Archivio del Tag ‘rivoluzioni colorate’
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Paura e morte, la dittatura della superpotenza democratica
Il dittatore della Nato, Erdogan, ora fa a botte a viso aperto con la Siria, protetta dalla Russia. Nemmeno la Siria è la patria della democrazia, ma almeno non minaccia di precipitare anche l’Italia in qualche guerra. La Siria, come narrato dal generale clintoniano Wesley Clark, era – con la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran – tra gli obiettivi imperiali della superpotenza democratica. Sarebbe stata devastata, dalla potenza democratica e dai suoi tentacoli, per una serie di ragioni. Perché si era rifiutata di ospitare un gasdotto scomodo per l’egemonia energetica russa. E perché il governo di Damasco continua, imperterrito, a chiamare Territori Occupati le regioni della Cisgiordania che Israele ha rubato ai palestinesi, in barba alle inutili disposizioni delle Nazioni Unite. Soprattutto, il regime di Assad è laico, avanzato, progredito, largamente sostenuto dalla maggioranza della popolazione: è l’ultimo residuo del partito Baath, il fantasma del socialismo panarabo sorto con il sovranismo egiziano di Nasser, durante la decolonizzazione, e sopravvissuto con Saddam Hussein, il despota già alleato dell’impero democratico ma poi abbandonato, sconfitto e infine impiccato dalla superpotenza che ha arrostito donne e bambini con il fosforo bianco nella fornace di Fallujah, violando qualsiasi convenzione Onu sull’uso delle armi di distruzione di massa, in questo caso scatenate anche contro l’inerme popolazione civile.Nel 2020, tecnicamente, in molte regioni del mondo la parola democrazia non significa niente, nella migliore delle ipotesi (nella peggiore, equivale al rituale ricorrente di bombardamenti, guerre, milioni di esuli e rifugiati, tra inconfessabili calcoli economici e reciproche convenienze, tacitamente stipulate da oligarchie formalmente nemiche ma in realtà alleate, sottobanco). Il capolavoro della superpotenza democratica, in Medio Oriente, negli ultimi anni è stata la sua micidiale doppiezza: massimo appoggio alla peggiore di tutte le dittature dell’area, l’Arabia Saudita, e guerra sporca contro ogni altro attore della regione, destabilizzato dalle rivoluzioni colorate o brutalmente devastato attraverso bande armate di tagliagole. Lo spettacolo della democrazia atlantica in versione mediorientale lo hanno lungamente scontato, sulla loro pelle, prima gli iracheni e poi i siriani. Questi ultimi, in particolare, sono stati letteralmente assaliti dalle milizie terroristiche organizzate, protette, armate e finanziate dalla superpotenza democratica e dai suoi camerieri regionali. I tagliagole hanno seminato orrore, terrore e morte, fino a quando non è intervenuta la Russia. Liberata la Siria e restituito il territorio ai siriani, il turco Erdogan – uno dei manovali terroristici reclutati dalla superpotenza democratica – ora non accetta il verdetto militare, e prova a negare ai siriani il diritto a una vittoria compiutamente definitiva.Un vero e proprio eroe del riscatto nazionale siriano, il generale Qasem Soleimani – numero due del regime teocratico di Teheran, fiero avversario dell’Isis prima in Iraq e poi in Siria – è stato assassinato in modo brutale, a tradimento, con un raid terroristico a suon di missili ordinato dalla superpotenza democratica. La colpa di Soleimani? Una: era abile, stimato, autorevole. Legato all’oligarchia medievale dell’Iran, credeva nell’espansione della Mezzaluna Sciita come contrappeso geopolitico alla legge del taglione imposta dalla superpotenza democratica. Soleimani ha fatto la fine di Saddam, di Gheddafi, e di chiunque altro si opponesse – a vario titolo – alla spietata dittatura della superpotenza democratica. La cosiddetta opinione pubblica, nella patria mondiale della democrazia, è dominata da quattro famiglie, cui fanno capo centinaia di reti televisive. Un unico telegiornale, declinato in più modi, trasmette – 24 ore su 24 – le stesse notizie, distillate dalle medesime fonti. Ogni quattro anni, naturalmente, si vota. George Walker Bush divenne presidente a tavolino, per decreto, grazie a clamorosi brogli in Florida. Il suo successore, Barack Obama, aveva promesso – mentendo – di cambiare le regole del gioco: è stato il presidente che ha fatto assassinare più persone, nel mondo, attraverso gli omicidi mirati affidati ai droni.Obama, che ha dichiarato di aver ucciso anche Osama Bin Laden (spegnendo così il clamore sulle indiscrizioni riguardanti la sua vera origine – si sospettava che non fosse nato alle Hawaii, ma in Africa, cosa gli avrebbe impedito di candidarsi alla Casa Bianca) è stato anche il presidente che, dopo aver amnistiato i bari di Wall Street, si è inventato i Russiagate contro Putin, ha spintonato l’Europa per imporre le sanzioni alla Russia, ha fatto spiare anche il telefono privato di Angela Merkel. Poi la superpotenza democratica ha voltato pagina, con una nuova entusiasmante sfida elettorale: da una parte la cannibale Hillary Clinton, dall’altra il rozzo Donald Trump. Ora sono tutti d’accordo, ai piani alti, nel tagliare le unghie alla Cina: erano stati loro a delocalizzare in Asia (in paesi senza democrazia) la grande industria americana, ma adesso – visto che la Cina ha superato il maestro – pensano sia giunta l’ora di fare retromarcia, e intanto si godono le delizie del coronavirus. Nel frattempo, tra poco si rivota. Un candidato, Bernie Sanders, spara a zero sugli abusi razzisti del governo israeliano e si schiera con i palestinesi. Secondo tutti i bookmaker, non ha nemmeno una possibilità su mille di diventare il nuovo presidente della superpotenza democratica. Ecco il gioco: post-democrazia contro non-democrazia. Trovare la differenza.(Giorgio Cattaneo, 1° marzo 2020).Il dittatore della Nato, Erdogan, ora fa a botte a viso aperto con la Siria, protetta dalla Russia. Nemmeno la Siria è la patria della democrazia, ma almeno non minaccia di precipitare anche l’Italia in qualche guerra. La Siria, come narrato dal generale clintoniano Wesley Clark, era – con la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e l’Iran – tra gli obiettivi imperiali della superpotenza democratica. Sarebbe stata devastata, dalla potenza democratica e dai suoi terminali, per una serie di ragioni. Perché si era rifiutata di ospitare un gasdotto scomodo per l’egemonia energetica russa. E perché il governo di Damasco, imperterrito, continuava (e continua) a chiamare Territori Occupati le regioni della Cisgiordania che Israele ha rubato ai palestinesi, in barba alle inutili disposizioni delle Nazioni Unite. Soprattutto, il regime di Assad è laico, avanzato, progredito, largamente sostenuto dalla maggioranza della popolazione: è l’ultima residua incarnazione del partito Baath, il fantasma del socialismo panarabo sorto con il sovranismo egiziano di Nasser, durante la decolonizzazione, e sopravvissuto con Saddam Hussein, il despota già alleato dell’impero democratico ma poi abbandonato, sconfitto e infine impiccato dalla superpotenza che ha arrostito donne e bambini con il fosforo bianco nella fornace di Fallujah, violando qualsiasi convenzione Onu sull’uso delle armi di distruzione di massa, in quel caso scatenate anche contro l’inerme popolazione civile.
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Perché l’Occidente terrorista non sa tollerare l’Iran sovrano
Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.Arriva l’estate ed iniziano le operazioni chirurgiche in Iraq da parte dell’aviazione israeliana: è la prima volta che Tel Aviv estende il raggio d’azione al di fuori di Libano e Siria, una mossa altamente rischiosa. Gli aerei e i droni colpiscono basi militari, depositi di armi, neutralizzano figure chiave della resistenza irachena o del ramo locale di Hezbollah. L’intervento israeliano agisce in senso contrario a quello statunitense: la divisione interconfessionale cala di intensità, si compatta il fronte antiamericano, aumentano gli attacchi contro obiettivi statunitensi. Poi, il 31 dicembre, la svolta: un gruppo agguerrito di manifestanti circonda l’ambasciata statunitense di Baghdad, viene appiccato il fuoco. È una ritorsione per i raid statunitensi ed israeliani, sempre più frequenti e violenti, che nel periodo natalizio hanno lasciato a terra più di 30 uomini, per la maggior parte appartenenti all’Hezbollah locale e ai comitati di resistenza popolare. Il presidente Donald Trump accusa l’Iran di essere dietro l’assalto all’ambasciata e promette vendetta: il 2 gennaio firma il mandato d’uccisione di Qasem Soleimani, il più capace ed influente stratega militare al servizio di Teheran.La notte del 3 gennaio, in quel convoglio, si trova proprio Soleimani. Vengono lanciati dei missili, esplodono i veicoli, muoiono sette persone: il generale, il leader del comitato di mobilitazione popolare ed altri militari iraniani ed iracheni. Per anni si è vociferato che Soleimani fosse un “intoccabile”, protetto da un patto sottobanco siglato fra Russia e Iran. Indiscrezioni che sembrano trovare conferma in un fatto: le frequenti visite di Netanyahu e di esponenti della difesa israeliana a Mosca durante l’anno scorso. Sembra che il primo ministro israeliano volesse semaforo verde, perché ha fatto della guerra all’Iran il punto focale della sua intera agenda estera, ma che gli fosse stato negato. In questo contesto si inquadrebbero anche le schermaglie che da mesi dividono Israele e Russia: l’arresto di cittadini israeliani in Russia, condannati a pene detentive pesantissime rispetto ai reati commessi, i raid israeliani in Siria nonostante i moniti del Cremlino, la decisione russa di supportare l’economia iraniana attraverso l’Unione Economica Eurasiatica, la collaborazione nel nucleare civile e la recentissima esercitazione navale con la Cina.La linea rossa, però, alla fine è stata oltrepassata: protetto o meno da un “lodo Moro” in salsa asiatica, Soleimani è stato ucciso. La campagna di propaganda da parte della rete sovranista, a cui si è unito anche Matteo Salvini, è già iniziata: era un terrorista, una minaccia per la pace mondiale, un pericolo comparabile a Osama bin Laden e Al-Baghdadi, una ritorsione dovuta. Ciò che sfugge a giornalisti, politici ed analisti, veri o presunti tali, è che la neutralizzazione di Soleimani potrebbe essere benissimo, e giustamente, considerata come una dichiarazione di guerra. Non è stato ucciso un terrorista od un paramilitare, ma un soldato, un esponente di primo piano di forze armate regolari. È il diritto internazionale a parlare: se l’Iran volesse, potrebbe dichiarare guerra agli Stati Uniti perché vittima di un’aggressione ed esposto continuamente ad ingerenze nei propri affari interni. Ma il mondo è dominato dalla realpolitik: l’Iran non ha i mezzi per sostenere una guerra contro gli Stati Uniti, e neanche ha un’alleanza o dei partner su cui fare affidamento. Il casus belli c’è, ma l’Iran è consapevole che, alla luce della situazione economica interna e della presenza capillare di quinte colonne entro i propri confini, andrebbe incontro alla capitolazione o, comunque, ad uno scenario Afghanistan: guerra permanente, paese distrutto.Ciò che accadrà, con molta probabilità, è che la guerra a distanza fra l’asse Washington-Tel Aviv-Riyad e Teheran salga di livello: maggiore insurgenza a Gaza, maggiore ricorso ad Hezbollah in Libano, attentati contro obiettivi americani o israeliani all’estero – riportando lo scontro ai livelli degli anni ’90, quando Buenos Aires fu insanguinata da due attentati contro la comunità ebraica – maggiori pressioni su casa Sa’ud dallo Yemen e schermaglie nel Golfo Persico. Ciascuna di queste mosse, però, sarà al tempo stesso controbilanciata da reazioni sempre più sproporzionate, perché l’obiettivo degli Stati Uniti – non di Trump – è di spingere l’Iran al passo falso che potrebbe legittimare un intervento stile Iraq. Non ci sarà tregua finché il regime rivoluzionario khomeinista continuerà a guidare il paese, perché l’Iran è una di quelle nazioni che sono vittime della cosiddetta “maledizione della geografia” e perciò destinate ad un “contenimento infinito”.È strategicamente incardinato fra Medio Oriente, Asia centrale e meridionale, un punto di connessione fra le civiltà turcica, indiana, cinese ed islamica, è ricco di risorse naturali strategiche, come gas e petrolio, perciò non può essere consentito ad alcuna forza politica ideologicamente anti-imperialista ed anti-occidentale di monopolizzare il potere. Non è un caso che la storia contemporanea iraniana, dall’arrivo dei britannici ad oggi, sia intrisa di ingerenze straniere, rivoluzioni false e colpi di Stato. Ma l’approfondimento sarebbe incompleto senza una descrizione di Soleimani, che da ieri è dipinto come un terrorista e che perciò merita di essere difeso dalla campagna propagandistica in corso. Proveniente da una famiglia di umili origini, aveva scalato i gradi dell’esercito mostrando le proprie abilità sul campo, durante la guerra con l’Iraq, giungendo a ricoprire la prestigiosa carica di comandante della brigata Gerusalemme delle guardie della rivoluzione.Gli fu data l’importante responsabilità di guidare l’offensiva dell’Iran contro lo Stato Islamico in Iraq, all’apice della sua espansione, una missione che portò con successo a compimento, diventando un’icona popolare non solo in Iran, ma in tutto il mondo islamico. Soleimani, infatti, era apprezzatissimo anche fra gli oppositori anti-khomeinisti. Con la sua morte, l’Iran perde il suo stratega più abile e carismatico e l’asse della resistenza, con annesso il sogno di un corridoio sciita da Teheran a Beirut, si ritira bruscamente. La sua morte servirà a due scopi: spingere l’Iran a commettere un gesto eclatante, che possa giustificare un intervento militare, o a portarlo sul tavolo delle trattative per riscrivere l’accordo sul nucleare. Una cosa è certa: il Nuovo grande gioco per l’egemonia sull’Eurasia è entrato in una nuova fase e questa morte spettacolare, emblematicamente avvenuta ad inizio anno, simboleggia la direzione che prenderanno le relazioni internazionali nella nuova decade in cui siamo appena entrati.(Emanuel Pierobon, “Soleimani è morto, viva Soleimani”, da “L’Intellettuale Dissidente” del 4 gennaio 2020).Notte del 3 gennaio, Baghdad. Nei pressi dell’aeroporto si trova un convoglio di veicoli che trasporta soldati delle guardie della rivoluzione iraniana e del comitato di mobilitazione popolare iracheno. Stanno discutendo della situazione pericolosa in cui si ritrova il paese, caduto in un vortice di instabilità pilotata che rischia di esplodere in una guerra civile. Il 2019 era iniziato con l’apparire di tensioni fra sunniti e sciiti, e fra gli stessi sciiti, divisi nell’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Iran, ritenuto, sì, il salvatore della patria, per il ruolo fondamentale nella sconfitta dello Stato Islamico del defunto califfo Abu Bakr al-Baghdadi, ma al tempo stesso considerato una potenziale fonte di pericolo per via delle sue mire egemoniche regionali. La plurisecolare tensione sunnita-sciita è stata sfruttata magistralmente dagli Stati Uniti per incrementare il livello di violenza delle proteste, che gradualmente hanno condotto ad un vero e proprio arresto civile che ha fatto ripiombare l’incubo della guerra civile sul paese. I piani dell’amministrazione Trump si incontrano e scontrano con quelli di Benjamin Netanyahu, che è intenzionato ad estendere la lotta all’Iran fino ai suoi confini.
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Basta fango: se tutti i partiti si unissero per salvare il paese
Fango su fango, per produrre altro fango, lungo un desolato orizzonte di fango. Tutto è uguale a niente, ormai? Buio sul povero Giulio Regeni, massacrato in Egitto: anni di parole contro il truce regime del Cairo, e silenzio assordante sugli elusivi committenti di Giulio, le ambigue e reticenti agenzie di Cambridge che probabilmente lo mandarono al macello, a sua insaputa. Fango su fango, anche se si vuole inquadrare il martirio dei migranti: tutto sembra risolversi nell’insulso derby violento all’italiana, pro o contro Salvini, senza uno sputo di analisi sull’immane tragedia dell’Africa. Solo maschere, per questo piccolo avanspettacolo nutrito di personaggi come Carola Rackete e Greta Thunberg (perfetta, la svedese, per eludere – con il suo dogma climatico – il vero dramma dell’avvelenamento terrestre). A vincere è il fango, declinato ovunque. Fango sulla Russia, anche in salsa olimpionica: tutto si esaurisce negli ipotetici Russiagate, senza che nessuno si interroghi sul ruolo di Mosca, di Bruxelles, di Berlino e di Washington. I media fotografano una società che, anziché pensare, insulta. Fango su Trump, per le presunte intrusioni in Ucraina, dopo che il paese fu travolto da una rivoluzione colorata, progettata a tavolino e finita con la consegna del gas ucraino al figlio di Joe Biden, allora vice di Obama. Fango su tutti, a turno: sui siriani e gli iracheni, sui palestinesi, sui curdi.Fango e morte per i libici, gli yemeniti, gli stessi europei fatti a pezzi nelle piazze dal sedicente Isis, sotto il naso di polizie distratte. Fango e botte, per buon peso: sprangate in faccia ai manifestanti di Hong Kong e a quelli di Parigi. C’è chi la chiama terza guerra mondiale a rate, a puntate, a geometria variabile. Con tanto sangue, e soprattutto fango, a ogni latitudine. La piccola Italia (non così piccola, ma rimpicciolita dagli stregoni dell’Ue) diventa addirittura microscopica, nella fanghiglia della sua non-politica di ieri e di oggi. Non un partito vero, che pensi al domani: tutto è fermo alle elezioni del giorno dopo. Sondaggi, telegiornali, talkshow. Il non-governo attanagliato dal terrore del voto, l’opposizione che non va oltre l’ovvio disgusto per le non-decisioni dei prestanome che occupano i palazzi. La cosiddetta crisi morde sempre di più: acciaierie in panne e banche sull’orlo del tracollo, viadotti che si schiantano, fabbriche che chiudono, industrie che scappano all’estero per pagare meno (sia il lavoro che le tasse). Politica assente: massima irrisione, la non-protesta delle Sardine. Una beffa grottesca: festicciole e canzoni, al funerale dell’Italia.Uno spettacolo surreale, offerto al mondo che ci guarda, e che osserva la nostra incapacità strutturale di leggere la crisi, di riconoscerne i mandanti e gli esecutori. Attaccano Salvini, i dimostranti ipnotizzati dalla disinformazione: se la prendono con un micro-leader che domani forse non esisterà nemmeno più, e che comunque (questa la sua colpa) non ha ancora fatto assolutamente niente per restituire al paese una visione precisa, nonché una strategia su come uscire dall’oceano di fango nel quale sta affondando. Quel che non si perdona, alla Lega, è di essere l’unico partito a suo modo vitale, legittimato dal consenso? In effetti sembra fuori posto, questa Lega – prontamente assediata dalle inchieste – nell’Italia dell’anonimo e cardinalizio Conte, dell’esanime Zingaretti, della caricatura Renzi, degli zombie un po’ cialtroni che fino a ieri promettevano un mondo a 5 stelle. Altro? Macché. Fango per tutti, a reti unificate, senza sforzarsi di capire perché siamo finiti così in basso. Cos’è il debito pubblico? Cosa sono l’Eurozona, il Mes, la Brexit, il Fiscal Compact, il pareggio di bilancio? Cos’è davvero l’avanzo primario, che da quasi trent’anni fa sì che lo Stato prelevi dai cittadini, sotto forma di tasse, più di quanto il governo non spenda, per gli italiani, in termini di servizi?Economia, questa sconosciuta: deve provvedere Mario Draghi, nientemeno, a suggerire che la via d’uscita può essere dalla parte opposta, rispetto al plumbeo rigorismo della Bce. Proprio lui, Draghi, è come se dicesse: ci si salva facendo l’esatto contrario di quel che ho fatto io, in tutti questi anni, prima al Tesoro e poi a Bankitalia, quindi a Francoforte. Modern Money Theory: emissione illimitata di liquidità, a costo zero. Altro che super-tasse, altro che austerity imposta per volere divino. Deficit positivo: vuol dire soldi da investire, lavoro, consumi, economia (e alla fine, risanamento del bilancio). Il “nuovo” Draghi, keynesiano e sovranitario, potrebbe essere l’eroe perfetto, per le Sardine – per loro, e per chiunque aspiri a recuperare il senso delle cose, il contatto con la realtà (cos’è lo Stato e a cosa serve, come deve funzionare). “Prestatore di ultima istanza”: parole divenute antiche solo qui, in questa Europa nanizzata dall’Ue, dai trattati intangibili che la recintano, deprimendola. Atroce, storicamente, per un continente dove – tra Parigi e Londra – nacque la democrazia moderna, già incubata in modo larvale nel medioevo italiano dei Comuni, e poi evocata tra le barricate della Repubblica Romana. Mazzini e Garibaldi: non volevano forse una democrazia europea, di popoli fratelli? Sappiamo com’è andata: due guerre mondiali. Poi la pace tra le rovine, la ricostruzione, la prodigiosa rinascita nel Belpaese. Fino a quando, lassù, non s’è deciso che potesse bastare, e che dovessimo tornare a soffrire.Modern Money Theory: massima eresia. La sventola Draghi, e nessuno fiata. Nessuno lo intervista, lo interroga, lo incalza. Sarebbe la notizia del secolo, in teoria, in materia finanziaria. Certo, non è merce maneggevole per l’insultificio. Meglio il fango, certo: è tanto più comodo. Nel fango si sguazza un po’ tutti, perché non è difficile trovare il bersaglio adatto, visto il livello dello zoo politico. Sarebbe bello vedere un altro film. Gente che accetta di sedersi allo stesso tavolo, a discutere. Fine del tifo, della gara di rutti. Tema: rimettere insieme i frantumi. Unirsi, con un obbligo: cancellare la lavagna delle prossime elezioni, e mettersi a pensare. Trovare, insieme, il gusto del bicchiere mezzo pieno. Ce ne sarebbe, da studiare. Prima, però, converrebbe archiviare le bandiere. Si fa così, da sempre, quando si vuole la pace. Si mettono da parte i vecchi rancori, le liturgie rituali, le identità solo formali. Destra e sinistra: che senso hanno, oggi? Cos’ha fatto, di buono, il centrodestra di governo? E in cosa si è distinto, il centrosinistra, rispetto ai tagli sociali dell’era berlusconiana? Entrambe le fazioni hanno obbedito a diktat. L’hanno votata insieme, la legge Fornero. Hanno mostrato il medesimo rispetto reverenziale per lo sciagurato Patto di Stabilità, che in capo a dieci anni ha ridotto le strade dei paesi italiani a campi minati, dove si fa lo slalom tra le buche perché il Comune non ha i soldi per l’asfalto.Hanno ragione, le Sardine, a reclamare una diversa estetica, gentile e dialogante. Mancano il bersaglio, certo: sparano all’orso di cartone, senza avvedersi che il luna park è recintato come un lager, dove tutto è proibito. Siamo prigionieri, ecco il punto. Beninteso, prigionieri europei del terzo millennio: privilegiati, senza nessuna guerra in casa da settant’anni. Siamo persino liberi di parlare, di insultarci allegramente, di vomitare fango contro gli orsetti di cartone. Ma è tutto qui, quel che sappiamo fare? Non ci viene il sospetto che le nostre animose divisioni siano l’habitat perfetto, per chi vuole continuare a portarci via tutto? Nei decenni della sovranità relativa, monetaria, l’Italia divenne la quarta potenza industriale del pianeta. E questo, nonostante le sue piaghe: mafia, evasione fiscale di massa, corruzione dilagante della politica. Eppure il paese cresceva, tutti stavano meglio e sapevano che i figli avrebbero avuto ancora più opportunità. Il deficit aveva fatto da motore, e il mastodonte Iri era il volano di un’economia che trascinava migliaia di aziende. Poi hanno fatto a pezzi tutto, dando la colpa a noi: al debito delle cicale, alla mafia, agli evasori, ai politici corrotti.Con queste miserabili menzogne hanno eretto il recinto spinato dell’attuale luna park, su cui sventola la bandierina blu-stellata della cosiddetta Europa. Mafia, evasione, corruzione? Esattamente come prima. La differenza? Non possiamo più spendere. Il risultato è una specie di catastrofe: meno servizi, meno welfare, meno sanità, meno pensioni. Meno soldi, meno consumi, meno futuro, meno tutto. Rigore, tasse, delimitazioni assurde come la suprema frode del famigerato tetto del 3% alla spesa pubblica: pura invenzione di un’ideologia maligna, spacciata per norma scientifica, per legge economica. Balordo imbroglio, grazie al caos organizzato a tradimento. Dopo decenni di cospicue regalie statali, la grande industria se la svigna in Serbia, in Romania e in Polonia, dove le maestranze costano di meno. La Fiat scappa in Olanda, lasciando a secco il fisco del paese che l’ha coperta di miliardi per decenni. E che dire dell’inflessibile Germania? Trucca i suoi conti pubblici, facendo dimagrire il debito di Stato depennando quello delle Regioni e la spesa pensionistica. E noi in piazza, valorosamente, a intonare gli inni dell’antifascismo di un secolo fa, mentre i predoni del 2019 ridono degli italiani, ingenui incorreggibili.Che bello, se qualcuno mettesse in produzione l’altro film: quello che manca. Tutti seduti allo stesso tavolo. Di Maio e Renzi, Salvini e Zingaretti, la Meloni. Conferenza a reti unificate, per dire: signori, c’è un problema. Le regole vanno cambiate. Siamo tutti d’accordo, finalmente. Vogliamo salvare gli italiani, tornare alla democrazia reale dello Stato. Lanciare una democrazia continentale. Far nascere qualcosa che ancora non esiste: una Unione Europea, di gente che si aiuta. Bello e impossibile? Soltanto un sogno, un’utopia? Pure, proprio da lì si parte: sono i sogni a dissipare il fango. Il resto, poi, viene da sé. Di fronte a un orizzonte nuovo, chi mai perderebbe ancora tempo a vomitare insulti? Molto sta nel crederci, all’orizzonte amico. Serve qualcuno che innanzitutto lo disegni, faccia vedere quanto sarebbe attraente, e spieghi anche quali passi, esattamente, sarebbe necessario compiere, verso la meta. Prima, però, deve tornare il sole almeno nei pensieri: per metter fine al fango, alla paura, alla stupidità dell’odio. Sta a noi, la prima mossa: se scoppia la pace, si mette male per gli sfruttatori. Lo sanno bene, i padroni del luna park. Gli unici a non saperlo ancora, a quanto pare, siamo noi?(Giorgio Cattaneo, “Basta fango: se tutti i partiti italiani si unissero, per salvare il paese”, dal blog del Movimento Roosevelt del 18 dicembre 2019).Fango su fango, per produrre altro fango, lungo un desolato orizzonte di fango. Tutto è uguale a niente, ormai? Buio sul povero Giulio Regeni, massacrato in Egitto: anni di parole contro il truce regime del Cairo, e silenzio assordante sugli elusivi committenti di Giulio, le ambigue e reticenti agenzie di Cambridge che probabilmente lo mandarono al macello, a sua insaputa. Fango su fango, anche se si vuole inquadrare il martirio dei migranti: tutto sembra risolversi nell’insulso derby violento all’italiana, pro o contro Salvini, senza uno sputo di analisi sull’immane tragedia dell’Africa. Solo maschere, per questo piccolo avanspettacolo nutrito di personaggi come Carola Rackete e Greta Thunberg (perfetta, la svedese, per eludere – con il suo dogma climatico – il vero dramma dell’avvelenamento terrestre). A vincere è il fango, declinato ovunque. Fango sulla Russia, anche in salsa olimpionica: tutto si esaurisce negli ipotetici Russiagate, senza che nessuno si interroghi sul ruolo di Mosca, di Bruxelles, di Berlino e di Washington. I media fotografano una società che, anziché pensare, insulta. Fango su Trump, per le presunte intrusioni in Ucraina, dopo che il paese fu travolto da una rivoluzione colorata, progettata a tavolino e finita con la consegna del gas ucraino al figlio di Joe Biden, allora vice di Obama. Fango su tutti, a turno: sui siriani e gli iracheni, sui palestinesi, sui curdi.
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Monti e Berlusconi in piazza con le Sardine, il Mes ringrazia
Ovazioni a Mattarella e piazze piene di Sardine. L’Italia? Minacciata dal Mes. Ma non ne parlano né il capo dello Stato, né i “pesciolini” che odiano Salvini. Cha razza di cortocircuito è mai questo? E per quale motivo il presidente della Repubblica dovrebbe meritarsi un tributo circense, da impero romano, alla prima della Scala? E perché i ragazzi-sardina (coccolati dal massimo potere, giornali e televisioni) ora cianciano di buoni sentimenti, evitando però di citare qualsiasi rogna che affligga il paese, tacendo persino di fronte al letale Fondo Ammazza-Stati? Ragazzi per modo di dire, poi: perché, oltre ai Papa-Boys attesi a Roma per l’annunciata consacrazione politica del 14 dicembre, nell’acquario delle Sardine si tuffa felice l’arci-nemico degli italiani, Mario Monti, insieme a lady Francesca Pascale, domestica sodale di quello stesso Berlusconi fischiato per anni e demonizzato dagli antenati delle Sardine, Girotondini e Popolo Viola. Ancora: dal trampolino di Torino (città che riesce sempre a brillare di luce propria, in questa Italia al tramonto) nella piscina di lusso delle Sardine si accingono a sguazzare anche le Madamine Sì-Tav, tipico esempio sabaudo di rivoluzione colorata (di palazzo, anzi di salotto, e di strettissima osservanza Fiat-Pd). E tutto questo, per cosa? Per fermare l’Uomo Nero?Seriamente: un tale polverone, fondato sulla nulla, servirebbe sostanzialmente a impedire che in Emilia Romagna, dopo 40 anni, possa governare qualcun altro, al posto del Pci-Pds-Ds-Pd? Ma l’alternanza, in teoria, non sarebbe il sale della democrazia? Non sono democratiche, le Sardine? Hanno paura, anche loro, degli elettori italiani? Sono le Marie Antoniette del terzo millennio, cucinate all’amatriciana, nel paese semiserio di Di Maio? Sono il riflesso tricolore della fobia per la democrazia manifestata dal supremo potere globalista neoaristocratico e dai suoi media di regime, spiazzati negli ultimi anni dalle proteste populiste? Domande retoriche, che Gioele Magaldi rilancia nel vuoto pneumatico della non-politica in cui sta affondando il paese. Penosa, la scialuppa di Conte e Zingaretti, con le sue euro-protesi ortopediche (Gualtieri, Gentiloni, Ursula-Sassoli). Pericolante navicella su cui sgomita Renzi, mentre gli effimeri 5 Stelle svaniscono come neve al sole. Tutti i sondaggi, intanto, decretano un unico verdetto: gli italiani oggi darebbero fiducia proprio a lui, l’orrendo Uomo Nero, in tandem con la sua collega romana e altrettanto tribunizia, Giorgia Meloni. Brrr, che paura: arrivano i fascisti?Questa la linea pletorica del Piave, su cui si accampa il branco delle Sardine. Parola d’ordine: volemose bene, morte al puzzone. «Cioè, fatemi capire: “morto” Salvini, i problemi dell’Italia sarebbero risolti?». Fondato nel 2015, il Movimento Roosevelt (di cui Magaldi è presidente) predica il ritorno alla sovranità della politica. Si spende – in modo trasversale – per spingere i partiti a ritrovare il loro posto nella storia: meglio se si spogliano dei loro panni di maggiordomi del potere finanziario. Da Milano, in un recente convegno, i “rooseveltiani” (tra cui l’economista Nino Galloni) hanno evocato il fantasma di Olof Palme, ineguagliato campione mondiale del welfare. Non sarebbe l’eroe perfetto, per le Sardine? A quanto pare, no: sembra non interessi, l’esplosivo cocktail tra diritti civili e diritti sociali. Cioè: ben venga l’accoglienza dei migranti, benché spacciata come unico surrogato di felicità obbligatoria, in un paese derubato da poteri superiori. Vogliamo dimenticare gli anziani impoveriti, che faticano ad arrivare alla fine del mese? O i giovani laureati costretti a fare i camerieri, se non a fuggire all’estero? Qui crollano i viadotti, si ferma l’Ilva. Disoccupazione, precarietà, rassegnazione: è il tragico declino del sistema-Italia, ma per Palazzo Chigi va tutto bene. Sardine, dove siete? Su che pianeta vivete?Pazzesco, dice Magaldi, l’endorsement del funesto Mario Monti: dove passa lui, non cresce più l’erba. Gli italiani lo ricordano cone un Attila in doppiopetto: è il boia che ha imposto la legge Fornero, il Fiscal Compact e il pareggio di bilancio in Costituzione. Che c’azzecca, con le Sardine? E che dire della Pascale, ventriloqua di quel Cavaliere sempre pronto a qualsiasi inciucio, con chiunque, pur di garantirsi un posto al sole lasciando il paese sottomesso ai poteri neo-feudali che lo ricattano? Begli amici, care Sardine: ma chi siete, veramente? «Cosa volete? Non lo si è ancora capito (a parte la morte politica di Salvini, ovviamente). Se volessi scendere in piazza con voi, da semplice cittadino – domanda Magaldi – voi Sardine cosa mi proporreste, di preciso?». Le idee non mancherebbero. Tanto per cominciare, un’Unione Europea (quella di oggi, la Disunione Europea, è solo il comitato d’affari di potentati privati). Non c’è una Costituzione democratica, né un governo federale eletto dai popoli, tramite il Parlamento Europeo. Non c’è una politica estera comune. Non c’è nemmeno una politica fiscale: il Conte-bis si appresta a vessare ulteriormente il signor Rossi, mentre l’Ue ammette che Olanda e Lussemburgo restino paradisi fiscali dov’è più conveniente pagare le tasse, se ti chiami Fiat-Fca.E tutto questo le Sardine non lo sanno? Non lo capiscono, che il loro chiasso contro un falso obiettivo (Salvini) è un regalo favoloso per gli sfruttatori del Belpaese? Non si domandano il perché di tanta calorosa accoglienza, da parte di quei media che nel 2011 stesero un tappeto rosso al macellaio Monti? Quanto alla Lega, Magaldi non fa sconti: deve fare ancora tanta strada, l’ex Carroccio, se vuole davvero candidarsi ad aiutare l’Italia a rialzare la testa. «Se non altro – puntualizza il presidente del Movimento Roosevelt – Salvini ha almeno il merito di averci provato, a contestare lo status quo, attaccando il regime dello spread con l’aiuto dei suoi economisti keynesiani come Bagnai e Rinaldi». Certo non l’ha fatto Mattarella, che nel 2018 ha stoppato il professor Paolo Savona negandogli il ministero dell’economia. «Stiamo parlando di un ex ministro di Carlo Azeglio Ciampi, futuro presidente della Repubblica e, prima ancora, governatore di Bankitalia». A proposito: l’attuale capo della banca centrale, Ignazio Visco, ha lanciato l’allarme: il Mes potrebbe devastare le banche italiane e prosciugare i conti correnti. Dai palazzi del governo, silenzio. Idem dalle piazze: non è roba per Sardine, il Mes. In compenso, applausi a Mattarella dal lussuoso parterre milanese della lirica.Ma scusate, insiste Magaldi: «Che particolari meriti avrebbe, il capo della Stato? Ha silurato Savona, sostenendo di voler proteggere l’Italia dai mercati. E ora rieccoli, i mercati, in grande spolvero col Mes: la più grande minaccia per la finanza italiana e per i risparmiatori». Un trattato-capestro, «da respingere in blocco». Silenti le Sardine, chi si agita contro il Mes? Lui: Salvini. Ve lo figurate, un Mes, in un’Europa in cui ci fosse ancora un tipo come Olof Palme, fuoriclasse scandimavo dello Stato sociale? Era il vero leader carismatico dei socialisti europei: le Ilva svedesi le supportava coi soldi del governo, imponendo un management più vicino ai lavoratori. Socialismo liberale: assassinato – con Palme – nel 1986, a Stoccolma, proprio perché (sgombrato il campo dai progressisti, quelli veri) potesse nascere questo aborto di Ue, questa Eurozona infame e senza eurobond, in mano ai banchieri privati della Bce, unici sovrani di mezzo miliardo di persone. Arbitrio e business, senza democrazia, grazie anche al sangue di Olof Palme e di tutti gli altri combattenti, caduti nelle varie macellerie mediatiche, giudiziarie e criminali di quest’Europa tragica e ridicola. Ultima puntata della farsa: le Sardine in piazza contro Salvini. Insieme a Mario Monti, la Pascale e le Madamine Sì-Tav. Prosit: morte al leghista, e buon Natale a tutti.Ovazioni a Mattarella e piazze piene di Sardine. L’Italia? Minacciata dal Mes. Ma non ne parlano né il capo dello Stato, né i “pesciolini” che odiano Salvini. Che razza di cortocircuito è mai questo? Per quale motivo, peraltro, il presidente della Repubblica dovrebbe meritarsi un tributo circense, da impero romano, alla prima della Scala? E perché i ragazzi-sardina (coccolati dal massimo potere, giornali e televisioni) ora cianciano di buoni sentimenti, evitando però di citare qualsiasi rogna che affligga il paese, tacendo persino di fronte al letale Fondo Ammazza-Stati? Ragazzi per modo di dire, poi: perché, oltre ai Papa-Boys attesi a Roma per l’annunciata consacrazione politica del 14 dicembre, nell’acquario delle Sardine si tuffa felice l’arci-nemico degli italiani, Mario Monti, insieme a lady Francesca Pascale, domestica sodale di quello stesso Berlusconi fischiato per anni e demonizzato dagli antenati delle Sardine, Girotondini e Popolo Viola. Ancora: dal trampolino di Torino (città che riesce sempre a brillare di luce propria, in questa Italia al tramonto) nella piscina di lusso delle Sardine si accingono a sguazzare anche le Madamine Sì-Tav, tipico esempio sabaudo di rivoluzione colorata (di palazzo, anzi di salotto, e di strettissima osservanza Fiat-Pd). E tutto questo, per cosa? Per fermare l’Uomo Nero?
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Frittura di Sardine Ue, fascismi immaginari e ebeti veri
Oggi, i partigiani comunisti che contribuirono a liberare l’Emilia Romagna prenderebbero volentieri a calci nel sedere gli amici delle Sardine, o meglio: il governo di yesmen contro cui si agita Salvini, la bestia nera dei ragazzi-pesce. Lo afferma lo storico Alessandro Guardamagna, in un intervento su “Come Don Chisciotte”. Tema: la patetica propaganda contro “il fascismo”, che non vede il fascismo vero del 2019, quello di Erdogan che tiranneggia i turchi, vessa i profughi e inonda l’Europa di foreign fighters dell’Isis, dopo averli armati e protetti. Temi non pervenuti, però, nell’agenda elettorale delle Sardine, sordomute anche di fronte alla tagliola del Mes, cioè l’agguato – firmato Conte e Gualtieri, i due maggiordomi di turno – contro ogni possibile politica autonoma in Italia (che sia di stampo salviniano o antisalviniano, non importa: se è il Mes a dirti quanto spendere, e per cosa, tu questa Italia non la governi più). Il problema? «Fascismi, sardine e ebeti», riassume Guardamagna. Quanti ebeti? Tantissimi. E vedi che combinazione: l’onda ittica “venuta dal nulla” diventa quasi una marea, proprio mentre Grillo strattona Di Maio suicidando i 5 Stelle, e la mannaia giudiziaria si abbatte sul malcapitato Renzi. Dietro le quinte, giochi paralleli (e in ombra) tra Palazzo Chigi e Quirinale: in panchina si scaldano Draghi e Prodi, i due maggiori devastatori del nostro paese negli ultimi decenni.Non si allarma, la Sardina, se l’orizzonte è ingombro di macerie vecchie di trent’anni, sempre le stesse, provocate dalle dismissioni e dalle privatizzazioni che hanno disarticolato il sistema produttivo, scatenando l’emorragia proprio dei giovani, la cosiddetta fuga dei cervelli. Prodi all’Iri e Draghi al Tesoro: un tandem micidiale, che ha sprofondato l’Italia in zona retrocessione. Ma la Sardina non lo sa, e i suoi zietti più attempati fingono di non saperlo: per loro, già reduci da Girotondi e Popolo Viola, la cancrena si chiamava Berlusconi. Che avrà mai fatto, l’imbarazzante Cavaliere? Niente, letteralmente. E’ questa la sua colpa storica, in soldoni: non ha realizzato nessuna riforma, facendo perdere tempo prezioso al paese. I suoi detrattori, in compenso, avevano già provveduto a sabotare il futuro, mettendo al collo dell’Italia il cappio di Maastricht. Alla fine l’han disarcionato, il Cavaliere, ma per mettere al suo posto quanto di peggio si potesse immaginare: Mario Monti e la sua banda di becchini, inclusa Elsa Fornero. Ma vaglielo a spiegare, alle Sardine. Puntano a testa bassa l’Uomo Nero del momento, solo quello: l’orrido Salvini. Aveva 8 anni, il capo della Lega, quando tutto cominciò: frequentava la terza elementare, mentre Ciampi staccava la spina di Bankitalia, condannando la nazione a far esplodere il debito, da allora sostenuto da “investitori” privati.Si chiama capestro: non dice niente, questa storia, alle Sardine? Non dice niente, alle loro orecchie, il favore sospetto di cui gode la loro rivoluzione colorata presso i censori del regime che controllano stampa e televisione? La puzza di bruciato fa capire che a vincere è il banco, anche stavolta. Se sei una Sardina detesti Salvini, se sei leghista ce l’hai con le Sardine. E se invece sei un semplice italiano, spettatore desolato da questo menù? Storia di ieri: l’élite neoliberale “compra” il centrosinistra per smantellare il Belpaese, e riesce persino a convincere l’elettorato di sinistra (quantomeno, gli “ebeti” di cui parla Guardamagna) che la colpa fosse del puzzone Berlusconi. Con Monti, giù la maschera: pareggio di bilancio e Fiscal Compact, fine della ricreazione. Obiettivo: prosciugare il patrimonio (case, risparmi) dopo aver impedito allo Stato di continuare ad assistere l’economia. Esplode la disoccupazione. E piange anche D’Alema, il principe dei privatizzatori: che strano, i giovani rinunciano a sposarsi e a metter su famiglia. Serviva a quel punto un bravo attore, capace di farci parlar d’altro: ed ecco Renzi. Breve stagione, inevitabilmente (zero idee su come risolvere la crisi). E dunque avanti il prossimo: largo ai grillini, altro evidente bluff. Poi, alle loro spalle, sgusciando fuori dall’obsoleto centrodestra, compare Salvini. Brutto e cattivo, proprio come Berlusconi: ha tutti i requisiti per calamitare l’ostilità degli “ebeti”.Il non-governo provvisoriamente in carica, da sua eminenza Conte in giù, balbetta la solita frittura di Bruxelles (italiani, rassegnatevi all’austerity), con il puntello dei grillini abbarbicati alle poltrone, spaventati dall’idea delle elezioni che li annullerebbero. E mentre i dominus dietro le quinte fanno i loro calcoli, avendo già allertato Prodi e Draghi, la Sardina – nel suo piccolo – si entusiasma nelle piazze, con l’ennesima scenetta all’italiana: molto rumor per nulla, non uno slogan che interpelli chi comanda. A quanto pare, si avvicina l’ora di Salvini? Il leader della Lega, criminalizzato come un fuorilegge col solito sistema (non è degno, non è umano, non è presentabile, non è neppure una persona, è un mostro, è uno xenofobo nazista da impiccare per i piedi) dovrà giocarsi una partita scomodissima. Squalificato e messo fuori gioco da qualche colpo di palazzo, grazie alla furia propedeutica dell’isterismo ittico? O al contrario, costretto – ma per davvero, per la prima volta – a fare i conti con l’Europa, come promesso dai suoi economisti “di sinistra”, come Bagnai, gli unici reclutati da un partito presente in Parlamento? Di che stoffa è, Matteo Salvini? Tralasciando le Sardine, che una risposta già ce l’hanno in tasca, sarà curioso vedere cosa ne penseranno gli italiani, gli altri, a cominciare da quelli che in Emilia non hanno ancora scelto se votare, e chi.(Giorgio Cattaneo, “Sardine, fascismi immaginari e ebeti veri”, dal blog del Movimento Roosevelt del 28 novembre 2019).Oggi, i partigiani comunisti che contribuirono a liberare l’Emilia Romagna prenderebbero volentieri a calci nel sedere gli amici delle Sardine, o meglio: il governo di yesmen contro cui si agita Salvini, la bestia nera dei ragazzi-pesce. Lo afferma lo storico Alessandro Guardamagna, in un intervento su “Come Don Chisciotte“. Tema: la patetica propaganda contro “il fascismo”, che non vede il fascismo vero del 2019, quello di Erdogan che tiranneggia i turchi, vessa i profughi e inonda l’Europa di foreign fighters dell’Isis, dopo averli armati e protetti. Temi non pervenuti, però, nell’agenda elettorale delle Sardine, sordomute anche di fronte alla tagliola del Mes, cioè l’agguato – firmato Conte e Gualtieri, i due maggiordomi di turno – contro ogni possibile politica autonoma in Italia (che sia di stampo salviniano o antisalviniano, non importa: se è il Mes a dirti quanto spendere, e per cosa, tu questa Italia non la governi più). Il problema? «Fascismi, sardine e ebeti», riassume Guardamagna. Quanti ebeti? Tantissimi. E vedi che combinazione: l’onda ittica “venuta dal nulla” diventa quasi una marea, proprio mentre Grillo strattona Di Maio suicidando i 5 Stelle, e la mannaia giudiziaria si abbatte sul malcapitato Renzi. Dietro le quinte, giochi paralleli (e in ombra) tra Palazzo Chigi e Quirinale: in panchina si scaldano Draghi e Prodi, i due maggiori devastatori del nostro paese negli ultimi decenni.
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Erdogan spietato con i curdi. Invece gli altri sono meglio?
Ci sono approfondimenti talmente contrari al comune sentire che scontentano tutti: destra, sinistra, moderati, massimalisti, patrioti, nazionalisti, sovranisti ed iperliberisti. Ebbene, l’approfondimento che segue appartiene proprio alla categoria degli “inaccettabili”. Tuttavia, come diceva Franz Kafka, bisogna anche sforzarsi di leggere testi che sono un pugno nello stomaco. Se vi siete abituati a leggere solo le informazioni che vengono dai media tradizionali, sconsiglio dunque la lettura di quel che segue. Da appassionato di storia, ho sempre nutrito una certa simpatia per le cause separatiste. Che si tratti della causa basca o catalana in Spagna, di quella irlandese nel Nord dell’isola o di quella del Donbass in Ucraina, a mio modo di vedere le comunità hanno il diritto di autodeterminarsi. Ci sono molte importanti eccezioni, però, perchè in alcuni casi il separatismo è solo anticamera di guerre civili, e quelle che a prima vista possono sembrare cause separatiste, nascondono lotte di potere interne alle comunità, oppure torbide relazioni con paesi del tutto estranei. Il caso della Cecenia è in tal senso illuminante: non si trattò affatto di guerre per l’autodetermianzione del popolo ceceno, ma di una guerra civile sponsorizzzata.Dunque, i distinguo servono eccome, altrimenti si rischia di non capirci nulla e di fare, come si suol dire, di tutta l’erba un fascio. In queste ore il presidente turco Erdogan ha ordinato un’operazione militare nel nord della Siria al fine di annullare l’operatività dei militanti curdi. Erdogan maschera questo intervento con la solita manfrina della lotta al terrorismo. Questo tema (il terrorismo), viene usato da tutti, senza eccezioni, per reprimere gli oppositori internazionali. I Bush contro Iraq e Afghanistan, Sarkozy contro la Libia, Umberto I e Bava Beccaris contro i manifestanti a Milano, l’austriaco Cecco Beppe contro i serbi e giù giù fino a Metternich contro Mazzini. Dunque, l’argomentazione di Erdogan non regge così come non reggevano quelle di Obama, di Clinton e financo di James Brooke contro Sandokan. C’è però almeno un aspetto per il quale faccio seriamente fatica a criticare l’intervento di Erdogan. Ed è la consapevolezza che il Medioriente è la polveriera del mondo. I turchi hanno dominato, amministrato e costruito infrastrutture in Medioriente per più di 500 anni di storia moderna. Le aree confinanti con l’attuale Turchia erano dentro la Turchia stessa (alias Impero Ottomano) fino al 1922 e lo erano per l’appunto, da oltre mezzo millennio. Gli stati mediorientali attuali: Siria, Libano, Israele, Giordania, Arabia Saudita sono un’invenzione geometrica anglofrancese, realizzata a tavolino dopo la Prima Guerra Mondiale attraverso il trattato Sykes-Picot.Quel trattato ha conferito potere alla tribù più retriva dell’area, i wahabiti (oggi “sauditi”) ed è una divisione innaturale, che non tiene conto delle culture delle varie altre tribù. Detto diversamente, il caos che regna in Medioriente da quasi un secolo a questa parte è interamente imputabile alle proiezioni coloniali anglofrancesi, non ai turchi che furono storicamente più tolleranti in quelle aree di quanto non lo sono oggi le tribù autoctone eterodirette (e lo ripeto: eterodirette prima da francesi e inglesi; poi da americani ed israeliani). Com’è logico che sia, dal 1922 – anno della dissoluzione dell’Impero Ottomano – ad oggi, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, e non è posssibile far finta di nulla. I turchi si sono macchiati di crimini orrendi, in primis il genocidio degli armeni durante la Prima Guerra Mondiale, avvenuto per opera di un gruppo di fanatici ottomani ai danni delle popolazioni storicamente più vicine ai russi in quel periodo: gli armeni, appunto.Non si trattò affatto però, come Hollywood vorrebbe far credere, della natura malvagia dei turchi: poco prima i coloni inglesi avevano perseguitato e sterminato fino all’estinzione la stragrande maggioranza delle tribù pellerossa in Nord America e costretto i neri africani a fare da schiavi. I belgi avevano pochi anni prima massacrato milioni di congolesi ed i tedeschi di lì a poco si sarebbero interessati agli ebrei in un modo a dir poco maniacale e demoniaco. Sì, insomma, se i turchi sono cattivi, trovatemi quelli buoni, che io ancora non ne ho conosciuti. Venendo in modo più stringente alla questione curda, al separatismo della regione del Kurdistan, ecc, la vicenda è solo apparentemente complessa. Quand’è che – storicamente – una regione separatista realizza il suo progetto e diventa uno Stato nazionale? La risposta è duplice: da un lato, ciò avviene quando quella regione riesce a farsi riconoscere come Stato dalla stragrande maggioranza degli altri paesi. In subordine, ma neanche tanto, quando un’altra nazione la aiuta in questo tortuoso e rischioso percorso. In Iraq, in Siria ed in Turchia – cioè nei paesi ove alla faccia del trattato Sykes-Picot vivono i curdi – la comunità ha fatto una scelta precisa e inequivocabile dicendo che “ad aiutarci in questa impresa saranno gli Stati Uniti d’America! Non importa se siamo comunisti, non importa se siamo antimperialisti! Sarà l’America a liberarci dai turchi e da Assad”.Al netto di tale ingenuità (fidarsi degli americani in geopolitica è come fidarsi di un promotore finanziario in banca), i siriani lealisti hanno teso una mano ai curdi in diverse occasioni. Com’è noto, date le vicende in Siria e la chiamata del leader Assad dei russi in suo soccorso, cercare una collaborazione con Assad per i curdi avrebbe significato anche cercare una collaborazione con Putin. I curdi hanno declinato gentilmente l’invito preferendo gli americani e, ora, tutti ad allargarsi la bocca e stracciarsi le vesti perchè gli americani li hanno mollati. Ma dire che i curdi hanno avuto sfortuna puntando sul cavallo sbagliato non basta. C’è dell’altro. Anche se gli americani tramite milizie ribelli l’avessero spuntata contro i siriani lealisti, che ne sarebbe stato del Kurdistan? L’ipotesi più probabile è che avrebbero realizzato una microscopica autonomia in perenne contrasto con la Turchia. Io non trascurerei tanto facilmente il fatto che Erdogan, appena tre anni or sono, ha represso un colpo di Stato militare contro di lui. Non se ne parla più, ma che gli americani non sapessero nulla di quel colpo di stato, per cortesia, lo andate a raccontare ai vostri bambini, la sera, prima di addormentarsi e dopo avergli letto quella di Biancaneve.Ora, immaginatevi questo scenario: una Turchia sempre più vassalla dell’America dopo la fine di Erdogan. Una Siria inesistente ed in mano all’Isis. Che ne sarebbe stato del laico e comunista Kurdistan? Non sarebbe forse diventato un Israele dei poveri, ulteriore elemento di destabilizzazione e di attentati? Gli islamisti vittoriosi non se lo sarebbero pappato in un attimo? Conclusione: i curdi sono stati pagati per anni dagli americani per destabilizzare l’area nella speranza che i vari gruppi di ribelli rovesciassero la Siria con la guerriglia e la Turchia con il colpo di stato. Le cose non sono andate così ed ora Erdogan fa quello che tutti farebbero: riportare la stabilità con le cattive col tacito consenso di Putin, Assad e Trump. In cambio, Erdogan acquista armi dai russi, non metterà in discussione il ruolo di Assad a Damasco e custodirà gli jihadisti catturati dagli americani per fare un piacere anche a Trump, che ha dato il via libera. E’ sempre difficile giustificare umanamente un intervento militare. Ma a comprendere Erdogan non ci vuole niente.(Massimo Bordin, “La versione di Erdogan”, dal blog “Micidial” del 10 ottobre 2019).Ci sono approfondimenti talmente contrari al comune sentire che scontentano tutti: destra, sinistra, moderati, massimalisti, patrioti, nazionalisti, sovranisti ed iperliberisti. Ebbene, l’approfondimento che segue appartiene proprio alla categoria degli “inaccettabili”. Tuttavia, come diceva Franz Kafka, bisogna anche sforzarsi di leggere testi che sono un pugno nello stomaco. Se vi siete abituati a leggere solo le informazioni che vengono dai media tradizionali, sconsiglio dunque la lettura di quel che segue. Da appassionato di storia, ho sempre nutrito una certa simpatia per le cause separatiste. Che si tratti della causa basca o catalana in Spagna, di quella irlandese nel Nord dell’isola o di quella del Donbass in Ucraina, a mio modo di vedere le comunità hanno il diritto di autodeterminarsi. Ci sono molte importanti eccezioni, però, perchè in alcuni casi il separatismo è solo anticamera di guerre civili, e quelle che a prima vista possono sembrare cause separatiste, nascondono lotte di potere interne alle comunità, oppure torbide relazioni con paesi del tutto estranei. Il caso della Cecenia è in tal senso illuminante: non si trattò affatto di guerre per l’autodetermianzione del popolo ceceno, ma di una guerra civile sponsorizzzata.
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Dezzani: il M5S, piano Usa nato per sterilizzare la protesta
Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano da occhi indiscretti. Ma le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema ricorre per esercitare il proprio dominio, scriveva l’analista geopolitico Federico Dezzani nel lontano 2015, quando a Palazzo Chigi sedeva il Matteo Renzi prima maniera, non ancora alleato dei grillini. Eppure, già allora, proprio di quelli Dezzani si occupava, definendo il Movimento 5 Stelle “la stampella del potere”. Tre anni dopo, i grillini sono andati al governo con Salvini ma piazzando lo sconoscito Conte nella sala dei bottoni. E oggi, puntualissimi, sono negli stessi ministeri ma con l’odiato Renzi e il “partito della Boschi”. Colpa di Salvini? Ma va là, direbbe Dezzani, che già quattro anni fa aveva le idee chiarissime sulla vera funzione del MoVimento, che infatti ha ricondotto all’ovile le pecorelle populiste facendo loro ingoiare persino l’inchino supremo alla Grande Germania, con l’elezione di Ursula von der Leyen a capo della Commissione Europea. A maggior ragione acquista sapore, oggi, la rilettura dell’analisi del profetico Dezzani: quello di Grillo era solo un bluff, fin dall’inizio. Operazione sofisticata, che ha ingannato milioni di elettori.
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L’Ultima Fregatura, nuovo film di Renzi nella caverna-Italia
Sarà contento, il travaglismo nazionale, di aver tolto a Salvini le chiavi del governo per riconsegnarle a Renzi. Era il IV secolo avanti Cristo quando Platone inventò il cinema, con il Mito della Caverna: quella disegnata sulla parete non è la realtà, sono solo le ombre proiettate dal fuoco. Il mondo vero, tridimensionale, è là fuori: ad andare in scena nella grotta è un semplice spettacolo. Si può cadere in errore, certo. Dipende anche dal talento del proiezionista. Il Mago di Rignano, ad esempio, ne ha da vendere: superò il 40% dei suffragi dopo aver elargito la mancia degli 80 euro, brillando nell’arte cabarettistica in cui si sarebbe cimentato Di Maio. Poco dopo, nell’estate 2016, dal cinema si passò al teatro: uno spettacolare vertice con la Merkel e Hollande, sul ponte della portaerei Garibaldi al largo di Ventonene, per celebrare la farsa dell’unità europea evocando abusivamente il fantasma di Altiero Spinelli, padre del federalismo europeo del Novecento. Un pretesto altamente scenografico, con una missione illusionistica: spacciare per Europa Unita l’aborto dell’attuale Disunione Europea, di cui l’Italia – da Renzi a Conte – si candida a restare servitrice sottomessa e depredabile.
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Perché l’Iran: Usa e Israele stan perdendo il Medio Oriente
Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.“Persa la guerra” in Siria, per gli Usa è tornata prioritaria la caduta del regime iraniano, caduta che si spera di facilitare strangolando la sua economia e impedendo l’esportazione di idrocarburi. Inizialmente, gli Usa avevano concesso una “esenzione” di 180 giorni ai principali acquirenti di greggio iraniano, poi non rinnovata nell’aprile scorso: chi avesse continuato a fare affari con Teheran, sarebbe incappato nelle contromisure americane. L’ennesimo round di sanzioni (che, in sostanza, affliggono l’Iran dal 1979), colpisce duro soprattutto i paesi industrializzati o in via di industrializzazione dell’Asia: Turchia, India, Cina, Giappone e Sud Corea. Tokyo, quarta consumatrice mondiale di greggio e decisa a non appiattirsi completamente alla strategia angloamericana, si è fatta protagonista di una singolare iniziativa: benché il suo governo si sia impegnato a tagliare gli acquisti di greggio iraniano, Shinzo Abe è volato a Teheran (la prima visita di un premier giapponese nella Repubblica Islamica!) per stemperare le tensioni e, ovviamente, mettere in sicurezza gli approvvigionamenti energetici del Giappone, che sarebbe duramente colpito da uno choc petrolifero.“L’insubordinazione” giapponese, proprio mentre gli angloamericani erano impegnati a fare terra bruciata attorno all’Iran, è stata punita col classico attacco piratesco delle potenze marittime: mentre Shinzo Abe ed il presidente Hassan Rouhani erano a colloquio, due petroliere, di cui una giapponese (la Kokuka Courageous) sono state colpite il 13 giugno nello stretto di Hormuz, davanti alle coste iraniane. Inizialmente si è parlato di siluri, ma i danni sopra la linea di galleggiamento fanno propendere per l’impiego di missili: con un’incredibile sfacciataggine, il segretario di Stato Mike Pompeo ha prontamente accusato l’Iran. Il crescendo di tensioni e provocazioni (tra cui l’invio aggiuntivo di 1.000 soldati in Medio Oriente) è culminato con l’abbattimento, il 21 giugno, di un drone americano sopra i cieli iraniani. Il mondo, ora, aspetta col fiato sospeso gli sviluppi della vicenda: un attacco all’Iran, afferma il presidente russo Vladimir Putin, sarebbe «catastrofico». Il sogno angloamericano sarebbe, ovviamente, che il regime iraniano implodesse sotto il peso delle sanzioni o, perlomeno, attaccasse per primo: è, tuttavia, uno scenario irrealistico, vuoi per la comprovata resilienza del regime alle sanzioni, vuoi per la rinomata prudenza iraniana.Un attacco militare angloamericano, magari innescato da qualche “incidente di frontiera”, resta quindi una realistica opzione, di qui al 2020. L’Iran, intanto, ha dichiarato di voler procedere con l’arricchimento dell’uranio dopo il naugrafio degli accordi dell’era Obama. In questa sede, però, ci interessa soprattutto inquadrare lo scontro in un’ottica geopolitica, cioè nel più ampio scontro tra Terra e Mare. È indubbio che l’amministrazione Trump sia sensibilissima alle esigenze di sicurezza di Israele: abbattuto l’Iraq bahatista, fallito il tentativo di impiantare un “Sunnistan” tra Siria e Iran, Teheran è ormai in grado di proiettarsi sino al ridosso di Israele. La distruzione del regime iraniano è una priorità israeliana e, quindi, americana. Tuttavia, non bisogna mai scordare che Israele assolve anche a un’importante funzione per le potenze marittime: quella cioè di mantenere in costante instabilità il Medio Oriente ed impedire che qualche potenza continentale “organizzi” la regione.Turchia e Iran, due potenze dell’Heartland in termini mackinderiani, sono gli storici “organizzatori” del Levante e della Mesopotamia: un elemento che sicuramente ha contribuito alla decisione angloamericana di aumentare la pressione sull’Iran è stato, in parallelo al suo rafforzamento militare in Siria, la sua volontà, annunciata lo scorso aprile, di costruire una ferrovia transnazionale dall’altopiano iranico sino al Mediterraneo. Poco importa se su questa ferrovia dovessero viaggiare solo merci o turisti, in ogni caso l’Iran espanderebbe la sua influenza sino al mare, attirando nelle propria orbita i vicini, e, presto o tardi, renderebbe irrilevante Israele (e gli angloamericani). La natura geopolitica dello scontro in atto (dove per “geopolitico” si intende specificatamente la dialettica Terra-Mare) spiega anche la convergenza in atto dell’Iran verso le altre due potenze dell’Heartland per eccellenza, Russia e Cina. Mosca, impegnata nelle operazioni militari in Siria, ha sinora cercato di mantenere un certo equilibrio tra Israele e Iran: tuttavia, non c’è alcun dubbio che, qualora quest’ultimo fosse attaccato, la Russia fornirebbe assistenza militare attraverso il Mar Caspio per sostenere l’urto angloamericano.Il fronte meridionale della Russia è ora relativamente “in sicurezza”; lo sarebbe molto meno se il regime iraniano dovesse cadere. Un discorso analogo vale per la Cina: non solo l’Iran è una preziosa fonte di approvvigionamento di petrolio per Pechino, ma è anche un tassello chiave del corridoio centrale della Via della Seta, che dovrebbe portare i treni cinesi fino a Istanbul passando proprio per Teheran. Un attacco all’Iran, con il suo immediato contagio di caos e violenza a tutto il Medio Oriente, rischierebbe di ritardare per anni il corridoio centrale; un’implosione del regime per decenni. Ecco perché anche Pechino ha interesse a sostenere l’Iran in questo difficilissimo momento. Zbigniew Brzezinski aveva già previsto nel 1997, nel suo The Grand Chessbord, la possibile nascita di un’alleanza “anti-egemonica” (ossia anti-angloamericana) tra Russia, Cina e Iran. «Theresult could, at least theoretically, bring together the world’s lead-ing Slavic power, the world’s most militant Islamic power, and theworld’s most populated and powerful Asian power, thereby creating a potent coalition». Quest’alleanza è in nuce, e gli Usa stanno facendo di tutto per spingere verso la guerra il membro più debole del “blocco continentale”: se guerra sarà, Cina e Russia non staranno sicuramente a guardare.(Federico Dezzani, “Perché l’Iran”, dal blog di Dezzani del 21 giugno 2019. La traduzione del passo di Brzezinski: «Almeno teoricamente, potrebbero unirsi il principale potere slavo del mondo, la potenza islamica più militante del mondo e il potere asiatico più popoloso e potente del mondo, creando così una potente coalizione»).Spirano venti di guerra nel Golfo Persico, dove all’inasprimento delle sanzioni economiche contro l’Iran si aggiunge un numero crescente di provocazioni militari: la speranza di Washington è che il regime iraniano imploda sotto il peso delle molteplici pressioni ma, data la solidità di quest’ultimo, non è neppure escludibile un attacco militare diretto, di qui al 2020. Meglio sarebbe, ovviamente, se Teheran cadesse nella trappola di attaccare per primo. Alla base della strategia angloamericana c’è sicuramente la volontà di mantenere la superiorità regionale di Israele, destabilizzando il principale avversario; c’è, però, anche la volontà di scardinare una potenza terrestre che, a fianco di Russia e Cina, sta “organizzando” il Medio Oriente con importanti infrastrutture. Nella nostra analisi geopolitica per il 2019, “Dal golfo di Biscaglia al Mar cinese”, non ci eravamo ovviamente scordati di menzionare l’Iran che, sin dall’inverno 2017/2018, era stato preso di mira dall’amministrazione Trump. Ai soliti tentativi di rivoluzione colorata, si è aggiunto, nel corso del 2018, un ritorno alle sanzioni, sospese durante l’era Obama: la presidenza democratica, già impegnata nella destabilizzazione della Siria (e nel tentativo di scatenare una guerra turco-iraniana), aveva infatti allentato la morsa sull’Iran, per impedire che questo si gettasse nelle braccia della Russia.
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A Milano tutta la verità sulla scomparsa di Federico Caffè
Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.Cosa c’era in ballo? Il nuovo assetto del mondo: l’imminente crollo dell’Urss e l’avvento della “dittatura” tecnocratica di Bruxelles, fondata sull’austerity. Fino al dilagare del neoliberismo globalizzato, dominato dalla finanza predatoria. Nel saggio “Il più grande crimine”, Paolo Barnard indica una data precisa per l’inizio della grande restaurazione, da parte dell’élite antidemocratica: il 1971, anno in cui a Wall Street l’avvocato d’affari Lewis Powell fu incaricato dalla Camera di Commercio Usa di redigere il famigerato Memorandum per la riconquista del potere da parte dell’oligarchia, costretta sulla difensiva per decenni in tutto l’Occidente grazie alla storica avanzata del progressismo liberale, socialista e sindacale. Era il segnale della “fine della ricreazione”: da allora, sempre meno diritti – per tutti. Ci vollero anni, naturalmente, per passare ai fatti. E’ del 1975 il manifesto “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale a Michel Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki. La tesi: troppa democrazia fa male. Parola d’ordine: togliere agli Stati il potere di spesa, necessario per alimentare il welfare e quindi il benessere diffuso.Cinque anni dopo esplosero Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher nel Regno Unito. Cattivi maestri: l’austriaco Friedrich von Hayek e l’americano Milton Friedman, economista della Scuola di Chicago. Stesso dogma: tagliare il debito pubblico, rinunciare al deficit. Pareggio di bilancio: meno soldi al popolo, all’economia reale. Un incubo, culminato con i recentissimi orrori del rigore europeo, capace di martirizzare la Grecia lasciando gli ospedali senza medicine per i bambini. Come si è potuti arrivare a tanto? In molti modi, e attraverso infiniti passaggi. Il primo dei quali è tristemente noto: la demolizione di John Maynard Keynes, il più eminente economista del ‘900. Se il lascito di Marx aveva forgiato la coscienza sociale degli operai, sfruttati dal capitalismo selvaggio, l’inglese Keynes escogitò un sistema perfetto per rimettere in equilibrio capitale e lavoro, attraverso la leva finanziaria strategica dello Stato. Ereditando un’America messa in ginocchio dalla Grande Depressione del 1929, Roosevelt con il New Deal fece esattamente il contrario di quanto gli aveva consigliato la destra economica: anziché tagliare la spesa per “risanare” i conti pubblici, mise mano a un deficit illimitato per creare lavoro.L’altra mossa, decisiva, fu il Glass-Steagall Act: netta separazione tra banche d’affari e credito ordinario, per evitare che i risparmi di famiglie e imprese finissero ancora una volta nella roulette della Borsa. Un atto eroico, la guerra contro la finanza speculativa, rinnegato – a distanza di mezzo secolo – dal “progressista” Bill Clinton, subito dopo il famoso sexgate che l’aveva travolto, l’affare Monica Lewinsky. Nel frattempo, in Europa, era stato Tony Blair a rottamare il socialismo liberaldemocratico dei laburisti, inaugurando – con Clinton – la sciagurata “terza via” che avrebbe condotto l’ex sinistra a smarrire se stessa. Desolante il caso italiano: passando per Romano Prodi, lo smantellatore dell’Iri, si va dal Massimo D’Alema che nel 1999 si vantava di aver trasformato Palazzo Chigi in una merchant bank, realizzando il record europeo delle privatizzazioni, per arrivare all’infimo Bersani, capace nel 2011 si sottomettere il Pd al governo Monti, sottoscrivendo i tagli senza anestesia, il Fiscal Compact, la legge Fornero sulle pensioni e il pareggio di bilancio in Costituzione.Una pesca miracolosa, quella condotta dall’élite tra le fila dell’ex sinistra: a partire dallo storico divorzio fra Tesoro e Bankitalia con la regia di Ciampi, la vera “notte della Repubblica” (attacco ai diritti del lavoro, flessibilità e precarizzazione) è stata condotta con la complicità di personaggi come Visco, Bassanini, Padoa Schioppa, Amato, lo stesso Ciampi e altri baroni della nuova tecnocrazia “incoronata” da Mani Pulite, al servizio delle potenze straniere intenzionate a saccheggiare il Belpaese grazie alla “cura” finto-europeista. Lo spiegò lo stesso Galloni in una memorabile intervista a “ByoBlu”: la deindustrializzazione dell’Italia fu pretesa della Germania come compensazione, in cambio della rinuncia al marco. Era stata la Francia di Mitterrand a imporre l’euro ai tedeschi, pena il veto francese alla riunificazione delle due Germanie. Cominciava una festa, per molta parte d’Europa, caduta la Cortina di Ferro grazie a Gorbaciov. Per l’Italia, invece, il sogno si sarebbe trasformato in un incubo. Supremo regista della grande illusione, Mario Draghi: a bordo del Britannia di mise a disposizione dei poteri che progettavano la svendita del paese, venendo poi premiato prima come governatore di Bankitalia e poi come presidente della Bce.Oggi, grazie a tutto questo, è diventato “normale” che un governo italiano non riesca a ottenere un deficit del 2,4% (irrisorio), ed è “fisiologico” che il fantasma dell’ex sinistra – il Pd – trovi giusto che siano i commissari Ue, non eletti da nessuno, a poter calpestare un esecutivo regolarmente eletto. Peggio: è stato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a spiegare – bocciando la nomina di Paolo Savona come ministro dell’economia – che sono i mercati, e non gli elettori, ad avere l’ultima parola. Contro questa palude si muove il laboratorio politico rappresentato dal Movimento Roosevelt. Obiettivo: ribaltare il tavolo delle convenzioni dogmatiche degli ultimi trent’anni, risvegliando la politica dormiente fino a portarla a riscrivere le regole. La prima: Europa o meno, il popolo deve tornare sovrano. Tradotto: le elezioni devono poter decidere chi governerà davvero, e come. E a dire di no a un governo eletto potrà essere solo, domani, un governo federale europeo a sua volta emanato democraticamente dall’Europarlamento, sulla base di una Costituzione democratica che oggi l’Ue non sa neppure cosa sia. Chi l’ha detto che il deficit non può superare il 3% del Pil? Il Trattato di Maastricht va gettato nella spazzatura, ecco il punto. Bel problema: da dove cominciare?La prima cosa da fare è dire finalmente la verità: lo sostiene Magaldi, che il Movimento Roosevelt l’ha creato. Rivelazioni e denunce continue, da parte sua. Mattarella? Un paramassone che obbedisce al massone Visco di Bankitalia, a sua volta un burattino del massone Draghi. Di Maio che omaggia la Merkel, dopo aver ceduto sul deficit gialloverde? Brutto segno: tenta di accreditarsi presso le superlogge come la Golden Eurasia, quella della Cancelliera, sperando così di sopravvivere al prevedibile declino dei 5 Stelle. Grande occasione perduta, il governo del non-cambiamento, di fatto prono ai diktat della Disunione Europea che sta mandando in malora l’economia del continente. Fenomeno vistoso: si sta impoverendo la classe media alla velocità della luce, come dimostrano i Gilet Gialli in Francia, dove qualcuno – dice sempre Magaldi – ha pensato bene di dare alle fiamme persino un simbolo nazionale come Notre-Dame. Sono sempre loro, i registi occulti della strategia della tensione europea: hanno seminato il terrore nelle piazze per spianare la strada all’austerity dei governi.Rosselli, Palme e Sankara: ecco, da dove ripartire. Socialismo liberale: il grande premier svedese voleva “tagliare le unghie al capitalismo”. Stava per essere eletto segretario generale dell’Onu: poltrona da cui avrebbe vegliato anche sull’Europa, impedendo che si arrivasse a questo aborto di Unione Europea. Certo, c’è dell’altro: qualcuno nel frattempo avrebbe fatto entrare la Cina nel Wto senza pretendere nessuna garanzia, da Pechino, sui diritti dei lavoratori. Risultato: concorrenza sleale sui prezzi delle merci e grande crisi della manifattura occidentale. E qualcun altro, l’11 settembre del 2001, avrebbe fatto saltare in aria le Torri Gemelle a New York. Obiettivo: poter invadere l’Iraq e l’Afghanistan, fabbricando il fantasma del terrorismo jihadista (Al-Qaeda, Isis) con cui ricattare il mondo. Bagni di sangue (Libia, Siria) o rivoluzioni colorate (Georgia, Ucraina), o magari primavere arabe (Tunisia, Egitto): il risultato non cambia, si punta sempre sul caos. Così l’Italia si scanna sui migranti e il Pd attacca Salvini anziché Macron. E nessuno guarda al di là del mare.Lo fa Ilaria Bifarini, anche lei attesa al convegno di Milano con il suo saggio “I coloni dell’austerity”, ovvero “Africa, neoliberismo e migrazioni di massa”. Negli anni ‘80, quando Olof Palme faceva della Svezia il paradiso europeo del welfare, l’africano Thomas Sankara trasformava l’Alto Volta coloniale nel coraggiosissimo Burkina Faso, il “paese degli uomini liberi”, con una promessa: nessuno, qui, morirà più di fame. Lo disse ad alta voce, nel 1987, davanti ai leader africani: chiediamo all’Occidente di cancellare il debito dell’Africa. Tre mesi dopo fu ucciso, su mandato francese. In Africa, il giovane Sankara godeva di un prestigio immenso, pari a quello di Palme in Europa. Con loro ancora al potere, non avremmo visto né questa Ue né i barconi dei migranti. Il premier svedese era stato freddato un anno prima, da un killer rimasto sconosciuto. Non così i mandanti: “La palma svedese sta per cadere”, telegrafò alla vigilia dell’omicidio Licio Gelli, il capo della P2, avvertendo il parlamentare statunitense Philip Guarino. Lo scrive, nel saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, lo stesso Gianfranco Carpeoro, altro esponente “rooseveltiano” impegnato nell’assise milanese, da cui ora si attendono precise rivelazioni sulle connessioni tra i delitti Palme e Sankara e la scomparsa di Caffè. Erano uomini da eliminare: troppo ingombranti, per chi voleva instaurare – in Europa e nel mondo – il regno del caos e dei profitti stellari, al prezzo dell’impoverimento generale.Tutto questo, purtroppo, è molto massonico. Lo sostiene Gioele Magaldi, che nel suo saggio spiega che nel 1980 tutte le superlogge – anche quelle progressiste – aderirono al patto “United Freemasons for Globalization”. Una tregua armata, dopo che negli anni Sessanta erano stati uccisi Bob Kennedy e Martin Luther King: un ticket fantastico, che le Ur-Lodges democratiche avrebbero voluto alla Casa Bianca, come presidente e vice. E’ come se la stessa mano provvedesse a uccidere gli avversari che non si possono corrompere né intimidire. Per inciso, aggiunge Magaldi, erano massoni anche Palme e Sankara, così come Gandhi, Mandela e lo stesso Yitzhak Rabin, assassinato da manovalanza estremista. Quanto al convegno di Milano, chiosa Magaldi, non si tratta di limitarsi a celebrare la memoria di giganti come Rosselli e Palme, Sankara e Caffè: l’intenzione è quella di creare una nuova agenda politica, in base alla quale nessuno possa più fingere di essere progressista mentre soggiace alla post-democrazia Ue. Una sfida a viso aperto: c’è da fare una rivoluzione culturale. Il pareggio di bilancio? E’ un crimine politico contro il popolo. Sarebbe ben lieto di spiegarlo autorevolmente lo stesso Caffè, se fosse ancora qui, in questa Italia le cui televisioni spacciano per verità le frottole quotidiane di personaggi come Elsa Fornero e Carlo Cottarelli, mestieranti nostrani del peggior neoliberismo.(Il convegno “Nel segno di Olof Palme, Carlo Rosselli, Thomas Sankara e contro la crisi globale della democrazia” è promosso dal Movimento Roosevelt venerdì 3 maggio 2019 a Milano, col patrocinio del Comune, presso la sala conferenze del Museo del Risorgimento a Palazzo Moriggia, via Borgonuovo 23 (zona Brera), dalle ore 10 alle 17.30. Interverranno Angelo Turco, Gioele Magaldi e l’ambasciatore italiano in Svezia Marco Cospito, insieme a Felice Besostri, Nino Galloni, Paolo Becchi, Gianfranco Carpeoro, Otto Bitjoka, Marco Moiso, Sergio Magaldi, Egidio Rangone, Danilo Broggi, Pierluigi Winkler, Giovanni Smaldone, Michele Petrocelli, Aldo Storti, Marco Perduca e Lorenzo Pernetti. Nel corso dell’evento, introdotto da brevi rappresentazioni teatrali su Sankara e Rosselli offerte da Ricky Dujany e Diego Coscia, verrà presentato il bestseller di Ilaria Bifarini “I coloni dell’austerity”, mentre Carlo Toto e Paolo Mosca anticiperanno il trailer del docu-film “M: il Back-Office del Potere”. Tra i dirigenti del Movimento Roosevelt interverranno anche Daniele Cavaleiro, Roberto Alice, Fiorella Rustici, Zvetan Lilov, Alberto Allas, Roberto Luongo, Roberto Hechich, Massimo Della Siega e Roberto Peron. Per informazioni: segreteria generale e presidenza del MR. Coordinamento ufficio stampa e relazioni esterne: Monica Soldano, 348.2879901).Nella notte fra il 14 e il 15 aprile del 1987 lasciò la sua casa di Roma, dove viveva con il fratello. Non fu mai ritrovato: la scomparsa di Federico Caffè rimane tuttora un mistero irrisolto. Non per tutti, però: «La sua sparizione è strettamente connessa con due omicidi eccellenti, quello di Olof Palme e quello di Thomas Sankara». Lo afferma Gioele Magaldi, autore del bestseller “Massoni” che illumina insospettabili retroscena sulla massoneria di potere che ha imposto l’attuale globalizzazione. Clamorose rivelazioni in vista, a quanto pare, nell’ambito del convegno promosso a Milano il 3 maggio dal Movimento Roosevelt. Del professor Caffè – vero e proprio cervello dell’economia keynesiana nel dopoguerra – parlerà anche un suo illustre allievo, l’economista Nino Galloni, svelando ulteriori dettagli inediti sul giallo della sua scomparsa. Tema dell’assise: presentare pubblicamente il Movimento Roosevelt come laboratorio politico nato per uscire dal tunnel del neoliberismo e riconquistare la perduta sovranità democratica. La ricetta? Il socialismo liberale di Carlo Rosselli, marginalizzato già durante il fascismo dagli stessi socialisti. Due eredi di questa dottrina – lo svedese Palme e l’africano Sankara – furono assassinati nel giro di pochi mesi, a cavallo della sparizione di Caffè.
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Scuola di golpe: è nato in Serbia l’oscuro progetto Guaidò
Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».Al contempo il Canada, numerose nazioni europee, Israele e il blocco dei governi latinoamericani di destra, conosciuti come il Gruppo di Lima, hanno riconosciuto Guaidó come il leader legittimo del Venezuela. Mentre Guaidó sembra essersi materializzato dal nulla, è in realtà il prodotto di oltre un decennio di coltivazione attenta da parte delle “fabbriche di cambio di regime” del governo degli Stati Uniti. Accanto a un gruppo di attivisti studenteschi di destra, Guaidó è stato coltivato per minare il governo socialista, destabilizzare il paese e un giorno prendere il potere. Sebbene sia stato una figura minore nella politica venezuelana, ha passato anni a dimostrare la sua “dignità” nelle sale del potere di Washington. «Juan Guaidó è un personaggio creato per questa circostanza», ha detto a “Grayzone” Marco Teruggi, sociologo argentino e tra i principali cronisti della politica venezuelana. «È la logica di laboratorio: Guaidó è come una miscela di diversi elementi che creano un personaggio che, in tutta onestà, oscilla tra il risibile e il preoccupante».Diego Sequera, giornalista e scrittore venezuelano per l’agenzia investigativa “Mision Verdad”, concorda: «Guaidó è più popolare fuori dal Venezuela che dentro, specialmente nelle élite Ivy League e nei circoli di Washington. È un personaggio conosciuto lì, è prevedibilmente di destra ed è considerato fedele al programma». Mentre Guaidó è oggi venduto come il volto della restaurazione democratica, ha trascorso la sua carriera nella fazione più violenta del partito di opposizione più radicale del Venezuela, posizionandosi in prima linea in una campagna di destabilizzazione dopo l’altra. Il suo partito è stato ampiamente screditato in Venezuela, ed è ritenuto in parte responsabile della frammentazione di un’opposizione fortemente indebolita. «Questi leader radicali non hanno più del 20% nei sondaggi d’opinione», scrive Luis Vicente León, il principale sondaggista del Venezuela. Secondo Leon, il partito di Guaidó rimane isolato perché la maggioranza della popolazione non vuole la guerra: «Quello che vogliono è una soluzione».Ma questo è precisamente il motivo per cui Guaidó è stato scelto da Washington: non è previsto che guidi il Venezuela verso la democrazia, ma che faccia collassare un paese che negli ultimi due decenni è stato un baluardo di resistenza all’egemonia degli Stati Uniti. La sua improbabile ascesa segna il culmine di un progetto durato due decenni per distruggere un solido esperimento socialista. Dall’elezione del 1998 di Hugo Chavez, gli Stati Uniti hanno combattuto per ripristinare il controllo sul Venezuela e le sue vaste riserve petrolifere. I programmi socialisti di Chavez hanno in parte ridistribuito la ricchezza del paese e aiutato a sollevare milioni dalla povertà, ma gli hanno anche dipinto un bersaglio sulle spalle. Nel 2002, l’opposizione di destra venezuelana lo depose con un colpo di Stato che aveva il sostegno e il riconoscimento degli Stati Uniti, ma l’esercito ripristinò la sua presidenza dopo una mobilitazione popolare di massa. Durante le amministrazioni dei presidenti degli Stati Uniti George W. Bush e Barack Obama, Chavez è sopravvissuto a numerosi tentativi di omicidio, prima di soccombere al cancro nel 2013. Il suo successore, Nicolás Maduro, è sopravvissuto a tre attentati.L’amministrazione Trump ha immediatamente elevato il Venezuela al vertice della lista dei cambi di regime di Washington, dandogli il marchio di leader di una “troika della tirannia”. L’anno scorso, la squadra di sicurezza nazionale di Trump ha cercato di reclutare membri dell’esercito venezuelano per istaurare una giunta militare, ma questo sforzo è fallito. Secondo il governo venezuelano, gli Stati Uniti erano anche coinvolti in una trama chiamata “Operazione Costituzione” per catturare Maduro nel palazzo presidenziale di Miraflores, e un’altra chiamata “Operazione Armageddon” per assassinarlo a una parata militare nel luglio 2017. Poco più di un anno dopo, i leader dell’opposizione esiliata hanno cercato di uccidere Maduro, usando droni-bomba durante una parata militare a Caracas. Più di un decennio prima di questi intrighi, un gruppo di studenti dell’opposizione di destra fu selezionato e curato da un’accademia di formazione d’élite per il cambio di regimi, finanziata dagli Stati Uniti per rovesciare il governo venezuelano e ripristinare l’ordine neoliberista.Il 5 ottobre 2005, con la popolarità di Chavez al suo apice e il suo governo che pianifica vasti programmi socialisti, cinque “leader studenteschi” venezuelani arrivarono a Belgrado, in Serbia, per iniziare l’addestramento per un’insurrezione. Gli studenti erano arrivati dal Venezuela per gentile concessione del Centro per le azioni e strategie nonviolente applicate, o Canvas. Questo gruppo è finanziato in gran parte attraverso il National Endowment for Democracy, un cut-out della Cia che funziona come il braccio principale del governo degli Stati Uniti per promuovere i cambi di regime, e propaggini come l’International Republican Institute e il National Democratic Institute for International Affairs. Secondo le e-mail interne trapelate da Stratfor, una società di intelligence nota come “la Cia-ombra”, «Canvas potrebbe aver ricevuto finanziamenti e addestramento dalla Cia durante la lotta anti-Milosevic del 1999-2000».Canvas è uno spin-off di Otpor, un gruppo di protesta serbo fondato da Srdja Popovic nel 1998 all’Università di Belgrado. Otpor, che significa “resistenza” in serbo, è stato il gruppo studentesco che ha guadagnato fama internazionale – e la pubblicità di Hollywood – mobilitando le proteste che alla fine hanno fatto cadere Slobodan Milosevic. Questa piccola cellula di specialisti del cambio di regime operava secondo le teorie del defunto Gene Sharp, “il Von Clausewitz della lotta non violenta”. Sharp aveva lavorato con un ex analista della Defense Intelligence Agency, il colonnello Robert Helvey, per ideare le linee guida per l’utilizzo della protesta come una forma di guerra ibrida, mirata agli Stati che resistevano alla dominazione unipolare di Washington. Otpor è stato sostenuto dal National Endowment for Democracy, dall’Usaid e dall’Istituto Albert Einstein di Sharp. Sinisa Sikman, uno dei creatori di Otpor, una volta ha detto che il gruppo ha persino ricevuto finanziamenti diretti della Cia.Secondo un’e-mail trapelata dallo staff di Stratfor, dopo aver eliminato Milosevic dal potere, «i ragazzi che gestivano Otpor sono cresciuti, si sono vestiti bene e hanno progettato Canvas, o in altre parole un gruppo “export-a-revolution” che ha gettato i semi delle varie altre “rivoluzioni colorate”. Sono ancora legati ai finanziamenti degli Stati Uniti e fondamentalmente vanno in giro per il mondo cercando di rovesciare dittatori e governi autocratici (quelli che agli Usa non piacciono)». Stratfor ha rivelato che Canvas «ha rivolto la sua attenzione al Venezuela» nel 2005, dopo aver addestrato i movimenti di opposizione che hanno portato le operazioni di cambio di regime pro-Nato in tutta l’Europa orientale. Mentre monitorava il programma di formazione Canvas, Stratfor ha delineato il suo programma insurrezionalista in un linguaggio straordinariamente chiaro: «Il successo non è affatto garantito, e i movimenti studenteschi sono solo l’inizio di quello che potrebbe essere uno sforzo di anni per innescare una rivoluzione in Venezuela, ma i formatori sono le persone che si sono fatte le ossa col “Macellaio dei Balcani”. Hanno delle abilità pazzesche. Quando vedrete studenti in cinque università venezuelane tenere dimostrazioni simultanee, saprete che la formazione è finita e il vero lavoro è iniziato».Il “vero lavoro” è iniziato due anni dopo, nel 2007, quando Guaidó si è laureato presso l’Università Cattolica Andrés Bello di Caracas. Si è trasferito a Washington per iscriversi al corso di governance e gestione politica presso la George Washington University sotto la guida dell’economista venezuelano Luis Enrique Berrizbeitia, uno dei principali economisti neoliberali latinoamericani. Berrizbeitia è un ex direttore esecutivo del Fondo Monetario Internazionale, che ha trascorso oltre un decennio lavorando nel settore energetico venezuelano sotto il vecchio regime oligarchico poi estromesso da Chavez. Quell’anno, Guaidó contribuì a guidare i raduni anti-governativi dopo che il governo venezuelano rifiutò di rinnovare la licenza di “Radio Caracas Televisión” (Rctv). Questa stazione privata svolse un ruolo di primo piano nel colpo di Stato del 2002 contro Hugo Chavez. “Rctv” aiutò a mobilitare i manifestanti anti-governativi, diffondendo informazioni false che incolpavano i sostenitori del governo di atti di violenza, compiuti in realtà dai membri dell’opposizione, e censurò tutte le dichiarazioni pro-governative in occasione del colpo di Stato.Il ruolo di “Rctv” e di altre stazioni di proprietà degli oligarchi nel guidare il fallito tentativo di colpo di Stato è stato ben descritto nell’acclamato documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”. Nello stesso anno, gli studenti rivendicarono il merito di aver soffocato il referendum costituzionale di Chavez per “un socialismo del XXI secolo” che prometteva di «impostare il quadro legale per la riorganizzazione politica e sociale del paese, dando un potere diretto alle comunità organizzate come prerequisito per lo sviluppo di un nuovo sistema economico». Dalle proteste su “Rctv” e referendum, nacque un gruppo specializzato di attivisti del cambio di regime sostenuto dagli Stati Uniti. Si sono definiti “Generation 2007”. I formatori di Stratfor e Canvas di questa cellula hanno identificato un organizzatore chiamato Yon Goicoechea, alleato di Guaidó – quale “fattore chiave” nel soffocamento del referendum costituzionale. L’anno seguente, Goicochea fu ricompensato per i suoi sforzi con il Milton Friedman Prize for Advancing Liberty del Cato Institute, insieme a un premio di 500.000 dollari, che investì prontamente nella costruzione della sua rete politica “Prima la Libertà” (Primero Justicia).Friedman, naturalmente, era il padrino del famigerato think-tank neoliberista dei Chicago Boys che fu importato in Cile dal leader della giunta dittatoriale Augusto Pinochet per attuare politiche di radicale austerità fiscale in stile “shock-doctrine”. E il Cato Institute è il think-tank neoliberista di Washington, fondato dai fratelli Koch, due grandi donatori del partito repubblicano che sono diventati aggressivi sostenitori della destra in tutta l’America Latina. WikiLeaks ha pubblicato un’e-mail del 2007 che l’ambasciatore americano in Venezuela William Brownfield ha inviato al Dipartimento di Stato, al Consiglio di sicurezza nazionale e al Comando meridionale del Dipartimento della difesa elogiando «la Generazione del ‘07» per aver «costretto il presidente venezuelano, abituato a fissare l’agenda politica, a reagire spropositatamente». Tra i «leader emergenti» identificati da Brownfield c’erano Freddy Guevara e Yon Goicoechea. Ha applaudito quest’ultima figura come «uno dei difensori più articolati delle libertà civili». Riempiti di denaro dagli oligarchi neoliberali, i quadri radicali venezuelani hanno portato le loro tattiche Otpor nelle strade, insieme a una loro particolare versione del logo del gruppo.Nel 2009, gli attivisti giovanili di “Generation 2007” hanno messo in scena la loro dimostrazione più provocatoria, calandosi i pantaloni nelle strade e scimmiottando le “scandalose” tattiche di “guerrilla” delineate da Gene Sharp nei suoi manuali sul cambio di regime. I manifestanti si erano mobilitati contro l’arresto di un alleato di un altro gruppo giovanile, chiamato Javu. Questo gruppo di estrema destra «raccolse fondi da una varietà di fonti governative degli Stati Uniti, che gli permisero di acquisire rapida notorietà come l’ala più dura dei movimenti di opposizione», secondo il libro dell’accademico George Ciccariello-Maher, “Building the Commune”. Mentre i video della protesta non sono disponibili, molti venezuelani hanno identificato Guaidó come uno dei suoi partecipanti chiave. Sebbene l’accusa non sia confermata, è certamente plausibile; i manifestanti con le natiche nude erano membri del nucleo interno di “Generazione 2007” a cui apparteneva Guaidó e indossavano le T-shirt col loro marchio di fabbrica “Resistencia!”.Quell’anno, Guaidó si espose al pubblico in un altro modo, fondando un partito politico per catturare l’energia anti-Chavez che la sua “Generazione 2007” aveva coltivato. Il partito, chiamato “Volontà popolare”, fu guidato da Leopoldo López, un purosangue di destra educato a Princeton, pesantemente coinvolto nei programmi del National Endowment for Democracy ed eletto sindaco di un distretto di Caracas tra i più ricchi del paese. Lopez era un ritratto dell’aristocrazia venezuelana, direttamente discendente dal primo presidente del suo paese. È anche cugino di Thor Halvorssen, fondatore della Human Rights Foundation, con sede negli Stati Uniti, che funge da facciata pubblicitaria per gli attivisti anti-governativi sostenuti dagli Stati Uniti in paesi presi di mira da Washington. Sebbene gli interessi di Lopez fossero allineati perfettamente con quelli di Washington, i documenti diplomatici statunitensi pubblicati da WikiLeaks mettevano in luce le tendenze fanatiche che avrebbero portato alla marginalizzazione dal consenso popolare.Un comunicato identificava Lopez come «una figura di divisione all’interno dell’opposizione, spesso descritta come arrogante, vendicativa e assetata di potere». Altri hanno evidenziato la sua ossessione per gli scontri e il suo «approccio intransigente» come fonte di tensione con altri leader dell’opposizione, che davano priorità all’unità e alla partecipazione alle istituzioni democratiche del paese. Nel 2010 “Volontà Popolare” e i suoi sostenitori stranieri si sono mossi per sfruttare la peggiore siccità che avesse colpito il Venezuela, da decenni. La grande carenza di energia elettrica aveva colpito il paese a causa della scarsità d’acqua, necessaria per alimentare le centrali idroelettriche. La recessione economica globale e un calo dei prezzi del petrolio aggravarono la crisi, provocando il malcontento pubblico. Stratfor e Canvas – i principali consiglieri di Guaidó e dei suoi quadri anti-governativi – escogitarono un piano scandalosamente cinico per pugnalare al cuore la rivoluzione bolivariana. Il piano prevedeva un crollo del 70% del sistema elettrico del paese già nell’aprile 2010.«Questo potrebbe essere l’evento spartiacque, poiché c’è poco che Chavez possa fare per proteggere i poveri dal fallimento di quel sistema», dichiara il memorandum interno di Stratfor. «Questo avrà probabilmente l’effetto di galvanizzare i disordini pubblici in un modo che nessun gruppo di opposizione potrebbe mai sperare di generare. A quel punto, un gruppo di opposizione potrebbe servirsene per approfittare della situazione e scagliare l’opinione pubblica contro Chavez». In quel momento l’opposizione venezuelana riceveva 40-50 milioni di dollari l’anno da organizzazioni governative statunitensi come Usaid e National Endowment for Democracy, secondo un rapporto di un think-tank spagnolo, l’Istituto Frude. Aveva anche una grande ricchezza da attingere dai suoi conti, che erano per lo più al di fuori del paese. Ma lo scenario immaginato da Statfor non si realizzò, gli attivisti del partito “Volontà Popolare” e i loro alleati misero quindi da parte ogni pretesa di non violenza e si unirono in un piano radicale di destabilizzazione del paese.Nel novembre 2010, secondo le e-mail ottenute dai servizi di sicurezza venezuelani e presentate dall’ex ministro della giustizia Miguel Rodríguez Torres, Guaidó, Goicoechea e diversi altri attivisti studenteschi hanno partecipato ad un corso di formazione segreto di cinque giorni presso l’hotel Fiesta Mexicana di Città del Messico. Le sessioni sono state condotte da Otpor, i formatori del cambio regime a Belgrado appoggiati dal governo degli Stati Uniti. Secondo quanto riferito, l’incontro aveva ricevuto la benedizione di Otto Reich, un esiliato cubano fanaticamente anticastrista che lavorava nel Dipartimento di Stato di George W. Bush, e dall’ex presidente colombiano di destra Alvaro Uribe. All’hotel Fiesta Mexicana, Guaidó e i suoi compagni attivisti hanno ordito un piano per rovesciare Hugo Chavez generando il caos attraverso spasmi prolungati di violenza di strada.Tre personaggi dell’industria petrolifera – Gustavo Tovar, Eligio Cedeño e Pedro Burelli – hanno a quanto pare pagato il conto di 52.000 dollari dell’albergo. Torrar è un autoproclamato “attivista per i diritti umani” e “intellettuale”, il cui fratello minore Reynaldo Tovar Arroyo è il rappresentante in Venezuela della società petrolifera messicana privata Petroquimica del Golfo, che ha un contratto con lo Stato venezuelano. Cedeño, da parte sua, è un fuggitivo uomo d’affari venezuelano che ha chiesto asilo negli Stati Uniti, e Pedro Burelli un ex dirigente della Jp Morgan ed ex direttore della compagnia petrolifera nazionale venezuelana Petroleum of Venezuela (Pdvsa). Lasciò la Pdvsa nel 1998 mentre Hugo Chavez prendeva il potere, e faceva parte del comitato consultivo del programma di leadership in America Latina della Georgetown University. Burelli ha insistito sul fatto che le e-mail che dettagliavano la sua partecipazione erano state inventate, e ha persino assunto un investigatore privato per dimostrarlo. L’investigatore dichiarò che i registri di Google mostravano che le e-mail che si presumeva fossero sue non vennero mai trasmesse.Eppure oggi Burelli non fa mistero del suo desiderio di vedere deposto l’attuale presidente venezuelano, Nicolás Maduro, e anche di volerlo «trascinato per le strade e sodomizzato con una baionetta», come accaduto al capo libico Muhammar Gheddafi, così trattato dai miliziani sostenuti dalla Nato. La presunta trama di Fiesta Mexicana è confluita in un altro piano di destabilizzazione, rivelato in una serie di documenti mostrati dal governo venezuelano. Nel maggio 2014, Caracas ha rilasciato documenti che descrivono un complotto di omicidio contro il presidente Nicolás Maduro. Le fughe di notizie hanno identificato Maria Corina Machado, con sede a Miami, come leader del piano. Estremista con un debole per la retorica estrema, Machado ha funto da collegamento internazionale per l’opposizione, incontrando addirittura il presidente George W. Bush nel 2005. «Penso che sia tempo di raccogliere gli sforzi; fai le chiamate necessarie e ottieni finanziamenti per annientare Maduro e il resto andrà in pezzi», ha scritto Maria Corina Machado in una e-mail all’ex diplomatico venezuelano Diego Arria nel 2014.In un’altra email, la Machado sosteneva che la trama violenta aveva la benedizione dell’ambasciatore statunitense in Colombia, Kevin Whitaker. «Ho già deciso, e questa lotta continuerà fino a quando questo regime non sarà rovesciato e consegneremo il risultato ai nostri amici nel mondo. Se sono andata a San Cristobal e mi sono esposta all’Oas, non ho paura di nulla. Kevin Whitaker ha già riconfermato il suo sostegno e ha sottolineato i nuovi passaggi. Abbiamo un libretto degli assegni più forte di quello del regime per rompere l’anello di sicurezza internazionale». Nel febbraio 2014, i manifestanti studenteschi che agivano come truppe d’assalto per l’oligarchia in esilio eressero barricate in tutto il paese, trasformando quartieri controllati dall’opposizione in fortezze violente, note come “guarimbas”. Mentre i media internazionali ritraevano lo sconvolgimento come una protesta spontanea contro la regola del pugno di ferro di Maduro, ci sono molte prove che fosse “Volontà Popolare” ad orchestrare lo spettacolo.«I manifestanti delle università non indossavano le loro magliette, tutti indossavano magliette di “Volontà Popolare” o “Justice First”», ha detto un partecipante alla “guarimba”, all’epoca. «Potrebbero essere stati gruppi di studenti, ma i consigli studenteschi sono affiliati ai partiti politici di opposizione e sono responsabili nei loro confronti». Alla domanda su chi fossero i capobanda, il partecipante alla “guarimba” ha dichiarato: «Beh, ad essere onesti, quei ragazzi ora sono in Parlamento». Circa 43 sono stati i morti durante le “guarimbas” del 2014. Le stesse violenze eruttarono di nuovo tre anni dopo, causando grandi distruzioni di infrastrutture pubbliche, l’assassinio di sostenitori del governo e la morte di 126 persone, molte delle quali erano chaviste. In diversi casi, i sostenitori del governo sono stati bruciati vivi da bande armate. Guaidó è stato direttamente coinvolto nelle “guarimbas” del 2014. Infatti, ha twittato un video in cui si mostrava vestito con un elmetto e una maschera antigas, circondato da elementi mascherati e armati che avevano bloccato un’autostrada e che si stavano impegnando in uno scontro violento con la polizia. Alludendo alla sua partecipazione alla “Generazione 2007”, proclamava: «Ricordo che nel 2007, abbiamo proclamato, “Studenti!”. Ora gridiamo: “Resistenza! Resistenza”». Guaidó ha poi cancellato il tweet, dimostrando un’apparente preoccupazione per la sua immagine di paladino della democrazia.Il 12 febbraio 2014, durante il culmine delle “guarimbas” di quell’anno, Guaidó si è unito a Lopez sul palco di una manifestazione di “Volontà Popolare” e “Prima la Giustizia”. Con un lungo discorso contro il governo, Lopez esortò la folla a marciare verso l’ufficio del procuratore generale Luisa Ortega Diaz. Poco dopo, l’ufficio di Diaz venne attaccato da bande armate che tentarono di bruciarlo. La Diaz ha definito l’episodio come «violenza programmata e premeditata». In un’apparizione televisiva del 2016, Guaidó ha liquidato come “mito” le morti risultanti da “guayas” – una tattica di “guarimba” che consiste nel piazzare filo spinato su una strada ad altezza della testa per ferire o uccidere motociclisti. I suoi commenti hanno minimizzato una tattica micidiale che aveva ucciso civili disarmati come Santiago Pedroza e decapitato un uomo di nome Elvis Durán, tra molti altri. Questo insensibile disprezzo per la vita umana definisce “Volontà Popolare” agli occhi di gran parte del pubblico, compresi molti avversari di Maduro.Con l’intensificarsi della violenza e della polarizzazione politica in tutto il paese, il governo ha iniziato ad agire contro i leader di “Volontà Popolare”. Freddy Guevara, vicepresidente dell’Assemblea Nazionale e secondo in comando di “Volontà Popolare”, è stato il principale leader delle rivolte di strada del 2017. Di fronte a un processo per il suo ruolo nelle violenze, Guevara si è rifugiato nell’ambasciata cilena, dove rimane. Lester Toledo, un legislatore di “Volontà Popolare” dello Stato di Zulia, è stato ricercato dal governo venezuelano nel settembre 2016 con l’accusa di finanziamento del terrorismo e di complotto a fini di omicidio. Si dice che i piani siano stati preparati insieme all’ex presidente colombiano Álavaro Uribe. Toledo è fuggito dal Venezuela e ha fatto diverse tournée con Human Rights Watch, la Freedom House, il Congresso spagnolo e il Parlamento Europeo, sostenuto dal governo degli Stati Uniti.Carlos Graffe è un altro membro della “Generazione 2007” addestrata da Otpor, che ha guidato Volontà Popolare. E’ stato arrestato nel luglio 2017. Secondo la polizia, era in possesso di una borsa piena di chiodi, esplosivo C4 e un detonatore. È stato rilasciato il 27 dicembre 2017. Leopoldo Lopez, il leader di lunga data di “Volontà Popolare”, è oggi agli arresti domiciliari, accusato di aver avuto un ruolo chiave nella morte di 13 persone durante le “guarimbas” nel 2014. Amnesty International ha elogiato Lopez come «prigioniero di coscienza». Nel frattempo, i familiari delle vittime di “guarimba” hanno presentato una petizione per ulteriori accuse contro Lopez. Goicoechea, il poster-boy dei fratelli Koch e fondatore di “Prima la Giustizia”, sostenuto dagli Stati Uniti, è stato arrestato nel 2016 dalle forze di sicurezza, che hanno affermato di aver trovato un chilo di esplosivo nel suo veicolo. In un editoriale del “New York Times”, Goicoechea ha protestato contro le accuse (che definisce false) e ha affermato di essere stato imprigionato semplicemente per il suo «sogno di una società democratica, libera dal comunismo». È stato liberato nel novembre 2017.David Smolansky, anche lui membro dell’originale “Generation 2007” di Otpor, è diventato il più giovane sindaco venezuelano quando è stato eletto nel 2013 nel ricco sobborgo di El Hatillo. Ma è stato spogliato della sua posizione e condannato a 15 mesi di prigione dalla Corte Suprema dopo essere stato trovato colpevole di aver fomentato le violenze delle “guarimbas”. Prima dell’arresto, Smolansky si rasò la barba, indossò occhiali da sole e scivolò in Brasile travestito da prete con una Bibbia in mano e il rosario al collo. Ora vive a Washington, dove è stato scelto dal segretario dell’Organizzazione degli Stati Americani Luis Almagro per guidare il gruppo di lavoro sulla crisi dei migranti e dei rifugiati venezuelani. Lo scorso 26 luglio, Smolansky ha tenuto quella che ha definito una «riunione cordiale» con Elliot Abrams, il criminale condannato nel processo Iran-Contra, ora mandato da Trump come inviato speciale degli Stati Uniti in Venezuela. Abrams è noto per aver supervisionato la politica segreta degli Stati Uniti di armare gli squadroni della morte di destra durante gli anni ‘80 in Nicaragua, El Salvador e Guatemala. Il suo ruolo principale nel colpo di Stato venezuelano ha alimentato i timori che un’altra guerra per procura potrebbe essere in arrivo. Quattro giorni prima, Machado aveva urlato un’altra violenta minaccia contro Maduro, dichiarando che «se vuole salvarsi la vita, dovrebbe capire che il suo tempo è scaduto».Il collasso di “Volontà Popolare”, sotto il peso della violenta campagna di destabilizzazione che aveva avviato, ha alienato il consenso di ampi settori dell’opinione pubblica e ha costretto gran parte della sua leadership in esilio o in carcere. Guaidó è sempre rimasto una figura relativamente minore, ha infatti trascorso gran parte della sua carriera di nove anni all’Assemblea Nazionale come sostituto. Originario di uno degli Stati meno popolati del Venezuela, Guaidó arrivò secondo alle elezioni parlamentari del 2015, assicurandosi il posto in Assemblea con appena il 26% dei voti. In effetti, si può dire che il suo sedere fosse più conosciuto della sua faccia. Guaidó è noto come il presidente dell’Assemblea Nazionale, dominata dall’opposizione, ma non è mai stato eletto. I quattro partiti di opposizione che comprendevano il Tavolo di Unità Democratica dell’Assemblea avevano deciso di istituire una presidenza a rotazione. La svolta di “Volontà Popolare” era in arrivo, ma il suo fondatore, Lopez, era agli arresti domiciliari. Nel frattempo, il suo secondo incaricato, Guevara, si era rifugiato nell’ambasciata cilena. Juan Andrés Mejía avrebbe dovuto occupare la presidenza dell’Assemblea, ma per ragioni che ora sono maggiormente chiare, gli fu preferito Juan Guaidò.«C’è un ragionamento di classe che spiega l’ascesa di Guaidó», osserva Sequera, l’analista venezuelano. «Mejía è di classe alta, ha studiato in una delle università private più costose del Venezuela e non poteva essere facilmente venduto al pubblico come Guaidó. Guaidó ha caratteristiche meticce comuni alla maggior parte dei venezuelani, e sembra più un uomo della gente. Inoltre, non era stato sovraesposto nei media, quindi poteva essere presentato in praticamente qualsiasi salsa». Nel dicembre 2018, Guaidó si è recato a Washington, in Colombia e in Brasile per coordinare la preparazione di manifestazioni di massa durante l’inaugurazione della presidenza Maduro. La notte prima della cerimonia di giuramento di Maduro, sia il vicepresidente Mike Pence che il ministro degli esteri canadese Chrystia Freeland hanno chiamato Guaidó per confermare il loro sostegno. Una settimana dopo, il senatore Marco Rubio, il senatore Rick Scott e il rappresentante Mario Diaz-Balart – tutti i legislatori della base della destra della lobby di esilio cubano di destra – si sono uniti al presidente Trump e al vicepresidente Pence alla Casa Bianca. Su loro richiesta, Trump dichiarò che se Guaidó si fosse dichiarato presidente, lo avrebbe sostenuto.Il segretario di Stato Mike Pompeo ha incontrato personalmente Guaidó il 10 gennaio, secondo il “Wall Street Journal”. Tuttavia, Pompeo non riusci a pronunciare correttamente il nome di Guaidó quando lo menzionò in una conferenza stampa il 25 gennaio, riferendosi a lui come a “Juan Guido”. L’11 gennaio, la pagina di Wikipedia di Guaidó è stata modificata per 37 volte, mettendo in evidenza la lotta per modellare l’immagine di una figura precedentemente anonima che ora era un tableau per le ambizioni del cambio di regime di Washington. Alla fine, la supervisione editoriale della sua pagina è stata consegnata al consiglio d’élite dei “bibliotecari” di Wikipedia, che lo ha definito presidente «conteso» del Venezuela. Guaidó sarà anche una mezza figura, ma la sua combinazione di radicalismo e opportunismo soddisfa i bisogni di Washington. «Quel pezzo interno era mancante», ha detto di Guaidó un funzionario dell’amministrazione Trump. «Era il pezzo di cui avevamo bisogno perché la nostra strategia fosse coerente e completa». Brownfield, l’ex ambasciatore americano in Venezuela, ha dichiarato al “New York Times”: «Per la prima volta abbiamo un leader dell’opposizione che sta chiaramente segnalando alle forze armate e alle forze dell’ordine che vuole tenerle dalla parte degli angeli e dei bravi ragazzi».Ma è stata “Volontà Popolare” di Guaidó a formare le truppe d’assalto delle “guarimbas” che hanno causato la morte di agenti di polizia e comuni cittadini. Si era persino vantato della propria partecipazione alle rivolte di strada. E ora, per conquistare i cuori e le menti dei militari e della polizia, Guaidò ha dovuto cancellare questa storia intrisa di sangue. Il 21 gennaio, un giorno prima che il colpo di Stato iniziasse sul serio, la moglie di Guaidó ha presentato un video che invitava i militari a insorgere contro Maduro. La sua esibizione è stata legnosa e poco accattivante, e sottolinea le limitate prospettive politiche del marito. In una conferenza stampa di fronte ai suoi sostenitori, quattro giorni dopo, Guaidó ha annunciato la sua soluzione alla crisi: «Autorizzare un intervento umanitario!». Mentre attende l’assistenza diretta, Guaidó rimane quello che è sempre stato – una marionetta, frutto del progetto di ciniche forze esterne. «Non importa se si brucerà dopo tutte queste disavventure», dice Sequera del fantoccio del colpo di Stato. «Per gli americani, è sacrificabile».(Dan Cohen e Max Blumenthal, “The making of Juan Guaidó – Il fantoccio creato in laboratorio per il colpo di Stato in Venezuela”, da “Consortium News” del 29 gennaio 2019: reportage tradotto da Enrico Carotenuto per “Coscienze in Rete”. Max Blumenthal è un giornalista pluripremiato e autore di numerosi libri, tra cui “Gomorra Repubblicana”, “Golia”, “La guerra dei cinquanta giorni” e “La gestione della ferocia”. Ha prodotto articoli per numerose pubblicazioni, molti video report e diversi documentari, tra cui “Killing Gaza”. Blumenthal ha fondato “The Grayzone” nel 2015 per puntare un faro giornalistico sullo stato di guerra perpetua dell’America e le sue pericolose ripercussioni domestiche. Dan Cohen è un giornalista e regista. Ha prodotto reportage video ampiamente distribuiti e materiale cartaceo da tutta Israele-Palestina. E’ un corrispondente di “Rt America”).Prima della data fatidica del 22 gennaio, meno di un venezuelano su 5 aveva mai sentito parlare di Juan Guaidó. Solo pochi mesi fa, il trentacinquenne era un personaggio oscuro in un gruppo di estrema destra di scarsa influenza politica, strettamente associato a macabri atti di violenza di strada. Anche nel suo stesso partito, Guaidó era una figura di medio livello nell’Assemblea Nazionale dominata dall’opposizione, che sta ora agendo in maniera incostituzionale. Ma dopo una sola telefonata dal vicepresidente degli Stati Uniti, Mike Pence, Guaidó si è proclamato presidente del Venezuela. Unto come capo del suo paese da Washington, uno sguazzatore di bassifondi politici precedentemente sconosciuto è stato fatto salire sul palcoscenico internazionale, selezionato dagli Stati Uniti come il leader della nazione con le maggiori riserve petrolifere del mondo. Facendo eco al consenso di Washington, il comitato editoriale del “New York Times” ha definito Guaidó un «rivale credibile» per il presidente Nicolás Maduro, con uno «stile rinfrescante e una visione per portare avanti il paese». Il comitato editoriale di “Bloomberg” lo ha applaudito per aver cercato «il ripristino della democrazia», e il “Wall Street Journal” lo ha dichiarato «un nuovo leader democratico».
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Magaldi: niente è come sembra, e in troppi stanno barando
Viviamo strani giorni, cantava Battiato. Prendi l’Italia: in soli cinque anni ha voltato le spalle al conducator Renzi, trionfatore alle europee con il 40%, per dare una chance all’alieno governo gialloverde. Ma non doveva regnare in eterno, il Fanfarone di Rignano? Com’è possibile che si sia letteralmente estinto, consegnando il paese (provvisoriamente) agli apprendisti stregoni grillini e ai vetero-leghisti già forcaioli, abilmente riciclati da Salvini? Esecutivo bifronte, in tutti i sensi: diviso ormai sul 90% del programma, e incagliato su troppi nodi difficili da sbrogliare. Tanto peggio per i 5 Stelle, i più esposti al vento contrario: facile alzare la voce coi migranti, grazie a una politica low-cost, tutta immagine e quasi senza stanziamenti. Più complicato esaudire il sogno costoso del reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio. Tutti colpevoli, in ogni caso. Il loro peccato? Uno: non aver osato assolvere al compito ricevuto dagli elettori, e cioè riscattare l’Italia liberandola dalla tagliola di un’Ue finita in mano a un potentissimo clan di oligopolisti prezzolati. Lo afferma Gioele Magaldi, il primo a cantare fuori dal coro neo-sovranista di fronte al cedimento del governo Conte sul deficit 2019. Il presidente del Movimento Roosevelt è stato anche il primo (oltre che l’unico) a smascherare il teatrino dell’austerity: dietro il rigore – ha spiegato nel saggio “Massoni” – c’è assenzialmente un club di supermassoni reazionari. Ecco perché, anziché sparare a casaccio contro “l’Europa”, sarebbe più utile fare nomi e cognomi.Lo stesso dicasi per l’altro tasto dolente, assai caro a tanta parte del popolo del web: l’odiato imperialismo yankee, il Deep State che trasforma la superpotenza egemone in uno strumento di violenza e guerra, sfruttamento e oppressione (tema in auge praticamente sempre, ora rinverdito dalle vistose pressioni Usa sul Venezuela di Maduro). A costo di ripetersi, Magaldi insiste: sono stato proprio io – dice, in web streaming su YouTube – a spiegare, più precisamente di altri, quale America ha fatto del male agli americani e al resto del mondo. Brutto spettacolo: le trame golpiste della superloggia “Three Eyes”, il neoliberismo a mano armata, i neocon. Ma erano americani anche i Roosevelt e i Kennedy, così come Martin Luther King. E se tutte le potenze mondiali hanno sempre e solo perseguito la logica mercantile del dominio, almeno – dice Magaldi, convinto atlantista – gli Stati Uniti restano la prima democrazia del mondo e la prima repubblica a essersi dotata di un governo parlamentare elettivo, sulla scorta di una Costituzione che proclamò l’estrema eresia del “diritto alla felicità”, per tutti, in un mondo allora retto soltanto da imperi e monarchie, senza diritti e senza suffragio universale. Questo ovviamente non assolve l’America dai suoi peccati, ma almeno – sottolinea Magaldi – dovrebbe imporre il sano esercizio dei distinguo: buoni e cattivi non sono mai la stessa cosa, anche se coabitano sotto la stessa bandiera.Viviamo strani giorni, inutile negarlo: i 5 Stelle sprofondano alle regionali in Abruzzo facendo impallidire il 40% incassato un anno fa dagli abruzzesi alle politiche, ma lo stesso Salvini – pensando a Renzi – farebbe meglio a non dormire sugli allori. E se il voto è diventato così volatile, ragiona Magaldi, è perché gli italiani sono veramente stufi di essere presi in giro: l’allora padrone del Pd aveva solo finto di sfidare Bruxelles, e i gialloverdi sembrano scivolare lungo la stessa china. Non avendo osato tener duro sul deficit per alimentare la crescita, saranno costretti – vista l’inevitabile flessione del Pil – a procedere con sanguinosi tagli lineari. Strani giorni, appunto: mentre diventano sempre più evanescenti le categorie del Novecento, destra e sinistra, visti soprattutto gli imbarazzanti portavoce del centrodestra e del centrosinistra, stenta ancora ad affermarsi una visione del presente più realistica, capace cioè di fotografare il vero scontro: da una parte l’apolide oligarchia del denaro, dall’altra i difensori della sovranità democratica (che non è né di destra né di sinistra, ma è stata confiscata dai poteri privatizzatori col servile contributo di entrambi gli schieramenti, che per tutta la Seconda Repubblica hanno solo e sempre fatto finta di combattersi, per poi eseguire i dettami neoliberali della medesima élite transnazionale).Strani giorni, questi, in cui Di Maio – in preda al panico pre-elettorale da sondaggi – organizza fuori tempo massimo uno sgangherato gemellaggio con frange dei Gilet Gialli, ottenendo uno scontro diplomatico con la Francia, in rivolta contro il supermassone Macron. Più che azzoppato, il ducetto dell’Eliseo: praticamente impresentabile, eppure capace di siglare il tragicomico Trattato di Aquisgrana con Angela Merkel, con la quale poi Giuseppe Conte si intrattiene amabilmente al bar, sparlando dei suoi “azionisti” politici, i 5 Stelle. Tanto teatro, e pochissima sostanza commestibile. Non è sul tavolo – su nessun tavolo – il cambio di paradigma, keynesiano, per il quale Gioele Magaldi si batte. In queste sabbie mobili, il Movimento Roosevelt annuncia inziative di sapore strategico nei prossimi mesi. A Londra il primo appuntamento, il 30 marzo: un’agenda da aggiornare con Nino Galloni, Guido Grossi, Ilaria Bifarini, Antonio Maria Rinaldi e altri cervelli dell’economia democratica, per chiarire che – obbedendo a questa Ue – non si va da nessuna parte.Poi in Sicilia è in arrivo un forum sui migranti, per ribadire che il Mediterraneo e l’Africa si possono (e si devono) abbracciare, con una visione strategica di partnership, nel segno del rispetto per la sovranità del terzo mondo. Una battaglia costata la vita a Thomas Sankara, cui il Movimento Roosevelt dedicherà un convegno a Milano, il 3 maggio. L’evento milanese vuol recuperare la memoria di Sankara ma anche di Carlo Rosselli, alfiere italiano del socialismo liberale «assassinato dai fascisti ma detestato anche dai comunisti». Due icone, per il fronte progressista universale che si richiama ai diritti dell’uomo, esattamente come lo svedese Olof Palme, altro massone progressista, ucciso a Stoccolma dai sicari dell’oligarchia euro-atlantica che progettava questa globalizzazione e questa Unione Europea. Globalizzazione che poi ha realizzato, sottolinea Magaldi, con il pieno contributo di supermassoni neo-aristocratici mediorientali, asiatici, cinesi e russi.Ecco perché è così difficile, oggi, “nazionalizzare” una geopolitica ormai interamente “privatizzata” da opachi comitati d’affari, che – all’occorrenza – si dedicano anche al terrorismo, alle “rivoluzioni colorate”, ai maxi-attentati come quello dell’11 Settembre per poi incassare i dividendi della “guerra infinita” (Iraq e Afghanistan, Libia e Siria), fino all’estrema propaggine dell’orrore, incarnata dall’Isis del supermassone Al-Baghdadi. Ci stanno sanguinosamente prendendo in giro? Esatto, ribadisce Magaldi. E la via d’uscita, insiste, è una sola: si chiama democrazia. Un’Ue non-democratica non può continuare a tiranneggiare il governo italiano, che sarà pieno di difetti ma è stato votato dai cittadini. E se Lega e 5 Stelle fingono di dormire, Magaldi scommette sul cantiere del “Partito che serve all’Italia”: un modo per dire che, prima o poi, il velo dovrà cadere. Obiettivo: smascherare il vero avversario e consentire allo Stato di tornare a spendere per i cittadini, mettendo fine allo scandalo silenzioso dell’avanzo primario, con gli italiani che – da troppi anni – versano allo Stato più denaro, sotto forma di tasse, di quanto il governo non ne spenda per loro.Viviamo strani giorni, cantava Battiato. Prendi l’Italia: in soli cinque anni ha voltato le spalle al conducator Renzi, trionfatore alle europee con il 40%, per dare una chance all’alieno governo gialloverde. Ma non doveva regnare in eterno, il Fanfarone di Rignano? Com’è possibile che si sia letteralmente estinto, consegnando il paese (provvisoriamente) agli apprendisti stregoni grillini e ai vetero-leghisti già forcaioli, abilmente riciclati da Salvini? Esecutivo bifronte, in tutti i sensi: diviso ormai sul 90% del programma, e incagliato su troppi nodi difficili da sbrogliare. Tanto peggio per i 5 Stelle, i più esposti al vento contrario: facile alzare la voce coi migranti, grazie a una politica low-cost, tutta immagine e quasi senza stanziamenti. Più complicato esaudire il sogno costoso del reddito di cittadinanza sbandierato da Di Maio. Tutti colpevoli, in ogni caso. Il loro peccato? Uno: non aver osato assolvere al compito ricevuto dagli elettori, e cioè riscattare l’Italia liberandola dalla tagliola di un’Ue finita in mano a un potentissimo clan di oligopolisti prezzolati. Lo afferma Gioele Magaldi, il primo a cantare fuori dal coro neo-sovranista di fronte al cedimento del governo Conte sul deficit 2019. Il presidente del Movimento Roosevelt è stato anche il primo (oltre che l’unico) a smascherare il teatrino dell’austerity: dietro il rigore – ha spiegato nel saggio “Massoni” – c’è essenzialmente un club di supermassoni reazionari. Ecco perché, anziché sparare a casaccio contro “l’Europa”, sarebbe più utile fare nomi e cognomi.