Archivio del Tag ‘privilegi’
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Magaldi: Salvini e Meloni si decideranno a battersi per noi?
Salvini che sparacchia su Bruxelles ma poi incarica Giorgetti di correggere il tiro, e intanto (evidentemente mal consigliato) bacchetta le donne che scambierebbero l’aborto per un’alternativa alla contraccezione, giusto per deliziare gli antiabortisti cronici. La Meloni risponde da par suo: condanna il bieco Fiscal Compact ma al tempo stesso assolve il suo gemello, il pareggio di bilancio. Gli altri politici? Non pervenuti: quei temi, nemmeno li sfiorano per scherzo. In questo frangente si salva solo l’indifendibile, inesistente Renzi: almeno, ha il coraggio di puntare sulla prescrizione, come ciambella di salvataggio in un sistema-giustizia che impiega secoli per emettere una sentenza, spesso dopo aver messo alla gogna presunti colpevoli che poi si scoprono innocenti. Ma che razza di paese è mai questo? C’è qualcuno che ha idea di come si potrebbe pilotare l’Italia, nel 2020 e soprattutto nei prossimi anni, in base a una parvenza di disegno strategico? Pare di no, purtroppo: si vive solo alla giornata, rincorrendo effimeri consensi. E mentre Lega e Fratelli d’Italia colpiscono nel mucchio, senza un piano preordinato né una visione leggibile, il Pd si limita all’eterno ruolo di cameriere italiano dell’Ue, attorniato dal fantasma imbarazzante dei 5 Stelle: dopo aver tradito tutte le promesse, i grillini credono di cavarsela tagliando futuri parlamentari e attuali vitalizi.
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La Cupola ha in mano il governo. Ma l’alternativa dov’è?
Ma davvero vi aspettavate che la Corte costituzionale desse il via libera al referendum promosso dalla Lega? Ma in che mondo vivete, conoscete le biografie dei giudici costituzionali, chi li ha voluti lì, e più in generale conoscete le leggi inesorabili del potere, il loro reciproco sostegno? E la stessa cosa vale per la decisione della Cassazione in merito alla questione Carola Rackete; pensavate davvero che accadesse il contrario? Per anni siamo stati abituati a considerare chi è al potere come la Casta. È tempo di fare un salto di qualità e considerare che il potere è oggi piuttosto la Cupola. La casta riguardava solo i privilegi, la Cupola è un assetto di potere interdipendente e non espugnabile in modo fortuito. La cupola è una struttura sovrastante che non accetta né immissioni di estranei, né circolazione delle classi dirigenti, né il minimo cedimento dei suoi assetti consolidati. I suoi metodi e i suoi scopi sono finalizzati alla pura conservazione del potere, allo scambio di favori tra poteri, all’associazione di scopo finalizzata al reciproco sostegno. Quello che il popolino al sud sintetizzava nella formula “mantienimi-che-ti-mantengo”, ossia uno regge l’altro ed ambedue impediscono l’accesso di estranei, outsider.
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L’Argentina può convincere Maduro a lasciare il Venezuela?
Sarà Buenos Aires a convincere Mauro a farsi finalmente da parte? L’avvitarsi della crisi in Venezuela si ripercuote in tutta l’America Latina, generando profonde incertezze riguardo al futuro del continente. «Il ritorno di Juan Guaidó alla presidenza ad interim dell’Asemblea Nacional dopo il farsesco tentativo di Maduro di appropriarsi dell’istituzione dove continua a essere minoranza (pare ormai accertato, dopo che la Russia ha premuto in questo senso) ne ha rafforzato il potere, mettendo in ridicolo quello del dittatore che, seppur goda ancora dell’appoggio di gran parte delle forze armate, comincia a mostrare delle crepe profonde a livello istituzionale e politico». Secondo Arturo Illia, ormai, «è chiaro che un regime come quello di Caracas possa mantenersi in vita solo con la forza, elemento che negli ultimi tempi (complice anche una opposizione divisa e debole) ha dissuaso la popolazione dal manifestare intensamente». Ma questa forza – scrive Illia in uin’analisi sul “Sussidiario” – regge ancora, «perché un eventuale cambio ai vertici del potere significherebbe per i militari che li supportano la perdita di succose provvigioni sia nel controllo di parte dello Stato che del narcotraffico che, ricordiamolo, rappresenta un potere nascosto (ma non troppo)». In altre parole: «Gli interessi economici saldano la dittatura, ma fino a quando?».Di questo passo, «un’economia già distrutta in ogni senso, con un’inflazione talmente forte da rendere aleatorio diffonderne i numeri, precipiterebbe il paese in un caos totale». Quanto alla Russia, «pur spremendo le ricchezze venezuelane fino all’ultima goccia, non potrebbe mai sostenere una normalizzazione (non ha neanche tutti i mezzi per provocarla), anche per l’effetto dell’embargo internazionale che ormai colpisce il Venezuela». A questo punto, sempre secondo Illia, «si tornerebbe ad aver bisogno di una trattativa per gestire i necessari cambi di potere, ormai arrivati al punto di essere necessari: mossa che potrebbe partire da Messico, Uruguay e Argentina, paesi non allineati nell’embargo anche politico imposto dalle condanne che non solo l’Onu ma pure l’Osa (l’Organizzazione degli Stati americani) hanno ribadito in questi giorni di condanna al fallito putsch di Maduro». In particolar modo l’Argentina, dopo il ritorno del peronismo kirchnerista al potere («con misure economiche tali da far impallidire quelle attuate dal precedente governo di Macri, che hanno colpito duramente la classe media e l’intero settore produttivo del paese») ha estremo bisogno degli Usa per risolvere almeno la ristrutturazione del suo debito con il Fmi.Per ottenerne l’appoggio, secondo Illia, Buenos Aires deve inventarsi qualcosa: «E allora ecco la proposta (ormai non tanto velata) di farsi carico di un’intermediazione che possa portare al tanto sperato cambiamento democratico venezuelano». Alberto Fernandez, il nuovo presidente argentino, ha condannato gli eccessi autoritari di Maduro ma ha disconosciuto Elisa Trotta, nomitata Guaidó ambasciatrice del Venezuela a Buenos Aires. «Politica ambigua, quindi, ma anche passaporto per poter dialogare con Maduro un suo eventuale ritiro a Santo Domingo (dove possiede una proprietà favolosa) e poter convincere i vertici militari che lo circondano con la carta di un’amnistia generale». Questo potrebbe favorire l’atteso ricambio, attraverso «le tanto sospirate elezioni». Sono tanti gli ostacoli a questo piano, ammette Illia, ma al momento (esauriti i “pontieri” alternativi) non esisterebbero altri mediatori disponibili, «anche perché lo scacchiere mondiale è alquanto complicato dalla questione Iran-Usa ed è interesse sia degli statunitensi che dei russi non complicare troppo le cose e cercare di risolvere la questione venezuelana politicamente nel minor tempo possibile, prima che un’emergenza economica scoppi con conclusioni che è difficile prevedere».Sarà Buenos Aires a convincere Mauro a farsi finalmente da parte? L’avvitarsi della crisi in Venezuela si ripercuote in tutta l’America Latina, generando profonde incertezze riguardo al futuro del continente. «Il ritorno di Juan Guaidó alla presidenza ad interim dell’Asemblea Nacional dopo il farsesco tentativo di Maduro di appropriarsi dell’istituzione dove continua a essere minoranza (pare ormai accertato, dopo che la Russia ha premuto in questo senso) ne ha rafforzato il potere, mettendo in ridicolo quello del dittatore che, seppur goda ancora dell’appoggio di gran parte delle forze armate, comincia a mostrare delle crepe profonde a livello istituzionale e politico». Secondo Arturo Illia, ormai, «è chiaro che un regime come quello di Caracas possa mantenersi in vita solo con la forza, elemento che negli ultimi tempi (complice anche una opposizione divisa e debole) ha dissuaso la popolazione dal manifestare intensamente». Ma questa forza – scrive Illia in uin’analisi sul “Sussidiario” – regge ancora, «perché un eventuale cambio ai vertici del potere significherebbe per i militari che li supportano la perdita di succose provvigioni sia nel controllo di parte dello Stato che del narcotraffico che, ricordiamolo, rappresenta un potere nascosto (ma non troppo)». In altre parole: «Gli interessi economici saldano la dittatura, ma fino a quando?».
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Onore a Paragone, espulso. Ma che ci faceva tra i 5 Stelle?
Gianluigi Paragone in rotta coi 5 Stelle? Ovvio, data la caratura politica del personaggio. E’ stato l’unico giornalista italiano (televisivo, per giunta) ad aver osato dare spazio a un ultra-eretico come Paolo Barnard, il primo a denunciare l’euro come strumento di dominazione finanziaria post-democratica, dopo essersi speso – con larghissimo anticipo su chiunque altro – nel divulgare in termini popolari, per i non addetti, i fondamentali della materia oscura (economica, finanziaria) che si è impossessata della politica, trasformando i partiti in semplici passacarte, meri esecutori – per lo più ignoranti – di decisioni altrui. Fa decisamente onore, a Paragone, il fatto di venir finalmente espulso dalla congrega grillina che fa da stampella al Pd e tiene in vita l’orrendo governo Conte, protetto dalle cancellerie europee anti-italiane e mantenuto insieme solo dal terrore delle elezioni anticipate, cioè la fine dei privilegi per le centinaia di signori-nessuno che Beppe Grillo ha miracolato, trasformandoli provvisoriamente in parlamentari. A sconcertare, semmai, è la scelta compiuta da Paragone due anni fa, quando decise di candidarsi proprio con loro, i grillini, che avevano già cominciato a gettare la maschera: risale infatti al 2016 il tentato trasloco, a Strasburgo, tra le file dell’Alde iper-eurista, fierissimo dell’infame austerity imposta agli europei.Stupisce che un sincero democratico come Paragone abbia potuto accettare di subire, fin dall’inizio del suo mandato, il ménage finto-democratico che domina l’impostura politica grillina, scandita dal più vuoto degli slogan – uno vale uno – e smentita ogni giorno dalla prassi di bottega, il movimento “detenuto” privatamente da Casaleggio e rappresentato altrettanto privatamente, nei momenti decisivi, dal solo Grillo. Che ci faceva, l’ottimo Paragone, in così pessima compagnia? Cosa sperava di ottenere, impuntandosi nel denunciare gli scempi e i tradimenti del Conte-bis? Come immaginare di ottenere un rigurgito di coscienza dai grillini imbullonati alle poltrone, pronti a smentire oggi e domani quello che solo ieri promettevano? E’ sterminato l’elenco delle vergogne che giustamente Paragone richiama, con l’unico effetto di riscuotere la stima, il rispetto e il consenso dei milioni di elettori che ancora si domandano come abbiano potuto gettare il loro voto nella spazzatura, nel 2018, dando fiducia a Di Maio e soci, credendo davvero che dicessero sul serio quando assicuravano la svolta democratica che il paese attende da trent’anni. Come si può sperare che il riscatto democratico venga da un gregge sottomesso, che in dieci anni non si è mai confrontato democraticamente nemmeno per sbaglio, in un regolare congresso?Proprio l’illustre ospite di Paragone – Paolo Barnard – fu il primo a lanciare l’allarme, in tempi non sospetti: che razza di democrazia ci si può aspettare da una setta politica fanatizzata a comando da due privati cittadini, Grillo e Casaleggio, con potere di vita e di morte su chiunque osi esprimere il benché minimo dissenso? Oggi, gli ometti parcheggiati in Parlamento sanno perfettamente di perdere la faccia, oltre che i voti ingiustamente ottenuti, ma restano dove sono – incollati allo scranno – ben consapevoli del fatto che, alla prossima tornata elettorale, di loro non resterà più nulla. In compenso, ai sommi poteri hanno offerto uno spettacolo memorabile: la rabbia degli italiani elusa e tradita, gli elettori raggirati, gli impegni disattesi. Una colossale presa in giro: all’amo hanno abboccato milioni di elettori, nel paese che più di ogni altro aveva motivo per reclamare una radicale inversione di rotta nella governance europea. Gli eurocrati si saranno divertiti in mondo, nel vedere che un grande paese come l’Italia si è lasciato buggerare dal signor Grillo e dai suoi rivoluzionari all’amatriciana. Non ci voleva molto a capire, fin dall’inizio, che la partita era truccata: il Movimento 5 Stelle non ha mai proposto niente di serio. Zero: non un’idea per cambiare le regole. Solo fumo: le auto blu, i vitalizi e altre stupidaggini. Possibile che non se ne fosse accorto, un giornalista coraggioso e acuto come Gianluigi Paragone?(Giorgio Cattaneo, “Onore a Paragone, espulso: ma che ci faceva, uno come lui, nei 5 Stelle?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 3 gennaio 2019).Gianluigi Paragone in rotta coi 5 Stelle? Ovvio, data la caratura politica del personaggio. E’ stato l’unico giornalista italiano (televisivo, per giunta) ad aver osato dare spazio a un ultra-eretico come Paolo Barnard, il primo a denunciare l’euro come strumento di dominazione finanziaria post-democratica, dopo essersi speso – con larghissimo anticipo su chiunque altro – nel divulgare in termini popolari, per i non addetti, i fondamentali della materia oscura (economica, finanziaria) che si è impossessata della politica, trasformando i partiti in semplici passacarte, meri esecutori – per lo più ignoranti – di decisioni altrui. Fa decisamente onore, a Paragone, il fatto di venir finalmente espulso dalla congrega grillina che fa da stampella al Pd e tiene in vita l’orrendo governo Conte, protetto dalle cancellerie europee anti-italiane e mantenuto insieme solo dal terrore delle elezioni anticipate, cioè la fine dei privilegi per le centinaia di signori-nessuno che Beppe Grillo ha miracolato, trasformandoli provvisoriamente in parlamentari. A sconcertare, semmai, è la scelta compiuta da Paragone due anni fa, quando decise di candidarsi proprio con loro, i grillini, che avevano già cominciato a gettare la maschera: risale infatti al 2016 il tentato trasloco, a Strasburgo, tra le file dell’Alde iper-eurista, fierissimo dell’infame austerity imposta agli europei.
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Mazzucco: dacci oggi il nostro anestetico quotidiano, il Tg
E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».Non è neppure il caso di demonizzare sempre i giornalisti, avverte Marcello Foa nel saggio “Gli stregoni della notizia”: per come è costruita oggi l’industria dell’informazione, dall’alto verso il basso, le redazioni non riescono a uscire dal “frame” imposto loro, a monte, dagli spin doctor governativi. Autocensura spontanea, preventiva e sistematica: «I primi a praticarla – ricorda Mazzucco – sono i direttori: non sarebbero su quelle poltrone, se uscissero dal seminato». In pratica, ogni notizia deve restare recintata nella sua precisa, rassicurante cornice tematica: inammissibile fare collegamenti trasversali, deduzioni, analisi vere e proprie. Un’omissione ormai storica, secondo il severo giudizio del Premio Pulitzer statunitense Seymour Hersh, che oggi licenzierebbe 9 colleghi su 10. Motivo: «Se non avessero smesso di fare il loro mestiere, in questi anni avremmo seppellito meno vittime innocenti: troppe guerre, protette da menzogne non smascherate dalla stampa». Bugie ufficiali, silenzi omertosi: le agenzie di informazione (giornali e Tv) vengono ormai chiamate “presstitutes”, con un gioco di parole, da un ex politico americano che nella “press” credeva, eccome: Paul Craig Roberts, sincero liberale, già viceministro dell’economia con Reagan.Dal canto suo, Mazzucco – fotografo con Toscani e video-reporter, per 15 anni al lavoro come regista e sceneggiatore a Hollywood – incarna la resistenza quotidiana contro l’impero delle favole in mondovisione: ha messo a nudo prima e meglio di altri la scomodissima verità sull’11 Settembre, finendo addirittura in prima serata su Canale 5 grazie a Mentana. Impresa che gli è valsa la patente di complottista, e la messa al bando dagli aventi diritto di parola: «La mia stessa pagina su Wikipedia è controllata dai “debunker”: sono loro a scrivere quello che vogliono, sul mio conto. Se provo a correggere le loro falsità, l’indomani ricompaiono». Indovinato: «Ho rinunciato a fare in modo che Wikipedia dica la verità, riguardo alla mia stessa biografia». Autore di video-inchieste imbarazzanti (sulle cure alternative per il cancro e sulla crociata dell’industria della plastica contro la marijuana, sul vero autore dell’omicidio di Bob Kennendy, sulla manipolazione terrestre dei filmati del mitico allunaggio), Mazzucco è l’ossessione dei disinformatori ufficiali. Contro di lui, hanno intrapreso una lunghissima battaglia mediatica i professori del Cicap e personaggi come Paolo Attivissimo, solerte megafono italiano della Nasa.Mazzucco non ha perso il gusto per il gioco: “Ulisse, il piacere della menzogna” era il titolo di un video realizzato per smascherare le “inesattezze” diffuse da Alberto Angela. La tesi: divulgazione scientifica parziale e tendenziosa, spesso addirittura basata su notizie false. «Ognuno è libero di dire quello che vuole, intendiamoci: a patto però – obietta Mazzucco – che non usi i soldi della Rai, cioè i nostri, per raccontare fandonie». E vogliamo parlare di Piero Angela? «Tempo fa fece un’intera puntata della sua trasmissione per sostenere che tutti gli avvistamenti Ufo fossero sempre spiegabili come fenomeni terrestri: a smentirlo ha ora provveduto ufficialmente la Us Navy. Gli italiani che pagano il canone Rai, sentitamente, ringraziano». Oggi, Mazzucco è seguito da una comunità di almeno cinquantamila cittadini, sulle pagine del blog “Luogo Comune”. Ha anche aperto una sua mini-televisione su web, “Contro Tv”, che non si avvale dello streaming su YouTube: «E’ sempre più sfrontata la censura su Internet che può oscurare pagine Facebook, “bannare” canali video e orientare i motori di ricerca in modo da rendere invisibili le voci scomode: per questo – dice Mazzucco – è meglio prepararsi al peggio, essendo autonomi anche nello streaming».L’esperimento di “Contro Tv” è stato lanciato insieme a Giulietto Chiesa, altra bestia nera dei “debunker”: il suo bestseller “La guerra infinita”, sull’11 Settembre, macinò 70.000 copie in pochi mesi. Non una recensione, sui giornali, nonostante fosse editato da Feltrinelli. «Di tutti i giornalisti italiani famosi – scrisse Paolo Barnard – Chiesa è stato l’unico a rinunciare ai suoi privilegi, mettendo a rischio tutto quello che si era guadagnato sul campo pur di restare fedele alla ricerca della verità». Per la cronaca: fondatore di “Report” con la Gabanelli, Barbard è finito fuori dalla Rai per la sua intransigenza: gli negarono un servizio sugli abusi di Big Pharma. Dopo anni di impegno solitario e titanico – la denuncia del “golpe” di Monti, il saggio “Il più grande crimine” e il lancio della Mmt in Italia con Warren Mosler – oggi Barnard (espulso dal sistema mediatico nazionale) è sparito anche dal web. Nel frattempo, la Exor di John Elkann s’è comprata il gruppo Espresso: un solo editore controlla il grosso della carta stampata, in Italia. L’altra voce (non esattamente alternativa) è quella di Urbano Cairo, patron del “Corriere” e de La7, la rete che affida a Lilli Gruber, Giovanni Floris e Corrado Formigli la guerra santa contro Matteo Salvini, mentre Enrico Mentana dal suo telegionale finge di essere ancora il Mentana di un tempo, simpaticamente indipendente.«Poteva essere il primo degli ultimi, invece ha scelto di essere l’ultimo dei primi», si rammarica Mazzucco, pensando alle recenti sortite del direttore del telegiornale di Cairo. L’accusa: si è allineato al peggiore mainstream. Ovvero: «Nelle sue comode invettive, associa cretinate assolute come la teoria della Terra Piatta a cose ben più serie, come le strane scie persistenti oggi rilasciate dagli aerei e naturalmente l’11 Settembre: la verità ufficiale è crollata, architetti e ingegneri negli Usa hanno dimostrato la demolizione controllata delle Torri e i pompieri di New York si sono rivolti alla magistratura chiedendo di far riaprire i processi, ma Mentana si rifiuta di prenderne atto». Peggio: nella scorsa primavera ha firmato (con Grillo e Renzi) lo sconcertante “Patto per la Scienza” promosso dal vaccinista Claudio Burioni, che di fatto propone che venga lasciata senza fondi la ricerca medica sugli effetti collaterali delle vaccinazioni. «Quello che Mentana evita di ricordare – sottolinea Mazzucco – è che la Puglia ha scoperto che 4 bambini su 10 hanno subito reazioni avverse anche gravi, dopo la somministrazione neonatale dei nuovi vaccini polivalenti». Non solo: «La7 non si premura di ricordare che gli Stati Uniti (dove la Corte Suprema ha dichiarato impossibile avere garanzie sulla sicurezza dei vaccini) hanno finora sborsato 4 miliardi di dollari per indennizzare i danneggiati da vaccino».Ovviamente, di fronte a queste osservazioni, il mainstream bolla come No-Vax (scellerato troglodita) chiunque sollevi dubbi, invocando il “prinicipio di precauzione” citato dalla Costituzione. Con questo risultato, negli Usa: i cittadini sono gli unici a pagare, anche due volte (come contribuenti, ed eventualmente anche come pazienti danneggiati dalle vaccinazioni), mentre Big Pharma è formalmente impunita, per legge, avendo messo le mani avanti. Obiezione: ma se sei certo che i tuoi vaccini siano “sicuri”, perché chiedi allo Stato di coprirti le spalle? Forse perché sai benissimo che le somministrazioni polivalenti – come dicono molti medici, alcuni prontamente radiati – non sono affatto privi di rischi, per neonati ancora sprovvisti dei necessari anticorpi? Mazzucco alza le mani: «Io non sono un medico, né un ricercatore. Non ho competenze scientifiche, non posso trarre conclusioni tecniche. Dico però che c’è un deficit, enorme, di trasparenza e informazione. Viene meno un diritto fondamentale: quello di essere decentemente informati, anche in questa delicata materia che preoccupa tante famiglie». Statistica: per la prima volta nella storia, quest’anno 130.000 bambini italiani (nel dubbio, non vaccinati) sono stati esclusi dai nidi e dalle materne.In prima linea nell’informazione indipendente, con Mazzucco (insieme allo stesso Giulietto Chiesa e alla sua “Pandora Tv”) c’è un video-blogger come Claudio Messora, pionieristico creatore di “ByoBlu”, ora impegnato addirittura di una striscia pre-serale quotidiana: un talskow giornalistico davvero unico. In tandem con Francesco Maria Toscano, Messora riassume le notizie-chiave della giornata, sottoponendole sia alle migliori voci “eretiche” che a personaggi abitualmente televisivi, da Carlo Cottarelli a Edward Luttwak, per una volta alle prese con vere domande. Problema: benché “ByoBlu” sia seguito da una comunità di trecentomila iscritti, da quando ha esordito il suo freschissimo #TgTalk le visualizzazioni dei singoli video sono misteriosamente scese a cinquantamila, almeno stando al report ufficiale del gestore web. Per Mazzucco – che con Messora collabora – c’è il sospetto che sia in atto una censura-ombra, tecnologica, tendente appunto a minimizzare l’inidicizzazione dei contenuti politicamente problematici. Anni fa, l’area critica del web in Italia era quotata attorno ai due milioni di utenti. Oggi, la platea di chi usa Internet per informarsi è aumentata a dismisura. Anche per questo, forse, l’Ue è corsa ai ripari con la sua leggina-bavaglio, nascosta dietro il paravento della tutela del copyright.Nel frattempo, qualcosa sta cambiando in profondità: lo smartphone ti consente di ricevere news in tempo reale (incluse quelle diffuse da Messora, Mazzucco e Chiesa) e i quotidiani italiani sono al capolinea. John Elkann potrà pure comprarsi “Repubblica” e “l’Espresso”, ma intanto i quotidiani – tutti, messi assieme – ormai vendono meno di 600.000 copie. Vorrà pur dire qualcosa, sottolinea un veterano come Gigi Moncalvo, costretto a smerciare tramite il suo sito gli scottanti libri-inchiesta sulla dinastia Agnelli, letteralmente spariti dalle librerie. «Semplicemente – dice Moncalvo – i giornali hanno smesso di raccontare quello che succede, e i lettori se ne sono accorti». Tiene ancora banco il telegiornale, soprattutto come abitudine, ma la fiducia verso la categoria giornalistica è ai minimi storici. In Italia, del resto, vent’anni fa erano ancora in circolazione Biagi, Bocca, Montanelli e Zavoli, insieme a Gianni Minà e Oriana Fallaci. Lo stesso Barnard, per dire, scriveva sul “Corriere della Sera”. Giulietto Chiesa firmava corrispondenze da Mosca per il Tg5. Uno dei pochissimi reporter italiani scomodi, Gianni Lannes, è quasi scomparso dai radar. Siamo in un torbido Tempo di Mezzo, in cui niente è come sembra. La differenza la fanno quelli come Mazzucco: intanto, dicono tutto quello che sanno. E spesso poi il mainstream, sempre reticente, è costretto a tenerne conto, anche se affila le sue armi per silenziare il più possibile le voci che smontano e ridicolizzano la patetica verità ufficiale.E’ vero che nel Paese della Libertà ci sono decine di reti televisive teoricamente indipendenti e commerciali. Ma anche l’informazione locale – in ogni Stato della confederazione più potente del mondo – fa comunque capo agli unici 4 grandi network che dispensano il Vangelo secondo il Potere. Lo ricorda Massimo Mazzucco, nella sua video-chat settimanale con Fabio Frabetti di “Border Nights”: gli Usa non sfuggono alla legge delle news precotte dal medesimo, supremo cervello. «Puoi guardare la Tv dell’Alabama o quella del Wisconsin, ma il risultato è lo stesso: per le notizie nazionali e internazionali, ascolterai addirittura le stesse parole, le stesse espressioni, come se i dispacci fossero stati fotocopiati». Succede anche in Italia, ovviamente: «Se segui un telegiornale e poi l’altro, in parallelo – Rai, Mediaset, La7 – scopri che le prime sette notizie sono sempre uguali, recitate nello stesso modo. A cambiare è solo la nota di colore, in coda: il gattino salvato dai pompieri». Risultato: «Il telegiornale è un grande anestetico: ti dà l’illusione di avere il controllo di quello che succede. Anche se ovviamente non è vero, ti convince di essere messo al corrente dell’essenziale».
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Macché nozze, gli Agnelli hanno venduto la Fiat alla Francia
«Ma quali nozze? Quello tra Peugeot-Psa e Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di Fiat-Chrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista si chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam. E l’Italia? E Torino? Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti-cacciavite». Così parla Riccardo Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista, intervistato da Stefano Rizzi per “Lo Spiffero”, giornale online diretto dal torinese Bruno Babando. «A Torino – ricorda Rizzi – Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina». Figlio e nipote di operai, Ruggeri cominciò proprio come operaio a Mirafiori, per poi diventare impiegato e infine dirigente, al vertice del colosso New Holland: per anni è stato «uno dei top manager più vicini all’Avvocato».Consulente di livello internazionale, ma anche voce dura e spesso fuori dal coro, capace di analisi affilate. Qualcuno, annota Rizzi, gli dato pure del populista, quando ha «imbroccato con buon anticipo lo scenario che si sarebbe verificato con quel matrimonio, che tale non è». Aggiunge il giornalista: Ruggeri «sa che a molti non piace che qualcuno scriva quel che poi si avvera, ma lui lo fa lo stesso da almeno dieci anni». Come mai, dunque, la Fiat sarebbe “morta” un decennio fa? «Bisogna partire proprio da lì, per capire quelle che con un’altra finzione continuano ad essere definite nozze tra Peugeot e Fca», premette Ruggeri. «Intanto non è vero che Fiat fosse tecnicamente finita quando arrivò Sergio Marchionne nel 2004», aggiunge l’ex manager. Il fattaccio «succede invece nel 2009, quando Moody’s taglia il rating e declassa il titolo a spazzatura». Finanza, dunque. «Due mesi dopo il presidente degli Stati Uniti Obama si trova nella situazione di dover salvare Chrysler. Tutti gli altri costruttori del mondo avevano declinato la richiesta, rimaneva solo Fiat. E salvando Chrysler ha salvato Fiat. Prese una decisione che i nostri finti liberisti non avrebbero mai preso». Per Riccardo Ruggeri, in Italia questo non sarebbe potuto accadere: «Il governo italiano faceva finta che la Fiat non fosse di fatto fallita, non ha voluto metterci quattrini e di conseguenza ce li ha messi Obama».Insiste Ruggeri: è stato Obama ad affidare il gruppo «a una persona straordinaria come Marchionne», al quale ha detto di fare gli interessi dell’azionista. «E Marchionne lo ha fatto». Per Ruggeri, Marchionne «si è reso conto che non c’erano possibilità di risanamento». E così, «da quel momento ha smesso di fare il manager ed è diventato un “deal maker”», cioè un operatore finanziario «abilissimo a fare il massimo interesse degli azionisti, che non erano solo Agnelli, ma anche l’establishment americano, dopo la privatizzazione fatta da Obama». Quindi, secondo Ruggeri, è da lì che comincia quell’operazione di preparazione alle dismissioni, la “donazione di organi” dell’ex gigante italiano dell’automotive. «Da quel momento la Fiat Auto è morta», afferma Ruggeri. «Marchionne per anni ha presentato piani strategici che in parte hanno nascosto la realtà: la Fiat se ne va e all’Italia non resta più un’industria dell’automobile». Sottolinea l’ex manager: «Caso unico: nessuno al mondo, salvo il nostro paese, ha rinunciato all’industria automobilistica. I governi di centrodestra e di centrosinistra dell’epoca si guardarono bene dal fare come Obama, nazionalizzare per poi privatizzare, mantenendo però governance, cervelli e lavoro negli Stati Uniti».L’Italia, continua Ruggeri, «ha perso la sua centenaria industria dell’auto seguendo teorie intellettualoidi di miserabili leadership nostrane». Ora la realtà è ridotta alle briciole di Mirafiori, Melfi, Termini Imerese e Pomigliano d’Arco: «Ci sono rimasti quattro stabilimenti il cui destino è nelle mani dell’acquirente francese. Bisogna prenderne atto. Non raccontiamoci la balla che l’Italia conti qualcosa». Si sarebbe potuto salvare Fiat tenendola in Italia? «Io sono convinto di sì, per esempio vendendola a Mercedes», risponde Ruggeri, «ma all’epoca si decise di no». Invece, sottolinea Rizzi, si proseguì con operazioni vantaggiose per gli azionisti mentre ormai il gruppo era fuori dall’Italia, fino ad arrivare a quello che, poche settimane fa, è stato annunciato e salutato come un matrimonio. «Esatto. La vendita a Peugeot è l’ultimo atto di una strategia concepita in modo impeccabile da Marchionne, finalizzata esclusivamente agli interessi degli azionisti». Prima è stata la volta di Cnh e Iveco, poi lo scorporo di Ferrari, poi ancora la vendita di Magneti Marelli che ha fruttato 6 miliardi. E adesso siamo ai titoli di coda, con quelle che chiamano ancora “nozze” con Peugeot.«Tutti devono sapere che, come è successo, quando il compratore liquida al venditore un cedolone da 5,5 miliardi significa che è lui a comandare», sottolinea Ruggeri. «In pratica Peugeot si è comprata Fca pagando un premio del 25-32%». Riassume lo “Spiffero”: per l’ennesima volta, gli azionisti hanno fatto un affare sulla pelle del paese, che ci ha rimesso (dopo aver sostenuto la Fiat per decenni, con aiuti di Stato e cassa integrazione). Cosa c’è da aspettarsi ancora, dopo le finte nozze con i francesi? «Il Ceo Tavares presto incomincerà a ristrutturare, ad eliminare sovrapposizioni: a tagliare, insomma». Riccardo Ruggeri ha una visione chiarissima della situazione: «La produzione di modelli medio-piccoli tra Peugeot, Opel e Fca è in eccesso», avverte. «Dovendo scegliere tra uno stabilimento in Francia, ma anche in Germania, e uno in Italia, avendo un azionista che si chiama Macron e un accordo con la Merkel, cosa pensate che farà?». Bella domanda, da girare magari al povero Landini, che all’epoca si scontrò con Marchionne. Inutile invece recapitarla a Palazzo Chigi, al fantasma di Conte, o ai partiti (tutti: Lega, 5 Stelle, Pd e Forza Italia) assolutamente sordomuti di fronte alle “finte nozze” dei torinesi, che intascano 5 miliardi e mezzo lasciando ai francesi il compito di smontare quel che resta della Fabbrica Italia di cui cianciava l’abilissimo Marchionne.«Ma quali nozze? Quello tra Peugeot-Psa e Fca non è un matrimonio, ma una compravendita. I francesi hanno acquistato un’azienda americana perché interessati al marchio Jeep-Ram e gli azionisti di Fiat-Chrysler hanno ricevuto una barca di soldi. Però nessuno si stupisca quando il ceo del nuovo gruppo, Carlos Tavares, dovendo fare tagli privilegerà gli impianti d’Oltralpe e quelli tedeschi: il suo azionista si chiama Emmanuel Macron e con la cancelliera Angela Merkel per Opel ha un accordo che blocca ogni licenziamento e che durerà almeno fino al 2023. Il quartier generale sarà a Parigi, la sede fiscale ad Amsterdam. E l’Italia? E Torino? Ne escono sconfitte stupidamente, continuando a fare finta che la Fiat Auto non sia morta, invece lo è dal 2009. A Torino è rimasta una targa e quattro stabilimenti-cacciavite». Così parla Riccardo Ruggeri, ex top manager di corso Marconi e acuto saggista, intervistato da Stefano Rizzi per “Lo Spiffero“, giornale online diretto dal torinese Bruno Babando. «A Torino – ricorda Rizzi – Riccardo Ruggeri è nato 84 anni fa, infanzia in una portineria di 15 metri quadrati dove i genitori abitavano con i nonni e lui dormiva su una brandina in cucina». Figlio e nipote di operai, Ruggeri cominciò proprio come operaio a Mirafiori, per poi diventare impiegato e infine dirigente, al vertice del colosso New Holland: per anni è stato «uno dei top manager più vicini all’Avvocato».
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Grillo-horror: via il voto agli anziani. Anche a Mattarella?
Tagliare, escludere, eliminare. In una parola: togliere. Password: “meno”. A Beppe Grillo, le parole “diritti” e “voto” procurano l’orticaria? Se si aggiunge il terzo vacabolo, “anziani”, si ottiene questo titolo: “Se togliessimo il diritto di voto agli anziani?”. Levàteje er fiasco, si potrebbe commentare, bonariamente, in romanesco. Film consigliato: “La ballata di Narayama”, di Shōhei Imamura, Palma d’Oro a Cannes nell’83. Trama: in un villaggio, al settantesimo compleanno gli anziani vengono esiliati su una montagna, dove attenderanno la morte. Si può concepire qualcosa di più mostruoso? Forse sì: nei ghetti della Polonia, per esempio, gli ebrei non vivevano giorni allegri, in attesa della deportazione che li avrebbe trasformati in cenere. Prendersela con gli anziani nel 2019 in un paese come l’Italia, poi, aggiunge alla demenzialità una vena di perfidia vagamente totalitaria. E’ una minaccia disgustosa, ma sembra anche una vendetta: contro le generazioni che hanno fatto dell’Italia la quarta potenza industriale del pianeta, pur in un paese insidiato da mali endemici come l’evasione fiscale da record, l’elevato tasso di corruzione politica e la pervasività delle mafie. Per buon peso, l’Italia appena uscita dal boom del dopoguerra dovette vedersela anche col terrorismo. Ma tenne duro ugualmente, grazie a quei cittadini – ora anziani – che il signor Giuseppe Piero Grillo propone di privare del diritto di voto.«Ci sono semplicemente troppi elettori anziani e il loro numero sta crescendo. Il voto non dovrebbe essere un privilegio perpetuo, ma una partecipazione al continuo destino della comunità politica, sia nei suoi benefici che nei suoi rischi». A di là della citazione cosmetica (Douglas J. Stewart) queste parole sarebbero state perfette per un tipetto come Joseph Goebbels: a chi altri poteva venire in mente l’espressione “troppi elettori”, per giunta “anziani”? Una proposta, scrive Grillo, «già ampiamente discussa dal filosofo ed economista belga Philippe Van Parijs», pensatore contemporaneo «tra i più grandi sostenitori del reddito universale» (che infatti trovò abusiva l’espressione “reddito di cittadinanza” coniata dai grillini per mascherare la ridicola elemosina elargita col contagocce da Luigi Di Maio). Il voto sarebbe un “privilegio perpetuo”? E certo: che belli, i tempi in cui il voto non esisteva proprio, e il Re poteva tagliare la testa a chi voleva, senza nemmeno un processo. Ma non era diventato un diritto, nel mondo contemporaneo, il suffragio universale? Non è stato introdotto, come conquista storica, da quel pezzo di carta chiamato Costituzione? Perché allora qualcuno pensa che sia così affascinante, tornare di colpo all’età della pietra? Fiato sprecato, se questo qualcuno è il privato cittadino che, occasionalmente, emana diktat cui deve allinearsi il partito-gregge più rappresentato nell’attuale Parlamento italiano.Il signor Grillo – non eletto, mai votato da nessuno eppure padrone feudale del marchio 5 Stelle – è la stessa persona che esortava gli ignari valsusini, con parole incendiarie, a lottare contro il Tav Torino-Lione (demonizzato come un Moloch del terzo millennio), salvo poi liquidarli, alla stregua di un branco di ottusi montanari, non appena gli fu chiaro che la recita era durata abbastanza, dato che era tempo di cambiare aria, spartito e compagnia di giro. Stessa storia in Puglia (Ilva, Tap) e in Sicilia (Muos di Niscemi). Armiamoci e partite, ma per finta: le trivelle in Adriatico, gli F-35. E vogliamo parlare di obbligo vaccinale? Milioni di voti, nel 2018, mietuti anche con la promessa free-vax della libertà di scelta. Meno di un anno dopo, la firma (con l’amico Renzi) dell’aberrante “Patto per la Scienza” scarabocchiato dal propagandista pro-vax Claudio Burioni. Dulcis in fundo, il taglio dei parlamentari: irrilevante sul piano finanziario ma gravido di minaccia sotto l’aspetto politico, contro la libertà di deputati e senatori. “Troppi”, anche loro, come gli anziani: gli uni da trasformare definitivamente in marionette abilitate solo a pigiare tasti secondo ordini prestabiliti, gli altri da esiliare – alla loro veneranda età – tra il ciarpame umano, ormai inutile. Per dire: il capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha compiuto 78 anni lo scorso 23 luglio. Che facciamo, togliamo il diritto di voto anche a lui?Il presidente più amato dagli italiani, Sandro Pertini, aveva quasi novant’anni alla scandenza del mandato. E di anni ne aveva 80 Stefano Rodotà, quando i grillini volevano che diventasse presidente dopo Napolitano, altro “giovanotto” della Repubblica (classe 1925). E che dire dei vegliardi richiamati in servizio honoris causa, come senatori a vita? Nomi da niente: Toscanini e Sturzo, Ferruccio Parri, Meuccio Ruini, Pietro Nenni. E poi Eugenio Montale, Eduardo De Filippo. E Norberto Bobbio, Rita Levi Montalcini, Renzo Piano, Carlo Rubbia. Vecchie ciabatte, da gettare nel cassonetto? Ma sarebbe un errore opporre il lume della ragione al delirio, sempre piuttosto sinistro e tendenzioso, del signor Beppe: «L’idea», la chiama. Grande idea, non c’è che dire. «Nasce dal presupposto che una volta raggiunta una certa età, i cittadini saranno meno preoccupati del futuro sociale, politico ed economico, rispetto alle generazioni più giovani». Ma saranno fatti loro, no? Macché: «I loro voti – scrive il blogger più pericoloso d’Italia – dovrebbero essere eliminati del tutto, per garantire che il futuro sia modellato da coloro che hanno un reale interesse nel vedere realizzato il proprio disegno sociale». Attenzione: gli anziani, quei ribaldi, «saranno molto meno propensi a sopportare le conseguenze a lungo termine delle decisioni politiche». Quindi imbracceranno le armi e daranno l’assalto al Palazzo d’Inverno, creando il Soviet dei Novantenni per abbattere la democrazia?Argomenta il feldmaresciallo Grillo: «Se un 15enne non può prendere una decisione per il proprio futuro, perchè può farlo chi questo futuro non lo vedrà?». Magistrale coerenza: anziché abilitare il 15enne, meglio disabilitare anche il nonno. Oltretutto, costa meno: è la filosofia-canaglia dell’élite che ha promosso l’austerity altrui. Un piano – ora se ne sono accorti tutti – a cui il Movimento 5 Stelle ha fatto da stampella, traghettando verso l’area del vecchio potere i voti in libera uscita, ingannati dallo slogan “uno vale uno” prima di scoprire che, nella caserma pentastellata, “uno vale zero”. E non è finita: varrà meno di zero il singolo parlamentare: sfoltita la scolaresca, ci sarà posto solo per i fedelissimi delle segreterie. Se poi venisse imposto anche il vincolo di mandato, cadrebbe anche l’ultimo frammento di dignità parlamentare. Tanto varrebbe chiuderlo del tutto, il Parlamento, privatizzando anche il voto, magari con il ricorso a tragiche barzellette come la piattaforma Rousseau. A 71 anni suonati, lo stesso Grillo non cessa di disorientare sapientemente i seguaci con le sue supercazzole, tanto per sembrare brillante, magari stravagante ma libero, senza burattinai alle sue spalle. Sicuri? Ha smontato il governo gialloverde restituendo i voti degli incauti elettori agli antichi dominatori, i privatizzatori del Britannia, che non hanno mai perdonato al nostro paese la sua irriducibile capacità economica.Per pura combinazione, infatti, l’armata Brancaleone ora insediata a Palazzo Chigi s’è messa ad agitare, con la bava alla bocca, i vessilli dell’ultima crociata nazionale: quella contro gli scontrini della porta accanto. Guerra al bieco evasore: il barista, l’idraulico, l’elettricista. Perfidi untori, subdoli affossatori del Belpaese. Dal palco, già risuona il tinninnio delle manette evocate dal giulivo Travaglio, giornalista incapace – in tutti questi anni – di formulare una sola parola di analisi sull’euro-crisi italiana. Tutto questo, mentre il governicchio di “Giuseppi” s’inchina ai signori di Bruxelles che tollerano i paradisi fiscali dell’Unione Europea (Olanda, Lussemburgo) che drenano miliardi all’Italia, ogni anno, con il loro scandaloso dumping. Ma discutere con l’Ue non è roba per l’asceta Grillo: è vero, ai tempi belli si divertiva a straparlare di referendum sull’euro, ma poi ha tentato di traslocare il gruppo europarlamentare direttamente tra i banchi di Mario Monti. Il Beppe ormai preferisce bersagli più alla buona: quei gaglioffi dei parlamentari italiani, quel mascalzone del gelataio che non emette sempre lo scontrino. E ora pure i nonni, finiti nella “bad list” del teologo ligure.Del resto, perché mai aver cura dei pensionati, quando c’è in ballo il futuro dei giovani? Meglio ancora: c’è da pensare addirittura ai nascituri. «Le generazioni non nate – aggiunge infatti il messia genovese – sono, sfortunatamente, incapaci di influenzare le decisioni che prendiamo qui ed ora. Tuttavia, possiamo migliorare il loro destino spostando il potere decisionale verso chi tra noi dovrà interagire con loro». E pazienza se i pensionati, maltrattati dall’Inps e pieni di acciacchi, costretti a trascinarsi tra corsie ospedaliere in attesa di referti clinici che non arrivano mai, ora dovranno anche imparare a usare le carte di credito pure per le medicine, rinunciando a quell’orribile robaccia del contante. Fino a sei mesi fa, si parlava di moneta parallela per ovviare alla scarsità artificiosa di liquidità imposta dalla Bce. Ora siamo all’eliminazione delle banconote: sottrarre, ridurre. Sempre meno, questa è la legge. E già che ci siamo, perché non togliere agli anziani anche il diritto di voto? L’unica buona notizia, probabilmente, è che “le generazioni non nate” non avranno la fortuna di ascoltare, in diretta, le memorabili esternazioni del signor Grillo, il profeta beffardo ma in realtà servizievole, amico del potere che sta preparando, anche per loro, un mondo meraviglioso in cui i vecchi saranno gentilmente invitati a sbrigarsi a crepare. E possibilmente senza disturbare: magari spediti in esilio su una montagna giapponese, come nel film di Imamura.(Giorgio Cattaneo, “Grillo-horror: via il voto agli anziani. Anche a Mattarella?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 19 ottobre 2019).Tagliare, escludere, eliminare. In una parola: togliere. Password: “meno”. A Beppe Grillo, le parole “diritti” e “voto” procurano l’orticaria? Se si aggiunge il terzo vacabolo, “anziani”, si ottiene questo titolo: “Se togliessimo il diritto di voto agli anziani?”. Levàteje er fiasco, si potrebbe commentare, bonariamente, in romanesco. Film consigliato: “La ballata di Narayama”, di Shōhei Imamura, Palma d’Oro a Cannes nell’83. Trama: in un villaggio, al settantesimo compleanno gli anziani vengono esiliati su una montagna, dove attenderanno la morte. Si può concepire qualcosa di più mostruoso? Forse sì: nei ghetti della Polonia, per esempio, gli ebrei non vivevano giorni allegri, in attesa della deportazione che li avrebbe trasformati in cenere. Prendersela con gli anziani nel 2019 in un paese come l’Italia, poi, aggiunge alla demenzialità una vena di perfidia vagamente totalitaria. E’ una minaccia disgustosa, ma sembra anche una vendetta: contro le generazioni che hanno fatto dell’Italia la quarta potenza industriale del pianeta, pur in un paese insidiato da mali endemici come l’evasione fiscale da record, l’elevato tasso di corruzione politica e la pervasività delle mafie. Per buon peso, l’Italia appena uscita dal boom del dopoguerra dovette vedersela anche col terrorismo. Ma tenne duro ugualmente, grazie a quei cittadini – ora anziani – che il signor Giuseppe Piero Grillo propone di privare del diritto di voto.
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Di Maio ci offre un caffè: tanto vale il taglio delle Camere
Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.«Cosa bolle in pentola nello Stivale?», si domanda Giannini. «Questioni di una pericolosità senza precedenti, ma il governo – afferma – reagisce cercando di distrarre l’opinione pubblica con un provvedimento forse condivisibile ma economicamente ridicolo». Secondo Giannini, si tratta di una strategia «comprensibile dal punto di vista mediatico, ma che fallirà». C’è ben altro, sulla bilancia: «I dazi Usa contro il nostro paese sono un monito terrificante: gli americani ci lasciano al nostro destino, cioè soli di fronte alle arroganti violenze economico-finanziarie e geopolitiche francesi e tedesche». Visione impietosa: «Più che una penisola siamo una barchetta, o meglio un barcone in attesa di un… ciclone». E non è per niente casuale, secondo Giannini, che tutto ciò «coincida con l’emergere di questioni oscure riguardanti servizi segreti e spionaggio internazionale (vedasi il premier Conte), perché queste questioni le hanno volute rendere pubbliche proprio gli Usa». Esplicito e brutale, per Giannini, il messaggio dello Zio Sam: cari italiani, non siete più il nostro partner privilegiato in Ue.«Se si esclude il periodo della Seconda Guerra Mondiale – aggiunge Giannini – ho la vaga (e fondata) sensazione che i rapporti del governo italiano con gli americani non siano di buon sangue». Nel frattempo, purtroppo, «si riacutizza il problema delle tragedie nel Mediterraneo, causate dalla ingannevole attrattiva dei porti di nuovo aperti». Ingannevole, certo, «perché attraversare il mare in mano a degli scafisti per giungere in un paese privo di lavoro è una trappola», piaccia o no al pelosissimo buonismo nazionale, caro ai sacerdoti del politically correct. Comunque la si veda, siamo in un oceano di guai. «E proprio in questo contesto si inserisce il dimezzamento dei parlamentari». Ebbene: «Quanto fa risparmiare a ogni italiano? Il costo di un caffè all’anno». Solo fuffa, dunque, e senza neppure un disegno istituzionale alle spalle: si teme infatti che la nuova legge elettorale (ridisegno dei collegi, per adeguarli alla riduzione della rappresentanza) verrebbe improvvisata in extremis, in base alla convenienza del momento dettata dai sondaggi. Per ora i partiti hanno votato compatti, sfilando a Di Maio il monopolio dell’eroica riforma, che poi non è ancora detto che diventi davvero legge. Intanto, Giannini osserva: «Stiamo ballando sul Titanic, e i pentastellati stanno elargendo “generosamente” dilettantismo: un dilettantismo che non ha i tratti del solo Luigi Di Maio».Sapete quanto vale, nelle nostre tasche, il regalone che ci ha appena fatto Luigi Di Maio con il taglio di un terzo dei parlamentari? Un caffè all’anno, per ognuno di noi. Che lusso, davvero. A fare il conticino della vergogna è l’antropologo Marco Giannini, già grillino “eretico”, in rotta con Grillo e soci dopo il tentato trasbordo, a Strasburgo, tra le fila degli euro-fanatici dell’Alde, il club “lacrime e sangue” di Verhofstadt e Monti. E’ passato qualche anno: all’epoca, Di Maio e Di Battista cantavano ancora nello stesso coro, all’opposizione. Poi è arrivata l’anomala e precaria stagione “grilloverde”, con Di Maio trasformato in vicepremier “di cittadinanza” per tentare di mascherare i bidoni rifilati, uno dopo l’altro, agli elettori del MoVimento. Ma che la recita stesse per finire lo si capì già in primavera, quando Grillo firmò (con Renzi, tu guarda) il mitico “Patto per la Scienza”, cioè il tradimento definitivo di qualsiasi promessa “free-vax”. E infatti adesso eccoli là, Beppe e Matteo, impegnati a tenere in piedi l’imbarazzante Conte-bis, anche col penoso stratagemma della riduzione del numero di deputati e senatori. Depistaggi puerili, sembra dire Giannini: l’Italietta traballa, strattonata tra Usa e Russia e tritata dall’asse franco-tedesco che la costringe a grattare il fondo del barile (leggasi Iva). All’orizzonte, il nulla sta per essere oscurato dal peggio? Ma niente paura: ecco il prode Di Maio che sforbicia il Parlamento.
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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Carpeoro: Fusaro (oscurato da Fb) mi ricorda Franco Freda
«Facebook ha commesso l’ennesimo abuso, chiudendo anche le pagine del neonato movimento Vox Italia guidato da Diego Fusaro, le cui idee peraltro mi ricordano sinistramente quelle di Franco Freda». E’ una vera e propria bomba quella che Gianfranco Carpeoro sgancia sul giovane filosofo torinese, leader mediatico della nuovissima formazione “sovranista”. Vox Italia è stata battezzata ufficialmente il 14 settembre all’Hotel Quirinale di Roma alla presenza – fra gli altri – dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «A proposito: da Galloni mi aspetto un chiarimento – aggiunge Carpeoro – visto che è stato inserito nel comitato di presidenza della nuova formazione: per il Movimento Roosevelt non è un problema, ma Nino è anche fondatore del progetto del Psai, “Partito che serve all’Italia”, che invece esclude che si possa essere iscritti ad altri partiti». E poi: che c’entra, Galloni, col “rossobrunismo” di Fusaro e soci, che si ispirano al tradizionalismo del russo Alexandr Dugin, considerato l’ideologo del conservatore Putin? Fusaro riesce a mettere insieme il comunista Gramsci e il fascista Gentile, in linea con il “fasciocomunismo” del suo maestro, Costanzo Preve. E Franco Freda, citato da Carpeoro? Si è definito “nazi-maoista”, per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo.Decisamemte ardito, il parallelismo tra Fusaro – brillante intellettuale-contro, spesso coccolato dai media mainstraim – e il neofascista Freda, condannato per gli attentati dinamitardi del 1969 e indagato per la strage di piazza Fontana insieme al terrorista Giovanni Ventura e al giornalista Guido Giannettini, agente dei servizi segreti e militante dell’estrema destra negli anni di piombo. Cosa accomunerebbe l’editore Freda, fondatore di Ordine Nuovo, all’antagonista salottiero Fusaro? Forse, par di capire – ascoltando la diretta web-streaming del 22 settembre su YouTube – l’avvocato milanese, nonché saggista e massone progressista, allude al pericolo cui Fusaro potrebbe esporsi: un certo estremismo ideologico, in Italia, è stato puntualmente manipolato dai poteri che orchestrano la sovragestione del consenso, in altri tempi anche alimentando le nebulose ideologiche da cui, nel peggiore dei casi, scaturì anche il terrorismo, spesso controllatro dai servizi deviati. In video-chat con Fabio Frabetti di “Border Nights”, Carpeoro sembra domandarsi a chi possa essere utile, davvero, il “socialismo nazionale sovranista” agitato da Fusaro, messo in campo formalmente – con Vox Italia – dopo l’uscita di Salvini dal governo.Per Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, Fusaro è solo uno specchietto per allodole: comodo perché innocuo, come il suo intellettualismo presentato dai media come stravagante e quasi divertente, perfetto per mettere in burletta il tema, serissimo, della perdita di sovranità democratica imposta dall’euro-sistema. Carpeoro invece non esita a scomodare il fantasma di Freda, autore della collana editoriale Ar, che Wikipedia definisce “di ispirazione neofascista, tradizionalista e neonazista”. Strano, poi, che Facebook abbia chiuso le pagine di Vox Italia, poco dopo aver cancellato quelle di CasaPound: un movimento, quello neofascista Simone Di Stefano, che secondo il socialista Carpeoro, «pur essendo politicamente impalpabile, quanto a consistenza numerica, è stato regolarmente strumentalizzato, a prescindere dalle iniziative sociali anche valide che porta avanti». Probabilmente, aggiunge l’avvocato, il quadro si fa meno misterioso se si collega il network di Zuckerberg agli ambienti dell’intelligence. «Quella del giovane fenomeno che si è fatto da sé grazie a un’idea geniale è solo una leggenda», ricorda Carpeoro: «Facebook è una creazione della Cia, spiazzata di fronte all’opinione pubblica americana traumatizzata dall’11 Settembre».Di fronte alla necessità di schedare milioni di americani, il servizio di sicurezza partorì l’escamotage: fare in modo che fossero i cittadini stessi ad auto-schedarsi, con tanto di foto e “amici”. E’ un fatto: Zuckerberg, il manovale dell’operazione, ricevette 30 milioni di dollari da una consociata della holding Cia. «Ci sono passato anch’io, in questa commistione tra Facebook e i servizi segreti», racconta Carpeoro, che nel 2010 si vide chiudere la sua pagina col pretesto di una vignetta sul Papa. Chiese di riavere almeno i contenuti pubblicati, ma glielo negarono: scoprì a sue spese, allora, che il social network è l’unico proprietario dei testi, delle foro e dei video presenti nelle pagine personali. «Denunciai la cosa alla Procura di Milano, ma – scaduti i sei mesi di rito – scoprii che della mia denuncia non c’era giù traccia: era stata fatta sparire». L’avvocato racconta di aver ricevuto ben tre visite, da parte dei servizi italiani: «Mi fecero capire che processare Facebook “non era cosa”». Lui passò al contrattacco: «Come farete – disse – a far sparire 365 denunce, se sporgessi una querela al giorno in tutte le sedi giudiziarie italiane?». Alla fine, ricorda, gli proposero un accordo: avrebbe avuto una nuova pagina, nella quale gli sarebbero stati restituiti tutti i contenuti sottratti. «Accettai, anche se non è giusto».«C’è qualcosa di non democratico, in tutto questo, di non perfettamente legale», ribadisce Carpeoro. In altre parole, «lo Stato protegge precise aree di illegalità, perché fanno comodo al potere». La riprova? «Per aprire il suo locale, il pizzaiolo sotto casa deve firmare scartoffie per sei mesi e poi riceverà la visita della Guardia di Finanza. E invece Amazon, Google e affini aprono mega-servizi dalla sera alla mattina, facendo milioni a palate, e poi non pagano neppure le tasse in Italia». Come se ne esce? «Pretendendo il rispetto della piena legalità». Esempio: «Va bene sgomberare la palazzina illegalmente occupata da CasaPound a Roma, ma perché tollerare che i centri sociali di Milano continuino a occupare analogamente i loro spazi, cioè senza pagare affitto e bollette?». Di fronte al bavaglio imposto da Fecebook, in ogni caso, Carpeoro difende sia CasaPound che Vox Italia: «E’ vero che Facebook è un’azienda privata, ma lo spazio che usa – il web – è pubblico. Ed è ora che questo spazio venga legalmente regolamentato, mettendo fine a questa vergogna».«Facebook ha commesso l’ennesimo abuso, chiudendo anche le pagine del neonato movimento Vox Italia guidato da Diego Fusaro, le cui idee peraltro mi ricordano sinistramente quelle di Franco Freda». E’ una vera e propria bomba quella che Gianfranco Carpeoro sgancia sul giovane filosofo torinese, leader mediatico della nuovissima formazione “sovranista”. Vox Italia è stata battezzata ufficialmente il 14 settembre all’Hotel Quirinale di Roma alla presenza – fra gli altri – dell’economista post-keynesiano Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt. «A proposito: da Galloni mi aspetto un chiarimento – aggiunge Carpeoro – visto che è stato inserito nel comitato di presidenza della nuova formazione: per il Movimento Roosevelt non è un problema, ma Nino è anche fondatore del progetto del Psai, “Partito che serve all’Italia”, che invece esclude che si possa essere iscritti ad altri partiti». E poi: che c’entra, Galloni, col “rossobrunismo” di Fusaro e soci, che si ispirano al tradizionalismo del russo Alexandr Dugin, considerato l’ideologo del conservatore Putin? Fusaro riesce a mettere insieme il comunista Gramsci e il fascista Gentile, in linea con il “fasciocomunismo” del suo maestro, Costanzo Preve. E Franco Freda, citato da Carpeoro? Si è definito “nazi-maoista”, per le sue teorie a metà strada tra nazismo e maoismo.
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Non morì in croce e aveva 43 anni: l’altro Gesù, quello vero
Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità.E’ la possibile, vera storia di Yehoshua di Gàmala, poi ribattezzato Gesù di Nazareth (villaggio che all’epoca probabilmente non esisteva ancora), secondo l’affascinante ricostruzione che il biblista Mauro Biglino fornisce insieme a Francesco Esposito, studioso del cristianesimo delle origini. Ne parlano nell’avvincente saggio “Dei e semidei”, che esplora “il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”. A differenza dei negazionisti, anche autorevoli, che escludono categoricamente la reale storicità del personaggio, i due ricercatori sono propensi a credere che quel “rabbi giudeo messianista”, poi trasformato nella fonte stessa del successivo cristianesimo, sia realmente esistito. Doveva essere un individuo temerario, capace di sfidare il peggior potere: cioè le armi dei colonialisti romani e quelle dei loro alleati e collaborazionisti, i vari Erode e la potente casta sacerdotale del Sinedrio di Gerusalemme. Caduto il Tempio nel 70 dopo Cristo, quella stessa nomenklatura (che era stata capace di denunciare a Pilato il rivoltoso) finirà poi per trasferirsi a Roma, ottenendo di beneficiare di una vita dorata tra i lussi della capitale, come premio per aver ceduto all’impero l’ingente tesoro ebraico, mettendo così fine a ogni ulteriore tentativo di insurrezione nazionalistica. E proprio Roma, secoli dopo, diverrà la capitale della nuova religione.“Dei e semidei” esplora lo strano rapporto tra il futuro “Cristo” e Giovanni Battista, di cui era forse cugino. Entrambe le madri, Maria ed Elisabetta, erano rimaste incinte dopo aver incontrato “l’arcangelo Gabriele”, cioè il Ghevèr-El (ambasciatore di un El, personaggio in carne e ossa), che secondo il teologo e cardinale Jean Daniélou verrà poi chiamato “spirito santo”, nel corso della plurisecolare spiritualizzazione con cui le religioni hanno deformato gradualmente il testo biblico, ex-post, fino a introdurvi elementi mistici del tutto assenti nella versione letterale. Nell’ebraico originario, infatti, non esiste neppure la parola Dio, né l’idea stessa di divinità universale onnisciente, così come non c’è traccia dei concetti di eternità, spirito, onnipotenza. L’Antico Testamento racconta semplicemente la storia del patto stipulato tra la sola tribù di Giuda, uno dei 12 figli di Giacobbe-Israele, e l’El chiamato Yahwè, uno dei tanti Elohìm presenti nel testo. Quello che compare per primo, presentandosi ad Abramo, si fa chiamare El-Shaddài, cioè “signore della steppa” secondo la prestigiosa École Biblique di Gerusalemme, fiore all’occhiello dell’esegesi domenicana. In altri passi della Bibbia viene citato Elyòn, il capo supremo, che a un certo punto ammonisce gli Elohìm in assemblea: fate gli arroganti solo perché siete potenti e molto longevi, ma – li avverte – un giorno morirete anche voi, proprio come gli umani.Sempre la Bibbia parla spesso degli “angeli”, i messaggeri degli Elohìm. In ebraico, sono i “malachìm”. Il greco traduce correttamente il termine “malàch” con “ànghelos”, portaordini, mentre il latino – anziché adeguarsi al greco, (magari con il termine “legatus”?) – preferisce coniare il neologismo “angelus”, importandolo direttamente dalla lingua greca senza tradurlo, e preparandosi poi – nell’iconografia successiva – a sfornare angioletti alati e asessuati. Paolo di Tarso, l’inventore del cristianesimo, è il primo a scrivere – nelle sue lettere – che è meglio che le ragazze si coprano i capelli, nelle assemblee in cui sono presenti “gli angeli”, perché quei tizi poco raccomandabili non vanno tanto per il sottile, con le donne giovani. Le successive traduzioni bibliche tradiranno il testo in modo sconcertante: gli angeli cominceranno ad “apparire e scomparire”, persino a “volare con leggerezza”, quando invece la Bibbia scrive che erano fatti come noi, sudavano e soffrivano, e li si vedeva arrivare arrancando, “sfatti di fatica”. I cosiddetti arcangeli? Dal greco: angeli-capi. I “Gabriele”, per esempio: essere un “Ghevèr-El” significava avere la statura di un pezzo da novanta, che gestisce il potere per conto di un El. Fu proprio un “Gabriele”, forse addirittura lo stesso, a ingravidare (come, non si sa) prima Elisabetta e poi Maria.I loro figli, Giovanni e Yehoshua (Giosuè) secondo i Vangeli si incontrano e si conoscono benissimo: hanno lo stesso mandato, o funzioni parallele? Forse il primo ha un’investitura sacerdotale (discendente da Aronne), mentre l’altro politica, davidica (ereditata da Israele). Nelle acque del Giordano, Giovanni battezza i giudei zeloti, cioè i membri della fazione ostile ai romani: lo si capisce dai loro nomi. Ed è uno strano battesimo: razza di vipere, li chiama. E li avverte: se non cambiate subito mentalità, per voi la scure è già pronta, e i vostri corpi bruceranno nella Gheenna, o meglio il Ghe-Hinnom (la discarica lungo il torrente Hinnom, dove venivano gettati e arsi i cadaveri dei guerrieri sconfitti). In un mondo come quello giudeo, ultra-materiale e privo di qualsiasi cognizione di spiritualità – è la tesi del libro – sembra lecito domandarsi se, più che redimere “anime”, a Giovanni non interessasse reclutare guerriglieri: l’elenco dei loro “peccati”, infatti, è una sfilza di crimini cruenti (peraltro quasi esibiti, rivendicati con fierezza). Preparativi di una rivolta?Così dovette vederla Erode, che non ci pensò due volte: prima che fosse troppo tardi, fece decapitare il sedizioso “battista”. Di fronte alla cui morte, il suo alter ego Yehoshua-Giosuè pensò che era meglio cambiare aria. I testi evangelici dicono che si ritirò “nel deserto”, cioè sulle alture della Galilea, per 40 giorni. Ma probabilmente – secondo Biglino ed Esposito – la pausa di riflessione durò anni. Al suo ritorno, poi, ci mise poco e reclutare gli ex discepoli di Giovanni. Lo conoscevano già e in fondo lo aspettavano, per il grande momento: rovesciare finalmente la corrotta oligarchia del Sinedrio, che aveva svenduto il paese ai romani in cambio dei privilegi concessi dal potere imperiale. Il primo tentativo doveva essere fallito, con la cacciata dei mercanti dal Tempio. Il secondo, quello decisivo, fu preparato con l’ipotetica “resurrezione” di Lazzaro a Betania, paese d’origine della Maddalena. Il crisma del messia? Forse proprio questo doveva emergere, nell’evento raccontato come miracoloso: alla portata solo di un profeta, cioè un individuo prescelto e autorizzato a parlare e agire in nome di un El. Ma il carisma di Yehoshua, che non bastò a infiammare il popolo (che infatti non lo riconobbe come “mashiàh” e quindi non lo sostenne), fu sufficiente ad allarmare la casta sacerdotale, che provvide a denunciarlo per sbarazzarsene.Poi la storia si appanna, tra possibili doppi giochi: da un lato il presunto traditore Giuda l’Iscariota, e dall’altro l’uomo-ombra, il misterioso Giuseppe d’Arimatea, a sua volta membro del Sinedrio ma segretamente alleato dei “gesuani”, capace di reclamare il corpo del condannato e forse anche di salvargli la vita, tirandolo giù dalla croce in extremis e poi facendolo curare. Ricostruzione coerente? Sì, ma solo se “facciamo finta” che quella storia sia realmente accaduta, dicono Biglino ed Esposito: le tracce disponibili sono davvero esigue e frammentarie. Stando al gioco, gli autori prendono per buoni i Vangeli canonici, facendoli però letteralmente a pezzi: inevitabile, perché offrono versioni lacunose e discordanti, spesso inverosimili. L’ipotetico puzzle si completa solo attingendo ad altri testi, come i Vangeli apocrifi e gli scritti di storici come Giuseppe Flavio. “Dei e semidei” resta una lettura complessa, che procede con la massima cautela in una selva di citazioni, con il supporto di decine di autori e non meno di 90 volumi puntualmente chiamati in causa. «Restiamo nel campo legittimo delle semplici ipotesi», ammettono alla fine i due studiosi, la cui unica sicurezza è «la non certezza del dato tradizionale». Nel corso dei secoli, infatti, la tradizione «ha volontariamente coperto, attraverso sempre più complicate elaborazioni teologiche, quella che può essere una storia semplice e allo stesso tempo affascinante».E’ questo, infatti, il vero cuore del libro: con estrema accuratezza, dimostra come si sia potuti arrivare a fabbricare un culto che ha cambiato la storia dell’umanità, pretendendo di poggiarlo su documenti solidi ma in realtà franosi, se non inesistenti. La vicenda dell’aspirante messia ebraico? Umanissima, e affrontata dagli autori con profondo rispetto. Non senza rilevarne, però, le patetiche contraddizioni – non del messia, ma dei successivi narratori (evidentemente infedeli). Si racconta ad esempio che ad essere giustiziato sul Golgota fu un personaggio fenomenale, sovrumano, capace di ridestare i defunti. Ma chi sarebbe così pazzo – si domandano gli autori – da condannare un individuo capace davvero di resuscitare i morti? Non sarebbe meglio pregarlo, cortesemente, di resuscitare tutti? E allora dove sta l’inghippo? Nella datazione delle opere. Tutti i Vangeli – i cui reali autori restano tuttora sconosciuti – sono di gran lunga successivi alle famose lettere di Paolo, vero punto di partenza della nuova fede. A coniare quella religione, decenni dopo la crocifissione, è stato l’autoproclamatosi apostolo di Tarso, che però il messia non l’aveva mai conosciuto. Va da sé che i “gesuani”, gli autentici seguaci di Yehoshua, andassero su tutte le furie, nello scoprire che Paolo spacciava per vera una storia che s’era inventato da capo a piedi. Da quella narrazione di fantasia, purtroppo, nacquero in seguito i testi evangelici.Davvero uno strano cristiano, San Paolo: un perfetto politeista. «Sappiamo che vi sono molti dèi», scrive, «ma noi ne seguiamo uno solo». Dunque la sua era monolatria, non certo monoteismo. Ebreo colto, Paolo conosceva la Bibbia. Ma sapeva che il pubblico delle sue lettere – greco e romano – non sapeva leggere l’ebraico. E così ebbe buon gioco nell’inventare la fiaba che sarà poi Sant’Agostino a perfezionare. Si racconta infatti che Adamo ed Eva fossero addirittura immortali, prima del peccato originale. Si sa perfettamente che non è vero, e gli ebrei sanno anche che – nell’Antico Testamento – il peccato originale non esiste: la cacciata dall’Eden è preventiva, non punitiva, dopo che Adamo ed Eva hanno scoperto di poter avere una loro discendenza virtualmente autonoma dai guardiani del “giardino”. Ma peggio: Paolo di Tarso si mette a parlare del rabbi messianista (che non ha mai conosciuto) raccontando che aveva a cuore le sorti dell’intera umanità, non solo quella del suo popolo. Nasce qui il primo germe del geniale universalismo cattolico: la speranza della vita eterna offerta a tutti, indistintamente, proviene dall’esclusiva creatività letteraria di Paolo. Ed è qui che il contrasto coi “gesuani”, indignati, diventa insanabile: chi ha vissuto con Giosuè, standogli accanto fino alla fine, non può tollerare che sul suo conto vengano impunemente spacciate simili fandonie.Ma neppure Paolo arriva, da subito, all’idea della resurrezione: vi perviene in corso d’opera, per necessità, quando – con crescente impazienza – i nuovi fedeli gli chiedono come mai il famoso messia non sia ancora tornato, instaurando il nuovo regno (terreno) che aveva promesso, dandolo per imminente. Al che, il teorico del cristianesimo comincia a parlare di “regno dei cieli”, garantendo la sicura resurrezione anche dei primissimi fedeli, nel frattempo defunti insieme alla loro speranza di fare in tempo a veder ritornare, gloriosamente, il “salvatore”. La cui identità ufficiale, comunque – aggiungono sempre Biglino ed Esposito – verrà definita soltanto tre secoli dopo, al Concilio di Nicea, nel quale sarà l’imperatore Costantino a imporre un canone teologico univoco ai tanti cristianesimi dell’epoca. La religione imperiale nasce quindi politicamente, per votazione: dopo aver tentato di sbarazzarsene con le persecuzioni (4-5.000 vittime), il potere romano ha capito che è meglio farseli amici, i cristiani, dal momento che sono destinati a conquistare il popolo, essendo gli unici a promettere a tutti l’impensabile, cioè la resurrezione dalla morte.Nei primi due secoli, però, l’antico rabbi messianista ebraico – nel frattempo ribattezzato Gesù Cristo – è tante cose insieme, l’una in contraddizione con l’altra: risorto o non risorto, morto sulla croce o non morto, figlio di Dio o emanazione di Dio stesso, oppure un semplice profeta, o meglio ancora un semidio come tanti. «In passato ne furono inviati sulla terra anche 70 per volta», scrive Celso, citando i cristiani (che combatte). Un autore ultra-cristiano come il filosofo e poi martire Giustino, futuro Padre della Chiesa, spiega invece all’imperatore Antonino Pio che, in fondo, Gesù di Nazareth è fatto della stessa pasta di tutti gli altri semidei: «Non è che uno dei tanti figli di Zeus», nientemeno. Tracce evidenti, annotano Biglino ed Esposito, del lungo viaggio – da Oriente a Occidente – compiuto dalle cosiddette “sacre scritture”, incessantemente ritoccate e manipolate, fino al medioevo, per adeguarle agli umori culturali delle varie epoche. Atto d’inizio: il ritorno del popolo ebraico dall’esilio babilonese, all’alba del 500 avanti Cristo. Già allora si rompe l’integrità della tradizione mosaica, strettamente materialista, quando nutriti gruppi di ebrei – anziché tornare in Palestina – si disperdono ai quattro angoli del Mediterraneo, assorbendo gradualmente la cultura ellenistica, impregnata di filosofia greca.Il colpo più grave alla tradizione veterotestamentaria è inferto dalla Bibbia dei Settanta, redatta nel III secolo avanti Cristo dagli ebrei riparati in Egitto nella colonia ellenica di Elefantina: scritta in greco e destinata al pubblico non ebreo, la Septuaginta inaugura la consuetudine delle traduzioni più arbitrarie e spericolate, spiritualizzando il testo, in un’operazione che poi contaminerà la stessa Bibbia in latino. Ancora oggi, per molte comunità ebraiche come quelle italiane, il lavoro dei Settanta è considerato «una disgrazia, per l’umanità». E’ in quelle pagine, infatti, che il Khavod (il velivolo bellico di Yahwè) diventa “doxa”, insegnamento, mentre il Ruach (astronave?) si trasforma magicamente in “pneuma”, spirito. A suggerire l’ipotesi delle “macchine volanti”, pericolose e fragorose, Biglino arriva per deduzione, leggendo in modo coerente il contesto degli episodi narrati nell’Antico Testamento, in cui questi “oggetti misteriosi” agiscono. In ogni caso, in ebraico – alla lettera – Khavòd significa “pesante”, e Ruach “vento”. Eppure, con la Septuaginta, si dà fiato alle traduzioni di fantasia (anima, conoscenza) in omaggio alla cultura egemonica dell’ellenismo, in un paesaggio dominato da divinità olimpiche e mitologie letterarie, platonismo filosofico e spiritualità misterica e gnostica.Tutte espressioni culturali estranee all’ebraismo originario, adottate – con la riscrittura integrale della Bibbia – per indurre egiziani, romani e greci ad accettare gli ebrei della diaspora come depositari di una tradizione culturale altrettanto antica, e per di più allineata alla temperie religiosa del momento. Nulla, comunque, in confronto alla surreale distorsione teologica dell’Antico Testamento condotta per quasi un millennio, dai primi secoli fino al medioevo, dai Padri della Chiesa. Erano alle prese con una missione impossibile: far discendere “Gesù” dal presunto “Dio unico” dell’Antico Testamento. «Come ci sono riusciti? Facendo come se la Bibbia non esistesse proprio, cioè infischiandosene del contenuto ebraico e del suo significato originario», spiegano Biglino ed Esposito. Stessa sorte per Giosuè, alias Yehoshua di Gàmala, cittadina del Golan forse depennata fin dall’inizio per allontanare collegamenti indesiderati, visto che proprio Gàmala – roccaforte degli zeloti anti-romani – era stata un importante centro della resistenza militare ebraica contro l’invasione imperiale.Nessun rispetto, sottolineano gli autori di “Dei e semidei”, per il futuro protagonista dei Vangeli. E’ stato infatti impunemente trasformato, all’occorrenza, da rabbi giudeo messianista a salvatore del mondo, passando attraverso stadi intermedi: “logos” gnostico, oppure rassicurante semidio, perfettamente sovrapponibile alle altre divinità del periodo, adorate dai pagani, allora largamente maggioritari. La situazione si sarebbe invertita solo con l’Editto di Teodosio del 380 dopo Cristo, quando i neo-cristiani avrebbero potuto cominciare a perseguitare con ferocia, anche compiendo stragi efferate, i seguaci del paganesimo. I nodi, comunque, secondo Esposito e Biglino stanno venendo al pettine, sia pure con lentezza. Uno dei “cerotti” storicamente usati per tenere insieme Antico e Nuovo Testamento si è appena scollato: è il caso della presunta profezia “cristica” di Isaia, in realtà inesistente, con cui si pretendeva di sostenere che la Bibbia ebraica anticipasse l’avvento del redentore.“La vergine concepirà”, si traduceva fino a ieri, lasciando intendere che il sommo profeta ebraico alludesse a Maria e Gesù. Ora è emersa anche ufficialmente la traduzione corretta, recepita in primis dai vescovi tedeschi: “La ragazza è incinta”, si legge ora. Dunque non era vergine (si scriverebbe “betulà”, in ebraico), ma semplicemente giovinetta (“almà”, come infatti è scritto), e aveva il concepimento già alle sue spalle. Non era Maria, infatti, la donna citata da Isaia, ma una fanciulla vissuta secoli prima, di nome Abià, da cui si sperava nascesse un bambino destinato a trasformarsi in liberatore politico di Israele. Chi era, invece, il vero Yehoshua di Gàmala, meglio noto come Gesù di Nazareth? Certo non il personaggio che è stato raccontato, ovvero fabbricato. E questa è l’unica certezza di Biglino ed Esposito. Che si congedano dal lettore regalandogli un ultimo dubbio, dedicato all’arcangelo Gabriele: siamo proprio così sicuri che il futuro Cristo non fosse davvero un semidio, come tanti altri dell’antichità, discesi sulla terra “anche in numero di 70 alla volta”, come ricordava Celso? Erano tutti mezzosangue: nati in modo anomalo, con un genitore terrestre e l’altro celeste, o comunque non umano. Valoroso e sfortunato, “Gesù”, come gli eroi omerici figli di uomini e dèi, formidabili ma non immortali?(Il libro: Mauro Biglino e Francesco Esposito, “Dei e semidei. Il Pantheon dell’Antico e del Nuovo Testamento”, UnoEditori, 340 pagine, euro 16.90).Non credeva nella vita dopo la morte, come del resto nessuno dei suoi, e non si sognò mai di fondare un culto. Finì sulla croce per sedizione, ma non aveva 33 anni: era ben oltre la quarantina (probabilmente era nato 43 anni prima). Voleva il riscatto dell’umanità? Niente affatto: tutto quello che gli interessava era liberare il suo popolo dalla dominazione imperiale, ma gli è andata male. Morto e risorto? Nemmeno: fu tramortito probabilmente con la mandragora raccomandata da Ippocrate. Di quella pozione speciale, già usata come anestesia dai proto-chirurghi, doveva essere imbevuta la “spongia soporifera” con cui si dissetò, un istante prima di perdere conoscenza. Poté così essere calato dal patibolo senza che gli venissero spezzate le ginocchia, cosa che gli sarebbe costata la vita. Fu quindi curato, nel finto sepolcro, con un’overdose da 45 chili di farmaco: una potentissima mistura a base di aloe, usata non per i defunti ma per i feriti in battaglia. Dopodiché, in capo a 36 ore (non tre giorni) fu estratto dalla grotta da due individui che, per raggiungerlo, avevano spostato a fatica la pesante pietra che ne ostruiva l’ingresso. Ancora malconcio, sorretto dai due misteriosi soccorritori, sparì in una “nube” di luce: esattamente come l’eroe Prometeo nonché lo stesso Romolo (il fondatore di Roma, figlio di Marte e della comune mortale Rea Silvia). “Rapito” dalla nuvola luminosa, come tutti gli altri semidei dell’antichità?
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Il finto sovranismo della “serva Italia” e l’inganno di Grillo
Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica. E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero.L’euro e le sue regole sono uno strumento essenziale a questo fine (vedi i miei “Euroschiavi”, “Tecnoschiavi”, “Cimiteuro”, “Traditori al Governo”, “Oligarchia per popoli superflui”). L’Italia neanche se unita e neanche se guidata da autentici statisti – quali oggi non esistono né in Italia né altrove in Occidente – potrebbe battere il liberal-capitalismo finanziario imperante, e affrancarsi da tale programma: gli strumenti finanziari, monetari, mediatici e giudiziari in mano agli interessi dominanti sono troppo forti; prima bisognerebbe che il loro apparato di potenza fosse abbattuto da un rivolgimento perlomeno continentale. Soprattutto sotto leader modesti come Salvini, Di Maio, Renzi, con certezza non si raggiunge la libertà. I tentativi di affrancamento, come quello, vago e timido, del governo gialloverde, non possono che fallire e ricadere in danno agli italiani. Dai tempi dell’occupazione longobarda, e poi franca, normanna, francese, spagnola, austriaca, la gran parte dei politici italiani aspira a collaborare coi padroni stranieri aiutandoli a sfruttare l’Italia, perché aiutandoli si eleva verso di essi e sopra i comuni italiani. E’ un tratto culturale storicamente consolidato. In Italia, fare il Quisling non è un titolo di demerito, ma all’opposto di nobiltà; questo va ricordato a coloro che hanno dato del Quisling al Quirinale: non è un vilipendio, è un encomio.Da tutto quanto sopra consegue che agli italiani conviene un governo non ribelle agli interessi stranieri, specificamente franco-tedeschi, piuttosto che uno ribellista ma impotente, che attira ritorsioni su di loro. Un governo sottomesso ma dialogante, che attenui la violenza del processo di spolpamento, espropriazione ed invasione afroislamica, e lo diluisca nel tempo, dando modo alla popolazione generale di vivere decentemente qualche anno in più, e alla parte più valida di essa di emigrare e trasferire aziende e patrimonio all’estero. Agli intellettuali antisistema non conviene farsi partito politico, sia perché non vi è spazio per l’azione politica, sia perché verrebbero attaccatati dai magistrati politici e dall’apparato mediatico. L’azione antisistema, di critica e controproposta al regime tecnofinanziario, sebbene impossibile sul piano governativo, potrebbe invece parallelamente continuare sul piano culturale e informativo: la critica intelligente e competente potrebbe costituire un’associazione internazionale di ricerca scientifica socio-economica, geostrategica e storica, meglio se con sede all’estero (fuori della portata della giustizia nostrana), indipendente da ogni ente pubblico e dal capitale privato, avente lo scopo di mettere in luce la verità, gli inganni e i meccanismi monetari-finanziari che essi nascondono.Ora qualche nota sulla crisi di governo in atto. Salvini l’ha aperta in un momento scelto razionalmente, forse non il migliore, ma verosimilmente l’ultimo possibile (non voglio pensare l’abbia aperta confidando nelle assicurazioni di Zingaretti, che non si sarebbe alleato coi grillini ma avrebbe spinto per le elezioni: se Salvini si fosse fidato di tali dichiarazioni, ignorerebbe l’abc della politica, ossia che menzogna e dissimulazione sono parte essenziale del metodo politico). Poi l’ha gestita male, con tentennamenti, incertezze, contraddizioni e scarse analisi economico-giuridiche. Al Senato non si è difeso efficacemente dalle stroncature di Conte: ha replicato usando argomenti deboli mentre ne aveva a disposizione di ben più forti; non ha ribattuto sul piano giuridico-costituzionale; è apparso in pallone, impacciato, patetico nei suoi appelli alla Madonna e nel suo offrirsi come bersaglio.La sua difesa è stata fatta molto meglio dalla senatrice Bernini di Forza Italia, che ha smascherato l’ipocrisia e le contraddizioni di Conte. Salvini è un buon comunicatore, ha un buon fiuto, non è stupido, è ben sopra la media dei politici nostrani, ma adesso tutti hanno potuto vedere che non ha la saldezza né la preparazione culturale dello statista. E’ o è stato un leader carismatico, e i leader carismatici perdono il carisma allorché appaiono perdenti. Però Salvini può ancora rinquartarsi e recuperare, specialmente se la Lega va all’opposizione e fa opposizione dura e aggressiva nelle piazze, o anche se ricuce con il partito della Casaleggio & Associati, perlomeno al fine di proteggersi dagli attacchi giudiziari stando al governo. Però in ogni caso dovrebbe colmare le sue lacune in diritto costituzionale ed economia internazionale. Ad ogni modo, la carica sovranista e antisistema dei capi grillini e leghisti era da tempo andata scemando e riducendosi a poche banalità pressoché inoffensive e a denunce sterili.Ben diversamente, Grillo era partito, prima che fosse fondato il M5S, da una vera critica antisistema, che metteva in luce il fattore centrale del potere e dell’iniquità, che spoglia della loro sovranità i popoli: la privatizzazione della sovranità monetaria, il monopolio privato della produzione e allocazione della moneta e del credito. Poi, divenendo capo di una formazione partitica assieme alla Casaleggio e Associati, aveva smesso di parlare di queste cose, troppo autenticamente disturbanti per il sistema, e si era giustificato, ad usum imbecillium, asserendo che si tratterebbe di cose che la gente non capisce. Era passato alla dottrina del vaffa, più alla portata della classe cui si rivolgeva, e ben tollerabile per il sistema. Tuttavia, ancora nei due anni precedenti le elezioni politiche del 2018, alcuni esponenti grillini, segnatamente Villarosa (attuale sottosegretario alle finanze), Pesco e Sibilia, si erano interessati e avevano approfondito con impegno la materia monetaria e bancaria, richiedendo e ricevendo la collaborazione mia e di altri studiosi di questo campo, organizzando eventi pubblici e promettendo iniziative concrete una volta al governo. Ma, al contrario, una volta accomodatisi sulle poltrone governative, i predetti non solo non hanno preso alcuna concreta e visibile iniziativa, ma hanno addirittura rifiutato ulteriori contatti con noi.Evidentemente avevano ricevuto ordini di scuderia e calcolato la loro convenienza. Si sono allineati al sistema, con tutto il Movimento, il quale si è rivelato e confermato uno strumento per raccogliere il dissenso antisistema e poi neutralizzarlo, anzi portarlo al sistema convertendolo in consenso ad esso, a braccetto col partito dei finanzieri detto Pd, e con la risibile mascheratura di contentini demagogici, rumorosi e dannosi come il cosiddetto reddito di cittadinanza, il salario minimo, una riforma giacobina e incompetente del processo penale. E dopo hanno votato Ursula von der Leyen, falco finanziario germano-rigorista, gettando completamente la maschera: servono interessi opposti a quelli dichiarati. Ancor prima, Movimento e Lega erano entrambi passati da posizioni critiche verso l’euro, spavaldamente contemplanti la possibilità di uscirne senza danno (Borghi, Bagnai) in caso di rifiuto di opportune e strutturali riforme dell’apparato europeo, a posizioni di definitiva accettazione dell’euro e di arrendevolezza a Bruxelles. Ma ciò non è bastato ad evitare l’isolamento e la marginalizzazione dell’Italia in sede europea, né a ottenere più margini di spesa pubblica. Insomma, come governo antisistema il governo gialloverde era fallito prima di cadere, o più precisamente prima di nascere. Non abbiamo perso molto. Anzi, abbiamo guadagnato in chiarezza.(Marco Della Luna, “Il soranismo della serva Italia”, dal blog di Della Luna del 22 agosto 2019).Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla Prima Guerra Mondiale ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica. E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero.