Archivio del Tag ‘Stato’
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Schiavi o disoccupati: è l’unica scelta che ci concedono
Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».Qual è la ragione più profonda della passività sociale che caratterizza le masse pauperizzate italiane, paese in cui una famiglia su tre è ormai da considerarsi povera? E’ una passività che continua – o addirittura aumenta – mentre procedono spediti deindustrializzazione, taglio delle paghe e dei redditi, disoccupazione indotta. «La direzione di marcia così scontata che gli allarmi non suscitano ormai alcuna sorpresa, né possono provocare alcuna reazione di massa, dentro o fuori gli schemi politici e sindacali», scrive Orso in un intervento su “Pauperclass” ripreso da “Come Don Chisciotte”. Il ferale gennaio 2014 illumina una realtà deprimente con due eventi decisivi: la fine della vecchia Fiat e il brutale ricatto alla Electrolux, che in Veneto e Friuli vorrebbe operai “polacchi”, da pagare pochissimo. In entrambi i casi, la lezione è la medesima: il grande capitale impone i suoi diktat senza più argini, e gli italiani assistono rassegnati.La “snazionalizzazione” della Fiat si coniuga infatti con il super-ricatto svedese nei confronti degli operai della Electrolux: si va verso la “cinesizzazione” del fattore-lavoro in Italia e in Europa, «comprimendone i costi senza troppe cerimonie». Costi che d’ora in poi «potranno essere compressi all’estremo, fino alla soglia minima di sopravvivenza o anche al di sotto». Ormai è «anacronistico» parlare di “lavoratori”, «guardando alle persone e ai loro diritti». Aggiunge Orso: «Sorriderà compiaciuto, nella tomba, l’agente di cambio anglo-olandese David Ricardo – padre del liberismo economico e “bestia nera” di Marx, nonché classico dell’economia – la cui legge dei salari altro non prevedeva, per i lavoratori, che il minimo per la sopravvivenza di sé e del proprio nucleo familiare (il cosiddetto salario di sussistenza)». Il modello Electrolux, se applicato diffusamente in grandi numeri, «supererà le sue attese, perché in futuro, nei semi-Stati neocapitalistici come l’Italia, si potrà andare liberamente molto al di sotto del minimo».Dopo il modello “Fabbrica Italia” «adottato da una Fiat infedele al paese (quella “finanziaria e globale” del manager canadese Marchionne e degli eredi Agnelli, gli ebrei Elkann)», ecco spuntare il “modello Electrolux”, non limitato al settore degli elettrodomestici. «Un modello fondato su un ricatto brutale, da realizzare per le vie brevi: o il taglio delle paghe senza alcuna vera contrattazione, oppure la delocalizzazione delle produzioni altrove (nella fattispecie in Polonia) e la chiusura degli stabilimenti italiani». Oggi il sistema dell’economia mondiale lo permette, anzi lo incoraggia. «Si avanza così di un passo, oltre Marchionne e la Fiat “internazionalizzata” oggi fusa con Chrysler in Fca, verso il pieno dominio del mercato globale e la totale libertà di scelta del capitale finanziario». Si passa dall’attacco portato con successo alla contrattazione nazionale collettiva da una Fiat ancora formalmente italiana (con sede nella penisola ma già fuori da Confindustria) a un attacco più diretto per colpire al cuore le deboli resistenze residue al progetto neocapitalistico.Un progetto, continua Orso, che prevede la compressione estrema del fattore-lavoro e la totale libertà nella scelta delle aree d’investimento, non più ostacolata da alcuna barriera. Infatti, «dello Stato sovrano non c’è più alcuna traccia, in Italia». E, dal direttorio Monti-Napolitano in poi, «si è definitivamente affermato un semi-Stato europoide e neocapitalistico». Ovvero «un semi-Stato “da operetta”, estraneo agli interessi della popolazione italiana e tenuto formalmente in vita dai veri decisori, come supporto locale ai processi di globalizzazione economico-finanziaria in atto». In questo contesto generale, il “sub-mercato” europoide che imprigiona l’Italia si muove nella stessa direzione dei grandi mercati asiatici e del Pacifico. La rotta, per tutti, è stabilita dagli agenti strategici neocapitalistici, che attraverso le “istituzioni” sovranazionali controllano in modo ferreo «la penisola, le sue risorse (popolazione compresa) e il suo patetico semi-Stato».«Dopo aver abilmente disgiunto la persona dal fattore-lavoro, negando l’unità dell’esperienza esistenziale umana», secondo Orso oggi «si privatizza anche la conseguente disperazione sociale di massa, rendendola un mero dramma individuale e individualizzato, privo di rappresentanza politica nel semi-Stato e orfano delle vecchie tutele sindacali». Non è più possibile resistere: «Non esistono più rappresentanze effettive per i futuri schiavi, o i futuri espulsi dal ciclo produttivo». E il dramma è vissuto esclusivamente nel privato, in solitudine. «Ecco cosa impongono l’“apertura al mercato” e la cosiddetta competitività in uno scenario globale, per agganciare una chimerica ripresa produttiva e occupazionale nel semi-Stato. Che la riduzione di paga richiesta per mantenere la produzione in Italia sia di poco più del 10%, come millanta la proprietà, o addirittura del 50%, oppure, più probabilmente, vicina a una percentuale intermedia fra le due, poco importa. Comunque finisca la vicenda degli stabilimenti italiani di Electrolux, il dado è tratto, il ricatto è servito ed è il capitale finanziario a dettare imperiosamente la sua legge».Schiavitù o disoccupazione, prendere o lasciare. Nel passaggio da “Fabbrica Italia” al “modello Electrolux”, accusa Eugenio Orso, si compie «la privatizzazione della disperazione sociale – fra le masse immemori dell’antica ed estinta lotta di classe – con il supporto decisivo dei media, di economisti e intellettuali, della politica collaborazionista nel semi-Stato italiano e dalle centrali sindacali al servizio del neocapitalismo». E si compie il passaggio dal lavoro ancora umano, oggetto di tutele e rapportato alla persona, al mero fattore-lavoro neocapitalistico, che non può avere alcun diritto «perché concepito come un qualsiasi bene e servizio nel circuito produttivo». Un bene «disgiunto dal suo prestatore», perché «i lavoratori, in quanto tali, diventano delle non-persone. Non-persone come lo furono gli schiavi del mondo antico». “Oggetti animati” di cui è possibile liberarsi «chiudendo interi stabilimenti produttivi, se non si accettano inaccettabili (in altre epoche) riduzioni di paga».
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Solidarietà ai No-Tav, superata quota 100.000 euro
Per il sig. Alberto Perino: vi prego non mollate, siete l’orgoglio del popolo italiano. La Valsusa paura non ha (da Bologna). Orgogliosi di difendere la nostra terra e i beni. In gamba tutti voi. Difesa del territorio dalle lobby. Resistere. Non mollate. Forza ragazzi continuate così. Solidarietà agli eroici No Tav. Per una giusta causa. Scusate il basso importo, sono con voi. Colpevoli di difendere la nostra terra. Grazie per tutto. Solidarietà. Sostegno alla resistenza. Grazie ragazzi. Val di Susa resiste. La solidarietà non ha frontiere. Avanti No Tav. Un piccolo contributo (100) per una grande vittoria. Forza Alberto, forza tutti i no tav. Teniamo duro. Causa: mi andava. Tenete duro. Siete grandi. Siamo con voi. Stasera salto la pizza. Tenete duro.Ragazzi, non ho più 1 euro e tra un po’ sforo il fido, ma per voi volentieri, per voi proprio volentieri. Certo che vi aiutiamo a resistere, grazie. So che è per una giusta causa. Lo so è poco, ma di più non posso. Non mollate mai. Concorso spese assurde. Siamo tutti con voi. Continuate così. Piccolo aiuto a resistere. Forza no tav, resistete. La mia è una semplice goccia ma sono con voi. Davide contro Golia. Rompiamogli i marroni. Contributo per chi ha i coglioni per difendere il proprio territorio. Grazie per la tenacia. Con tutto il cuore. Non siete soli. Non tanto, ma di cuore. Forza ragazzi! Ultima speranza dell’ItaliaVi mando quello che avrei dovuto versare allo Stato per la Tares (30 euro). Per Perino e Co. Aiuto per richiesta di danni immaginari per centinaia di migliaia di Euro. Forza non mollate, state difendendo la libertà di tutti. Ne ho pochi, ma ve li meritate alla grande. Continuate, un giorno troveremo il coraggio di fare altrettanto (da Castelfranco Veneto). Per combattere i farabutti della Tav. Nessuno è solo. A l’è già dura. Per il popolo No Tav. Forsa fieuij. Magari con un bell’esposto alla Corte dei Conti per truffa ai danni dello Stato da Sitaf e Ltf ce li facciamo restituire…(Dal sito “NoTav.info” del 3 febbraio 2014, messaggi di solidarietà per i No-Tav dagli italiani che sostengono la raccolta fondi per Alberto Perino, Loredana Bellone e Giorgio Vayr, condannati in sede civile a pagare oltre 200.000 euro per un’azione dimostrativa di protesta contro la campagna di trivellazioni del 2010 per il progetto della linea Tav Torino-Lione).Per il sig. Alberto Perino: vi prego non mollate, siete l’orgoglio del popolo italiano. La Valsusa paura non ha (da Bologna). Orgogliosi di difendere la nostra terra e i beni. In gamba tutti voi. Difesa del territorio dalle lobby. Resistere. Non mollate. Forza ragazzi continuate così. Solidarietà agli eroici No Tav. Per una giusta causa. Scusate il basso importo, sono con voi. Colpevoli di difendere la nostra terra. Grazie per tutto. Solidarietà. Sostegno alla resistenza. Grazie ragazzi. Val di Susa resiste. La solidarietà non ha frontiere. Avanti No Tav. Un piccolo contributo (100) per una grande vittoria. Forza Alberto, forza tutti i no tav. Teniamo duro. Causa: mi andava. Tenete duro. Siete grandi. Siamo con voi. Stasera salto la pizza. Tenete duro.
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Bertani: attaccando Napolitano, Grillo vincerà le elezioni
«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.«Lo share di Napolitano è uno fra i più bassi del mondo occidentale», scrive Bertani nel suo blog, in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. «Soltanto la metà dei cittadini lo approva (parecchi sondaggi recano queste cifre)». E questo, per un capo di Stato che ha basato il suo agire sul motto “state tranquilli, qui ci sto io a controllare”, secondo Bertani «è una débacle», tant’è vero che ormai «metà dei cittadini ha capito il trucco». “Sparando” contro Napolitano, Grillo prepara dunque una campagna elettorale nella quale una sola forza politica, il “Movimento 5 Stelle”, si candida a vincere a mani basse, grazie ai voti di chi è «schifato, annichilito, provato dal disgusto» di fronte allo spettacolo che avanza. «Difatti, Napolitano – che è un gran furbacchione – ha dichiarato di non essere preoccupato per la messa in stato d’accusa in merito alla Costituzione, bensì d’esserlo molto per cosa sta succedendo in Parlamento. Là sì che si stanno giocando i futuri equilibri europei! Devono riuscire a tagliar la pelle all’asino senza farlo ragliare! E bene fanno quelli del M5S ad urlare più forte: non si facciano intimorire dalle tigri di camomilla come Letta!».La verità è che il Parlamento «ha raggiunto forse il limite inferiore della sua storia», anche se «in futuro potrà scendere ancora». E tutte le istituzioni, compresa la presidenza della Repubblica, «sono oramai gli zombie di ciò che erano non più di un anno fa». Gli unici ad essere felici «sono gli uomini di Bankitalia, che ringraziano per il generoso regalo di 4 miliardi di euro fatto ai loro azionisti: credevamo che l’Imu servisse per rimettere in sesto il bilancio italiano. No, adesso abbiamo la conferma ufficiale che serviva a rimpinguare i conti degli azionisti privati di Bankitalia». Tutto questo, però, non basta a motivare la messa in stato d’accusa di Napolitano. Primo rilievo: espropriazione della funzione legislativa del Parlamento e abuso della decretazione d’urgenza. «Su questo punto – osserva Bertani – andrebbero processati tutti i presidenti, almeno da Pertini in avanti: le leggi contro il terrorismo sono state la “prova generale” della decretazione d’urgenza. Poi, il diluvio: oggi, si decreta “d’urgenza” anche un finanziamento di 1.000 euro a qualche parente, oppure un ministro entra a gamba tesa nella decisione su quale parente abbia diritto di gestire il bar di un ospedale».Seconda accusa: riforma della Costituzione e del sistema elettorale. Qui invece i grillini hanno ragione, sostiene Bertani: «L’eventuale riforma della Costituzione è argomento staccato dalla legge elettorale, e bene ha fatto il M5S a lottare perché (finora) non avvenisse. C’è il rischio che riescano a raggiungere i 2/3 dei voti, e quindi che riescano ad evitare il referendum confermativo». Napolitano? «E’ chiaro che non considera il M5S un soggetto politico “attivo”: al più, dei divertenti clown». Detto questo, purtroppo, «le leggi elettorali – salvo il proporzionale puro e senza sbarramenti (una testa, un voto) – sono tutte delle truffe: dipende da chi vuoi farti truffare». Più difficile, invece, sostenere la terza accusa, quella del mancato esercizio del potere di rinvio presidenziale: «Se ad esempio Ciampi non rinviò il “Porcellum” alle Camere a fine legislatura (che, quindi, sarebbe caduto immediatamente, ben prima d’essere dichiarato incostituzionale sette anni dopo) in molti casi sarebbe stato opportuno farlo. Già, ma è un potere presidenziale: che succede se non lo si applica?».Idem per il quarto “capo d’accusa”, cioè l’anomala rielezione al Quirinale: sarà una prassi poco opportuna, ma la Costituzione non la vieta. Quanto alla quinta “imputazione”, quella di improprio esercizio del potere di grazia, c’è poco da aggiungere: «Detto fuori dai denti, Sallusti era l’ultima persona da graziare, con tanta gente malata e condannata a pene lievi che ingombrano le nostre carceri», ma tant’è: il potere di grazia resta prerogativa esclusiva del capo dello Stato, e può esercitarlo senza condizioni. Infine, sulla sesta e ultima contestazione – il rapporto con la magistratura nel processo Stato-mafia – è «molto difficile estrapolare la verità». Ipotesi: «Nulla di più probabile che gli apparati dello Stato si siano “attivati” molto “generosamente” in favore del presidente». Ma, anche qui, come motivare l’accusa di “attentato alla Costituzione”? In altre parole, «Grillo sa benissimo che le possibilità di successo dell’iniziativa sono pari a zero»: troppi giuristi e costituzionalisti «al servizio di Re Giorgio», e troppo pochi parlamentari a favore della decadenza. Eppure, secondo Bertani, la mossa (tutta politica) dell’impeachment alla fine avrà successo: «Ovviamente Napolitano non decadrà dall’incarico, ma sarà travolto dalle susseguenti elezioni».Bertani mette a fuoco la nuova legge elettorale confezionata da Renzi e Berlusconi: nessuno dei due schieramenti – centrodestra e centrosinistra – sembra in grado, davvero, di raggiungere il famoso premio di maggioranza, che assomiglia sempre di più «al prosciutto in cima all’Albero della Cuccagna». Il 37% è una soglia alta – Berlusconi si sarebbe accontentato del 35 – perché entrambi i partiti ritengono che saranno loro gli attori al ballottaggio. «Nulla di più falso», sostiene Bertani. In campo ci sono «tre partiti grossomodo equivalenti (ricordiamo le “sorprese” delle scorse elezioni)», ma con una differenza sostanziale: «Grillo agiterà la clava contro il vecchio Re usurpatore», mentre i suoi parlamentari, esasperati «dall’insipienza della Boldrini e della sua “ghigliottina”», ormai «praticano una sorta di guerriglia parlamentare ai limiti del lecito». Sicché, «agli altri, non rimarrà che difendere l’asfittico esistente», cioè le loro tasse, le loro non-riforme e la devastazione socio-economica che dilaga.«C’è però un altro punto a favore del M5S: tutti i sondaggi danno un astensionismo pari a circa il 40%, la metà dei quali deciderà nell’ultima settimana cosa fare». Sono circa 8 milioni d’italiani, dice Bertani. Otto milioni di cittadini decisivi, perché «avranno in tasca la chiavi del nostro futuro». Proprio su questa enorme quota di elettorato – quella che Giulietto Chiesa chiama “la voragine dei non-rappresentati” – oggi «si sperticano gli istituti di ricerca». Ma la notizia è che «non trovano nulla», perché ogni istituto ha un “padrone” politico, e quindi «“taroccherà” le risposte in modo di “adattarle” alle richieste: nulla di utile». Dunque, attenti a quegli 8 (milioni): niente di più facile che, al momento decisivo, scelgano il più convincente “voto contro”, il più chiaro, alla larga da Renzi e dall’amico Silvio. Se l’Italia è in sofferenza da anni, torturata dall’establishment europeo incarnato da personaggi come Monti e Draghi, aprire il fuoco da oggi contro il supremo garante italiano dell’euro-regime, l’anziano Napolitano, potrebbe consentire a Grillo di conquistare addirittura la pole position.«Le banche vogliono ancora soldi: tutti hanno capito che col Fiscal Compact l’hanno fatta fuori del vaso, perciò in questo ultimo anno cercheranno di succhiare tutto il sangue che riusciranno, poi abbandoneranno la carogna. Sta a quelli come noi, che hanno compreso la truffa – iniziata con Licio Gelli ed il suo “Piano di Rinascita Democratica” di 30 anni or sono – continuare a strombazzare qual poco di verità della quale siamo certi, perché l’abbiamo vissuta. I ragazzi del M5S – almeno – sappiamo che continueranno». Così la pensa Carlo Bertani, all’indomani del decreto-vergogna Imu-Bankitalia e della richiesta di impeachment per Napolitano: per la messa in stato d’accusa i presupposti giuridici sono fragili, ma quelli politici no. Se oggi non accadrà nulla, i risultati potrebbero arrivare domani: Grillo è l’unico ad aver centrato nel mirino il bersaglio grosso, l’uomo del Colle, massimo garante di un establishment fallimentare, che Pd e Berlusconi saranno costretti a difendere, andando incontro a una disfatta elettorale.
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Bankitalia? Ci vendono alla Germania, e la Cgil zitta
Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.Così, mentre le prime pagine dei giornali italiani sono rigonfie di cose inutili, la banca centrale del principale paese dell’Eurozona ha chiesto per noi una bella stangata (non esiste legge elettorale che risolva il problema della rappresentanza e dei processi decisionali. Ma da prima dello scioglimento del Pci i “riformisti” hanno provato questa droga del politico detta “legge elettorale”, e non hanno più smesso…). D’altronde, con un’economia paralizzata cosa credete che voglia il grande fondo estero, come garanzia, per comprare i nostri titoli? Ma i nostri patrimoni! Grandi e piccoli che siano, basta non averli alle Cayman (come lo sponsor di Renzi). Così vuole la Bundesbank. E che rapporto c’è tra queste necessità della Bundesbank e il decreto Imu-Bankitalia presentato furbescamente alla televisione e alle Camere?Se qualcuno crede che le comparsate della Boldrini servano per garantire il rispetto alle istituzioni, viva il suo Nirvana e non proceda oltre nella lettura. Sennò ascolti un dettaglio. Prima di tutto mettere l’Imu nel decreto è costruire un cavallo di Troia (absit injuria verbis) per far passare tre perle: 1) L’aumento dell’acconto Ires; 2) La “sanatoria” sul gioco d’azzardo, che è un regalone a tutte le agenzie che dovevano somme astronomiche allo Stato; 3) La sterilizzazione del potere di veto del ministero dei beni culturali e (sic) del ministero dell’ambiente sulle dismissioni (e vai con nuovi ecomostri). E qui arriva la perlona contenuta nel decreto Imu che prende anche il nome del gioiello, diventando decreto Imu-Bankitalia. Cosa prevede il gioiello?1) La legittimazione della proprietà privata dell’ente che solo nominalmente resterà pubblico (nomina del governatore, vero Re Pipino della situazione); 2) L’impossibilità del potere pubblico di poter dire alcunché sulla compravendita delle quote di Bankitalia (quindi se qualcuno o qualcosa che ha interessi che non coincidono con quello nazionale prende piede in Bankitalia, il pubblico non può porre veti. Solo per questo Napolitano meriterebbe l’impeachment, altro che…); 3) Si apre legalmente la strada ad un patto di sindacato, esplicito o occulto, dove una serie di soggetti finanziari che entrano nelle banche italiane fanno cosa gli pare di Bankitalia (guarda caso tre giorni fa qualcuno ha fatto la spesa con i titoli bancari italiani che sono andati anche a -16 in una seduta).4) Le privatizzazioni possono essere pilotate da questo patto di sindacato ormai legittimabile da questo decreto (vedi vicenda Cassa depositi e prestiti); 5) Il patto di sindacato (cioè l’insieme delle regole volte a determinare l’assetto della proprietà di una società), possibile e sostenibile da hedge fund che hanno un portafogli largo quanto il nostro Pil, può a questo punto controllare l’oro di Bankitalia a sostegno dell’euro. Proprio come desidera la Bundesbank. E ce la vedete questa nuova Bankitalia, in mano a tutti fuorché all’Italia, opporsi nel caso alla patrimoniale come desiderata dalla Bundesbank? «Ragàssi» – avrebbe detto il povero Bersani – «Sciamo in Europa…».A questo punto anche un elettore di centrosinistra, cioè uno che in politica fa uso di droghe nemmeno tanto leggere, capisce la verità. Che la “crescita” non esiste, non ci sarà. Ma solo un periodo di estrazione di risorse da questo paese. Fino a quando non ci sarà nulla da estrarre e i nostri giovani accetteranno salari da 250 euro il mese, competitivi con l’Ucraina che spinge per entrare in Europa a costo della guerra civile, facendosi prendere per fame. In un paese dai prezzi tedeschi causa tasse e balzelli. Tutto questo ha un nome nei manuali di concorrenza economica. Si chiama strategia del “Beggar thy neighbour”. Ovvero: porta il tuo vicino a mendicare. Ci guadagnerai un sacco. Specie se nel paese del tuo vicino ci sarà qualche servo che dà del populista e dell’irresponsabile a chi si opppone al saccheggio (link: “Bankitalia, una privatizzazione che incatena l’Italia all’euro”). La proposta della patrimoniale della Bundesbank è all’opposto della patrimoniale “de sinistra”. Si tratta semplicemente di tassare e spedire in Germania. “Prima” deportavano uomini e ricchezze e mettevano tutto nei vagoni piombati. Ora sono solo interessati alle ricchezze, ma senza disturbare il traffico ferroviario.(“La gravissima vicenda della privatizzazione di Bankitalia”, da “Senza Soste” del 30 gennaio 2014).Tutti ricordiamo il tormentone Imu sì-Imu no, una bolla mediatica che ha accompagnato la vita politica istituzionale per metà 2013. È stato sostituto, sempre con Silvio protagonista (complimenti, anche vicino al sarcofago riesce a condizionare i nanerottoli politici di via del Nazareno) dall’altra bolla mediatica, quella della legge elettorale. Bene, immaginate che casino succederebbe se qualcuno grosso, qualcuno di importante, volesse imporre una bella patrimoniale, di quelle toste. Già, immaginate il coro dei Roberto Speranza, uno che la parte l’ha imparata presto (“irresponsabile”, “populista” etc), e i sottili distinguo dei sindacalisti gialli Camusso e Landini sulla patrimoniale. Il problema, non proprio leggerino, è che la proposta di una forte patrimoniale per l’Italia, sempre per il rigore dei conti pubblici, non l’ha avanzata qualche populista ma la Bundesbank. Eh sì. Era in prima pagina due giorni fa sulla “Handelsblatt” e su “Die Welt”, edizione online di entrambe le testate.
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Ciao Bankitalia: guai se ridiventiamo un paese sovrano
«Si vuole evitare che, anche in caso di uscita dall’Italia dall’euro, il paese possa tornare ad esercitare in futuro la piena sovranità monetaria con una banca nazionale attiva». Per l’economista Nino Galloni, già docente alla Cattolica di Milano, all’università di Modena e alla Luiss, il vero obiettivo della manovra che ha fatto indignare i grillini – la “ghigliottina” di Laura Boldrini che taglia il dibattito in aula per impedire di discutere un decreto-truffa, truccato da provvedimento anti-Imu – è l’amputazione (anche per il futuro) della sovranità monetaria nazionale, cioè la capacità teorica di Bankitalia di tornare un giorno ad essere il “bancomat del Tesoro”, permettendo al governo di fare spesa pubblica per investire in occupazione e risollevare l’economia nazionale, finanziando investimenti con sano debito pubblico sovrano. In altre parole: chi “consegna” definitivamente la banca centrale al credito privato vuole mettere una pietra tombale sulla libertà democratica del paese.Il decreto-vergogna, dice Galloni ad Alessandro Bianchi in un’intervista su “L’antidiplomatico”, è stato approvato grazie all’inaudita “tagliola” della Boldrini, per imporre una rivalutazione delle quote di Bankitalia, ferme ai 156.000 euro di valore del 1936. Così, il capitale di riserva passerà a 7,5 miliardi di euro. E agli azionisti – principalmente banche private – sarà garantito un dividendo del 6%, quindi fino a 450 milioni di euro di profitti l’anno. Infine, le quote della Banca d’Italia potranno essere vendute a soggetti stranieri, purché comunitari. Ma l’ennesimo regalo alle banche disposto dal governo Letta nasconde un disegno ancora più pericoloso: la vera posta in gioco, sottolinea Galloni, è la fine (definitiva) della sovraniotà italiana. «Mentre oggi con un capitale di 156.000 euro sarebbe piuttosto agevole rendere nuovamente pubblica la banca centrale e salvare anche le nostre lire, con il decreto deciso dal governo Letta diventa praticamente impossibile».Per ripristinare la sovranità monetaria, aggiunge Galloni, in caso di uscita dall’euro «l’unica soluzione sarebbe creare una nuova Banca d’Italia», operazione ovviamente «molto complessa». Se non altro, si consola l’economista, «la vicenda è un segnale di forte debolezza da parte di chi oggi combatte per sostenere l’euro», non-moneta sempre più indifendibile. Per questo, Palazzo Chigi – che di fatto si limita ad eseguire i diktat neoliberisti che l’élite oligarchico-finanziaria affida alla Troika – vuole assolutamente evitare che lo Stato possa tornare nelle condizioni di poter finanziare il proprio sviluppo. Un dettaglio determinante, infatti, riguarda il caso del Monte dei Paschi di Siena. Il suo presidente, Alessandro Profumo, ha appena dichiarato che, senza una immediata ricapitalizzazione di Mps, salta tutto il sistema bancario italiano. «Traduzione: se non si fa la ricapitalizzazione e Mps diventa pubblica comprerà il denaro dalla Bce allo 0,25%, lo rivenderà allo Stato allo 0,30% e, quindi, quella differenziale di guadagno che oggi hanno le banche dai tassi d’interesse sui titoli di Stato e lo 0,25% non lo ricaveranno più».Obiettivo strategico del decreto messo a punto da Saccomanni per conto del governo Letta-Napolitano: impedire allo Stato di riappropriarsi della sua sovranità monetaria, condizione indispensabile per poter affrontare la crisi economica prodotta dall’Eurozona. «La vera battaglia in corso non è solo tra pro-euro o anti-euro», dice Galloni, ma ormai coinvolge anche «lo scenario che abbiamo in mente in caso di uscita dalla moneta unica». Ovvero: «Lo si farà ripristinando la sovranità monetaria e degli Stati o rimanendo schiavi con monete diverse dall’euro?». Oggi, il fronte anti-euro non è ancora una realtà omogenea: si divide tra chi vuole uscire dall’euro a qualunque costo e chi invece vorrebbe farlo ripristinando la sovranità monetaria. «E l’obiettivo, oggi, è tagliare la strada a questi ultimi ed evitare che il giorno dopo che salta l’euro, magari nei modi più imprevedibili, lo Stato possa tornare ad esercitare la piena sovranità monetaria».Un’uscita confusa dalla moneta unica – cioè senza il ripristino della piena facoltà di spesa da parte dello Stato grazie alla libera emissione di valuta – è destinata a produrre «conseguenze che non si possono oggi prevedere, ma gravi». Nino Galloni sostiene che dovremmo prendere a modello la Gran Bretagna, l’Australia e anche gli Usa. Di fatto, in tutto il mondo, «solo la vecchia Europa ha deciso di abdicare alla propria sovranità monetaria: non è da tutti avere rinunciato ad una funzione così essenziale». Quantomeno, nonostante la disinformazione “militare” organizzata dai media mainstream, l’opinione pubblica si è mobilitata, grazie anche alla ferma opposizione condotta dal M5S. C’è da augurarsi che il governo venga travolto dalle polemiche e faccia retromarcia. «Ora che è stata raggiunta una piena consapevolezza è importante proseguire in questa azione», dice Galloni. «Per il “Movimento 5 Stelle” sarebbe una vittoria mediatica importante, in risposta a tutti coloro che l’accusano di muoversi solo su questioni secondarie». Questa, al contrario, «è una vicenda di fondamentale importanza per il futuro del nostro paese».«Si vuole evitare che, anche in caso di uscita dell’Italia dall’euro, il paese possa tornare ad esercitare in futuro la piena sovranità monetaria con una banca nazionale attiva». Per l’economista Nino Galloni, già docente alla Cattolica di Milano, all’università di Modena e alla Luiss, il vero obiettivo della manovra che ha fatto indignare i grillini – la “ghigliottina” di Laura Boldrini che taglia il dibattito in aula per impedire di discutere un decreto-truffa, truccato da provvedimento anti-Imu – è l’amputazione (anche per il futuro) della sovranità monetaria nazionale, cioè la capacità teorica di Bankitalia di tornare un giorno ad essere il “bancomat del Tesoro”, permettendo al governo di fare spesa pubblica per investire in occupazione e risollevare l’economia nazionale, finanziando investimenti con sano debito pubblico sovrano. In altre parole: chi “consegna” definitivamente la banca centrale al credito privato vuole mettere una pietra tombale sulla libertà democratica del paese.
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Maxi-regalo alle banche, grazie al golpe della Boldrini
Il provvedimento appena passato su Bankitalia? Si tratta di un rivoltante regalo alle banche che, quest’anno, daranno 1 miliardo e mezzo di tasse su questa operazione (ufficialmente destinato a coprire l’abolizione della seconda rata Imu), ma per incassarne circa 400 all’anno, da ora in poi, come dividendi sugli utili di Bankitalia. Dunque, in quattro anni si saranno abbondantemente rifatte. Il M5S aveva avviato un serrato ostruzionismo per far decadere il decreto. I mezzi di informazione, sempre sensibili alle sollecitazioni di Quirinale, Palazzo Chigi, Palazzo Koch, Palazzo Grazioli e di tutti i palazzi importanti di questo paese, avevano subito iniziato una campagna terroristica: «Attenti, che se i grillini vincono, poi pagate la seconda rata Imu, che sarebbe una tragedia». Per due mesi il Pd e la stampa caudataria ci aveva spiegato che l’Imu non era quella cosa così importante che si diceva, che era solo per la demagogia del Cavaliere che se ne parlava; ora, guarda un po’, è diventata la goccia che avrebbe fatto traboccare il bicchiere dei fallimenti aziendali e del tracollo delle famiglie.Intendiamoci: l’Imu è stata una estorsione imposta dal governo Monti e andava abolita, l’ho scritto ripetutamente, ma bisognava trovare la sostituzione del gettito in direzione delle rendite finanziarie, cosa che fa semplicemente inorridire il Pd che è lo scendiletto delle banche. Banche che, a loro volta, hanno un problema serio, per l’avvicinarsi degli stress test della Bce, per cui occorre rivalutare i rispettivi asset. Allora qualcuno ha un’idea: rivalutiamo di colpo Bankitalia, il che significa rivalutare le quote possedute in essa dalle banche. Semplice e con un tratto di penna. Solo che bisogna pur giustificare nei confronti della gente questo provvedimento che qualcosa costa allo Stato, ed ecco che qualcuno inventa il nesso Imu-Bankitalia per far digerire la cosa alla gente (insomma: fra qualche mese si vota ed un po’ di maquillage fiscale non guasta).La cartina di tornasole? Semplice: si sarebbe potuto tranquillamente procedere con un decreto ad hoc per la seconda rata Imu o magari scorporare il provvedimento per Bankitalia, cercando altra copertura, ma così sarebbe venuto fuori che il vero obiettivo non era far risparmiare ai poveri cittadini la seconda rata dell’iniqua gabella (sino a ieri pervicacemente difesa). Cosa succederà gli anni prossimi quando non ci sarà questo gettito una tantum di 1 miliardo e mezzo e, anzi, le banche incasseranno netti altri 400 miliardi? E chi se ne frega! Ci sarà la Tares opportunamente rivalutata o chissà quale altra stravagante sigla e si andrà avanti. Nel frattempo il regalo è fatto e le elezioni europee passate, per le politiche (posto che ci siano nel 2015, ma già l’ineffabile Renzi parla di possibile scadenza naturale nel 2018) si vedrà che altro inventarci e poi c’è sempre il ricorso all’ortopedia di una qualche legge truffa elettorale.E sin qui la sostanza del problema. Veniamo al “contorno”. L’operazione è passata grazie alla decisione della Boldrini, che ha posto il testo in votazione troncando la discussione. Per la verità nel regolamento una simile possibilità non c’è, si tratta di una misura ipotizzata da Luciano Violante (quale nome!) con una sua ardita interpretazione del medesimo, ma in concreto applicata in questa occasione per la prima volta. Qualche riflessione la merita anche il comportamento del gruppo parlamentare del M5S al quale va dato atto, in primo luogo, di aver condotto una battaglia generosa e con molto coraggio, ma che ha delle cadute di stile preoccupanti. Anzi, diciamola tutta, dal punto di vista delle capacità comunicative, i parlamentari grillini sono una vera frana. Prendiamo l’esempio di Giorgio Sorial, che ha definito “boia” Napolitano. A proposito: ho letto che sarebbe stato aperto un fascicolo dalla Procura di Roma sul deputato M5S, per vilipendio del Capo dello Stato. Mi sembrava di ricordare che “i membri del Parlamento non possono essere perseguiti per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni” (articolo 68, comma I della Costituzione): devono aver riformato la Costituzione senza dircelo.La cosa non mi scandalizza neanche un po’ e anche se trovo l’appellativo spropositato, offensivo e impolitico (tenendo anche conto che, per un minimo di rispetto dell’Istituzione, se non della persona, è bene ponderare le parole quando si tratta del Presidente della Repubblica) mi pare che si tratti di una venialità, soprattutto tenendo conto che la censurabilità dell’uscita di Sorial è una bazzecola rispetto a quella che meriterebbero i comportamenti del presidente. Quindi, va bene, Sorial va difeso, però è evidente a chiunque che i giornali stanno con il fucile spianato, a cercare ogni minimo pretesto per sparare addosso al M5S e non mi pare il caso di andargli a fornire ragioni.Bisogna capire una cosa: partiti e giornali sono convinti che il M5S sia una specie di incidente di percorso, destinato ad essere tolto di mezzo rapidamente, per cui pensano che un sistematico mobbing sia il modo migliore per ottenere il risultato. Personalmente sono convinto che la cosa non funzionerà e che, semmai, il M5S abbia da temere di più dai suoi errori politici ed organizzativi. Ma, lasciando perdere questo discorso che andrebbe troppo per le lunghe, una cosa si può fare già da subito: un corso di comunicazione per i parlamentari 5S che serva almeno ad evitare gli errori più marchiani. Non sono affatto un estimatore del “politicamente corretto”, e mi pare di dimostrarlo su queste pagine; però, se una dose equilibrata di forza nella denuncia è necessaria, un eccesso di violenza verbale è sempre controproducente.(Aldo Giannuli, estratto da “Golpe della Boldrini e Bankitalia”, pubblicato sul blog di Giannuli il 30 gennaio 2014).Il provvedimento appena passato su Bankitalia? Si tratta di un rivoltante regalo alle banche che, quest’anno, daranno 1 miliardo e mezzo di tasse su questa operazione (ufficialmente destinato a coprire l’abolizione della seconda rata Imu), ma per incassarne circa 400 all’anno, da ora in poi, come dividendi sugli utili di Bankitalia. Dunque, in quattro anni si saranno abbondantemente rifatte. Il M5S aveva avviato un serrato ostruzionismo per far decadere il decreto. I mezzi di informazione, sempre sensibili alle sollecitazioni di Quirinale, Palazzo Chigi, Palazzo Koch, Palazzo Grazioli e di tutti i palazzi importanti di questo paese, avevano subito iniziato una campagna terroristica: «Attenti, che se i grillini vincono, poi pagate la seconda rata Imu, che sarebbe una tragedia». Per due mesi il Pd e la stampa caudataria ci aveva spiegato che l’Imu non era quella cosa così importante che si diceva, che era solo per la demagogia del Cavaliere che se ne parlava; ora, guarda un po’, è diventata la goccia che avrebbe fatto traboccare il bicchiere dei fallimenti aziendali e del tracollo delle famiglie.
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Foa: l’Italia è già in mano agli uomini di Mario Draghi
«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Grillo a Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti».La spiegazione: «Chi ha la facoltà di velocizzare o di rallentare l’immenso apparato dello Stato: le persone che hanno questa facoltà esistono e possiedono le chiavi del potere», scrive Foa in un post sul “Giornale”, citando un articolo di “Italia Oggi” del maggio scorso, firmato da Roberto Narduzzi. Titolo: “Draghi ha già piazzato i suoi uomini in tutti i posti chiave dell’economia”. Per attivare lo scudo anti-spread, scrive Narduzzi, occorre «offrire garanzie manageriali ai prestatori che devono di fatto approvare la qualità della squadra italica chiamata a gestire il programma». Draghi lo sa bene, aggiunge “Italia Oggi”, e non ha perso tempo: «Non è affatto casuale l’arrivo di uomini di Bankitalia ai posti chiave della finanza pubblica. Fabrizio Saccomanni come ministro dell’economia e Daniele Franco alla Ragioneria dello Stato». Sono «persone di qualità e di cui Draghi si fida», ovvero «persone giuste per interagire con la Bce, il Fmi o la Commissione se l’attivazione dello scudo si fa realtà». Altre pedine strategiche: alla direzione generale del Tesoro un certo Vincenzo La Via, proveniente dalla Banca Mondiale, e all’Agenzia delle Entrate un tecnocrate come Attilio Befera, «molto stimato da Draghi». A questo punto, «soltanto il bilancio dell’Inps, oggetto di feroci critiche per Inpdap ed esodati, sfugge al controllo tecnico di un Draghi boy».Il “vero premier italiano”, quello che governa dall’Eurotower Bce di Francoforte in perfetta sintonia con Napolitano, ha messo a punto ogni casella chiave per gestire gli effetti operativi dell’attivazione italiana dello scudo anti-spread, osserva Foa, rileggendo “Italia Oggi”. «Il tono dell’articolo è compiaciuto e compiacente. Come dire: bravo Draghi!». Con questi sistemi, aggiunge Foa, si governano le istituzioni grazie a «tecniche di occupazione del potere», vanificando ogni dialettica politica fondata sul confronto democratico, grazie al super-potere di «membri altolocati delle élite che contano davvero». Lo conferma un altro servizio, firmato da Andrea Cangini sul “Quotidiano Nazionale”: “Leggi e governanti ‘ostaggio dei tecnici’. Così i grandi burocrati guidano la politica”. «Lo Stato sono loro», taglia corto l’ex ministro Altero Matteoli, «e la repubblica è appesa alle loro decisioni». Destra e sinistra non contano, di fronte al potere dei super-burocrati: ragioniere generale dello Stato, capi di gabinetto, direttori di dipartimento, capi dell’ufficio legislativo dei ministeri più importanti. «Hanno dunque in pugno il paese, e da quasi vent’anni sono sempre gli stessi», restando nel recinto di «una casta chiusa, irresponsabile ed autoreferenziale».Osserva ancora Cangini: sono 15-20 individui, sempre quelli. «Il più noto è Vincenzo Fortunato, ex Tar, più di 500.000 euro di stipendio l’anno fino a poco tempo fa». I super-tecnocrati nostrani «sono il vero e inamovibile potere italiano», sintetizza un ex ministro diessino, confortato da un suo omologo ex forzista. Entrambi sostengono che le bollinature, cioè il via libera contabile della Ragioneria ad ogni provvedimento di spesa, «vengono concesse solo se il provvedimento rientra nella ‘visione’ politica del ragioniere generale. In caso contrario vengono negate o subordinate a scelte ‘politiche’ diverse». C’è un’altra cosa su cui i due ex ministri, pur di opposti schieramenti, concordano: «I burocrati ministeriali scrivono le norme e gestiscono le informazioni in maniera iniziatica, in modo da risultare indispensabili». Un monopolio difficile da scalfire, chiosa Foa. «Capito chi governa davvero l’Italia?». Loro, gli yes-men che rispondono al signore della Bce, privatizzatore del sistema bancario italiano, uomo del Bilderberg e della Goldman Sachs nonché esponente del Gruppo dei Trenta, vera e propria cupola del super-potere finanziario mondiale attraverso cui l’élite planetaria domina il nostro destino.«Povero Renzi, non ha ancora capito che, se mai andrà al governo, non potrà comandare». Idem gli altri “volti nuovi” (o semi-nuovi) della politica, da Grillo a Vendola fino al leghista Salvini, tutti «destinati a vedere vanificate le loro riforme: che siano di destra o di sinistra, sono accomunati dallo stesso destino. Perché il vero potere è altrove. Così vicino, eppure invisibile», incarnato dagli uomini dislocati a Roma dal vero dominus dell’Italia, Mario Draghi. Secondo Marcello Foa, se la Seconda Repubblica ha portato ad esecutivi più longevi ma non troppo stabili – Berlusconi, Prodi – fino al super-tecnocrate Monti e alle larghe intese di Letta, è per via del «male endemico che però non spiega la cronica inefficienza dei governi», a cui è stato impedito di cambiare la politica. Chi frena? Per capirlo, si tratta di scoprire «chi ha in mano l’apparato del governo, chi pubblica sulla Gazzetta Ufficiale disposizioni di legge illogiche, incongruenti, contraddittorie al punto da vanificare, casualmente, la riforma generando sconcerto nell’opinione pubblica, che naturalmente se la prende con i soliti partiti». -
Brancaccio: disastro, la sinistra non osa uscire dall’euro
Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente richiamata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.Il professor Brancaccio, docente all’università del Sannio (Benevento), ne riparla con Alessandro D’Amato su “Giornalettismo”, a sette anni di distanza dal primo profetico allarme lanciato nel 2007 sulla rivista “Studi economici”, prefigurando la spirale di crisi provocata dalla deflazione indotta dall’euro: l’esplosione dello spread e l’avvento della spending review di Mario Monti. La situazione, da allora, non ha fatto che peggiorare: «La Bce si dichiara disposta a difendere i paesi in difficoltà solo se in cambio questi proseguiranno con le politiche di austerity: l’idea è che tali politiche dovrebbero risanare i conti pubblici e ripristinare la fiducia dei mercati, fino a rendere superflua la stessa protezione della Bce. Il problema, ormai largamente riconosciuto, è che l’austerity non risana i conti. Anzi, può deprimere i redditi a tal punto da rendere più difficili i rimborsi dei debiti: un circolo vizioso che in prospettiva non riduce ma accresce l’instabilità dell’Eurozona». L’unica ricetta invocata è quella delle “riforme strutturali” del mercato del lavoro: la flessibilità è una costante dell’ultimo ventennio. Tesi smentita dallo stesso Olivier Blanchard, capo economista del Fmi: i paesi che non hanno precarizzato il lavoro se la stanno cavando meglio, perché i lavoratori occupati sostengono i consumi e pagano le tasse.Secondo la Bce, invece, tagliare i salari consente ai paesi periferici dell’Unione di ridurre il divario di competitività con la Germania senza ricorrere all’uscita dall’euro e alla svalutazione. «Il problema – obietta Brancaccio – è che per ridurre in modo consistente quel divario ci vorrebbe una caduta dei salari e dei prezzi di tale portata da provocare un crollo dei redditi rispetto ai debiti, con effetti negativi sulla solvibilità. Ancora una volta un circolo vizioso». Draghi? Ha solo «messo in “coma farmacologico” l’Eurozona malata», e ora sta «suggerendo cure che a lungo andare finiranno per ammazzarla». Le conseguenze sono già sotto i nostri occhi: dal 2008 l’Italia ha perso un milione di posti di lavoro. Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo ne hanno persi altri 5 milioni. In Italia le insolvenze delle imprese sono aumentate del 90%, in Spagna addirittura del 200%. Al contrario, la Germania ha visto aumentare l’occupazione e diminuire i fallimenti.«Queste divergenze sono il sintomo di una “mezzogiornificazione” in atto, cioè di una tendenza alla desertificazione produttiva di vaste aree periferiche dell’Eurozona, a vantaggio del paese più forte». A chi sostiene che un’uscita dall’euro riaprirebbe il vaso di Pandora dei conflitti europei, portando addirittura a nuove guerre, Brancaccio risponde che – al contrario – è proprio l’euro la causa della crisi. L’Eurozona, di fatto, è un particolare regime di cambio fisso: come il gold standard, che fece precipitare l’economia europea fino all’esplosione della Prima Guerra Mondiale. Un altro economista, Barry Eichengreen, ritiene che i tentativi di ripristare il gold standard (valore monetario vincolato a quello dell’oro) favorirono la Grande Depressione, che creò i presupposti per la Seconda Guerra Mondiale. «Sono dunque i pasdaran dell’euro a tutti i costi che dovrebbero fare più attenzione alle conflittualità che stanno alimentando in seno all’Europa».In Italia le posizioni pro-euro a oltranza sembrano già numericamente minoritarie, nonostante una preponderante campagna mediatica a loro favore. «Evidentemente la vuota retorica europeista non basta per governare la crisi», sottolinea Brancaccio. E se un’uscita dall’euro solleva innanzitutto un problema salariale, è importante «ripristinare alcuni meccanismi di tutela dei lavoratori e delle loro retribuzioni, a partire da una nuova scala mobile». Altro rischio: le svendite all’estero delle aziende italiane dopo una eventuale uscita dall’euro, che le svaluterebbe di colpo rendendole appetibili. Ma attenzione: sta già accadendo, con l’euro. «In Italia, negli ultimi cinque anni, i prezzi dei beni capitali e degli immobili sono diminuiti in media del 10%. Alcuni soggetti esteri hanno colto l’opportunità e hanno già iniziato a comprare capitali nazionali». Senza più l’euro, la svalutazione sarebbe ancora più forte e improvvisa: «E’ evidente che molti operatori stranieri aspetteranno proprio quel momento per iniziare lo shopping a buon mercato». Che fare? Proteggere l’economia italiana con moneta sovrana, e con «vincoli alle acquisizioni estere di capitali nazionali, in primo luogo in ambito bancario».Un’uscita disordinata dall’euro – cioè senza protezioni statali – sarebbe «in perfetta continuità con l’ideologia liberista e liberoscambista che ha dominato in questi anni, e che ci ha condotti al disastro». Sarebbe un’uscita “gattopardesca”, «affidata ancora una volta al libero gioco delle forze del mercato». Ovvero: «I salari non verrebbero protetti, le acquisizioni estere non sarebbero limitate, i tassi di cambio sarebbero lasciati alla libera fluttuazione sui mercati dei cambi e sarebbe mantenuta a tutti i costi la libera circolazione dei capitali e delle merci. Inoltre, si continuerebbe a sfruttare i sentimenti anti-politici della popolazione per svuotare lo Stato delle sue funzioni». Per Brancaccio, questa soluzione è tuttora probabile: «Perché il liberismo e il liberoscambismo sono ancora ideologicamente pervasivi, e perché in fondo è quella che tende a salvaguardare gli interessi dei più forti». Per esempio quelli degli speculatori, «che trarrebbero grande vantaggio dal ritorno a un libero mercato europeo delle valute». E poi la Germania. L’associazione degli esportatori tedeschi l’ha detto, più volte: «Noi possiamo fare tranquillamente a meno della moneta unica, ma non possiamo fare a meno della libertà degli scambi sancita dal mercato unico europeo».La seconda possibilità, quella su cui punta Brancaccio, consiste nella messa in discussione dei vecchi dogmi liberisti e liberoscambisti: «Progredire, superare la crisi, significa per esempio riaffermare che gli interessi del lavoro incarnano l’interesse generale. Significa attribuire nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia, a partire dal settore bancario. E significa chiarire che se salta la moneta unica bisognerà mettere in discussione, almeno in parte, anche il mercato unico europeo, in primo luogo stabilendo limiti alle acquisizioni estere e alla indiscriminata circolazione dei capitali». La sinistra non ha mai preso in considerazione proposte come lo “standard retributivo europeo”, «rimaste lettera morta a causa dell’irriducibile ostilità tedesca: non solo dei cristiano-democratici, anche dei socialdemocratici». Risultato: «Oggi l’Eurozona è dominata da divergenze che a lungo andare la faranno implodere», grazie all’offensiva delle «nuove destre nazionaliste», che provocherebbe «un arretramento sul terreno dei diritti e delle libertà civili». La sinistra? Non pervenuta. Non ha ancora saputo cogliere «l’estrema gravità della situazione».Uscire dall’euro: sì, ma “da sinistra”. Ipotesi probabilmente evocata dallo stesso ex viceministro dell’economia, Stefano Fassina, quando ha parlato di un “Piano B” in caso di fallimento del semestre europeo a guida italiana. Minacciare di mollare la moneta della Bce se non si allenta la morsa del rigore? Se il Pd di Renzi non si esprime, il centrodestra si è ormai convertito all’euroscetticismo. Si dice che Berlusconi volesse uscire dall’euro già nel 2011, mentre la Lega sostiene l’abbandono della moneta unica in modo ancora più esplicito. Anche il M5S accarezza questi temi. Attenzione: «Se sommiamo i consensi al centrodestra e quelli al M5S scopriamo che in Italia esiste già una potenziale maggioranza anti-euro», avverte l’economista Emiliano Brancaccio. Secondo il quale l’addio all’Eurozona è ormai inevitabile, ma a precise condizioni: intervento pubblico sulle banche, tutela dei salari e limiti alla circolazione dei capitali per proteggere le aziende (che si svaluterebbero di colpo) dal rischio di essere comprate per quattro soldi.
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Se ci rubano anche le Poste, servizio pubblico universale
Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.Anche ai più sprovveduti credo risulti chiara l’inversione del contesto: Saccomanni dice di voler privatizzare le Poste per ridurre il debito pubblico, mentre è evidente come il debito pubblico sia solo l’alibi – lo shock teorizzato da Milton Friedman – per permettere la privatizzazione di un servizio pubblico universale. Bastano due semplici operazioni di matematica: la vendita del 40% di Poste Italiane porterebbe il debito pubblico da 2.068 a 2.064 miliardi, con un entrata una tantum non riproducibile, e nel contempo eliminerebbe un’entrata annuale stabile di almeno 400 milioni/anno (essendo l’utile di Poste Italiane pari a 1 miliardo). Ma, ovviamente, non c’è dato che conti quando l’obiettivo è quello di dichiarare una vera e propria guerra alla società, attraverso la progressiva spoliazione di diritti, beni comuni, servizi pubblici e democrazia, all’unico scopo di favorire l’espansione dei mercati finanziari.E, d’altronde, la messa sul mercato del 40% di Poste è la naturale prosecuzione di un processo di trasformazione del servizio, in corso già da quando l’azienda dello Stato è diventata una SpA: da allora abbiamo assistito a più riprese – tutte avvallate dagli accordi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil di categoria – al progressivo smantellamento del servizio postale universale, con relativo attacco alle sue prerogative di uniformità di servizio su tutto il territorio nazionale, di tariffe contenute e di soddisfacente qualità del recapito. Ciò che si vuole perseguire, con la definitiva privatizzazione, è lo smantellamento della funzione sociale di Poste Italiane, attraverso la separazione di Banco Posta dal servizio di recapito, trasformando il primo – già oggi ricettacolo di molteplici attività finanziarie – in una vera e propria banca e mettendo sul mercato il secondo.Con la naturale conseguenza che i servizi postali saranno garantiti da una miriade di soggetti privati, solo laddove adeguatamente remunerativi (grandi città e grandi utenti) e smantellati, o a carico della collettività con aumento incontrollato dei costi, in ogni territorio dove il rapporto servizio/redditività non sarà considerato adeguato. Senza contare il fatto che, con questa operazione, anche tutta la funzione di raccolta del risparmio dei cittadini, oggi svolta dagli oltre 13.000 uffici postali, che convogliano il denaro raccolto a Cassa Depositi e Prestiti, verrebbe messa a rischio o profondamente trasformata. Stiamo già sentendo le consuete sirene ideologiche di accompagnamento: la vendita del 40% non intaccherà il controllo pubblico, mentre nel capitale sociale verranno coinvolti i lavoratori e i cittadini risparmiatori, in una sorta di azionariato popolare e democratico.Credo che tre decenni di privatizzazioni abbiano già fornito gli elementi per confutare entrambe le tesi: l’entrata dei privati nel capitale sociale di un’azienda pubblica ha sempre e inevitabilmente comportato la trasformazione della parte pubblica in soggetto finalizzato all’unico obiettivo del profitto; l’azionariato diffuso tra lavoratori e cittadini, aldilà delle favole sulla democrazia economica, è sempre servito a immettere denaro nell’azienda, permettendo agli azionisti maggiori – i poteri forti – di poterla possedere senza fare nemmeno lo sforzo di doverla comprare. Ogni smantellamento di un servizio pubblico universale consegna tutte e tutti noi all’orizzonte della solitudine competitiva: ciascuno da solo sul mercato in diretta competizione con l’altro. Opporsi alle privatizzazioni, oltre a fermare i processi di finanziarizzazione della società, consente di riaprire lo spazio pubblico dei beni comuni e di un altro modello sociale. Perché il futuro è una cosa troppo seria per affidarlo agli indici di Borsa.(Marco Bersani, “Il postino smetterà di suonare?”, da “Comunitaria” del 24 gennaio 2014).Dopo aver versato, per non più di un minuto, lacrime di coccodrillo sui dati della disuguaglianza sociale nel pianeta, forniti dal rapporto della ong Oxfam – le 85 persone più ricche del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di 3,5 miliardi di persone; l’1% del pianeta possiede il 50% della ricchezza mondiale – il ministro Saccomanni, presente all’annuale Forum di Davos, è passato alle cose serie e, in un incontro con i grandi investitori stranieri, ha annunciato l’avvio dell’ennesimo piano di privatizzazioni, con in testa le Poste Italiane. Senza senso del ridicolo, è riuscito a dire che l’operazione, che prevede, per ora, la messa sul mercato del 40% del capitale sociale di Poste, comporterà un’entrata di almeno 4 miliardi da destinare alla riduzione del debito pubblico.
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Gallino: il totalitarismo dell’Ue sarà la nostra rovina
La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.Sul mercato del lavoro sono entrate quindi meno persone di quelle stimate, quindi il tasso di disoccupazione è più alto, mentre oltre 100 milioni di persone vivono in condizioni di povertà: per proteggerle non basta nemmeno il salario minimo che Obama intende aumentare a 10 dollari all’ora. «Il salario è fermo ai livelli del 1978, il che vuol dire meno reddito per le famiglie che hanno dovuto mettere al lavoro tutti, nonni e figli compresi», sostiene Gallino in un’inervista realizzata da Roberto Ciccarelli per “Doppiozero” e ripresa da “Megachip”. L’ex segretario Usa al Tesoro, Lawrence Summers, parla addirittura di «stagnazione secolare». Colpa della globalizzazione, delle nuove tecnologie e delle delocalizzazioni. «Ciò ha portato al paradosso per cui gli Usa contribuiscono alla crescita della Cina ma non alla propria». La stagnazione è devastante in Europa, dove allarga le diseguaglianze in tutti i suoi paesi. «Non si dice mai che in Germania esiste una parte della popolazione che ha inflitto costi umani e sociali elevati alla maggioranza e ne prende grandi vantaggi». In questo meccanismo, continua Gallino, ha influito negativamente sui bilanci degli altri paesi l’eccesso dell’export tedesco.Per Gallino, l’euro rappresenta l’incubo numero uno. «È nato con gravi difetti e resta una moneta straniera. È una cosa da pazzi, non succede in nessun posto al mondo. Avere una moneta meno rigida aiuterebbe molto». Il sociologo torinese teme però che dalla trappola dell’Eurozona non sia così facile uscire: «Il marco sarebbe rivalutato del 40%, milioni di contratti tra enti privati e pubblici dovrebbero essere ridiscussi. Ci vorrebbero 20 anni per farlo, entreremmo in una spirale drammatica». L’aspetto più inquietante è che la moneta unica rappresenta in Europa lo strumento operativo principale del “totalitarismo neoliberista”, quello delle politiche di rigore, concepite per rendere gli Stati incapaci di proteggere i cittadini, impedendo loro di promuovere l’occupazione attraverso un impiego strategico degli investimenti pubblici. «Queste politiche sono un suicidio programmato, ben venga qualunque intervento per allieviarne le conseguenze». E se sull’euro c’è scritto “chi tocca, muore”, si può cominciare dalla politica: e cioè costringendo Bruxelles (e la Bce) a invertire la rotta, allargando i cordoni della borsa.Uscire dalla recessione col rilancio della produzione e dei consumi di massa come nel “trentennio glorioso” tra il 1945 e 1973? «Lo pensano i governanti e alcuni economisti che hanno sempre in mente il modello che ha provocato la crisi: produrre di più tagliando il costo del lavoro, i salari, aumentando la precarietà». Gallino non crede a questa prospettiva. Inoltre, se mai avvenisse, un nuovo “miracolo economico” sarebbe «un vero disastro», perchè la crisi «non è solo finanziaria o produttiva, è anche evidentemente una crisi ecologica che produce la desertificazione del pianeta, distrugge risorse che hanno impiegato migliaia di anni per accumularsi». In più «rischiamo di essere seppelliti dai rifiuti, uno dei problemi provocati dall’esplosione nel 2007 del modello produttivo, come dimostra la Campania, che è un caso esemplare di quanto sta accadendo».L’Ocse avverte che la crescita tornerà, ma non produrrà nuova occupazione stabile. Senza considerare che i milioni di posti fissi bruciati nella crisi sono irrecuperabili. Che fare, allora? «Bisogna ridiscutere i trattati europei e modificare lo statuto della Banca Centrale Europea, innanzitutto». La legislazione europea è infatti soffocante: le 300.000 leggi in vigore in Italia (come le 9-10.000 esistenti in Francia e in Germania) sono all’80% ispirate e comunque vincolate alle direttive europee. «Se non si passa di lì, penso che sia molto difficile fare politiche economiche che non siano quelle sconsiderate fatte negli ultimi tre anni: i governi continueranno a battere i tacchi e a firmare qualsiasi cosa che Bruxelles, la Bce o l’Fmi gli propongono». Gallino trova «scandaloso» che sia il Trattato di Maastricht che lo statuto della Bce «ignorino quasi del tutto il problema della nostra epoca: la creazione di occupazione».L’articolo 123 del Trattato Ue vieta alla Bce di concedere scoperti di conto o qualsiasi forma di facilitazione creditizia alle amministrazioni statali: è un divieto unico tra le banche centrali esistenti sul pianeta, un’altra assurdità del trattato. È difficile modificarlo, a causa della contrarietà dei tedeschi. Ed è «curioso» notare che questo stesso articolo non vieta alla Bce l’acquisto dei titoli sul mercato secondario, cosa che la Bce ha fatto tra il 2010 e il 2011 quando acquistò 218 miliardi di titoli di Stato, di cui 103 italiani. «Se lo si volesse usare, la Bce potrebbe prestare miliardi di euro in cambio dell’impegno di un piano industriale che preveda l’assunzione netta di nuova manodopera». Invece, Draghi «ha prestato mille miliardi alle banche senza porre condizioni», e in più «si è reso ridicolo quando ha ammesso di non avere la minima idea di cosa ne abbiano fatto le banche». In realtà quei soldi sono stati usati per scambi bancari o per acquistare titoli. Meno di un terzo sono andati alle imprese, ma anche in questo caso senza porre condizioni.«Senza risorse – sottolinea Gallino – le politiche contro la disoccupazione fatta dal nostro governo, come da tutti quelli europei, sono pannicelli caldi rispetto ai 26 milioni di disoccupati e ai 100 milioni a rischio di povertà in Europa». Molti economisti, tra cui quelli della Banca Mondiale, ritengono ormai che il Pil non sia più l’unico indicatore per misurare la salute dell’economia, e propongono altri indicatori per valutare il tasso di sviluppo umano. «Cambiare paradigma produttivo non implica solo cambiare indicatori, comporta una trasformazione politica». In questa fase, però, «mancano le premesse politiche per realizzarla». Per Gallino, i discorsi che i governi europei fanno sull’economia, in Italia come in Germania, «sono di un’ottusità incomparabile». Ovvero: «Vanno tutti in direzione contraria a quello che bisogna fare, e di certo non servono per riformare la finanza, mutare il modello produttivo e operare una transizione di milioni di lavoratori verso nuovi settori ad alta intensità di lavoro», cioè green economy, ricerca, alimentazione, beni culturali, manutenzione idrogeologica del territorio. «La crisi deve essere affrontata in tutti gli aspetti e non solo su quello finanziario e produttivo. Purtroppo la discussione pubblica è a zero».La nostra stagnazione economica durerà anni: serve una trasformazione politica e un altro paradigma per il benessere e l’occupazione. Se 2013 la Cina è cresciuta del 7,7% (e nel 2014 il suo Pil sarà all’8,2%), l’Europa – Italia in primis – resterà al palo, mentre gli Usa arriveranno a +2,9%. Per Luciano Gallino, però, la situazione degli Stati Uniti non è affatto quella che si dipinge: «L’attuale presidente della Fed, Ben Bernanke, ha detto che ormai il tasso di disoccupazione è un parametro poco rappresentativo. Infatti la disoccupazione effettiva, che comprende sia gli “scoraggiati” o i part-time che vorrebbero lavorare a tempo pieno, è molto più elevata di quanto sembri». La differenza tra noi e loro? Presto detto: grazie alla moneta sovrana, «gli Stati Uniti hanno potuto permettersi di pompare migliaia di miliardi di dollari nell’economia», anche se poi «i risultati sono stati abbastanza modesti», dal momento che lo stimolo monetario «è risultato meno efficace sull’occupazione di quanto si creda», anche perché molto del denaro emesso non è stato investito in posti di lavoro.
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Srm, scudo solare chimico: l’alibi per la guerra climatica
«Se partiamo dal presupposto che nel 2025 la nostra strategia di sicurezza nazionale includerà la modificazione del clima, il suo uso nella nostra strategia militare nazionale sarà la naturale conseguenza». Modificare il clima: era l’orizzonte a cui già nel lontano 1996 puntava la Air University, una dépendance dell’aviazione Usa con sede nella base aerea di Maxwell, in Alabama. A quanto pare, avvertono Giulietto Chiesa e Paolo De Santis citando fonti delle Nazioni Unite, la “conquista” del clima è già cominciata: per l’Ipcc, il panel scientifico dell’Onu sul clima, la creazione di uno “scudo termico” per proteggere la Terra dall’irraggiamento del sole sarebbe l’unica possibilità di scongiurare la catastrofe del surriscaldamento globale. Lavori già in corso da tempo? «Nessuno di noi ne deve sapere nulla, perché evidentemente la missione è stata interamente delegata ai militari». E mentre i “debunker” tentano di ridicolizzare chi parla di “scie chimiche”, il Palazzo di Vetro squarcia un velo sulle nuove frontiere della geo-ingegneria. E ammette: nessuno è in grado di valutarne gli “effetti collaterali” sul pianeta.
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Qualcuno era comunista e voleva un’umanità felice
Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.Qualcuno era comunista perché era ricco ma amava il popolo. Qualcuno era comunista perché beveva il vino e si commuoveva alle feste popolari. Qualcuno era comunista perché era così ateo che aveva bisogno di un altro Dio. Qualcuno era comunista perché era talmente affascinato dagli operai che voleva essere uno di loro. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di fare l’operaio. Qualcuno era comunista perché voleva l’aumento di stipendio. Qualcuno era comunista perché la rivoluzione oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuramente. Qualcuno era comunista perché la borghesia, il proletariato, la lotta di classe… Qualcuno era comunista per fare rabbia a suo padre. Qualcuno era comunista perché guardava solo Rai Tre. Qualcuno era comunista per moda, qualcuno per principio, qualcuno per frustrazione. Qualcuno era comunista perché voleva statalizzare tutto. Qualcuno era comunista perché non conosceva gli impiegati statali, parastatali e affini.Qualcuno era comunista perché aveva scambiato il materialismo dialettico per il Vangelo secondo Lenin. Qualcuno era comunista perché era convinto di avere dietro di sé la classe operaia. Qualcuno era comunista perché era più comunista degli altri. Qualcuno era comunista perché c’era il grande partito comunista. Qualcuno era comunista malgrado ci fosse il grande partito comunista. Qualcuno era comunista perché non c’era niente di meglio. Qualcuno era comunista perché abbiamo avuto il peggior partito socialista d’Europa. Qualcuno era comunista perché lo Stato, peggio che da noi, solo in Uganda. Qualcuno era comunista perché non ne poteva più di quarant’anni di governi democristiani incapaci e mafiosi. Qualcuno era comunista perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica, eccetera, eccetera, eccetera…Qualcuno era comunista perché chi era contro era comunista. Qualcuno era comunista perché non sopportava più quella cosa sporca che ci ostiniamo a chiamare democrazia. Qualcuno credeva di essere comunista, e forse era qualcos’altro. Qualcuno era comunista perché sognava una libertà diversa da quella americana. Qualcuno era comunista perché credeva di poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo, perché sentiva la necessità di una morale diversa, perché forse era solo una forza, un volo, un sogno; era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita.Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una. Da una parte la personale fatica quotidiana e dall’altra il senso di appartenenza a una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita. No. Niente rimpianti. Forse anche allora molti avevano aperto le ali senza essere capaci di volare… come dei gabbiani ipotetici. E ora? Anche ora ci si sente come in due. Da una parte l’uomo inserito che attraversa ossequiosamente lo squallore della propria sopravvivenza quotidiana, e dall’altra il gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito. Due miserie in un corpo solo.(Giorgio Gaber e Sandro Luporini, “Qualcuno era comunista”, dall’album “La mia generazione ha perso”, aprile 2001).Qualcuno era comunista perché era nato in Emilia. Qualcuno era comunista perché il nonno, lo zio, il papà… la mamma no. Qualcuno era comunista perché vedeva la Russia come una promessa, la Cina come una poesia, il comunismo come il paradiso terrestre. Qualcuno era comunista perché si sentiva solo. Qualcuno era comunista perché aveva avuto una educazione troppo cattolica. Qualcuno era comunista perché il cinema lo esigeva, il teatro lo esigeva, la pittura lo esigeva, la letteratura anche – lo esigevano tutti. Qualcuno era comunista perché glielo avevano detto. Qualcuno era comunista perché non gli avevano detto tutto. Qualcuno era comunista perché prima – prima, prima – era fascista. Qualcuno era comunista perché aveva capito che la Russia andava piano, ma lontano. Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona. Qualcuno era comunista perché Andreotti non era una brava persona.