Archivio del Tag ‘seconda guerra mondiale’
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Si scrive Renzi, ma si legge Blair (cioè Jp Morgan)
Una cena per decidere, una per confermare le decisioni. Primo giugno 2012, primo aprile 2014. Due protagonisti sempre presenti: il presidente del consiglio Matteo Renzi e l’ex premier britannico Tony Blair. Un terzo (presente con suoi rappresentanti) è l’organizzatore, il vero beneficiario dei frutti degli incontri: la banca d’affari Jp Morgan. «Renzi – scrive il quotidiano britannico “Daily Mirror” – è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma delle Province, del Senato, del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia, del Consiglio dei ministri, riforma elettorale. Protesta Franco Fracassi: «Sta per essere stravolta la Costituzione italiana, quella votata dopo la vittoria sul fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, quella pensata per impedire una futura svolta autoritaria nel paese. Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi. Così ha suggerito la Jp Morgan», che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici.La prima cena, a Palazzo Corsini a Firenze, la banca d’affari statunitense l’ha organizzata il 1° giugno 2012, ricorda Fracassi su “Popoff”: Renzi allora era solo sindaco, ma Jamie Dimon – il patron della Jp Morgan – aveva intuito che sarebbe presto arrivato a Palazzo Chigi. Secondo appuntamento, sempre con Blair, il 1° aprile 2014 a Londra. L’indomani, in un’intervista a “Repubblica”, Tony Blair ufficializza il suo endorsement per il neo-premier: «I momenti di grande crisi sono anche momenti di grande opportunità», ovvero perfetti per «realizzare un programma ambizioso come quello delineato dal nuovo premier italiano». L’amico Matteo? «Comprende perfettamente la sfida che ha di fronte: se facesse solo dei piccoli passi rischierebbe di perdere la spinta positiva con cui è partito». Per questo, «c’è una coerenza tra il suo programma di riforme costituzionali e le riforme strutturali per rilanciare l’economia». La crisi? «Può dargli l’opportunità per compiere quei cambiamenti che sono necessari al paese, ma che finora non sono mai stati fatti per le resistenze di lobby e interessi speciali».Secondo Blair, Renzi deve ridurre il deficit, fare «le riforme necessarie per cambiare politica economica» e rilanciare la crescita, «non solo per generare occupazione ma anche per portare più denaro nelle finanze pubbliche». Per fare tutto questo, dice Blair, non serve la contrapposizione destra-sinistra, «bensì quella tra giusto e sbagliato, fra ciò che funziona e ciò che non funziona». E avverte: «Se la riduzione del deficit è troppo veloce, la crescita non riparte. Ma se non si fanno le necessarie riforme, il deficit non si riduce. E mi sembra che questo Renzi lo abbia capito benissimo». In un’altra intervista, rilasciata al “Times”, sempre Blair, annuncia: «Il mutamento cruciale, delle istituzioni politiche, neanche è cominciato. Il test chiave sarà l’Italia: il governo ha l’opportunità concreta di iniziare riforme significative». Parola di Tony Blair, pagato milioni di dollari l’anno per fare da consulente a una delle più importanti banche d’affari del mondo, seconda solo alla Goldman Sachs.Proprio la Jp Morgan, continua Fracassi, è stata formalmente denunciata dalla Casa Bianca come «responsabile della crisi dei subprime» che ha poi scatenato la crisi economica mondiale. «Le banche d’affari – chiarisce l’economista statunitense Joseph Stiglitz – si servono di consulenti come la massoneria si serve dei propri membri». Funziona così: «I consulenti oliano gli ingranaggi della politica, avvicinano i politici che contano alle banche giuste e promuovono presso di loro politiche compiacenti a quelle indicate dalle banche». Sono loro, le super-banche, a dettare la linea ai politici “compiacenti”. E la linea della Jp Morgan, datata 28 maggio 2013, è tristemente nota: nel documento di sedici pagine dal titolo “Aggiustamenti nell’area euro”, la superpotenza finanziaria di Dimon sostiene che dietro la crisi europea ci sono «limiti di natura politica», perché «i sistemi politici dei paesi del Sud, e in particolare le loro Costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano una serie di caratteristiche che appaiono inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea».Per la Jp Morgan, il problema – in Italia – è rappresentato dalla Costituzione antifascista, che mostra «una forte influenza delle idee socialiste», riflettendo «la grande forza politica raggiunta dai partiti di sinistra dopo la sconfitta del fascismo». Il governo è «debole» nei confronti del Parlamento e delle Regioni, e sconta come un handicap le «tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori». L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro? Questo non piace, alla Jp Morgan, che denuncia come un problema anche «il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi». Il gioco è chiaro: la nostra Costituzione, spiega un economista come Emiliano Brancaccio, è temuta dal grande capitale, perché contiene «norme che vincolano la tutela della proprietà privata, che può essere espropriata per fini di pubblica utilità». Con una Costituzione come la nostra, dunque, «il soggetto straniero che viene ad acquisire capitale nazionale spesso a prezzi stracciati non è totalmente tutelato perché potrebbe essere espropriato». Sicché, «dietro la parolina magica “modernizzazione”, spesso pronunciata da Jp Morgan, c’è dunque la tutela degli interessi di chi vuole venire a fare shopping a buon mercato in Italia e in altri paesi periferici dell’Unione Europea». Niente paura: ora se ne occuperà Renzi, l’amico di Tony Blair, cavallo di Troia della Jp Morgan.Una cena per decidere, una per confermare le decisioni. Primo giugno 2012, primo aprile 2014. Due protagonisti sempre presenti: il presidente del consiglio Matteo Renzi e l’ex premier britannico Tony Blair. Un terzo (presente con suoi rappresentanti) è l’organizzatore, il vero beneficiario dei frutti degli incontri: la banca d’affari Jp Morgan. «Renzi – scrive il quotidiano britannico “Daily Mirror” – è il Blair italiano non solo nelle intenzioni politiche, ma anche nelle alleanze economiche. Un esempio? La Jp Morgan». Riforma delle Province, del Senato, del lavoro, della pubblica amministrazione, della giustizia, del Consiglio dei ministri, riforma elettorale. Protesta Franco Fracassi: «Sta per essere stravolta la Costituzione italiana, quella votata dopo la vittoria sul fascismo e la fine della seconda guerra mondiale, quella pensata per impedire una futura svolta autoritaria nel paese. Così ha deciso il presidente del consiglio Matteo Renzi. Così ha suggerito la Jp Morgan», che ha arruolato proprio Blair tra i suoi consiglieri strategici.
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Obama mente: ridetegli in faccia, o vi porterà in guerra
«Ma Obama si rende conto che sta conducendo gli Usa ed i loro Stati-fantoccio verso la guerra con la Russia e la Cina?». Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro con Ronald Reagan, lancia l’allarme: l’inquilino della Casa Bianca sembra manipolato dai neo-conservatori del suo governo. «La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono state il prodotto di ambizioni e di errori di un piccolo numero di persone». Nella “Genesi della Guerra Mondiale”, Harry Elmer Barnes dimostra che la Grande Guerra è stata causata dalla miopia di un pugno di politici, come il presidente francese Raymond Poincaré e il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov. «Poincaré chiedeva alla Germania l’ Alsazia-Lorena, e i russi volevano Istanbul e il Bosforo, che collega il Mar Nero al Mediterraneo. Si resero conto che le loro ambizioni richiedevano una guerra generale europea e lavorarono per produrre proprio quella guerra».Il kaiser tedesco Guglielmo II fu accusato di essere responsabile del conflitto, e invece «fece tutto il possibile per evitarlo», dice Craig Roberts. Il libro di Barnes fu pubblicato nel 1926, e l’autore fu accusato di esser stato pagato dai tedeschi per “assolvere” la Germania. Ma, 86 anni dopo, lo storico Christopher Clark nel suo libro “I sonnambuli”, arriva alla stessa conclusione di Barnes. «Mi è stato insegnato che la colpa della guerra fu della Germania, che sfidò la supremazia navale britannica costruendo un eccessivo numero di navi corazzate». Falso. «Gli storici di corte che ci hanno propinato questa storia – dice Roberts – furono gli stessi che gettarono le basi per la Seconda Guerra Mondiale». Oggi, continua l’analista americano, «siamo di nuovo su una strada che conduce ad una guerra mondiale».Cent’anni fa, le basi per dare il via alla guerra furono costruite «con l’inganno»: la Germania «doveva essere presa alla sprovvista», e gli inglesi «manipolati», come l’opinione pubblica degli altri paesi coinvolti, sottoposta «a un lavaggio del cervello e a una propaganda aggressiva». Oggi, dice Roberts, è più che evidente chi sta lavorando per la guerra: «Le bugie dette sono palesi e tutto l’Occidente sta partecipando, con i suoi governi e i suoi media». Come il primo ministro canadese Stephen Harper, che Roberts definisce «il burattino americano», che avrebbe «mentito spudoratamente a una televisione canadese quando ha affermato che il presidente russo Putin ha invaso la Crimea, minacciato l’Ucraina e dato il via ad una nuova guerra fredda». L’altra metà del problema? Il conduttore del programma televisivo: «Era lì seduto e annuiva con la testa, in accordo con queste chiare menzogne».«Il copione che Washington ha fornito al suo fantoccio canadese – scrive Craig Roberts in un post tradotto da “Come Don Chisciotte” – è lo stesso che è stato dato a tutti i burattini di Washington». Ovunque, in Occidente, il messaggio è lo stesso: Putin ha invaso e annesso la Crimea, Putin è determinato a ricostruire l’impero sovietico, Putin dev’essere fermato. Craig Roberts riferisce di aver sentito molti canadesi «piuttosto indignati nel vedere che il loro governo rappresenti Washington e non il Canada». E nonostante Harper «sia quello che è», “Fox News” e Obama «sono molto, molto peggio». La Fox? E’ «l’organo di propaganda di Murdoch», secondo cui Putin avrebbe di fatto «ripristinato la pratica sovietica dell’esercizio della forza bruta». Un “esperto” invitato in studio non ha dubbi: Putin, ovviamente, «incarna una specie di “giovane Hitler”». Secondo Craig Roberts, «la totale ignoranza storica dell’Occidente dà credito ad Obama, o ai suoi “gestori” o “programmatori”», che possono manipolare notizie e opinione pubblica.Obama, poi, è ben oltre la decenza: ha appena dichiarato che la distruzione dell’Iraq da parte di Washington – bilancio: un milione di morti, quattro milioni di profughi, infrastrutture devastate, esplosione della violenza settaria e totale rovina di un paese – non va considerata così grave come «l’accettazione da parte della Russia dell’autodeterminazione della Crimea». Surreale, continua Craig Robert, il discorso di Obama a Bruxelles lo scorso 26 marzo: la Russia, dice l’inquilino della Casa Bianca, «deve essere punita dall’Occidente per aver permesso alla Crimea di autodeterminarsi». E cioè: «Il ritorno per propria volontà di una provincia russa alla sua madre patria dopo 200 anni viene considerato come un’azione dittatoriale, tirannica e antidemocratica». Parola di Obama, l’uomo che «ha appena rovesciato il governo democraticamente eletto dell’Ucraina sostituendolo con dei tirapiedi scelti da Washington», e ora parla di «sacro ideale delle genti di tutte le nazioni, libere di prendere le proprie decisioni sul loro futuro». Ridicolo: «Questo è esattamente ciò che ha fatto la Crimea, e che – al contrario – il golpe degli Stati Uniti a Kiev ha violato».E dov’è finito, tra l’altro, lo Stato di diritto negli Usa? «L’habeas corpus, il giusto processo, il diritto di istituire un processo e di determinare la colpa prima dell’arresto o dell’esecuzione e il diritto alla privacy, sono stati tutti calpestati dal regimi Bush e Obama. Gli Stati Uniti e il diritto internazionale sono contrari alla tortura: eppure Washington ha istituito in tutto il mondo prigioni che praticano la tortura. Come è possibile che il rappresentante del governo degli Stati Uniti, di fatto criminale di guerra, possa stare davanti ad un pubblico europeo e parlare di “stato di diritto”, “diritti individuali”, “dignità umana”, “autodeterminazione” e “libertà”, senza che il pubblico scoppi a ridere?». Quello di Washington, continua Craig Roberts, «è il governo che ha invaso e distrutto l’Afghanistan e l’Iraq basandosi su bugie», lo stesso governo «che ha finanziato e organizzato il rovesciamento dei governi libico e honduregno e che sta tentando di fare la stessa cosa in Siria e in Venezuela».E’ un governo, quello di Washington, che «attacca con droni e bombe popolazioni dei paesi sovrani del Pakistan e dello Yemen», e intanto riempie di truppe tutta l’Africa e «ha circondato la Russia, la Cina, l’Iran con basi militari». Seriamente: «E’ proprio questo gruppo di guerrafondai che ha l’ardire di continuare ad affermare che sta difendendo gli ideali internazionali contro la Russia?». Nessuno ha applaudito il discorso di Obama, «ma il fatto che l’Europa accetti tali menzogne senza protestare equivale a un benestare a Washington per scatenare una guerra». Obama chiede più truppe Nato di stanza in Europa orientale allo scopo di «contenere la Russia», cosa che «tranquillizzerebbe la Polonia e gli Stati baltici che, come membri della Nato, sarebbero protetti da un’eventuale aggressione della Russia». Ma, oltre a Obama, c’è qualcuno – sano di mente – che pensa davvero che la Russia stia per invadere la Polonia o il Baltico?Obama, poi, «non dice quale effetto avranno sulla Russia l’escalation militare Usa-Nato e gli altri giochi di guerra sul confine russo». Ovvero: «Sarà il governo russo a dedurre di essere sul procinto di venire attaccato e colpirà per primo? La sconsiderata disattenzione di Obama è proprio quello che di solito provoca le guerre». La situazione è davvero molto pericolosa, insiste Craig Roberts, perché l’Occidente sta davvero minacciando la Russia, trascinando l’Europa verso il disastro. «Chi potrebbe mai credere che Obama, il cui governo è responsabile ogni giorno della morte di persone in Afghanistan, Iraq, Pakistan, Yemen, Libia e Siria, si curi davvero di un briciolo di democrazia in Ucraina?». Il presidente ha rovesciato il governo di Kiev per poter annettere l’Ucraina nella Nato, cacciare la Russia dalla base navale in Crimea e installare basi missilistiche sul confine russo. «Obama è arrabbiato che il suo piano non stia andando come previsto e sfoga questa sua rabbia e frustrazione contro la Russia», facendo crescere «l’ipocrisia e la presunzione» insieme alla pretesa di «punire la Russia e Putin e demonizzarli ulteriormente». C’è da aspettarsi il peggio: i media soffieranno sul fuoco della propaganda anti-russa destabilizzando ulteirormente l’Ucraina dell’Est, magari al punto di «costringere Putin a inviare davvero delle truppe per difendere i russi».Perché la gente «è così cieca da non vedere che Obama sta conducendo il mondo verso una guerra definitiva?». La pericolosa aggressività di Obama, dice Craig Roberts, ricorda da vicino il trionfalismo di inglesi, francesi e americani dopo la vittoria della Prima Guerra Mondiale, come fosse stato «il trionfo del loro idealismo contro le ambizioni territoriali tedesche e austriache». Ma alla Conferenza di Versailles, ricorda Roberts, furono i bolscevichi – i rivoluzionari vittoriosi a Mosca – a rivelare «l’esistenza dei famigerati Trattati Segreti», il patto di spartizione che avrebbe sostanzialmente amputato la Germania, preparando il terreno per il risentimento popolare del quale poi avrebbe approfittato Hitler. «Nella guerra, gli scopi segreti britannici, russi e francesi erano sconosciuti alla gente, fustigata da una battente propaganda creata appositamente per sostenere una guerra i cui esiti furono ben diversi dalle intenzioni di coloro che la provocarono. Le persone – conclude Roberts – sembrano incapaci di imparare dalla storia. Ora, ancora una volta, vediamo il mondo trascinato lungo un sentiero che attraversa un bosco di menzogne e di propaganda, questa volta a favore dell’egemonia mondiale da parte dell’America».«Ma Obama si rende conto che sta conducendo gli Usa ed i loro Stati-fantoccio verso la guerra con la Russia e la Cina?». Paul Craig Roberts, già sottosegretario al Tesoro con Ronald Reagan, lancia l’allarme: l’inquilino della Casa Bianca sembra manipolato dai neo-conservatori del suo governo. «La Prima e la Seconda Guerra Mondiale sono state il prodotto di ambizioni e di errori di un piccolo numero di persone». Nella “Genesi della Guerra Mondiale”, Harry Elmer Barnes dimostra che la Grande Guerra è stata causata dalla miopia di un pugno di politici, come il presidente francese Raymond Poincaré e il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov. «Poincaré chiedeva alla Germania l’ Alsazia-Lorena, e i russi volevano Istanbul e il Bosforo, che collega il Mar Nero al Mediterraneo. Si resero conto che le loro ambizioni richiedevano una guerra generale europea e lavorarono per produrre proprio quella guerra».
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Giannuli: sono di sinistra, per questo non voterò Tsipras
La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».Secondo Giannuli, non essendoci né un’analisi («e come volete che venga fuori in poche settimane di raffazzonata corsa a fare le liste?») non c’è neppure una linea politica e, di conseguenza, nessuna azione politica. «E voi pensate di prendere voti così?». Il politologo, docente universitario e con alle spalle una lunga militanza, anche in Rifondazione Comunista, si dichiara «non ostile» alla “Lista Tsipras”, ma la considera «una cosa morta». E aggiunge: «Posso fare le mie condoglianze, ma non ho molta voglia di restare a vegliare la salma. Se altri ritengono di doverlo fare, per carità, facciano pure, ma, ci rivediamo dopo le esequie». Ci sono molti modi di essere “di sinistra”, charisce Giannuli. «Ad esempio, io sono convinto della inconciliabilità fra capitalismo e giustizia sociale, perché il capitalismo è costitutivamente portatore di ingiustizie sociali. Ed è il motivo per cui mi definisco comunista. Poi altri la pensano diversamente, ad esempio la lista Tsipras si muove nell’ottica di una socialdemocrazia moderata, cercando di realizzare “spazi di giustizia sociale” all’interno del sistema dato, che non rimette in discussione».Dunque, se uno si considera “di sinistra” – cioè convinto del «nesso inscindibile fra giustizia sociale e libertà individuali e politiche», all’interno di una comunità di persone che aspirano a «un ordinamento sociale giusto e libero» – come può credere nella “Lista Tsipras”, che di fatto non propone di radere al suolo l’attuale ordinamento dell’Unione Europea, sostanziale dittatura dell’élite finanziaria imposta attraverso strumenti come l’austerity, il Fiscal Compact e la camicia di forza dell’Eurozona? Come dire: è illusorio pensare di riformare e correggere l’Ue, bisogna proprio abbatterla. Ma il vero problema è che, in Italia, il “popolo di sinistra” ha ben poche chanches: se la “Lista Tsipras” è così deludente, quello che ha attorno è ancora peggio. Per Giannuli, il Pd è ormai un partito «organicamente di destra», ligio ai diktat dell’élite finanziaria europea, anche se tiene ancora in ostaggio una residua porzione di “popolo di sinistra”, per lo più composta da pensionati, segnati più che altro «da una nobile ma sterile nostalgia». Si salva solo Civati, ma il suo «è un gruppo minuscolo e neanche tanto coeso». Dov’è finito, allora, il popolo della sinistra? Soprattutto nell’astensionismo e nel Movimento 5 Stelle.Nel 2006, ricorda Giannuli, le liste di sinistra (Rifondazione, Pdci, Verdi) ottennero complessivamente circa 4 milioni di voti. Nel 2013 “Rivoluzione Civile” guidata da Ingroia (con dentro anche un pezzo di Idv) ottenne 765.000 voti, e Sel un milione di suffragi. Totale, meno di 2 milioni di voti. E gli altri 2 milioni persi per strada? Fronte Pd: nel 2008 il partito di Veltroni ottenne 12 milioni di voti, mentre nel 2013 quello di Bersani si è fermato a 8 milioni e mezzo, perdendo cioè quasi 3 milioni e mezzo di elettori. Sommati a quelli della sinistra radicale, fanno 5 milioni e mezzo di italiani. Dove sono finiti? «Mi pare che non sia necessario fare calcoli particolarmente raffinati o interpellare chiromanti per capire che si sono divisi fra astensione e M5s». Il resto, oggi, è ancora collocato nel Pd per «una residua ma non trascurabile quota, direi un 25-30%», più forse un 10% nella «pozzanghera in cui si agitano Rifondazione, Sel, Pdci». Giannuli non ha dubbi: «Se qualcosa di sinistra ripartirà in questo paese, è dall’area dell’astensione o da quella del M5s che può succedere. Non certo dal Pd, da Rifondazione o Sel».Certo, ammette Giannuli, i grillini dovrebbero accelerare una sorta di evoluzione democratica. Pessime le espulsioni a catena dei dissidenti, «una pratica stalinista». Un problema anche «la proprietà privata del simbolo» del movimento creato da Grillo. D’accordo, serviva a «tutelare il simbolo da parte di “assalti” esterni», ma resta «una soluzione strampalata». Molto meglio «avere uno statuto ed una regolare costituzione come soggetto politico». Il professor Giannuli è convinto che, tra un po’, il M5S «rivedrà questa stramba sistemazione». Certo, il “populista” fondatore-padrone resta ingombrante, ma anche decisivo sul piano elettorale. «Non ho mai nascosto le mie critiche alle pose leaderistiche di Grillo», premette Giannuli, che però ribalta il ragionamento: come mai, nonostante il populismo, le esternazioni “isteriche” di Grillo e la mancanza di democrazia di cui è accusato, il M5S prende tutti quei voti, sottraendoli tanto al Pd quanto alla cosiddetta sinistra radicale? «Non sarà che, nonostante tutte le sue numerose pecche (che i suoi elettori conoscono benissimo, state tranquilli) il M5S appare più credibile, poniamo, di Rivoluzione Civile o della lista Tsipras?». Possibile che i signori della sinistra ufficiale siano così poco credibili da essere superati «da un rivale così pieno di difetti»?La lista Tsipras? «E’ un aggregato che non ha nessuna vitalità o prospettiva. E’ la sommatoria deprimente di quel che resta di alcuni apparati di sinistra, alla ricerca disperata di margini di sopravvivenza, ma senza alcun reale progetto politico». Aldo Giannuli boccia sonoramente l’esperimento messo in piedi per le europee da Barbara Spinelli e Paolo Flores d’Arcais. E di chiara di aver «ascoltato con crescente desolazione» un recente comizio di Moni Ovadia, che sosteneva: «Non si torna indietro dall’Europa, perché bisogna battere i nazionalismi che hanno portato alla prima ed alla seconda guerra mondiale». Replica Giannuli: «Ancora con questa accozzaglia di luoghi comuni? Ci mancava solo che dicesse che di mamma ce n’è una sola e che non ci sono più le mezze stagioni. Vogliamo riflettere su cosa è in concreto questa Europa e le sue istituzioni, al di là della propaganda “europeista” in cui non crede più nessuno?».
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Kiev, la strana Padania atomica di Yulia Tymoshenko
Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.Pietra dello scandalo, l’intercettazione telefonica in cui è incappata l’ex oligarca Yulia Timoshenko, promossa “pasionaria” anti-russa dal mainstream occidentale, che in una conversazione privata dichiara che vorrebbe sterminare, con la bomba atomica, gli 8 milioni di russi che popolano l’Est ucraino. «Non li chiama neppure russi, ma “izgoi”, banditi, fuorilegge», osserva Glushkov, che vive in Italia e ricorda come l’Ucraina non sia «un territorio etnicamente definito da una nazionalità», bensì «una specie di puzzle, che si è venuto componendo in tappe diverse della storia». L’“ucrainizzazione” forzata degli ultimi vent’anni non è tale «da poter mobilitare un esercito di ucraini contro i russi», e addirittura «non c’è nemmeno una polizia disponibile a soffocare le manifestazioni del sud-est: è per questo che sono stati costretti a chiamare i mercenari dall’esterno», cioè «gruppi di guerriglia armata composti da nazisti, preparati ad azioni violente dagli Stati Uniti in veri e propri lager».Il resto del paese, continua Glushkov, per adesso è impaurito, blindato dalla manipolazione di una Tv ucraina che sta bombardando la gente con informazioni false. «Gente che, comunque, non è disponibile ad accettare una guerra aperta contro la Russia. Perché? Perché la stragrande maggioranza si sente parte della nazione russa! Questo dimostra il referendum di Crimea e le precedenti elezioni». Naturalmente, però, i nostri media si sono tenuti a debita distanza dalla verità. «Il pubblico italiano, grazie all’ignoranza storica, politica, di quasi tutti i commentatori (nel silenzio, peraltro, del mondo accademico e universitario), ha ricevuto un’informazione completamente distorta», sostiene Giulietto Chiesa. Così, «la russofobia anglosassone ha dettato le notizie», nobilitando «i nazisti di Maidan». E la Russia, «che ha subito per vent’anni la penetrazione americano-tedesco-polacca praticamente senza reagire (perché guidata da idee filo-occidentali), ha di fatto soltanto reagito, difendendo il popolo russo di Crimea. Ed è stata rappresentata come l’aggressore, sebbene fosse stata aggredita».Questa, ribadisce Giulietto Chiesa – autore di numerosi video-editoriali su “Pandora Tv” – è una crisi di gravità senza precedenti nella storia, dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: gli equilibri europei sono stati modificati, la sicurezza europea è stata distrutta. «Tutto questo non sarebbe stato possibile se l’informazione giunta ai cittadini italiani ed europei fosse stata decentemente vicina alla realtà, ma noi invece viviamo ormai dentro Matrix, prigionieri dell’illusione dell’Occidente di continuare a dominare il mondo». Resta, intanto, l’imbarazzo per le esternazioni stragiste della Tymoshenko, la cui carriera politica – scrive Igor Glushkov – è stata «molto simile a quella di quasi tutti gli oligarchi russi e ucraini: fatta rubando». Di sicuro, conferma Giulietto Chiesa, oggi la Tymoshenko rappresenta «un dato negativo, agli occhi dell’Europa». Dopo aver gettato il sasso, «usando i nazisti», adesso gli europei vorranno «ripulirsi dagli schizzi di fango». La stessa Yulia Tymoshenko «è uno schizzo di fango: ricattabile, certo, ma anche in grado di ricattare». Tutto molto prevedibile: «Quando si porta al potere una banda di criminali bisogna mettere in conto che, per normalizzare la situazione, li si deve rieducare, o eliminare. Resta da vedere se la Tymoshenko sarà in grado di essere rieducata, oppure se la dovranno eliminare».Chi dovrà essere “rieducato” – e chi invece eliminato – nella strana Padania orientale di Yulia Tymoshenko? «Gli italiani potrebbero immaginare una situazione in cui Bossi avesse raggiunto il potere, sul serio. Dopo una ventina d’anni il discorso, per quanto ridicolo, della Padania, avrebbe potuto produrre una generazione che avrebbe creduto di essere di etnia padana e di antica origine celtica, o altre fesserie del genere». Lo scrive il russo Igor Glushkov, in una lettera che Giulietto Chiesa pubblica su “Megachip”. Tema: la storica russofobia che anima gli anglosassoni, vittime di una sorta di «paranoia ossessiva» che li porta a credere che l’avanzata dei russi in Europa «comporti la catastrofe per il dominio britannico». Di qui la guerra senza quartiere, condotta dal monopolio Usa della disinformazione, per presentare la rivolta di Kiev come una sollevazione del “popolo ucraino” contro il giogo di Mosca. Dando per scontato, tra l’altro, che l’Ucraina sia molto diversa dalla famosa Padania di Bossi.
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Schmidt: capisco Putin, l’Occidente scherza col fuoco
«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Reoubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».La situazione è pericolosam spiega Schmidt, perché «il nervosismo dell’Occidente crea nervosismo anche in Russia». Poco saggio, secondo l’ex cancelliere, utilizzare solo il metro del diritto internazionale, magari per giudicare “una violazione” l’annessione della Crimea, peraltro attuata a furor di popolo. «Il diritto internazionale è molto importante, ma è stato violato molte volte. Per esempio l’ingerenza nella guerra civile in Libia: l’Occidente ha ben ecceduto il mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Attenzione: «Lo sviluppo storico della Crimea è più importante del diritto internazionale». Tanto più che, fino ai primi anni ‘90, «l’Occidente non ha dubitato che Crimea e Ucraina fossero parti della Russia». Kiev è capitale di uno Stato indipendente ma non nazionale: «E’ molto discusso, tra gli storici, se esista una nazione ucraina». Quella di Putin, quindi, sarebbe una “violazione” molto anomala, perché commessa «contro uno Stato che, provvisoriamente, attraverso la rivoluzione di Majdan, non esisteva e non era capace di funzionare».A chi teme che Mosca ora potrebbe mettere un’ipoteca anche sull’Ucraina orientale popolata da russi e russofoni, Schmidt risponde che «sarebbe un errore, da parte dell’Occidente, comportarsi pensando che un simile sviluppo sia l’inevitabile prossimo passo russo». Uno scontro militare è possibile? «È pensabile. Non è né necessario, né inevitabile. Al momento il pericolo è piccolo, ma non è nullo». Le sanzioni antui-Cremlino? «Sono una stupidaggine. Specialmente il divieto di viaggio in Occidente per alte personalità della leadership russa. E sanzioni economiche colpirebbero l’Occidente come i russi». Idem per le forniture energetiche: l’Europa dovrebbe divenire indipendente dall’energia russa, come vorrebbero gli Usa? «È possibile», ma «non sarebbe saggio», perché «anche alla fine del XXI secolo la Russia resterà il vicino molto importante che fu dai tempi di Pietro il Grande». Quindi: cautela diplomatica, o si scherza col fuoco. E’ possibile che Putin si senta «erede di Pietro, dei Romanov e di Lenin», ma certo «non è un megalomane», dice Schmidt al giornalista di “Die Zeit”. «Si metta nei suoi panni: probabilmente sulla Crimea avrebbe reagito come lui».«Nelle due guerre mondiali la Russia era con l’Occidente e la Germania era dalla parte sbagliata, oggi lo dimentichiamo». L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt avverte l’Europa: la politica di Obama è pericolosa, sulla Crimea è «comprensibile» la posizione di Putin. «Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, mi asterrei come hanno fatto i cinesi», dice Schmidt, intervistato da Matthias Nass per “Die Zeit” e “Repubblica”. La situazione potrebbe precipitare, se l’Occidente continuasse il suo “assedio” nei confronti della Russia. Specie nella contesa sull’Ucraina, che non è mai neppure esistita, veramente, come Stato nazionale. Dall’anziano statista tedesco un monito esplicito: «Si discute molto sulle cause della Prima Guerra Mondiale, che nessuno voleva, eppure scoppiò. La maggior parte delle guerre non sono pianificate. Lo furono solo alcune: l’attacco di Napoleone alla Russia, o la Seconda Guerra Mondiale, pianificata da Hitler. Una Terza Guerra Mondiale è molto inverosimile, ma non è totalmente impensabile».
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Il socialista Hitler: riuscirò dove Marx e Lenin fallirono
Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.George Watson così ha scritto nel “The Lost Literature of Socialism”: «E’ chiaro oltre ogni ragionevole dubbio che Hitler ed i suoi collaboratori credevano di essere socialisti e che altri, inclusi i socialdemocratici, la pensavano allo stesso modo». L’indizio è nel nome. Le generazioni successive della sinistra hanno cercato di spiegare la presenza (imbarazzante) del termine “socialista” nel nome di quel partito, Partito Nazionale Socialista dei Lavoratori Tedeschi, definendola come una cinica trovata pubblicitaria, o un’imbarazzante coincidenza. Il termine, invece, indicava esattamente quello che lo Nsdap si proponeva. Ad Hermann Rauschning, un prussiano che aveva brevemente lavorato per i nazisti – prima di respingere quest’ideologia e fuggire dal paese – e che aveva molto ammirato il pensiero dei rivoluzionari conosciuti in gioventù e che credeva fossero, però, più dei chiacchieroni che dei prevaricatori, Hitler, in effetti, disse: «Ho messo in pratica ciò che questi venditori ambulanti, questi pennivendoli, avevano timidamente cominciato a fare», aggiungendo che l’intero nazionalsocialismo si basava su Marx.Hitler credeva che l’errore di Marx fosse stato quello di favorire la guerra di classe, invece dell’unità nazionale – ovvero di aver volto i lavoratori contro gli industriali, invece di arruolare entrambi i gruppi nel rispettivo ordine corporativo. Il suo scopo, come sosteneva il suo consigliere economico, Otto Wagener, era quello di convertire il “Volk” tedesco al socialismo, senza eliminare al contempo i vecchi individualisti – termine con il quale indicava i banchieri ed i proprietari della fabbriche – che potevano meglio servire il socialismo, egli pensava, generando entrate per lo Stato. «Quello che il marxismo, il leninismo e lo stalinismo non sono riusciti a raggiungere – sosteneva Wagener – saremo in grado di ottenerlo noi». I lettori di sinistra staranno ormai ribollendo. Ogni volta che tocco quest’argomento, quelli che si ritengono progressisti e considerano l’antifascismo come parte della propria ideologia, danno in escandescenze. Beh, ragazzi, forse ora sapete com’è che ci sentiamo noi conservatori quando associate liberamente il nazismo con “la destra”.Per essere chiaro, non credo assolutamente che le sinistre moderne abbiano delle subliminali tendenze naziste, o che il loro odio per Hitler sia in alcun modo una finzione. Non è questo quello che voglio dire. Quello che voglio sostenere, in tutta sincerità, è che la continuità ideologica tra libero mercato e fascismo è un’idea altrettanto falsa. L’idea che il nazismo non sia che una forma di conservatorismo, seppur più estrema, si è fortemente insinuata nella cultura popolare. Ce ne rendiamo conto non solo quando dei foruncolosi studenti gridano “fascista” ai Tories, ma anche quando gli esperti definiscono i partiti rivoluzionari anticapitalisti – come ad esempio il Bnp, British National Party, e Alba Dorata – come “estrema destra”. Su che cosa si basa questa connessione? E’ come se si dicesse, puerilmente, che quelli di sinistra sono compassionevoli, mentre quelli di destra sono brutti, e che i fascisti sono cattivi.Messa giù in questo modo l’idea sembra un po’ idiota… ma pensate ai gruppi di tutto il mondo che la Bbc, ad esempio, definisce “di destra”: ovvero ai talebani (che vogliono la proprietà comune dei beni), oppure ai rivoluzionari iraniani (che hanno abolito la monarchia, sequestrato le industrie e distrutto la classe media), o a Vladimir Zhirinovsky, che si strugge per lo stalinismo. La barzelletta che “i nazisti erano di estrema destra” non è che un sintomo della più ampia nozione riguardo il termine “destra”, che non è altro che un sinonimo di “cattivo”. Uno dei miei elettori, una volta, si lamentò con la Bbc per un rapporto sulla repressione dei popoli indigeni del Messico, il cui governo veniva etichettato come “di destra”. Il partito al governo, fece notare, era un membro dell’Internazionale Socialista e questa cosa era rilevabile dal suo stesso nome: Partito Rivoluzionario Istituzionale. Impagabile fu la risposta della Bbc. Sì, accettiamo il fatto che si trattava di un partito socialista, «ma ciò che il nostro corrispondente stava cercando di far passare è che si trattava di un partito autoritario».L’autoritarismo, nella realtà, è stata una caratteristica comune ai socialisti di entrambe le varietà (quelli di tipo nazionale e quelli di tipo leninista), che si attaccavano l’un l’altro nei campi di prigionia, e usavano reciprocamente i plotoni di esecuzione. Ogni fazione detestava l’altra in quanto eretica, ma entrambi disprezzavano gli individualisti del libero mercato perché irrecuperabili. Friedrich von Hayek sottolineò, nel 1944, che la loro battaglia fu molto feroce perché si trattava, in realtà, di una battaglia tra fratelli. L’autoritarismo – ovvero, tanto per dargli un nome meno carico, la convinzione che la coazione statale sia giustificata dal perseguimento di un obiettivo più alto, come ad esempio il progresso scientifico o una maggiore uguaglianza – è stato tradizionalmente una caratteristica sia dei socialdemocratici che dei rivoluzionari.Jonah Goldberg ha lungamente descritto il fenomeno nella sua opera magna, “Liberal Fascism”. Molte persone si sentono offese dal suo titolo, evidentemente senza averlo letto perché, fin dalle prime pagine, egli rivela che la frase non era sua. Citava un impeccabile progressista, HG Wells, il quale, nel 1932, disse ai giovani liberali che dovevano diventare “liberal-fascisti” e “nazisti illuminati”. In quei giorni molti tra i più importanti intellettuali progressisti, tra cui Wells, Jack London, Havelock Ellis ed i Webbs, erano a favore dell’eugenetica, convinti che solo le ossessioni dei religiosi stavano trattenendo lo sviluppo di una specie più sana. Il modo asettico con cui ne furono precisate le conseguenze è stato ampiamente modificato nel nostro discorso, come del resto le reali parole di Hitler. George Bernard Shaw, ad esempio, così ebbe a dire nel 1933: «Lo sterminio deve essere fatto su base scientifica (se mai uno sterminio sia mai stato effettuato con umanità e con rimorso) e fino in fondo… Se vogliamo un certo tipo di civiltà e di cultura, dobbiamo sterminare il genere di persone che non vi rientra».L’eugenetica, naturalmente, sfocia facilmente nel razzismo. Lo stesso Engels parlò di «spazzatura razziale», riferendosi a quei gruppi che sarebbero stati necessariamente soppiantati una volta che il socialismo scientifico fosse stato attuato. Condite tutto ciò con una spolverata di anticapitalismo e spesso otterrete l’antisemitismo di sinistra, un qualcosa che abbiamo tagliato dalla nostra memoria, ma che una volta sarebbe passata senza obiezioni. «Com’è possibile che un socialista possa non essere antisemita?». E’ questo quello che Hitler aveva chiesto ai membri del suo partito, nel 1920. Gli intellettuali della sinistra contemporanea che criticano Israele sono, in segreto, antisemiti? No. Non nella stragrande maggioranza dei casi. Sono, i socialisti moderni, interiormente desiderosi di mettere nei campi di prigionia gli scettici del riscaldamento globale? No. Vogliono, i keynesiani, introdurre l’intero impianto del corporativismo, che fu definito da Mussolini come «tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato»? Ancora una volta, no.Ci sono degli idioti, ovviamente, che finiscono con lo screditare ogni causa, ma la maggior parte delle persone di sinistra è sincera nel suo dichiarato impegno per i diritti umani, per la dignità personale e per il pluralismo. Il mio risentimento verso molte persone di sinistra (non tutte) è semplice da descrivere. Rifiutando di restituire il complimento, assumendo quindi una sorta di superiorità morale, rendono il dialogo politico quasi impossibile. Usare il termine “destra” per significare un qualcosa di “indesiderabile” ne costituisce un piccolo ma importante esempio. La prossima volta che sentite le sinistre usare la parola “fascista” come un insulto a carattere generale, sottolineate delicatamente la differenza che c’è tra ciò che a loro piace immaginare dello Nsdap e ciò che questo partito ha effettivamente proclamato.(Daniel Hannah, “La sinistra diventa incandescente se qualcuno ricorda le radici socialiste del nazismo”, da “The Telegraph”del 25 febbraio 2014, ripreso da “Come Don Chisciotte”. Giornalista e politico britannico, esponente del Partito Conservatore, Hannah è deputato al Parlamento Europeo).Il 16 giugno 1941, mentre Hitler preparava le sue forze per l’Operazione Barbarossa (l’invasione dell’Unione Sovietica), Josef Goebbels lavorava al “nuovo ordine” che i nazisti avrebbero imposto alla Russia, una volta conquistata. Non ci sarebbe stato ritorno, egli scriveva, per i capitalisti, per i preti e per gli Zar. Piuttosto, in luogo del degradato bolscevismo ebraico, la Wehrmacht avrebbe imposto “Der echte Sozialismus”: il socialismo reale. Goebbels non ha mai dubitato del fatto di essere un socialista. Egli concepiva il nazismo come una migliore e più plausibile forma di socialismo, rispetto a quella che veniva propagandata da Lenin. Invece di diffondersi attraverso le nazioni, il socialismo avrebbe operato all’interno del Volk, il popolo. Così totale è la vittoria culturale della sinistra moderna, che finanche il mero racconto di questi eventi finisce con l’essere stridente. Ma è una questione che pochi, all’epoca, avrebbero trovato particolarmente controversa.
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La non-Europa lascia l’Ucraina in pasto a Usa e Russia
In parte per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante. Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni. È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina – quella insorta in piazza a Kiev – vuole “entrare in Europa”. Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale – non denunciato a Occidente – forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ‘39 collaborò con Hitler.È sbagliato chiamare l’Est ucraino regioni secessioniste perché “abitate da filorussi”. Non sono filo-russi ma russi, semplicemente. In Crimea il 60% della popolazione è russa, e il 77% usa il russo come lingua madre (solo il 10% parla ucraino). È mistificante accomunare Nato e Europa: se tanti sognano l’Unione, solo una minoranza aspira alla Nato (una minaccia, per il 40%). Sbagliato è infine il lessico della guerra fredda applicato ai rapporti euro-americani con Mosca, accompagnato dal refrain: è “nostra” vittoria, se Mosca è sconfitta. Dal presente dramma bellicoso si uscirà con altri linguaggi, altre dicotomie. Con una politica – non ancora tentata – che cessi di identificare i successi democratici con la disfatta della Russia. Che integri quest’ultima senza trattarla come immutabile Stato ostile: con una diplomazia intransigente su punti nodali ma che «rispetti l’onore e la dignità dei singoli Stati, Mosca compresa», come scrive lo studioso russo-americano Andrej Tsygankov.L’Ucraina è una regione più vitale per Mosca che per l’Occidente, e i suoi abitanti russi vanno rassicurati a ogni costo. È il solo modo per esser severi con Mosca e insieme rispettarla, coinvolgerla. Siamo lontani dunque dalla guerra fredda. Che era complicata, ma aveva due elementi oggi assenti: una certa prevedibilità, garantita dalla dissuasione atomica; e la natura ideologica (oggi si usa l’orrendo aggettivo valoriale) di un conflitto tra Est sovietizzato e liberal-democrazie. Grazie allo spauracchio dell’Urss, Europa e Usa formavano un “occidente” senza pecche, qualsiasi cosa facesse. L’Urss era nemico esistenziale: letteralmente, ci faceva esistere come blocco di idee oltre che di armi. Questo schema è saltato, finita l’Urss, e l’Est è entrato nell’Unione. Mentre l’Urss crollava un alto dirigente sovietico, Georgij Arbatov, disse: «Vi faremo, a voi occidentali, la cosa peggiore che si possa fare a un avversario: vi toglieremo il nemico». Non aveva torto, se ancora viviamo quel lutto come orfani riottosi.Ma non è più l’antagonismo ideologico a spingerci. La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli Usa, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq e proseguendo con le uccisioni mirate tramite i droni. «Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere», scrive Marco D’Eramo su “Pagina 99”. Questo significa che non la guerra fredda torna, ma il vecchio equilibrio tra potenze (balance of power) che regnava in Europa fino al ‘45: i Grandi Giochi dell’800, in Asia centrale o Balcani. Qui è la perversione odierna, obnubilata. Washington ha giocato per anni con l’idea di spostare la Nato a Est, fino ai confini russi. Più per mantenere in piedi l’ostilità del Cremlino che per aiutare davvero nazioni divenute indipendenti.L’Europa avrebbe potuto essere primo attore, perso il “nemico esistenziale”. Non lo è diventata. È un corpo con tante piccole teste, alcune delle quali (Germania per prima) curano propri interessi economico-strategici da soli. Lo scandalo è che nel continente c’è ancora una pax americana opposta alla russa. Una pax europea neppure è pensata. Eppure una pax simile potrebbe esistere. L’unità europea fu inventata proprio in risposta all’equilibrio delle potenze, per una pace che non fosse una tregua ma un ordine nuovo. L’ombrello Usa ha protetto un pezzo del continente, consentendogli di edificare l’Unione, ma ha viziato gli europei, abituandoli all’indolenza passiva, all’inattività irresponsabile, al mutismo. Finite le guerre fratricide, l’Europa occidentale s’è occupata di economia, pensando che pace-guerra non fosse più di attualità. Lo è invece, atrocemente.Priva di visioni su una pace attiva, l’Europa cade in errori successivi fin dai tempi dell’allargamento. Allargamento che non definì la pax europea: i paesi dell’Est si liberarono, senza apprendere la libertà. Il poeta russo Brodsky lo disse subito: «La verità è che un uomo liberato non diventa per questo un uomo libero. La liberazione è solo un mezzo per raggiungere la libertà, non è un sinonimo della libertà (…) Se vogliamo svolgere il ruolo di uomini liberi, dobbiamo esser capaci di accettare o almeno imitare il comportamento di una persona libera che conosce lo scacco: una persona libera che fallisce non getta la pietra su nessuno». L’Est si liberò dalle alleanze con Mosca, ma quel che ritrovò, troppo spesso, fu il nazionalismo di prima. Non a caso molti a Est si misero a difendere la sovranità degli Stati, senza esser contestati. E la “liberazione” criticata da Brodsky risvegliò ataviche passioni mono-etniche, intolleranti del diverso. Si aggravò lo status dei Rom: ridivenuti apolidi. Si riaccesero nazionalismi irredentisti, come nell’Ungheria di Orbán. Nata contro le degenerazioni nazionaliste, L’Europa ammutolì.Kiev corre gli stessi rischi, proprio perché manca una pax europea che superi le sovranità statali assolute, e la loro fatale propensione bellicosa. Se tanti sono eurofili ignorando la filosofia dell’Unione, è perché anche l’Unione l’ignora. Bussola resta l’America: lo Stato che meno d’ogni altro riconosce autorità sopra la propria. Oppure il nazionalismo russo. Tra Russia e Usa il rapporto è antagonistico, ma a parole. Nei fatti è un rapporto di rivalità mimetica, di somiglianza inconfessata. L’Ucraina è una nazione dalle molte etnie, con una storia terribile. Storia di russificazioni forzate, che in Crimea risalgono al ‘700: ma oggi i russi che sono lì vanno protetti. Storia di deportazioni in massa di tatari dalla Crimea, che pagarono la collaborazione col nazismo e tornarono negli anni ‘90. Storia di una carestia orchestrata da Stalin, e di patti con Hitler su cui non è iniziata alcuna autocritica (il collaborazionista Bandera è un mito, per le destre estreme che hanno pesato nei recenti tumulti).Uno dei più nefasti fallimenti della rivoluzione a Kiev è stata la decisione di abolire la tutela della lingua russa a Est: cosa che ha attizzato paure e risentimenti antichissimi dei cittadini russi, timorosi di trasformarsi in paria inascoltati dal mondo. Tutte queste etnie convivevano, quando in Europa c’erano gli imperi. Pogrom e Shoah son figli dei nazionalismi. Oggi regnano due potenze dal comportamento imperialista (Usa, Russia), che però non sono imperi multietnici ma nazioni-Stato distruttive come in passato. Se l’Europa non trova in sé la vocazione di essere impero senza imperialismo, via d’uscita non c’è. Se non trova il coraggio di dire che mai considererà “filo- europei” neonazisti che si gloriano di un passato russofobo che combatté i liberatori dell’Urss, le guerre nel continente son destinate a ripetersi. Le tante chiese ucraine lo hanno capito meglio degli Stati.In parte per monotonia abitudinaria, in parte per insipienza e immobilità mentale, continuiamo a parlare dell’intrico ucraino come di un tragico ritorno della guerra fredda. Ritorno tragico ma segretamente euforizzante. Perché la routine è sempre di conforto per chi ha poche idee e conoscenza. Le parole sono le stesse, e così i duelli e comportamenti: come se solo la strada di ieri spiegasse l’oggi, e fornisse soluzioni. È una strada fuorviante tuttavia: non aiuta a capire, a agire. Cancella la realtà e la storia ucraina e di Crimea, coprendole con un manto di frasi fuori posto. È sbagliato dire che metà dell’Ucraina – quella insorta in piazza a Kiev – vuole “entrare in Europa”. Quale Europa? Nei tumulti hanno svolto un ruolo cruciale – non denunciato a Occidente – forze nazionaliste e neonaziste (un loro leader è nel nuovo governo: il vice premier). Il mito di queste forze è Stepan Bandera, che nel ‘39 collaborò con Hitler.
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De Benoist: guarire il mondo, oltre destra e sinistra
Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».Per Preve, ricorda Zarelli su “La Voce del Ribelle” (post ripreso da “Come Don Chisciotte) la società contemporanea è dominata da un’ideologia che intreccia due formule dogmatizzate, destra e sinistra intese come «categorie generiche, non più identificate con concrete forze sociali». Di destra è il cosiddetto “pensiero unico”, ovvero l’idea che la società di mercato e il capitalismo internazionale – con tutti i suoi corollari, compresa la guerra intesa come operazione di “polizia internazionale” – costituiscano l’unico orizzonte possibile e auspicabile; di sinistra invece è lo stile “politically correct”, imperniato sull’esaltazione dei diritti dell’individuo, sul moralismo e sull’esigenza di politeness della politica, che viene ridotta a mero dibattito o pura chiacchiera. «Pressoché tutte le agenzie operanti all’interno dell’industria culturale, così come il sapere accademico, si muovono all’interno di questo codice dominante, la cui funzione è quella di legittimare il sistema vigente, raccogliendone i benefici in termini di visibilità mediatica e di carriere “intellettuali”».Idee di destra, valori di sinistra? De Benoist non è allineato con questa combinazione, dato che il suo pensiero politico potrebbe essere rappresentato con una formula esattamente contraria: valori di destra, idee di sinistra. Oggi, scrive Zarelli, destra e sinistra sono state entrambe «soppiantate dall’adozione di un trasversale criterio di governance, che evita accuratamente di mettere in discussione il quadro generale di riferimento di una società di mercato – ovvero di una società che è diventata mercato – sulla quale ormai quasi tutti concordano». Alain de Benoist invece «esprime una posizione che è esattamente l’opposto rispetto a quella dominante, la quale sostiene l’uguaglianza di principio tra gli uomini e al contempo cristallizza però le differenze sociali e le conseguenti ingiustizie». Il che, come sostenne già nel 1995 a Perugia, «non significa dunque che non esisterà più una destra o una sinistra», ma «le linee di frattura sono ormai trasversali: passano all’interno della destra come all’interno della sinistra». Le due categorie sono destinate a diventare complementari, «assumendo ciò che di meglio e di più vero esse possono avere».La ricerca meta-politica di de Benoist è orientata verso un ambito «in cui collocare la sua prospettiva di valore», che però «non coincide più con l’appartenenza a un’identità politica data». Per questo, lanciando la rivista “Krisis” alla fine degli anni ‘80, la definì «di sinistra, di destra, del fondo delle cose e del mezzo del mondo». Intellettuale “non catalogabile”, de Benoist considera post-moderno il suo pensiero, che critica la modernità. Dal suo avamposto isolato, riflette: la dicotomia destra-sinistra è un’invenzione «recente e localizzata», cioè «legata all’avvento delle democrazie di tipo parlamentare». Infatti, «non appena ci si allontana dall’Occidente per andare verso il terzo mondo, i concetti di destra e sinistra appaiono sempre meno pertinenti». E visto che quei concetti sorgono in Europa solo con la Rivoluzione Francese, bisogna ammettere che ciò che designano «non esisteva prima», e quindi non contengono «niente di immutabile». Dato che si tratta di categorie moderne, andrebbero riscritte in modo diacronico: la modernità (individual-universalista) sarebbe “di sinistra” e le società dell’Ancien Régime “di destra”. Ma questo è vero solo per noi occidentali: «Che cosa dire, allora, delle società tradizionali? E di quale utilità per l’analisi può essere una “destra” che finirebbe con l’inglobare i nove decimi della storia dell’umanità?».Il dogma fondamentale della civilizzazione moderna, scrive Zarelli, è lo sviluppo economico, o “progresso”, che consiste «nella sistematica sostituzione dell’ecosfera o mondo reale (la fonte dei benefici naturali) con la tecnosfera o mondo surrogato (la fonte dei benefici artificiali)». Problema: «Nessun “credente” accetta l’idea che sia proprio questo “sacro” processo la causa della sistematica distruzione sociale e ambientale cui stiamo assistendo, che egli imputa invece a deficienze o difficoltà nella sua realizzazione; di conseguenza, la visione del mondo del “modernismo” gli impedisce di comprendere il rapporto con il mondo reale, quello in cui vive, e di adattarsi a esso in modo da massimizzare il proprio benessere e la propria reale ricchezza». La visione del mondo del modernismo, e in particolare i paradigmi della scienza e dell’economia, «servono invece a razionalizzare lo sviluppo economico, o “progresso”, che sta portando l’uomo alla distruzione del mondo naturale». Com’è possibile che l’obiettività scientifica si comporti in modo tanto poco oggettivo? Semplice: «La scienza non è oggettiva, e questo è stato ben argomentato da alcuni dei maggiori filosofi della scienza contemporanea, come Thomas Khun, Imre Lakatos o Paul Feyerabend».Gli scienziati, continua Zarelli, accettano il paradigma della scienza – e quindi la concezione del modernismo – perché «razionalizza le politiche che hanno fatto nascere il mondo moderno in cui essi credono». Del resto, «è molto difficile, per una persona, evitare di considerare il mondo in cui vive – l’unico che ha mai conosciuto – come la condizione normale della vita umana su questo pianeta». Sicché, «è improrogabile l’affermazione di una “visione del mondo” ecologica, alla luce della quale sia possibile invertire la tendenza e ricomporre la frattura tra natura e cultura, aprendosi a una interpretazione sacrale del vivente che reincanti la realtà». Per Edward Goldsmith, l’obiettivo primario di una “società ecologica” deve essere un modello di comportamento teso a preservare l’ordine fondamentale del mondo naturale e del cosmo.In molte culture tradizionali esiste una parola per definire quel modello di comportamento: gli indiani dell’epoca vedica lo chiamavano “rta”, nell’Avesta il termine è “a_a”, gli antichi egizi lo chiamavano “maat”, gli indù e i buddisti “dharma”, i cinesi “Tao”. «Il Tao come “principio primo”, onnicomprensivo. Gli esseri umani, seguendo il Tao, o la Via, si comportano naturalmente». In termini spirituali, questo significa attenersi al principio del “Wu wei” (agire senza agire) di Lao-Tzu, perché «le cose, quando obbediscono alle leggi del Tao, formano un tutto armonioso e l’universo diventa un tutto integrato». In altre parole, quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, sostiene Zarelli. «Poiché l’evoluzione deve essere identificata con la Via, che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera», il progresso (o anti-evoluzione) «sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità».La “rivoluzione conservatrice”, controversa tendenza culturale affermatasi tra le due guerre mondiali, tentò di conciliare mito e scienza. Una vocazione che ricorda la l’impegno culturale di «rifondazione dei riferimenti filosofico-politici» sviluppato da Alain de Benoist «in una prospettiva comunitaria e pluralista». Impegno riassumibile in due punti: la fine della dicotomia destra-sinistra (in favore dell’elaborazione di una nuova cultura) e l’intuizione secondo cui «la trasversalità tra destra e sinistra deve essere raggiunta attraverso nuove sintesi», come «positiva contraddizione» e non «mera reciproca negazione». Da qui la ricerca di «nuovi, ulteriori e proficui paradigmi» per interpretare e cogliere le contraddizioni della civilizzazione occidentale. Riuscirà De Benoist a rinnovare lessico, modalità ideative e contenuti del dibattito politico-culturale contemporaneo? Siamo certi, conclude Zarelli, che l’impegno «è all’altezza della sua intelligenza», confortata dall’onestà intellettuale di questo «pensatore “epocale”, oltre il moderno».Alain de Benoist ha recentemente compiuto 70 anni. Un pensatore anomalo, eclettico e coerente, dotato di una grande curiosità culturale. Un uomo fuori dagli schemi, talmente anti-sistematico da non tener conto delle apparenti contraddizioni: la sua evoluzione, sostiene Eduardo Zarelli, è così rapida da costringe a una continua rincorsa chi tenta di catalogarlo politicamente. Nessun problema, invece, con intellettuali come il filosofo Costanzo Preve, da poco scomparso, «amico anticonformista» di de Benoist, con cui costruì un confronto da cui emergono significative convergenze. Lungi dall’unanimismo dilagante, secondo Preve, de Benoist incarna la funzione dell’intellettuale come “sensore critico” dei tempi in cui vive. La sua dote migliore? «Sta proprio nell’aver capito che il sistema si riproduce oggi con un impasto di valori di sinistra e di idee di destra, e dunque nella necessità di contrapporsi idealmente ad esso per capirci qualcosa».
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Distruggere l’Ucraina: un piano da 5 miliardi di dollari
L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.Nessuno ne contestò l’elezione quando sconfisse Viktor Yushenko, anche se fu un boccone amaro per chi di Yushenko aveva finanziato l’ascesa. E gli aveva perfino procurato la moglie. Pochi sanno che la seconda moglie di Yushenko si chiama Katerina Chumacenko, che veniva direttamente dal Dipartimento di Stato Usa (incaricata dei “diritti umani”). Ancora meno sanno che Katerina, prima di fare carriera a Washington, era stata uno dei membri più attivi e influenti dell’organizzazione neo-nazista Oun-B della sua città natale, Chicago. Oun-B sta per Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, di Stepan Bandera. L’Oun-B, tutt’altro che defunta, ha dato vita al Partito Svoboda, il cui slogan di battaglia è “l’Ucraina agli ucraini”, lo stesso che Bandera innalzava collaborando con Hitler durante la seconda guerra mondiale.Del resto Katerina era stata leader del Comitato del Congresso ucraino, il cui ispiratore era Jaroslav Stetsko, braccio destro di Stepan Bandera. Che è come dire che il governo americano si era sposato con i nazisti ucraini emigrati negli Usa, prima di mettere Katerina nel letto di Yushenko. Anche di questo il mainstream non parla. Ma ho fatto questa digressione per dire che, certo, gli ucraini hanno tutto il diritto di essere scontenti, molto scontenti di Yanukovic. E di avere cambiato idea. Anche noi abbiamo tutto il diritto di essere scontenti di Napolitano o del governo, ma questo non significa che pensiamo sia giusto assaltare il Quirinale a colpi di bombe molotov prima e poi di fucili mitragliatori. Essenziale sarebbe stato tenere conto di questi dati di fatto. Ma il piano, di lunga data, degli Stati Uniti era quello di assorbire l’Ucraina nell’Occidente. Se possibile tutta intera.Sentite cosa scriveva nel 1997 Zbignew Brzezinski, polacco: «Se Mosca ricupera il controllo sull’Ucraina, con i suoi 52 milioni di persone e le grandi risorse, riprendendo il controllo sul Mar Nero, la Russia tornerà automaticamente in possesso dei mezzi necessari per ridiventare uno Stato imperiale». Ecco dunque il perché dei 5 miliardi di cui parla la Nuland. Caduto Yushenko, in questi anni decine di Ong, fondazioni, istituti di ricerca, università europee e americane, e canadesi, hanno invaso la vita politica dell’Ucraina. Qualche nome? Freedom House, National Democratic Institute, International Foundation for Electoral Systems, International Research and Exchanges Board. E, mentre si «faceva cultura», e si compravano tutte le più importanti catene televisive e radio del paese, una parte dei fondi servivano per finanziare le squadre paramilitari che vediamo in azione in piazza Maidan. Che, grazie a questi aiuti, si sono moltiplicate.Adesso emerge il Pravij Sector (“Settore di destra” e “Spilna Prava”), ma il giornale polacco “Gazeta Wiborcza” ha parlato di squadre paramilitari polacche che agiscono a Maidan. E la piazza pullula di agenti dei servizi segreti occidentali: lo fanno in Siria, perché mai non dovrebbero farlo a Kiev? È perfino più facile: Yanukovic, dittatore sanguinario, appare più molle di Milosevic, altro strano dittatore sanguinario che si fece sconfiggere elettoralmente da Otpor (fondato e ampiamente finanziato dagli Usa). Tutto già visto. C’è solo un problema: Putin non è un pellegrino sprovveduto. È questo il popolo ucraino? Certo sono migliaia, anzi decine di migliaia, a mostrare il livello della rabbia popolare contro un regime inetto (non più inetto di quelli dei precedenti amici dell’Occidente, Kravchuk, Kuchma, Yushenko, Timoshenko), ma chi guida è chiaro perfino dalle immagini televisive. E questa è la ex Galizia, ex polacca, e la Transcarpazia. Se crolla Yanukovic e prendono il potere costoro, sarà una diaspora sanguinosa.I primi ad andarsene saranno i russofoni dell’est e del nord, del Donbass dei minatori, che già stanno alzando le difese. E subito sarà la Crimea, che ha già detto quasi unanime che intende restare dalla parte della Russia, anche per tentare di salvarsi dalla furia antirussa di coloro che prenderanno il potere. È l’inizio delle secessioni, oggi perfino difficili da prevedere, dai contorni indefiniti, che produrranno non fronti militari ma selvagge rappresaglie all’interno di comunità che non saranno più solidali. L’Europa, fedele esecutrice dei piani di Washington, ha aperto il vaso di Pandora. Che adesso le esploderà tra le mani. I nuovi inquilini saranno di certo concordati (sempre che Putin abbia la garanzia che non sarà valicato il Rubicone dell’ingresso nella Nato), ma coloro che sono scesi in piazza armati hanno in testa un’idea di Europa molto diversa da quella che si figura Bruxelles.E quelli in buona fede che sono andati dietro i neonazisti – e sono sicuramente tanti – si aspettano di entrare in Europa domani. E saranno tremendamente delusi quando dovranno cominciare a pagare, e non potranno comunque entrare, perché nei documenti di Vilnius questo non è previsto. L’unico tra i commentatori italiani che ha scritto alcune cose sensate è stato Romano Prodi, ma le ha scritte sull’“International New York Times”. Rivolto agli europei li ha invitati a non mettere nel mirino solo Yanukovic, bensì condannare anche i rivoltosi. E ha aggiunto: «Coinvolgere Putin», visto che tutte le parti hanno «molto da perdere e nulla da guadagnare da ulteriori violenze». Giusto ma ottimista. Chi ha preparato la cena adesso vuole mangiare e non si fermerà. E l’isteria antirussa è il miglior condimento per altre avventure.(Giulietto Chiesa, “L’Occidente apre il vaso di Pandora”, da “Il Manifesto” del 21 febbraio 2014).L’assistente del segretario di Stato Victoria Nuland ha detto al National Press Club di Washington, lo scorso dicembre, che gli Stati Uniti hanno investito 5 miliardi di dollari «al fine di dare all’Ucraina il futuro che merita», così scrive Paul Craig Roberts sul suo blog. Lui è ex assistente al Tesoro degli Usa e dice cose documentate. E ho letto che la Nuland ha già scelto i membri del futuro governo ucraino per quando Yanukovic sarà stato spodestato (o fatto fuori). L’Ucraina potrà avere così “il futuro che merita”. Ma quale futuro merita l’Ucraina, gli ucraini? Per come stanno andando le cose nessuno: non ci sarà l’Ucraina. Nell’indescrivibile clangore delle menzogne che gronda dai media mainstream la cosa principale che manca in assoluto è la banale constatazione che Yanukovic, l’ennesimo “dittatore sanguinario” della serie, è stato eletto a larga maggioranza dagli ucraini.
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Un giorno il Giappone sgancerà l’atomica su New York
Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.Il governatore di Wakayama, Yoshinobu Nisaka, ha replicato: «La cultura alimentare varia ed è saggio che le diverse civiltà si rispettino a vicenda. Ogni giorno vengono abbattuti maiali e vacche per la catena alimentare. Sarebbe crudele solo uccidere i delfini?». E il governo nipponico ha tenuto il punto: «Questa forma di caccia è una tradizione culturale». E’ il secondo incidente diplomatico che, in soli due mesi, la signora Kennedy provoca in Giappone. A dicembre si era detta «delusa» perché il primo ministro Shinzo Abe si era permesso di visitare il sacrario di Yasukuni dove sono onorati «anche 14 leader politici e militari giapponesi», condannati per crimini di guerra nel 1946 (nei processi di Tokyo, l’equivalente nipponico di quello di Norimberga; nel settembre 1986 il ministro dell’educazione giapponese, Masayuki Fuijno, sollevò un putiferio ponendo l’elementare domanda: «Chi ha dato ai vincitori il diritto di giudicare i vinti?»).In realtà dietro queste schermaglie c’è qualcosa di molto più profondo. Qualche anno fa mi recai in Giappone invitato dall’università di Kyoto (nemo propheta in patria) a tenere una conferenza su “americanismo e antiamericanismo, il ruolo dell’Europa”. In apparenza i rapporti fra Stati uniti e Giappone, che nel Pacifico è “la quarta sponda” degli Usa, erano ottimi, i rapporti commerciali intensissimi. Ma nell’animo dei giapponesi cova un sordo rancore, anche se, chiuso nel loro impenetrabile formalismo, non viene mai espresso. Lo si può notare solo da dei dettagli. Nel periodo in cui ero in Giappone c’era stata una partita di baseball fra americani e giapponesi, che in questo sport sono assai forti, vinta dai primi 4-3 con un punto contestatissimo. Ebbene, per giorni e giorni lo “Yumiuri Shimbun” e l’“Asahi Shimbun”, giornali serissimi, che parlano solo di economia e di politica internazionale, sono andati avanti a polemizzare su quel punto a loro dire “rubato”. La partita era solo un pretesto.I giapponesi non hanno mai digerito l’Atomica su Hiroshima e Nagasaki e, ancor meno, anche se a noi può sembrare strano, che gli americani, vinta la guerra, gli abbiano imposto di “dedivinizzare” l’Imperatore. L’Imperatore è la simbolica e intoccabile anima del Giappone, non è un uomo in carne e ossa (tanto che il mio giovane interprete, Ken, non ne sapeva nemmeno il nome, non per ignoranza, ma perché non ha importanza). In tanti secoli non c’è stato un solo tentativo di attentato all’Imperatore. Eppure le mura del palazzo imperiale di Kyoto, in legno, sono così basse che anche un ragazzino potrebbe saltarle agevolmente. Attraverso la “dedivinizzazione” dell’Imperatore gli americani, col consueto tatto da elefanti in un negozio di cristalli, hanno cercato di uccidere l’anima stessa del Giappone. I giapponesi non glielo hanno mai perdonato. E sono convinto che verrà il momento in cui getteranno una trentina di atomiche su New York.(Massimo Fini, “Un giorno i giapponesi getteranno 30 atomiche su New York”, intervento pubblicato da “Il Gazzettino” il 24 gennaio 2014 e ripreso da “Come Don Chisciotte”).Caroline Kennedy, figlia di Jfk, nuova ambasciatrice americana a Tokyo, ha denunciato la mattanza di 40 delfini avvenuta nella baia di Taiji, nel distretto di Wakayama, dicendosi «profondamente preoccupata dalla disumanità della caccia e dell’uccisione dei delfini» e ricordando che «il governo degli Stati Uniti si oppone a questa pratica». La caccia ai delfini, specie non a rischio di estinzione, in Giappone comincia in autunno e finisce a marzo e «come la signora ambasciatrice deve sapere, noi viviamo di questa attività», ha detto il capo dei pescatori di Taiji. Sono curiosi questi americani, negli ultimi anni con i loro bombardamenti alla “chi cojo cojo”, con i loro dardo senza equipaggio, hanno ucciso, in Afghanistan e in Iraq, centinaia di migliaia di persone, uomini, donne, vecchi, bambini, ma poi si inumidiscono fino alle lacrime per 40 delfini.
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Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.
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Ieri il nazismo, oggi il caos che prepara la mattanza
Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.Chissà perché due persone diverse, l’una indipendentemente dall’altra, hanno sentito il bisogno, o il gusto, di indirizzare i miei pensieri in una certa direzione. Proprio adesso. E chissà perché, questa volta – di nuovo “per caso”? – ho deciso di leggere subito l’uno e l’altro di questi due regali. Un titolo (e l’autore della presentazione) del primo può spiegare il mio interesse contingente. Ma il secondo è nato dalla mia ignoranza (avevo confuso Israel Singer con suo fratello Isaac Singer, il secondo essendo un premio Nobel per la letteratura, scrittore tra i miei primi preferiti). Eppure quest’ultimo mi ha portato sulla stessa carreggiata dell’altro, dove non pensavo di passare. L’impressione, l’emozione, sono evidentemente collegate al presente e al prossimo futuro. Ma le due “storie” si riferiscono entrambe all’intervallo tra le due guerre mondiali, e ai luoghi (la Germania, l’Austria, la Polonia, la Galizia, la Russia) in cui la seconda guerra mondiale si preparò senza che quasi nessuno – tra le vittime, intendo dire – se ne accorgesse.William Sheridan Allen racconta, con una inchiesta fittissima di dati, come una comunità pacifica, sostanzialmente democratica, attraversata da una crisi economica e sociale, e – evidentemente – morale, si trasforma in pochi anni in un piccolo, feroce esercito di fanatici, di assassini e di complici di assassini. Israel Singer racconta, in forma di romanzo, la saga della famiglia Karnowski, il cui capostipite, David, emigra a Berlino da una microscopica comunità di ebrei polacchi, attraversando una delle frontiere su cui, non molti anni dopo, si massacreranno milioni, e facendo vivere a se stesso, a suo figlio Georg, e al suo nipote Jegor, la tremenda esperienza della persecuzione nazista. Non voglio qui raccontare nulla di queste ricostruzioni, una letteraria, l’altra storiografica: non è questo l’intento, e la sede. Del libro di Israel Singer voglio qui sottolineare soltanto la profondità – e l’umanità, inevitabilmente, a tratti, feroce – dell’analisi della stratificazione delle comunità ebraiche che s’incrociano nella Berlino tra le due guerre. Delle loro miserie e viltà reciproche, come del coraggio e della vitalità insopprimibile con cui si difesero, o semplicemente soffrirono e subirono.Sullo sfondo, senza che mai appaia la parola “nazismo”, si scorge il prima lento e poi impetuoso muoversi dei “giovanotti con gli stivali” che arriveranno al potere. Il tutto con la connivenza corale di presunti “ariani” di ogni classe. Una tragedia che avviene, matura, prima impercettibilmente, poi con la forza di un torrente in piena che tutto travolge. “Resistibile” – come la chiamò Bertolt Brecht – lo sarebbe stata soltanto se coloro che la subirono, o l’appoggiarono, si fossero accorti dove avrebbe portato. La famiglia ebraica dei Karnowski precipita nello stesso gorgo che gli abitanti della piccola città dell’Hannover (tutti, senza eccezione: commercianti, impiegati, operai, padroni) stavano contribuendo a creare. Hitler arriva al potere con il consenso delle masse, trasformatesi in una micidiale miscela esplosiva. Qui si affaccia l’analogia con il nostro presente. L’Europa, di cui ci apprestiamo a eleggere quest’anno il nuovo Parlamento, è attraversata da una crisi che ne mette in discussione le fondamenta. Umori analoghi a quelli di allora, non identici, serpeggiano a tutti i livelli. Non ci sono “giovanotti con gli stivali” che marciano delle strade, ma ci sono – in uffici senza rumori – signori in giacca e cravatta la cui ferocia, già ampiamente dimostrata, è gelidamente, religiosamente superiore a quella dei faraoni. Non solo non c’è giustizia: non c’è ragionevolezza, non c’è visione. C’è, si vede, basta guardare bene in mezzo alla nebbia del mainstream, il caos che prepara una mattanza.Leggendo questi due libri ho avvertito la sensazione di trovarmi su un piano inclinato, che sta accentuando la sua pendenza. 1929: aggiungi dieci anni e avrai il 1939. 2008: aggiungi dieci anni e otterrai 2018. So bene che le analogie sono spesso cattivi indicatori. So bene che i ricorsi storici non esistono, com’è vero che l’umanità non si può mai bagnare due volte nella stessa acqua. La questione, ora, è che potrebbe non esserci più acqua. Ma basta guardare due dati: quello del riscaldamento climatico in atto e quello della produzione “infinita” di denaro, cioè di debito, per capire che la crisi del 1929 fu un esercizio di bella calligrafia rispetto a quello che si avvicina a passi da gigante: scarabocchio mostruoso che minaccia qualcosa di inimmaginabile.(Giulietto Chiesa, “Segnali di ricorsi storici?”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 gennaio 2013).Mi è capitato di ricevere in regalo, tra il Natale e i fuochi d’artificio di fine anno, due libri, che subito consiglio di leggere: “Come si diventa nazisti”, di William Sheridan Allen (introduzione di Luciano Gallino), Feltrinelli, e “La famiglia Karnowski”, di Israel Singer, Adelphi. Ho finito il secondo, che è un grande, grandissimo romanzo, e sto leggendo il primo. Entrambi quasi freneticamente. Diciamo che sono entrato nel 2014 sotto l’impressione fortissima provocatami da queste letture. Un caso? Naturalmente è un caso. Ma la nostra vita è piena di “casi”, di coincidenze che, a guardare bene, qualche cosa significano; che sono il prodotto di “atmosfere” magari impalpabili, ma che muovono i nostri gesti, aprono e chiudono i cassetti delle nostre emozioni, qualche volta richiamando ricordi, altre suggerendo attese premonizioni, o confermandole; che ci collegano a emozioni di altri, che circolano nell’aria e si trasmettono più sottilmente dei bacilli del raffreddore.