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Nuovo disordine mondiale, nei Brics torna lo Stato-azienda
La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.Questa stessa radice troviamo nel “progetto globalizzazione”, naturale sviluppo della modernizzazione, discorso esplicitato in particolare da Francis Fukuyama, la cui opera è il manifesto ideologico di quel progetto. Per Fukuyama, il modello sociale occidentale era il punto di arrivo non migliorabile cui la storia tende. Ne deriva, quindi, una visione del resto del mondo come “Occidente imperfetto” in via di rapida assimilazione al suo modello. Se quello di Fukuyama era il manifesto ideologico, Samuel Huntington ha scritto il manifesto politico di quel progetto. Con maggiore realismo, egli sostiene che modernizzazione non significa occidentalizzazione e che gli equilibri di potenza stanno mutando. Pertanto, sta emergendo un ordine mondiale fondato sul concetto di civiltà e la pretesa occidentale di rappresentare valori universali è destinata a scontrarsi con l’Islam e la Cina. La sopravvivenza dell’egemonia occidentale dipende dalla capacità degli occidentali di accettare la propria civiltà come qualcosa di peculiare ma non universale e di unirsi per rinnovarla e proteggerla dalle sfide degli altri.Dove Fukuyama sognava un mondo uniformato in un’unica grande democrazia liberal-capitalistica, Huntington pensa ad un mondo ancora diviso in modelli culturali diversi ed antagonistici, ma sotto la salda direzione imperiale americana. C’è un terzo manifesto, di natura economica, che riassume il progetto della globalizzazione: il cosiddetto Washington Consensus. L’espressione, formulata nel 1989 da John Williamson, definisce 10 direttive di politica economica destinate ai paesi in stato di crisi, e che costituiscono un pacchetto di riforme “standard” indicate dal Fmi e dalla Banca Mondiale (entrambi hanno sede a Washington): politica fiscale finalizzata al pareggio di bilancio, riaggiustamento della spesa pubblica, riforma del sistema tributario, adozione di tassi di interesse reali (cioè al netto dell’inflazione) positivi, tassi di cambio della moneta locale determinati dal mercato, liberalizzazione del commercio e delle importazioni, liberalizzazione degli investimenti esteri, privatizzazione delle aziende statali, deregulation e tutela del diritto di proprietà privata.Questa piattaforma neoliberista venne poi in gran parte assorbita dagli accordi di Marrakech (1994) che dettero vita all’organizzazione mondiale per il commercio (Wto). La globalizzazione economica prometteva il riequilibrio delle disuguaglianze mondiali ed, attraverso questa dinamica convergente, lo sviluppo economico avrebbe assicurato l’espansione della democrazia e l’abbattimento dei regimi autocratici. Naturalmente, tutto questo avrebbe comportato un “urto” culturale, ma lo shock da globalizzazione sarebbe stato ampiamente compensato dai vantaggi. In parte le promesse della globalizzazione si sono avverate: Cina e India, ad esempio, da economie rurali ed arretrate sono diventate potenze emergenti a forte vocazione manifatturiera. Ma le cose stanno andando in modo molto diverso da quello previsto e lo skock da globalizzazione si sta rivelando molto più duro e contraddittorio. Se è vero che si sono prodotte delle convergenze, è altrettanto vero che si sono prodotte nuove asimmetrie, se è vero che i flussi finanziari, migrativi, culturali, commerciali attraversano in continuazione le frontiere in un mondo sempre più integrato, è anche vero che si sono prodotte nuove linee di faglia più profonde del passato.Inoltre, la globalizzazione non ha affatto prodotto la “fine della povertà”. Emblematico, in questo senso, il caso indiano, dove l’enorme crescita economica convive con le sacche di estrema miseria di sempre. Il capitalismo post coloniale non produce alcuna convergenza sociale fra i diversi paesi perchè, più che mai, è “capitale senza nazione”: estrae da ogni parte plusvalore che accumula in quell’U-topos che è “Riccolandia”. Soprattutto, contrariamente alle aspettative, la globalizzazione neoliberista non ha prodotto quel “nuovo ordine mondiale” cui aspirava; semmai siamo di fronte ad un “nuovo disordine mondiale”. Il mondo è più integrato dal punto di vista economico e delle comunicazioni, ma lo è di meno dal punto di vista politico. Le culture tradizionali, che si era pensato destinate a scomparire presto, hanno resistito (Huntington aveva visto più lontano di Fukuyama) e, pur subendo l’urto della penetrazione culturale dell’Occidente, hanno prodotto sintesi impreviste.Uno dei bersagli del progetto neo liberista è stato l’ordinamento westfalico basato sulla sovranità degli Stati nazione: il governo del mondo sarebbe spettato ad una fitta rete di organismi sovranazionali (dall’Onu al Wto, dal Fmi alla Bm ed alla serie di intese continentali come la Ue, il Nafta, il Mercosur ecc.), dunque, lo Stato nazionale aveva sempre meno ragion d’essere. La ritirata dello Stato dall’economia era la sanzione di questa detronizzazione. Parve che lo Stato nazionale sarebbe stato ridotto ai minimi termini per sottrazione di poteri sia verso l’alto che verso il basso e ci fu chi vide il suo completo annullamento in un nuovo “Impero”, non identificabile con nessuno degli Stati nazione esistenti. In realtà, il deperimento della sovranità nazionale non era affatto omogeneo ed universale, perchè aveva una sua rilevantissima eccezione negli Usa, monopolisti della forza a livello internazionale. Almeno sulla carta, nemmeno una alleanza di tutti gli altri Stati del mondo avrebbe avuto possibilità di vittoria contro gli Usa.Diversamente da quello che teorizzavano Negri ed Hardt, gli Usa non erano subordinati ad alcuna altra istituzione: erano superiorem non recognoscens e, pertanto, pienamente sovrani. Anzi, unico vero sovrano nel nuovo ordine imperiale. Ma nel giro di una quindicina di anni le cose sono rapidamente mutate: le sostanziali sconfitte in Iraq e Afghanistan hanno dimostrato le fragilità di un esercito che, imbattibile in campo aperto, è inadeguato in uno scontro asimmetrico; nello stesso tempo, la crisi ha obbligato prima a contenere e dopo a ridurre la spesa militare americana, mentre cresce quella asiatica (soprattutto di Cina, India, Giappone, Viet Nam, Corea ecc.). Nello stesso tempo, il deperimento degli stati nazionali non è affatto proceduto omogeneamente in tutto il mondo ed, anzi, in paesi come la Cina, la Russia, l’India, il Brasile, l’Indonesia, il Sud Africa si è registrato un rafforzamento dei rispettivi Stati. E tutto questo sta aprendo un dibattito molto fitto: se Prem Shankar Jha ritiene che gli Stati nazione stiano effettivamente deperendo, ma solo per esse sostituiti dal “caos prossimo venturo”, Robert Cooper distingue fra paesi premoderni (al limite della disintegrazione, come la Somalia), paesi moderni (i paesi emergenti che perseguono i propri interessi nazionali attraverso lo strumento statuale) e paesi “post moderni” (Ue e Giappone che rinunciano a parti della sovranità statale per adeguarsi alle dinamiche della globalizzazione neoliberista), con gli Usa in posizione critica fra la seconda e la terza opzione.Soprattutto, la grande sorpresa è stato il protagonismo economico degli stati emergenti. India, Cina e paesi arabi hanno costituito fondi sovrani assai cospicui per centinaia di miliardi di dollari, inoltre fra le dieci maggiori compagnie mondiali per ricavi, quattro sono controllate dal relativo Stato: tre cinesi (Sinopec Group, China National Petroleum Corporation, State Grid) ed una giapponese (Japan Post Holding). In Brasile le società controllate dallo Stato sono il 38%, in Russia il 62% in Cina addirittura l’80%, e “The Economist” (da cui traiamo questi dati) è giunto a chiedersi se il modello emergente non sia un nuovo “capitalismo di Stato”. Lasciamo impregiudicata la questione se quella di capitalismo di stato sia la definizione migliore o se dovremmo parlare di “neopatrimonialismo” o cercare altre definizioni più aderenti alla tradizione cinese, quel che rileva è che sta emergendo un ordine economico opposto di quello voluto da Whashington Consensus.(Aldo Giannuli, “Il nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 18 agosto 2015).La crisi non è solo finanziaria e coinvolge anche aspetti politici, sociali e militari in un gioco di rimandi continuo. Dunque, la sua soluzione non può prescindere dall’esame anche degli aspetti non strettamente finanziari, per capire cosa stiamo rischiando. La globalizzazione, in atto da un trentennio, associa strettamente gli sviluppi tecnologici ai progetti politici di un nuovo ordine mondiale. Tutto ciò è caratterizzato da una straordinaria velocità che modifica lo sviluppo delle dinamiche sociali, politiche, economiche, producendo interdipendenze molto più complesse del passato, al punto che c’è chi si spinge a parlare di “ipercomplessità”. La globalizzazione è stata proposta come l’estensione a tutto il mondo della modernizzazione. Una benefico tsunami che aumenta la ricchezza, produce convergenza economica, elimina l’arretratezza, spazza via dittature e diffonde democrazia e benessere. Il mondo occidentale ha costruito la sua identità recente intorno alla categoria di “modernizzazione” ed ha giustificato la sua proiezione espansionista con il compito di espandere la civiltà moderna in tutto il mondo.
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Pubblico impiego, assumere subito un milione di giovani
Pensate che i dipendenti pubblici in Italia siano troppi? Errore: sono troppo pochi. Nel 2011 erano 3 milioni e 435.000, di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite Iva, contro i 6 milioni e 217.000 della Francia e i 5 milioni e 785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile alla nostra e un Pil non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Usa i dipendenti pubblici sono più numerosi che in Italia, rispettivamente 65,6 e 71,1 ogni mille abitanti, contro i 56,9 del nostro paese. Solo il dato tedesco è simile a quello italiano (54,7 ogni mille abitanti), ma è influenzato verso il basso dal regime privatistico della sanità. Se consideriamo il solo personale amministrativo, affermano gli economisti delle università di Torino e del Piemonte Orientale, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici pro capite che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di uno stock attuale di 1.337.000: un incremento del 31%. E per raggiungere gli stessi livelli degli Usa bisognerebbe assumerne addirittura un milione e 310.000. Obiettivo, quindi: stabilizzare i precari già in servizio e, in più, assumere subito almeno 800.000 giovani nel pubblico impiego.E’ ovvio, premettono i docenti piemontesi, che nella pubblica amministrazione ci siano anche esuberi: la commissione di Carlo Cottarelli sulla “spending review” ne ha contati 58.000, cioè «un numero quasi trascurabile rispetto alle esigenze qui prospettate». Esempio: nel servizio sanitario nazionale, le dotazioni di organico nel 2012 erano di 760.000 posti, contro una presenza di 670.000 addetti. Oggi, il numero di addetti si è ridotto di altre 50.000 unità. Più dipendenti pubblici possono sicuramente rilanciare l’economia nazionale, spiegano su “Micromega” Bruno Contini, Nicola Negri, Francesco Scacciati e Pietro Terna dell’Università di Torino, insieme ai colleghi Angela Ambrosino, Maria Luisa Bianco e Guido Ortona dell’Università del Piemonte Orientale (Novara e Alessandria). «Se ammettiamo che un’economia non può funzionare bene senza uno Stato che funzioni bene, la ripresa della crescita del paese richiede contestualmente una altrettanto vigorosa crescita dell’efficienza della amministrazione pubblica in quasi tutti i suoi settori». Il malfunzionamento del pubblico impiego, infatti, «costituisce uno degli ostacoli più rilevanti alla competitività dell’Italia».Il vero problema, aggiungono i professori, è che risulta velleitaria qualsiasi ipotesi di modernizzazione della pubblica amministrazione che contempli solo una crescita di efficienza, e non anche di personale. «Se l’ordine di grandezza “giusto” di pubblici dipendenti è quello dei paesi con cui solitamente ci confrontiamo, un aumento consistente del loro numero è una condizione necessaria (anche se certo non sufficiente) per riavviare la tanto sospirata crescita», anche in chiave di riduzione della disoccupazione. La loro proposta? «E’ che la pubblica amministrazione assuma in tempi rapidi da ottocentomila a un milione di nuovi addetti, con contratti che tengano conto della situazione di emergenza in cui versa la nostra economia». Per i docenti, è inoltre indispensabile tener conto che oggi l’età media dei dipendenti pubblici si avvicina a 50 anni, e che il 48% del personale attuale andrà in pensione prima del 2029 e il 27% prima del 2024. Ricambio generazionale urgente: «Bisogna che le assunzioni avvengano là dove servono, cioè dove sono più utili per lo sviluppo dell’economia», cioè nella giustizia civile, nella formazione tecnica e professionale, nella ricerca, nella sanità e nei servizi di assistenza extra-ospedaliera, nei servizi per l’impiego, nell’ordine pubblico e nei progetti miranti al riassetto del territorio e alla manutenzione dei beni culturali.Negli altri paesi, il settore pubblico rappresenta una quota cospicua della domanda di laureati, grazie anche all’elevata scolarità della forza lavoro. Al contrario, in Italia, al sotto-dimensionamento della pubblica amministrazione si accompagna un livello di scolarità del personale particolarmente basso: solo il 26% degli addetti è in possesso di una laurea, cui si deve aggiungere un 4% con la laurea triennale, a fronte, per esempio, di una percentuale del 54% in Gran Bretagna, dove i “civil servants” laureati sono oltre 3 milioni (i pubblici dipendenti laureati italiani sono soltanto un milione). «Se si volesse adeguare il settore pubblico agli standard europei si riassorbirebbe completamente la disoccupazione dei laureati». Fondamentale, ovviamente, evitare di assegnare il personale a compiti non prioritari ed effettuare le assunzioni sulla base delle pressioni politiche locali più che delle reali necessità. Soluzione: «Gli enti e gli uffici locali interessati dovrebbero fare delle proposte di aumenti del personale sulla base di progetti o programmi dettagliati, che dovrebbero essere valutati e approvati da un ente centrale, rigorosamente non politico».Le risorse umane sono sterminate: una massa enorme di disoccupati e inoccupati, laureati e diplomati, qualificabili in tempi brevi con un addestramento orientato al nuovo lavoro. Quanto ai costi, non supererebbero i 15-20 miliardi l’anno: una cifra «consistente, ma reperibile, tanto più in quanto l’imposizione fiscale necessaria sia una vera imposizione di scopo». Parte del finanziamento potrebbe provenire da fondi europei, e un’altra parte da una limitata imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria, che – cosa per nulla trascurabile – non confliggerebbe coi vincoli europei sul rapporto deficit/Pil. I docenti ipotizzano un’aliquota progressiva compresa tra il 2 e il 6 per mille – da cui sarebbero completamente esenti metà dei nuclei familiari, poichè la loro ricchezza finanziaria è inferiore ai 150.000 euro – sarebbe sufficiente a finanziare tre quarti dell’intero progetto, che “varrebbe” 28 miliardi in tre anni. Ovvero: «Se il finanziamento straordinario durasse tre anni, genererebbe per ciascuno dei tre anni una crescita di quasi un punto e mezzo di Pil». Di conseguenza, «alla fine dei tre anni le risorse finanziarie straordinarie per sostenere l’occupazione aggiuntiva non sarebbero più necessarie».Le assunzioni sarebbero un toccasana: per il pubblico impiego che è sottodimensionato, per i giovani laureati e disoccupati, quindi per la domanda interna che è in crisi e mette in difficoltà le aziende, il Pil, il gettito fiscale e di conseguenza il debito pubblico. I contribuenti? Pagherebbero volentieri una mini-tax, «qualora potessero essere sicuri che il gettito vada realmente ed esclusivamente a creare posti di lavoro utili alla collettività per i disoccupati, soprattutto giovani». In Italia vi sono oggi 22,5 milioni di nuclei familiari, di cui 11-12 che sarebbero chiamati a contribuire alla “patrimoniale di scopo” per sostenere l’occupazione. E sono 3 milioni i “Neet” (giovani tra i 18 e i 29 anni che non studiano né lavorano), ancora ospitati dai genitori. Di fatto, un milione e mezzo di famiglie con figli ormai adulti ancora a carico. Ovvio che il consenso sarebbe largo, se un piccolo sacrificio contributivo desse l’ossigeno necessario alla campagna di assunzioni. Soluzione perfettibile? Parliamone, dicono i professori, ma le difficoltà tecniche «non possono in alcun modo esimere il potere politico dalla necessità di affrontare i problemi che abbiamo citato».Pensate che i dipendenti pubblici in Italia siano troppi? Errore: sono troppo pochi. Nel 2011 erano 3 milioni e 435.000, di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite Iva, contro i 6 milioni e 217.000 della Francia e i 5 milioni e 785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile alla nostra e un Pil non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Usa i dipendenti pubblici sono più numerosi che in Italia, rispettivamente 65,6 e 71,1 ogni mille abitanti, contro i 56,9 del nostro paese. Solo il dato tedesco è simile a quello italiano (54,7 ogni mille abitanti), ma è influenzato verso il basso dal regime privatistico della sanità. Se consideriamo il solo personale amministrativo, affermano gli economisti delle università di Torino e del Piemonte Orientale, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici pro capite che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di uno stock attuale di 1.337.000: un incremento del 31%. E per raggiungere gli stessi livelli degli Usa bisognerebbe assumerne addirittura un milione e 310.000. Obiettivo, quindi: stabilizzare i precari già in servizio e, in più, assumere subito almeno 800.000 giovani nel pubblico impiego.
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Gallino: Jobs Act al ribasso, così Renzi sfascia l’economia
Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro, il Cnl, in attesa di una legge che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza, rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. Strada già tracciata dagli accordi degli ultimi tre anni, ricorda Luciano Gallino: marginalizzare il Cnl significa cancellare la sua funzione storica, «che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari». Grazie al progressivo indebolimento del contratto nazionale, dal 1990 al 2013 quella quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 al 55%. «Si tratta di oltre 100 miliardi che, invece di andare ai lavoratori, vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza». Su questo piano inclinato ora la catastrofe sarà completa: il Jobs Act non è altro che una fabbrica di nuovi poveri, pagati pochissimo.«Questo spostamento di reddito dal lavoro ai profitti e alle rendite ha pure contribuito alla contrazione della domanda interna», scrive Gallino in una riflessione su “Repubblica”, ripresa da “Micromega”. «Un top manager può pure guadagnare duecento volte quel che guadagna un suo dipendente, ma quanto a consumi quotidiani, dagli alimentari ai trasporti, non potrà mai rappresentare una domanda pari a quella di duecento dipendenti». Oltre che tra i lavoratori e le classi possidenti, le disuguaglianze aumenteranno tra gli stessi lavoratori: «La facoltà conferita alle imprese, comprese decine di migliaia medio-piccole, di regolare mediante accordi sindacali anche locali sia il salario, sia altre condizioni cruciali del rapporto di lavoro, avrà come generale conseguenza una ulteriore riduzione dei salari reali e con essi della quota-salari sul Pil. In fondo, è uno degli scopi del Jobs Act, anche se non si legge in chiaro nel testo». In più, le che arrancano «si gioveranno della suddetta facoltà per pagare salari che in molti casi collocheranno i percipienti al di sotto della soglia della povertà relativa, che nel 2013 era fissata in circa 1.300 euro per una famiglia di tre persone».Si può quindi stimare, aggiunge Gallino, che il numero di “lavoratori poveri” aumenterà in notevole misura: «Alle disuguaglianze di reddito tra un’azienda e l’altra, a parità di lavoro, si aggiungeranno quelle territoriali, quelle che un tempo il Cnl doveva servire a superare, stabilendo quanto meno una base salariale per tutti». Infine, il regime di bassi salari introdotto di fatto dal Jobs Act «ostacola fortemente anche la modernizzazione delle imprese e danneggia l’intera economia». Con rare eccezioni, infatti, le imprese italiane si collocano da anni tra le ultime della Ue quanto ricerca e sviluppo, investimenti, età degli impianti, innovazione di prodotto e di processo. «L’età media degli impianti è il doppio di quella europea, più o meno 25-28 anni contro 12-15. Inoltre le imprese italiane sono, in media, troppo piccole. Risultato: l’aumento della produttività del lavoro segna anch’esso uno zero virgola sin dagli anni ‘90. Varando delle leggi sul lavoro che consentono un uso sfrenato del precariato, evitando di impegnarsi in qualsiasi azione che assomigli a una politica industriale, i governi italiani hanno efficacemente contribuito a mantenere le imprese italiane nella condizione di ultime della classe. Il Jobs Act offre ad esse un aiuto per mantenersi in tale posizione».Se la legge permetterà loro di «pagare salari da poveri», per Gallino si può stare certi che «quattro imprese su cinque utilizzeranno tale facilitazione e non spenderanno un euro in più in ricerca, sviluppo e investimenti, rinnovo degli impianti, innovazioni». E l’aumento annuo della produttività del lavoro, che è strettamente collegato, resterà a zero. Tutto questo, senza contare che oggi i fattori di produttività sono estramemente complessi, legati a lunghe “catene di produzione del valore”. Esempio: un piccolo elettrodomestico da 50 euro, assemblato da ultimo da una casa italiana per essere venduto nei supermercati, capita sia costituito di un centinaio di pezzi provenienti da dieci paesi diversi, ciascuno esposto a variazioni, difetti, ritardi, imprevisti. «Tutti questi inconvenienti incidono ovviamente sulla produttività dell’impresa finale», conclude Gallino, «e non sono l’ultimo motivo per cui la produttività del lavoro aumenta annualmente dello zero virgola, nelle imprese italiane. Le quali, temo, cercheranno invano nel Jobs Act come si fa a misurarla davvero, e magari come si fa ad aumentarla. Senza di che i nuovi “lavoratori poveri”, in tema di frutti della produttività, avranno ben poco da spartirsi».Uno dei principali esiti del Jobs Act, a danno dei lavoratori, sarà la liquidazione di fatto del contratto nazionale di lavoro, il Cnl, in attesa di una legge che ne sancisca anche sul piano formale la definitiva insignificanza, rispetto alla contrattazione aziendale e territoriale. Strada già tracciata dagli accordi degli ultimi tre anni, ricorda Luciano Gallino: marginalizzare il Cnl significa cancellare la sua funzione storica, «che sta nel difendere la quota salari sul Pil, cioè la parte di reddito che va ai lavoratori rispetto a quella che va ai profitti e alle rendite finanziarie e immobiliari». Grazie al progressivo indebolimento del contratto nazionale, dal 1990 al 2013 quella quota è diminuita in Italia di circa 7 punti, dal 62 al 55%. «Si tratta di oltre 100 miliardi che, invece di andare ai lavoratori, vanno ora ogni anno ai possessori di patrimoni, dando un contributo di peso all’aumento delle disuguaglianze di reddito e di ricchezza». Su questo piano inclinato ora la catastrofe sarà completa: il Jobs Act non è altro che una fabbrica di nuovi poveri, pagati pochissimo.
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Ovadia: il ‘900 è finito, infatti con Renzi torniamo all’800
Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.Alle europee prende il 40,8%? E’ un bravissimo comunicatore, si vende bene. Incarna la retorica del nuovismo contro chi è ancora ancorato al Novecento, peccato lui voglia tornare all’Ottocento dove si poteva licenziare arbitrariamente. Forse è più vecchio lui di quella folla che sabato scorso ha invaso Roma in difesa dei propri diritti. Vince perché altrove c’è il nulla. Grillo ha perso il treno. Poteva rappresentare un’interessante proposta ma ha sposato veementemente la retorica dell’urlo. Pur avendo ottimi parlamentari, questo va riconosciuto al M5S, hanno fallito, non sono riusciti a incidere e la novità dopo mesi annoia. Anche la destra è allo sfascio, Berlusconi è un uomo patetico. La sinistra, quella vera, avrebbe un vastissimo popolo e potrebbe arrivare anche al 20%. Ma è più presa a litigare e dal proprio narcisismo ombelicale che a fare politica. Ora è in attesa che l’ex sinistra del Pd le getti un osso. Così – tra paura, opportunismo e crisi – le persone optano per questo giovanotto tronfio, con uno stile dinamico e sbarazzino, il quale dice di voler cambiare e modernizzare il paese.Conosco gente, autenticamente di sinistra, che per mancanza di alternative alle europee l’ha votato. C’è un disperato bisogno di un’aggregazione del popolo di sinistra, lo dovrebbero auspicare anche le persone sinceramente democratiche. In tutta Europa esiste, tranne che in Italia. In Germania abbiamo la Linke, in Francia un fronte variegato intorno al 10, in Grecia l’esperienza trionfante di Syriza, in Spagna l’innovazione di Podemos. E da noi? Abbiamo bisogno di una vera sinistra capace di tutelare il mondo del lavoro, l’ambiente e arrestare razzismo e deriva ultraliberista. Senza, chi osteggerà il trattato europeo del Ttip? Chi si batterà per i beni comuni e contro le privatizzazioni? Non abbiamo l’ambizione di diventare il partito della nazione, ma una forza forte e dialogante con gli altri.Decine di operai di Terni vengono licenziati e con la disperazione nel cuore, con vite perse senza più un’occupazione, e magari con figli senza futuro, si riversano nella capitale per una manifestazione non violenta e che succede? Vengono caricati e manganellati. Ma siamo matti? In un’epoca di dramma sociale e aumento delle diseguaglianze, invece di parlare di solidarietà umana e primaria, si cancellano diritti e dignità dei lavoratori. Dubito che gli agenti l’abbiamo fatto di loro sponte, sarà giunto un comando dall’alto. Come succedeva in Gran Bretagna ai tempi della Thatcher, lì torniamo. I minatori inglesi sanno cosa hanno passato in termini di repressione per aver osato rivendicare salari dignitosi e tutele. Passatemi una battuta: il Papa sembra al momento l’unico leader di sinistra. Landini? Ha un potenziale enorme, un leader già pronto. Quando lo sento parlare in televisione, vedo l’autenticità di un uomo che la sua vita se l’è sudata. La schiettezza di un uomo senza doppi fini, che non vuole fregarti. E’ autenticamente indignato. Le sue sono parole pronunciate col cuore perché da anni vicino alla povera gente e ai deboli. La nostra Italia migliore. Altro che manganellate.(Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Se Renzi e il Pd sono di sinistra, io sono il Papa”, pubblicata da “Micromega” il 31 ottobre 2014).Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.
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Meno democrazia: Renzi, il tecno-populista dell’élite
L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.Effetto culturale, questo, dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali).Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare – questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica – le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso. E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito, tuttavia, ormai anch’esso trasversale – e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato, salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio). Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia – e ogni populismo è stato, storicamente, anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo, quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche – al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi – sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal Compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente).Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione. Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico – per altro discendenza diretta di quello neoliberista – che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia. Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.(Lelio Demichelis, “Il populismo tecnocratico del rottamatore”, da “Sbilanciamoci” del 4 luglio 2014).L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
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Patrimonio dell’umanità le Langhe di Pavese e Fenoglio
Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».Senza la gente vuol dire senza il loro racconto. La loro memoria, che non parla di un mondo arcadico, ma di vite agre, di una storia aspra come la terra dura della vigna, di solitudini e silenzi, da sfidare cavando di bocca le parole con le pinze, come sapeva bene Cesare Pavese, che in una delle sue prime poesie, in “Lavorare stanca”, scrisse che “qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio”. Pavese, che conosceva bene il calore umido che sale dal tufo sotto la vite, e quale odore abbia quel caldo («ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie»). E sapeva quanto di natura e di fatica ci sia dietro una vigna: «Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore».Come lo sapeva Beppe Fenoglio, quello della “Malora”, ma soprattutto quello del “Partigiano Johnny”, dove la natura si fonde inestricabilmente alla vita, e l’epopea partigiana si intreccia di fatica, e sudore – esattamente come il lavoro – e di paura e ferocia e, ancora, silenzio, nel paesaggio ora aspro, ora cupo, ora ridente, quasi sempre freddo, che accompagna come un involucro mimetico le vicende del protagonista. È impossibile pensare le Langhe – e il Roero, e il Monferrato: quello che oggi va sotto il nome un po’ commerciale di “distretto enogastronomico” – senza l’immaginario elaborato dalla loro letteratura, da Pavese, e Fenoglio, e Lajolo, e Arpino, che li hanno resi, appunto, patrimonio dell’umanità nel senso più proprio: di “linguaggio universale”. Paesaggio parlante e comunicante.Non stupisce che di qui sia incominciata l’avventura di Carlin Petrini e della sua banda, con la rievocazione di “Cantè j’euv”, sagra tradizionale sopravvissuta sotto la superficie della modernizzazione, giunta fino al trionfo di Slow Food e di Terra Madre. E non stupisce che qui trovi la propria sede naturale la cultura del vino come prodotto vivente. Non dimentichiamo le battaglie di Bartolo Mascarello contro la pratica del “barrique”, considerata una forma di sconsacrazione, e contro il dilagare dei capannoni ai piedi delle colline. Non dimentichiamolo nel momento in cui a quella terra viene attribuito l’ambìto riconoscimento. Certo la tentazione di considerarlo un brand utile per operazioni di marketing territoriale è forte, e lascia immaginare flussi impetuosi di turisti. Ma è bene ricordare che la dizione letterale dell’Unesco è “bene protetto”, non “esposto”. E che quel riconoscimento implica una responsabilità alla tutela, più che un incentivo al consumo dei luoghi.(Marco Revelli, “L’epopea delle vigne patrimonio dell’umanità”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2014, all’indomani del riconoscimento Unesco conferito a Langhe e Monferrato).Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».
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Sangue e Pil: una guerra mondiale per salvare la crescita
ita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.«Alcuni dei recenti titoli di giornale sull’Iraq o il Sud Sudan fanno sembrare il nostro mondo un posto molto cruento – premette Cowen – ma le vittime di oggi impallidiscono alla luce delle decine di milioni di persone uccise nelle due guerre mondiali nella prima metà del XX secolo». La stessa Guerra del Vietnam, aggiunge, ha avuto molti più morti di qualsiasi guerra recente che coinvolga un paese ricco. Ecco il punto: «Il maggior pacificismo del mondo può rendere meno urgente, e quindi meno probabile, il raggiungimento di alti tassi di crescita economica». Nel suo intervento, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Come Don Chisciotte”, Cowen sostiene che la semplice possibilità del precipitare verso la guerra «focalizza l’attenzione dei governi su come prendere correttamente alcune decisioni fondamentali», per esempio su come «investire nella scienza o semplicemente liberalizzare l’economia». E questa “attenzione”, di fatto, «finisce per migliorare le prospettive a più lungo termine di una nazione».«Può sembrare ripugnante trovare un lato positivo alla guerra in questo senso», ammette ancora Cowen, deciso però a “rivalutare” fino in fondo la prospettiva del conflitto come volano economico, come fossimo ancora agli albori dell’era del carbone e del petrolio: «Uno sguardo alla storia americana suggerisce che non possiamo respingere l’idea così facilmente». E spiega: «Innovazioni fondamentali come l’energia nucleare, il computer e l’aviazione moderna sono state tutte spinte da un governo americano desideroso di sconfiggere le potenze dell’Asse o, più tardi, di vincere la Guerra Fredda». La stessa rete Internet è stata progettata a scopo militare-strategico, e la Silicon Valley «deve le sue origini alle forniture militari, non alle start-up imprenditoriali di oggi». Tutto merito del lancio del primo Sputnik, il satellite con cui l’Urss sfidò gli Usa mettendosi in pole position nella conquista dello spazio. Proprio lo Sputnik «ha stimolato l’interesse americano nel campo della scienza e della tecnologia, a beneficio della conseguente crescita economica». Piccolo particolare: questo succedeva mezzo secolo fa, quando eravamo 1 miliardo e mezzo anziché 7 e il “terzo mondo” era ancora una sconfinata cassaforte da saccheggiare.La guerra, insiste Cowen, «porta con sé un’urgenza a cui i governi altrimenti non riescono ad appellarsi». Lo conferma la storia del Progetto Manhattan per l’atomica, realizzata in soli sei anni «partendo praticamente dal niente» e coinvolgendo lo 0,4% della produzione economica americana: «In questi giorni è difficile immaginare un risultato così rapido e decisivo». Il dogmatico Cowen cerca alleati, nella sua visione economico-bellicista così consonante con gli Usa di Obama, che provocano la Russia accerchiando la Cina. Secondo Ian Morris, professore di letteratura e storia a Stanford e autore del saggio “Guerra! A che cosa serve?”, che esamina il rapporto tra conflitto e progresso “dai primati ai robot”, la guerra ha sempre aiutato la crescita: prima sotto l’Impero Romano, poi col Rinascimento e infine con la nascita degli Stati Uniti. «Ci sono prove che l’intenzione di prepararsi alla guerra abbia spinto l’invenzione tecnologica e portato anche un certo maggior grado di ordine sociale».Un altro libro, “Guerra e oro, una storia di 500 anni di imperi, avventure e debito”, scritto da un altro conservatore, il deputato britannico Kwasi Kwarteng, si sostiene che la necessità di finanziare le guerre abbia portato i governi a sviluppare le istituzioni monetarie e finanziarie, consentendo l’ascesa dell’Occidente. Una terza indagine sul tema, dossier firmato dagli economisti Chiu Yu Ko, Mark Koyama e Tuan-Hwee Sng, si afferma che l’Europa si è evoluta in modo più frammentario rispetto alla Cina, costretta al centralismo di Pechino per evitare invasioni da ovest. L’accentramento avrebbe fatto arretrare il paese, mentre gli europei avrebbero investito di più in tecnologia e modernizzazione «proprio perché avevano sempre paura di essere conquistati dai vicini loro rivali». Se non altro, concede Cowen, «vivere in un mondo pacifico con una crescita del Pil del 2% ha alcuni grandi vantaggi che non si ottengono con una crescita del 4% e molti più morti in guerra».Per contro, dice ancora l’economista di destra, i nostri antenati non hanno probabilmente mai conosciuto una stagnazione come l’attuale. Errore: fu spaventoso il crollo in cui sprofondò l’Europa, economia compresa, dopo la caduta dell’Impero Romano. Qualcosa del genere potrebbe accadere oggi, se dovesse collassare l’impero americano. Cowen però non è uno storico, ma un economista: e la sua ideologia neoliberale, smentita dai fatti ma più che mai al potere, vede solo un futuro lineare e progressivo, proprio come la leggenda della crescita infinita e l’atroce fiaba dell’austerity espansiva. In attesa di scoprire se l’ipotetico colossale business chiamato Terza Guerra Mondiale sia davvero alle porte – magari innescato a Kiev contro Mosca, o da Israele contro Teheran – Cowen si limita a domandarsi «se la recente diffusione della pace è una semplice bolla temporanea che aspetta solo di essere fatta scoppiare», naturalmente a beneficio di un Pil finanziario ormai controllato da pochissimi super-padroni, forse pronti a lasciare sul terreno i 2 miliardi di morti che un attacco nucleare contro la Russia provocherebbe.L’economia occidentale è in stagnazione da troppo tempo? Niente di meglio che una bella guerra, magari mondiale, per “far ripartire la crescita”. Lo afferma, senza troppi giri di parole, l’economista statunitense Tyler Cowen, allievo della “scuola austriaca” di Friedrick Von Hayek cui si ispirano i famigerati professori europei del rigore, a cominciare dal non rimpianto Mario Monti. Sul “New York Times”, Cowen spiega che solo la guerra è il potente motore dell’economia, anche se purtroppo «il conflitto porta morte e distruzione». Il problema, però, è che la pace non aiuta il Pil, cioè il grossolano indicatore convenzionale di crescita – crescita di tutto, compresi i veleni, i disastri, gli sprechi criminali. Lungi anche solo dall’ipotizzare un’economia non più fondata sulla crescita illimitata (non solo “impossibile” ma anche letale per la Terra) il professor Cowen, docente ultra-liberista della George Mason University, sostiene che il mondo di oggi non sia più visitato, come in passato, dalla favolosa opportunità rappresentata dal genocidio bellico.
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Scordatevi Silvio, ormai ostaggio della finanza euro-Usa
Buone ragioni per non votare Berlusconi. Se fossi il procuratore della Repubblica che ha formulato il parere sull’affidamento in prova ai servizi sociali di Berlusconi, avrei fatto capire ai suoi difensori (ma non avrei mai messo per iscritto) che la Procura dà parere favorevole, ma si riserva di chiedere la revoca dell’affidamento qualora Berlusconi torni a criticare in un certo modo i magistrati. E non solo per la brutta tinta che ha un simile messaggio in se stesso, ma soprattutto perché esso può indurre coloro che credono che Berlusconi sia perseguitato da una certa associazione di magistrati per fini politici e a sostegno della sinistra, a pensare e ad agire come segue: non voterò più per Berlusconi, ma voterò per il M5S o la Lega Nord o Fratelli d’Italia, perché Berlusconi ormai ha perduto la libertà politica, trovandosi sotto costante ricatto giudiziario e dovendo fare ciò che gli dicono per poter conservare, o sperare di conservare, non l’agibilità politica, ma una parziale libertà personale in alternativa alla reclusione.Se, grazie alla sua autosufficienza economica, aveva un po’ di libertà e originalità politica rispetto agli altri politicanti italiani del cavolo, ora gliela hanno tolta, gli hanno messo il guinzaglio. Probabilmente ciò che Silvio è andato recentemente a dire alle orecchie giuste è che, per evitare il carcere, mette il suo partito e i voti dei suoi elettori a disposizione incondizionata dei poteri forti. Il partito della grande finanza euro-americana può così prendersi, dopo la sinistra “moderata”, “liberale”, anche Forza Italia: potrà avere la maggioranza, il premio di maggioranza, e il controllo (giudiziario) dell’opposizione, o di una sua parte significativa. Già molto prima Berlusconi aveva mancato praticamente a tutte le sue promesse di ammodernamento, razionalizzazioni, riforme liberali, rilancio economico. Già aveva sempre governato oscillando tra una timida difesa degli interessi italiani e una complessiva compiacenza a quelli, contrari, di Germania e Francia, prestandosi sostanzialmente ad assecondare questi ultimi.Già si era piegato al golpe dello spread, quell’operazione svelata al grande pubblico da Alan Friedman, che era stata decisa prima a porte chiuse e successivamente spinta avanti con la manovra bancaria, soprattutto tedesca, contro il Btp. Già aveva sostenuto il governo e la politica di Monti, che minavano l’economia nazionale, dilatavano il debito pubblico e depredavano il risparmio italiano per garantire immorali lucri ai banchieri franco-tedeschi nelle loro speculazioni sui paesi più deboli. Già aveva sostenuto il governo e la politica di Letta, altro grande economista, famoso autore di “Euro sì – Morire per l’Euro”, e che, inerme e inconcludente, ha peggiorato ulteriormente le cose. Già ha avallato la porcata della riforma della Banca d’Italia (vedi in proposito il mio e-book “Sbankitalia”, 2a edizione, Arianna editrice) nonché l’istituzione della dittatura del premier (o del suo puparo) in corso oggi con la riforma elettorale e del Senato (vedi in proposito il mio articolo “Con Renzi preparano la dittatura del prossimo premier”).Quindi è chiaro che Silvio Berlusconi ha sempre raccolto voti con precise promesse, per poi tradire i suoi elettori. E’ probabile che faccia questo ora, e forse da sempre, per tutelare se stesso e le aziende di famiglia, cioè che cerchi accordi con certi potentati offrendo in cambio di sterilizzare i voti che raccoglie con la promessa di andare contro quei medesimi potentati. Ciò porta al regime i voti dissidenti. Trasforma il dissenso in consenso. E’ chiaro che ora addirittura deve obbedire a bacchetta, perché sta sotto costante minaccia del carcere. Quindi che senso ha votarlo? Io non lo voto. Voto contro il sistema, cioè voto o Lega o Grillo o Fratelli d’Italia, sperando che facciano fronte comune tra loro e con altri simili movimenti europei, perché ho una speranza di cambiare le cose e ancora non mi rassegno ad emigrare accettando le conclusioni rinunciatarie dell’autore di questo articolo.(Marco Della Luna, “Non ha più senso votare Berlusconi ostaggio”, dal blog di Della Luna del 13 aprile 2014).Buone ragioni per non votare Berlusconi. Se fossi il procuratore della Repubblica che ha formulato il parere sull’affidamento in prova ai servizi sociali di Berlusconi, avrei fatto capire ai suoi difensori (ma non avrei mai messo per iscritto) che la Procura dà parere favorevole, ma si riserva di chiedere la revoca dell’affidamento qualora Berlusconi torni a criticare in un certo modo i magistrati. E non solo per la brutta tinta che ha un simile messaggio in se stesso, ma soprattutto perché esso può indurre coloro che credono che Berlusconi sia perseguitato da una certa associazione di magistrati per fini politici e a sostegno della sinistra, a pensare e ad agire come segue: non voterò più per Berlusconi, ma voterò per il M5S o la Lega Nord o Fratelli d’Italia, perché Berlusconi ormai ha perduto la libertà politica, trovandosi sotto costante ricatto giudiziario e dovendo fare ciò che gli dicono per poter conservare, o sperare di conservare, non l’agibilità politica, ma una parziale libertà personale in alternativa alla reclusione.