d’opposizione «che combattono per la democrazia e il ripristino di livelli di vita accettabili per la popolazione» cioè gli uomini di Juan Guaidò, «non sono in grado di porre fine all’incubo in cui il paese è sprofondato». Motivo? Gli oppositori di Mauduro, secondo l’ammiraglio, scontano tra le loro fila il peso di «una corruzione comparabile a quella dei loro nemici». Corruzione che «impedisce loro di prendere le decisioni necessarie a ribaltare la situazione».Ecco perché, se questo è lo scenario, non resta che «l’entrata in scena negli Sati Uniti», sottolinea Gabellini, «per “recuperare” il Venezuela e reinserirlo nel novero dei paesi latino-americani alleati di Washington». Un club in cui hanno appena fatto ritorno nazioni di grande rilevanza, dall’Argentina del neoliberista Mauricio Macrì al Brasile del parafascista Jair Bolsonaro. Per far cadere anche il Venezuela, prosegue Gabellini, secondo il documento di Tidd, occorre «indebolire le strutture politiche su cui si basa il movimento “bolivariano” collegandole al narcotraffico», nientemeno. Poi bisognerebbe “lavorare ai fianchi” il regime di Maduro per favorire la diserzione dei tecnici più qualificati, alienandogli così il favore della borghesia di lingua spagnola, la stessa su cui fecero perno gli Usa durante il tentato golpe contro Chavez del 2002. Per Tidd, si tratta di agire «fomentando discordia e insoddisfazione popolare, minando l’ordine pubblico, lavorando per aggravare la penuria di cibo, esacerbando le divisioni interne alla struttura di potere chavista», nonché ovviamente «screditando il presidente Maduro, presentandolo come un leader incapace, degradato al grado di fantoccio di Cuba». Attenzione: è necessario anche «provocare vittime, stando attenti a far ricadere la responsabilità sul governo», e inoltre «ingigantire agli occhi del mondo le proporzioni della crisi in atto».L’ammiraglio Tidd raccomanda di far ulteriormente esplodere l’inflazione attraverso nuove sanzioni, così da incoraggiare una fuga di capitali dal paese, scoraggiare eventuali investitori stranieri e far colare a picco la quotazione della moneta nazionale. Occorre inoltre avvalersi di «tutte le competenze acquisite dagli Usa in materia di guerra psicologica», per orchestrare una campagna di disinformazione mirata a screditare le iniziative finalizzate all’integrazione continentale – quali l’Alba e il Petrocaribe – promosse da Caracas nel corso degli ultimi anni. «Tutto il necessario, insomma – scrive Gabellini – per scatenare lo sdegno della popolazione e indirizzarlo contro le autorità, secondo uno schema già palesatosi con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e anche nello stesso Venezuela». Come già nel 2002, si suggerisce di mettere in crisi il rapporto di fedeltà che lega le forze armate al governo. Come agire? Utilizzando «gli alleati interni», incoraggiandoli a «organizzare manifestazioni e fomentare disordini e insicurezza, mediante saccheggi, furti, attentati e sequestro di mezzi di trasporto, in modo da mettere a repentaglio la sicurezza dei paesi limitrofi».Dal punto di vista statunitense, continua Gabellini, esacerbare le tensioni tra il Venezuela e i suoi vicini rappresentava un fattore determinante a garantire il conseguimento del “regime change”, nel caso in cui la rivolta interna fomentata dall’estero non si rivelasse sufficiente a scalzare Maduro dal potere. Nel documento si sottolinea infatti l’importanza di approfittare del crescente attivismo dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che sta rapidamente colmando la voragine apertasi con la cessazione delle attività da parte delle Farc. Altra pedina menzionata cinicamente da Tidd: i narcos del Cartello del Golfo, utili per alimentare la tensione lungo il confine con la Colombia, «così da provocare incidenti con le forze di sicurezza schierate lungo il confine venezuelano». Occorrerebbe inoltre favorire «la moltiplicazione delle incursioni armate da parte di gruppi paramilitari», i cui ranghi dovrebbero essere rinfoltiti attraverso «reclutamenti presso i campi che ospitano i rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander», vaste aree abitate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora intendono rientrare nel loro paese.Il tutto, con l’obiettivo finale di «gettare le basi per il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio agli ufficiali venezuelani» eventualmente disertori. Fondamentale, a questo riguardo, risulta ingraziarsi «il supporto e la cooperazione delle autorità dei paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana)», ma anche organizzare l’approvvigionamento delle truppe e l’appoggio logistico, di concerto con Panama. E quindi: dislocare «aerei da combattimento, elicotteri e blindati», oltre a installare «centri d’intelligence destinati ad ospitare anche unità militari specializzate nell’ambito della logistica». Per dare una parvenza di legalità all’intervento, si suggerisce di ottenere l’avallo dell’Organizzazione degli Stati Americani e di adoperarsi affinché si stabilisca una «unità di intenti da parte di Brasile, Argentina, Colombia e Panama», paesi «la cui posizione geografica e la cui collaudata capacità ad operare in scenari non convenzionali come la giungla assumono un’importanza capitale». La dimensione internazionale dell’operazione «verrà rafforzata dalla presenza di forze speciali Usa, che andranno ad affiancarsi alle unità da combattimento degli Stati summenzionati». È bene, a questo proposito, «far sì che le operazioni scattino prima che il dittatore abbia il tempo di consolidare il proprio consenso e il controllo sullo scacchiere interno».Tutto ciò, osserva Gabellini, si inscrive alla perfezione nel disegno strategico dell’amministrazione Trump, «che ambisce in tutta evidenza a riportare saldamente l’America Latina nella sfera egemonica statunitense attraverso l’appoggio a tutta una serie di clientes locali». Tra questi Lenin Moreno (Ecuador), Enrique Peña Neto (Messico) e Luis Almagro (Uruguay), oltre ai già citati Macrì e Bolsonaro. Attori continentali «con i quali concordare il ripristino di una sorta di nuova Operazione Condor rivisitata e corretta». Affidando le redini del potere nei vari Stati dell’America Latina a questi nuovi e ben più concilianti interlocutori, aggiunge Gabellini, Washington «prevede di realizzare un’integrazione economica su scala continentale, concepita appositamente per contrastare la penetrazione cinese». Ecco il punto: negli ultimi anni, osserva l’analista, la Cina ha infatti investito qualcosa come 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua. Sarebbe in grado di rivaleggiare con quello di Panama, controllato dagli Stati Uniti. Pechino ha inoltre messo in cantiere una ferrovia per collegare Pacifico e Atlantico attraverso Brasile e Perù.Un anno fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha presenziato al vertice annuale della Communiy of Latin American and Caribbean States tenutosi a Santiago del Cile, per estendere ai 33 Stati membri l’invito a partecipare al progetto della Belt and Road Initiative, con lo scopo di «costruire collegamenti attraverso il continente, farli convergere verso le coste affacciate sul Pacifico e agganciarli ai porti locali da cui si diramano le linee di rifornimento marittimo verso la costa cinese». Una sorta di “Via della Seta Pacifica”. Nessuna competizione geopolitica, aveva sostenuto Wang Yi: «Il progetto è conforme al principio di raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione». Ma gli Stati Uniti non sono dello stesso avviso. Dal canto suo, l’ammiraglio Tidd ha ricordato a una commissione del Senato che la Cina ha già investito 500 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo dell’America Latina, e ha in programma di mettere sul piatto altri 250 miliardi entro il 2030. Tidd ha inoltre aggiunto che «la più grande sfida strategica posta dalla Cina in questa regione non è ancora una sfida militare: è una sfida di tipo economico, che potrebbe richiedere un nuovo approccio da parte nostra, che ci permetta di affrontare efficacemente gli sforzi coordinati della Cina nelle Americhe».La raccomandazione di Tidd, accolta con entusiasmo da Trump, secondo Gabellini era quindi quella di rispolverare e riadattare alle esigenze del momento la cara, vecchia Dottrina Monroe, che all’epoca in cui fu enunciata (1823) contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza europea. «Oggi, a differenza di allora, si tratta di sbarrare alla Cina la porte dell’America Latina, attraverso il collegamento di quest’ultima alla comunità economica nordamericana costituita pochi mesi fa con la radicale ristrutturazione del Nafta». In questo senso, conclude l’analista, «lo scatenamento del caos in Venezuela si configura come una tappa cruciale in vista della “risistemazione” definitiva dell’America Latina». In altre parole: il governo Maduro sembra avere le ore contate. Si trova nei guai anche per gravi errori nella sua gestione della politica economica. Ma il giorno che cadesse, non sarà per un moto spontaneo del popolo venezuelano ridotto all’esasperazione: i piani sono pronti – e non da oggi – per tornare a far sventolare la bandiera americana sul paese dove crebbe, a furor di popolo, il sogno indipendentista di Hugo Chavez.A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.